mercoledì 3 settembre 2008

A me le guardie.. - Ricordo di Padre Gianfranco Chiti

NUOVO FRONTE N°242 pag. 16

.A me le guardie.. -
Ricordo
di Padre Gianfranco Chiti
- Nino Arena -

Era il mio saluto augurale ogni qual volta lo incontravo nelle nostre cerimonie, nei raduni, incontri, convegni.
Sempre sorridente, affettuoso, il viso incorniciato da una folta barba bianca da francescano, e, come divisa, il suo saio col cordone: l’ordine cristiano che più di ogni altro si attagliava al suo passato di soldato, alla sua fede, al suo modo di vivere al servizio del prossimo secondo le regole francescane. Abito da poveri ma cuore da ricchi, di servi del Signore,
in quella nuova, gratificante scelta al servizio della fede, dopo le altre scelte terrene: soldato, ufficiale dei granatieri, combattente, soldato dell’Onore, ufficiale di carriera nei Granatieri di Sardegna “soldati di alta statura, di robusta costituzione, atti a lanciare a distanza ordigni esplosivi, scelti per qualità fisiche, morali, patriottiche’’, così citava la regola di selezione alla leva militare quando nel 1865 Vittorio Amedeo di Savoia istituì il Corpo e precisò le caratteristiche di coloro che avrebbe incorporato.
Gianfranco Chiti scelse di fare l’ufficiale di carriera e andò all’Accademia di Modena da cui uscì sottotenente venendo assegnato, a sua scelta, nei Granatieri di Sardegna, di solito di stanza nella Capitale. Nel 1939 ebbe inizio
la sua vita militare attiva, quando, inserito nella Forza Speciale Aviotrasportata, s’imbarcò col 1° Rgt. A Grottaglie a bordo di trimotori SM 79 diretti all’occupazione dell’Albania.
Era il mese di aprile 1939 e fu sufficiente poco più di un’ora di volo per atterrare sul campo di Durazzo e procedere all’occupazione della zona. Una campagna rapida, di modeste proporzioni, con pochi caduti (12) e 52 feriti.
Incredibile a dirsi, in quei pochi feriti conteggiati nell’Operazione “A’’ c’era il Sottotenente Gianfranco Chiti! Prima missione, prima ferita, prima decorazione al valore. Poi, l’anno successivo ebbe inizio la guerra per l’Italia e ancora una
volta l’Albania volle in diverse misure uomini, armi, speranze e delusioni.
Nel 1941 la Div. Granatieri va in Jugoslavia a presidiare la conquistata Slovenia, prendendo conoscenza della guerriglia, dei metodi subdoli che la contraddistinguono, delle sorprese e degli agguati, dei sabotaggi. I granatieri combattono i partigiani titini comunisti a Brezice, Metlika, Debrova (dove moriva il comandante del 2° Rgt. Col. Latini) poi si spostano in Croazia combattendo a Ogulin, Plaski, Jesenika, Crazac, Jesenek, Javonak.
Nel 1942 la Granatieri rientra in Italiae Gianfranco Chiti, ormai tenente, si offre volontario per il XXXII Btg. anticarro da 47/32 destinato all’Armir sul fronte russo, dove si combatte una guerra ben diversa da quella partigiana della Jugoslavia, una guerra più regolare ma ancor più difficile considerando oggettivamente l’inefficacia del deludente cannone italiano nel confronto tecnico-balistico con il famoso T. 34 russo da 32 Tonn., cannone da 76,5 mm, veloce, ben protetto. Non era possibile prevalere col piccolo 47/32 con il colosso russo che avanzava imperterrito stritolando cannoni e serventi.
Fu una guerra difficile prima, disastrosa successivamente quando l’Armata Rossa sfondò il fronte sul Don, dilagò in Ucraina, spazzando via ogni ostacolo. In tale drammatica situazione prevalsero le qualità di soldato di Gianfranco, che resistette, rimase ferito, si ebbe una seconda decorazione al valor militare ma riuscì a portare in salvo la gran parte dei suoi valorosi granatieri fino a Woroscilovgrad.

Era il 1943 e alcuni mesi più tardi, improvviso e traumatizzante, arrivò l’armistizio. La“Granatieri’’ combatté a Roma contro i tedeschi al comando del Gen. Solinas (avrà poi nella RSI il comando della Regione Lombardia) subendo gravi perdite ma battendosi col consueto valore.

