venerdì 11 gennaio 2008

Paracadutismo Iniziazione al piacere del lancio

PARACADUTISMO
Iniziazione al piacere del lancio
Dall'addestramento all'agonismo
G.C. ZONGHI SPONTINI

«Prepararsi per il lancio ».
I comandi urlati sovrastano il rombo compatto dei motori, accompagnano gli eloquenti gesti convenzionali che indicano le precise operazioni che precedono il « salto ».
«Alla porta: pronti»
Un tocco deciso della mano aperta del direttore di lancio sulla spalla.
«Via! » .
Poi si vien presi prepotentemente da una ventata fortissima, pochi attimi, uno schiocco e uno strappo, si è fermi, e ci si sente avvolti da improvviso, strano silenzio fatto d'azzurro: si è aperto! Così si comincia a fare il paracadutista e il primo lancio è il più bello di tutti, quello che ricordi sempre anche se non hai capito molto, hai fatto meccanicamente quel che dovevi fare a bordo perché l'avevi ripetuto cento volte nella falsa carlinga, e quella ventata prepotente ti ha fatto chiudere gli occhi, può capitare... e li hai riaperti quando la seta bianca, che in realtà è nailon, si è spalancata sopra di te, ti ha afferra­to alla sommità delle spalle trasformando la caduta verti­ginosa in una lenta discesa. Del primo lancio ti rimarrà per tutta la vita la sorpresa di quel silenzio che ti avvolge, quella sensazione meravigliosa d'esser tenuto su dall'invisibile mano del Dio di chi vola, e quel pensiero, tutt'altro che modesto, indirizzato a quegli omini piccoli piccoli laggiù che si muo­vono, che si agitano inutilmente, ti ha fatto improvvisamente capire che ora sei diverso. Sì, perché il giorno del primo lan­cio hai cominciato a scoprire un mondo nuovo, diverso appun­to, dentro di te. Un mondo fatto di certezza e di poesia insieme.

« Perché fai il paracadutista? »
« Perché nessun.'altra attività potrebbe darmi come questa la sensazione di essere libero ».
Libertà, sì, autentica. Provi, a ogni lancio e dopo, una sensa­zione di libertà conquistata.
Come si comincia
Tre lanci: brevetto civile. Attività addestrativa.
Scuola Militare di Paracadutismo. Sei lanci: brevetto militare. Addestramento specialità militari.
Scuola di paracadutismo sportivo. Attività agonistica. Queste sono le tappe, le discipline del paracadutismo.
II paracadutismo civile può essere fine a se stesso o anche preparazione agli altri due, la migliore raccomandazione per accedere al paracadutismo militare. In ogni regione e pro­vincia italiana esiste l'Associazione Nazionale Paracadutisti d'Italia che organizza i corsi per paracadutisti civili diretti da istruttori abilitati dalla Scuola Militare. I lanci vengono effettuati da aerei Fairchild C‑119 della 46a Aerobrigata, messi a disposizione dall'Aeronautica Militare, e con materiale della Scuola Militare di Paracadutismo, ovvero: con paraca­dute « vincolati », ad apertura automatica. II « salto » avviene normalmente da quattrocento metri, in zona adatta a un atter­raggio senza rischi.
E dal momento che ho parlato di rischi, sarà bene che sfati subito la leggenda della pericolosità del paracadutismo che fa vedere in chi lo pratica un pazzo rompicollo, nemico dell'istinto di conservazione e del buonsenso. Anche senza fare il conto statistico dei morti e dei feriti dell'automobilismo, del motociclismo, del bob, dello sci e altri, posso dire con certezza, per la tranquillità dei quei genitori che vedono male l'inclinazione dei figli a « venir giù da per aria », che le socie­tà d'assicurazione ‑ di cui è noto che non fanno niente per rimetter quattrini ‑ assicurano i paracadutisti (è obbligatorio) con massimali altissimi per solo quattromila lire l'anno!
E l'assicurazione comprende un numero illimitato di lanci, trasporti automobilistici da e per l'aeroporto o la zona di lan­cio, danni a sé e a terzi, e alla proprietà di terzi... Si deve dir altro? Non credo proprio.