Ancora una volta Gianfranco Chiti scelse di combattere rifiutando moralmente d’impugnare le armi contro l’alleato germanico, tradito da un infame voltafaccia da parte di Badoglio e dei Savoia, schierandosi dalla parte dell’Onore con la RSI. Tornò fra i granatieri del Btg. Christin, ebbe il comando di una compagnia di studenti universitari romani, tutti volontari, e riprese a battersi contro nemici interni ed esterni, con un comportamento da soldato regolare, ispirato da tolleranza ma decisione, convincimenti e salvaguardia di principî etici e militari nel rispetto delle leggi internazionali applicate contro sbandati e riottosi, banditi e delusi in un difficile contesto che volle un pesante tributo di sangue e sacrifici dei ragazzi che dal fronte di Roma si batterono sull’Appennino Emiliano, nelle Prealpi venete, nelle Langhe. Ancora una volta, Gianfranco Chiti, operando in questa aggrovigliata situazione, riusciva a dirimere con influenza e contegno situazioni di grande difficoltà morali e di salvaguardia, utilizzando la sua innata bontà d’animo, il suo grande equilibrio di uomo giusto, umano, cristiano. Ma, nonostante tali risultati, molti furono i giovani granatieri caduti in agguati, attentati, scontri a fuoco.
Poi, finalmente, la guerra finì e il tenente in SPE dei Granatieri di Sardegna Gianfranco Chiti da Cugnese “ebbe in premio’ per i suoi sei anni di guerra, le due ferite e le decorazioni meritate in servizio, la mortificante condizione del prigioniero di guerra nel 337 POW Camp USA di Coltano in quel di Pisa.
Nel famigerato campo POW/ USA, Gianfranco non rimase a contemplare le giornate sempre uguali contrassegnate dai capricci del detentore Yankee ma ricercò e trovò altri ufficiali che come lui non perdevano tempo a piangersi addosso le loro sventure e la delusione della scelta fatta, trovando nel Capitano dei paracadutisti Gino Bonola, l’appagamento dei suoi desideri spirituali, i valori veri della vita, la profondità dei sentimenti umani, la bellezza della poesia.
Bonola stava scrivendo il suo meraviglioso “Non ho tradito’’ (poco distante Ezra Pound in gabbia completava il sogno per i suoi straordinari “Cantos Pisani’’) e le conversazioni fiorivano su vari argomenti in quel simbolico Ateneo campale “eretto’’fra la sabbia del campo, le spaventose condizioni di vita dei 40mila prigionieri della RSI, le commissioni “badogliane’’ di discriminazione, cuiera sufficiente dire “chi è senza peccato scagli la prima pietra’’ per vedere occhi abbassati, cambiamenti d’umore, dirottamenti vari su altri argomenti.
Poi finalmente la prigionia finì e i prigionieri tornarono a casa.
Il Tenente in SPE Gianfranco Maria Chiti di Cugnese, tornò a fare il militare e ovviamente tornò fra i suoi granatieri di Sardegna, dove ricoprì nel corso degli anni incarichi sempre più importanti in parallelo con l’avanzamentodi grado e di servizio (lo ricordo in divisa storica col grande colbacco nero sormontato dalla granata) nella Brigata, di cui divenne vice comandante, fino al comando della Scuola Sottufficiali di Viterbo con cui terminava da Generale la sua lunga, fruttuosa, intensa e motivata vita militare, con una brillante carriera.
Ma la vita terrena non era ancora terminata e Gianfranco Chiti volle completarla interamente a modo suo.
Nel 1982, mise in atto un’altra fase della sua motivata esistenza, una prospettiva prevista, frutto di una evoluzione spirituale, divenendo francescano dell’Ordine dei Frati Minori, ebbe l’ordinazione l’ordinazione sacerdotale di uno fra i più umili ma prestigiosi ordini religiosi, il più vicino al Vangelo ed alla gente. In questa nuova veste, Padre Gianfranco Chiti completò armoniosamente la sua missione terrena ed esercitò pienamente la fede accorrendo ovunque, specialmente fra i suoi compagni di lotta ideale in cui apportava un soffio d’italianità e di cristianità: era per noi l’ “Homo Italicus’’ votato alla Patria e alla Fede cristiana, era il prototipo ideale del soldato e del patriota, volontario, ferito, decorato al valore, facendoci dimenticare con altri valori, la mortificante condizione del vinto e del perseguitato dal nemico.
Lo incontrai nel piccolo convento di San Crispino di Orvieto, che aveva restaurato con le sue mani, spoglio ma così ricco di fede e d’amore cristiano; fui suo ospite, dividemmo il modesto pasto serale con altri camerati e al mattino pregammo nella piccola chiesetta fra i campi, cantammo assieme la Preghiera del Legionario e degli inni del Signore, ci comunicammo e rievocammo i giorni dalla lotta, ricordando coloro che erano caduti in battaglia.
Addio Padre Chiti, il Signore ti ha accolto nel suo regno riservandoti un posto d’onore per premio alla pienezza della tua vita terrena; te lo sei meritato!
Oggi ho visto le tue spoglie terrene immobili nella pace della morte; avevi indosso il tuo umile saio francescano ed eri scortato ai lati dai tuoi granatieri. Ti saluterò sommessamente alla voce come si addice ai valorosi: “A me le guardie’’.

PS - Era il 4 ottobre 1693 quando a Marsaglia, nella disperata battaglia contro i francesi, combattuta in stridente inferiorità di uomini e mezzi, il comandante del reggimento Guardie Colonnello Parells, chiamò a raccolta ancora una volta i superstiti granatieri a difesa dello Stendardo col grido incitatore di “A me le guardie’’; accorsero e morirono attorno alla bandiera.
Da quel giorno, quel grido d’incitamento divenne il motto di battaglia e di fede dei Granatieri di Sardegna.

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