Il corso
Prima di tutto una accuratissima visita medica effettuata dai sanitari militari.
La spesa di un corso completo, compreso l'« abbigliamento », non supera le trentamila lire. Poi in palestra; è una sgobbata che non vi dico, necessaria e piacevole, allenamento atletico ed esercizi specifici, capovolte per imparare l'atterraggio ‑ per­ché l'impatto con il terreno sia praticamente neutralizzato, eser­citazioni di uscita dal velivolo, teoria sul paracadute ‑ quello « vincolato », novanta metri quadrati di superficie, che ti porta giù a cinque o sei metri ,al secondo al massimo, e quello
« ventrale » o d'« emergenza », come si usa chiamarlo, che non è di nailon ma di seta pura, più piccolo, molto più piccolo, ma con portanza sufficiente a non procurar danni nel caso lo si debba adoperare. Alla fine del corso un esame pratico e teorico. Finalmente il primo lancio. Poi brevetto e si continua, ma non tutti, perché avviene una selezione naturale, se già non è bastata quella severa durante il corso, nel senso che coloro i quali non hanno attitudine o entusiasmo in misura sufficiente abbandonano. Prima ho detto che il brevetto e l'addestramento lancistico civili rappresentano .il miglior pas­saporto d'entrata alla Scuola Militare di Paracadutismo di Pisa. E' un ambiente dove ogni paracadutista si sente ,á suo agio. Camminiamo per i cortili e i viali alberati, andiamo al campo sportivo, entriamo nelle palestre, nella sala di scherma, in quella di judo e karaté, nelle aule di studio. Centinaia di allie­vi e paracadutisti passano davanti ai nostri occhi in un fer­vore di attività.
Comandi rapidi e decisi degli istruttori. Di corsa, al passo. Tute mimetiche, tute da ginnastica. Corsa sciolta, mezzo fondo. Esercizi a corpo libero, agli attrezzi. Uscite dalla falsa carlin­ga, capovolte d'atterraggio, salto nel telo. Percorso di guerra, salto dalla torre in lancio simulato. Ripiegamento dei para­cadute, preparazione del materiale per aviolancio. Istruzione sulle armi, istruzione in aula, proiezione di film didattici.
La disciplina e l'organizzazione perfetta non respingono l'aspetto umano della vita della Scuola, anzi: mettono in rilievo ed esaltano la personalità dei paracadutisti.
Qui alla Scuola di Pisa si brevetta tutto il personale dei reparti dipendenti, si addestrano i contingenti di leva che vengono poi avviati alle unità di impiego: i paracadutisti della Brigata « Folgore », gli arditi incursori della Marina, i paracadutisti dell'Aeronautica, della « San Marco », degli Alpini. E poi anco­ra addestramento diurno e notturno con equipaggiamento di guerra, preparazione tecnico‑tattica al combattimento, alla dife­sa antinucleare, chimica, biologica, al sabotaggio nel territorio nemico, al tempestivo, fulmineo intervento nei punti di mag­gior interesse per annientare e paralizzare i centri nervosi del sistema difensivo‑offensivo dell'avversario.
Il paracadute è un mezzo per giungere a terra incolumi ed efficienti.
I lanci addestrativi avvengono da circa quattrocento me­tri, quelli cosiddetti « di guerra » da quote di molto inferiori. Sono previsti lanci notturni e, per certe specialità, anche in mare con mute e bombole, con completa attrezzatura subac­quea insomma. Gli alpini atterrano sulla neve, indossano gli sci e sfrecciano giù per i pendii nevosi.
I velivoli usati per i lanci sono i Fairchild C‑119 (poi verranno i G.222) e i Lockheed C‑130 H.
Tra equipaggi e paracadutisti c'è il massimo spirito di collaborazione e i rapporti sono caratterizzati da grande stima reciproca.

I « magnifici sette »
I « magnifici sette » italiani sono a Pisa e compongono la Squadra Militare di Paracadutismo Sportivo. Li comanda il Tenente Colonnello Piero Goffis, e hanno effettuato fino a ora più di tremila lanci a testa ad apertura ritardata. Elencare tutte le loro vittorie è impossibile per ragioni di spazio. Sono tra i 'migliori del mondo. Hanno conquistato recentemente la medaglia di bronzo, sono terzi, ai campionati mondiali di para­cadutismo sportivo.
Al paracadutismo sportivo dedicherò, per i lettori di « Alata », una conversazione a parte. Per ora dirò che esistono paraca­dute che si aprono a comando, tirando una maniglia, che hanno delle « fenditure » nella velatura per potersi dirigere in aria dove si vuole centrare con precisione assoluta il bersaglio disegnato a terra. Dirò che il paracadute serve per poter tornare sani e salvi sul prato, dopo aver « nuotato » nell'aria, da soli o in gruppo, prima di aprirlo, allontanandosi, riavvici­nandosi, scambiandosi un oggetto chiamato « testimone N», come quello della staffetta di atletica, dopo aver ricamato nel cielo diecine di « figure » acrobatiche, filmandosi a vicenda con le cineprese e le macchine fotografiche applicate al casco. Tutto ciò, giova ripeterlo, i « magnifici sette » della Scuola Militare di Paracadutismo lo fanno in « caduta libera » scen­dendo da duemila, tremila, cinquemila metri di quota e oltre. Nel 1966 a Pisa si lanciarono, dalla porta assiale del C‑119, quattordici paracadutisti, fra i quali era il famoso Colonnello Comandante Giuseppe Palumbo, ora Generale, tenendosi per mano, da tremilacinquecento metri. Scesero fino a trecento­cinquanta metri di quota, poi sciolsero il cerchio perfetto lasciandosi e aprirono simultaneamente i paracadute. E' un record mondiale non ancora eguagliato.
Pensate per un attimo quanto può affascinare un essere umano il poter volare nel cielo, a paracadute chiuso, usando come ali, alettoni e timone di direzione e di profondità, braccia gambe e testa. Sembra strano a chi non l'ha provato, ma non si ha la sensazione di precipitare, bensì di volare, di « nuotare » nell'aria.
L'unico pericolo che corre un paracadutista è quello di por­tare all'occhiello della giacca un piccolo paracadute d'oro, e non per esibizionismo, ma per farsi riconoscere dagli altri « fratelli dello spazio » di tutto il mondo. Mi spiego: tu hai il distintivo, sali a bordo di un aeromobile di linea e trovi lo scocciatore di turno che ti chiede se sei paracadutista. Non puoi dire di no... E le domande ti arrivano addosso a ritmo di raffica di mitragliatrice. E ti tocca spiegare che negli aerei di linea il paracadute non serve a niente, che è impossibile tenere cento persone e più « imbragate », che è assurdo pen­sare di, lanciarle, che a diecimila metri ci sono settanta gradi sotto zero, che non c'è ossigeno sufficiente, che da quel tipo di velivolo non ci si può lanciare, che gli eventuali incidenti, rarissimi, grazie a Dio! avvengono per lo più in decollo o in atterraggio quando il paracadute non avrebbe neppure il tempo di aprirsi... II peggio viene quando il seccatore ti domanda all'improvviso: « Senta: se quando lei si lancia, il paracadute non si aprisse? »
Eviti di spiegargli che c'è anche quello d'« emergenza ». E lui insiste:
« Ma se per caso?!... Gli rispondi con un sogghigno:
« Quando arrivo a terra me lo cambiano ».

Dal taccuino di Mario Tosone

DAL TACCUINO DI MARIO TOSONE

Pubblichiamo alcuni stralci del volumetto « Dal mio taccuino », di Mario Tosone, maresciallo maggiore paracadutista, già della 5° compagnia del II battaglione « Folgore », sicuri che la prosa efficace del nostro amico riuscirà gradita a paracadutisti anziani, e perchè no, giovani!!

Lontano, a perdita d'occhio, dietro le nostre linee, una tenue striscia luminosa va scomparendo all'orizzonte. Quaggiù, in terra africana, il crepuscolo è breve. La notte subentra improvvisa a cancellare ogni cosa terrena. Ma verrà la luna, più tardi, a rincuorarci con la sua bianca luce.

Un silenzio opprimente ci attornia mentre una pesante coltre scura si adagia su noi serrandoci l'un l'altro. La tiepida umidità notturna sembra ci mozzi il respiro, tanto pesante è l'aria. La pelle suda appicicandosi sotto i nostri panni laceri. I « ragazzi » tacciono. Le scolte vegliano ai margini del capasaldo di quota 125.

E' la sera del 23 ottobre 1942. Ci si attende di essere attaccati ma non si pensa possa accadere proprio stasera. E, fiduciosi nella buona stella ,ci adagiamo nelle buche sperando in un discreto sonno. Speranza vana, ahimè! Improvviso, un terribile frastuono scaccia il silenzio e la sabbia ribolle dappertutto, squassata da una fitta pioggia di granate. Sono le 22 precise. Giù, nella brulla vallata, oltre il campo di mine, solo un denso fumo si scorge inargentato dai freddi raggi della luna nascente. E' nebbia artificiale che occulta l'avanzare del nemico. Più vicino, una leggera evanescente nube di vapori ci avvolge.

Cigola la piccola « R2 » da campo. E' l'ordine di controbattere gli « ottantotto » inglesi. Tentiamo. Deludente prova! Dobbiamo rassegnarci a tacere, per ora. Li attenderemo al varco, più tardi, quando l'artiglieria si accheterà.

Intanto sempre più intenso si fa il tiro degli « ottantotto » e siamo costretti a soggiacere, inerti, al coperto nelle buche. Alcune granate penetrano nei ripari evi seminano la morte. Trascorrono in questa sarabanda apocalittica circa due ore. Poi il fuoco nemico perde d'intensità, s'indebolisce via via fino a cessare del tutto. Una lieve, calda brezza alita giù nella spianata cacciando la riottosa nebbia fumosa. Dal mio riparo guardo e, sbalordito, non oso fiatare. Mi è sembrato come se si fosse levato il sipario sulla boccascena di un immenso teatro: sullo sfondo, appena rischiarati dalla pallida luna, avvolti nella fitta foschia, artificiale, appaiono massice sagome di potenti carri armati. Sono grandi, colossali, tremendi ordigni di guerra, mai veduti prima d'ora. L'occhio, abituato alla elegante figura dei nostri gloriosi « M11 » ed « M13 », ne rimane tristemente sgomento. Questi nostri carri non sono altro che poca cosa al confronto, bei giocattoli di latta, non di più.

Dietro ai giganteschi carri, via via che procedono verso il nostro caposaldo, si rivelano gruppi di uomini. Sono immagini irreali, figure fantomatiche affioranti dalla marea di fumo. Grotteschi, scomparenti segni gareggianti diabolicamente con le ombre dei mezzi corazzati spiaccicate dal terreno. Non abbiamo dubbi, sono le ben note fanterie d'assalto, che presto ci saranno addosso. E' l'inferno che ci appare nella notte, l'inferno che ci si mostra nella sua crudezza.

Ci scuotiamo dall'intontimento momentaneo e, .con muta angoscia, ci guardiamo in volto nella penombra lunare. Gli inconfondibili segni dello scoramento marcano selvaggiamente i nostri lineamenti smagriti. Le barbe incolte, i volti stravolti, le sdruscite vesti appiccicate addosso s'inquadrano perfettamente nella apocalittica scena.

Siamo consci interiormente che ormai il dado è tratto: qualunque pelle vale un'altra pelle e noi lo sappiamo e sappiamo con certezza anche ciò che si vuole da noi, cioè che dobbiamo fare per noi e per i nostri fratelli che in noi hanno riposto la loro fiducia. Come l'eruzione subitanea d'un vulcano, improvvise, le ami anticarro cominciano a vomitare un fuoco rabbioso sui carri nemici. Ma i mostri d'acciaio, pur subendo qualche perdita, avanzano inesorabili senza appariscenti ondeggiamenti. Le inadatte armi di cui siamo dotati non riescono a contenere la tracotante marcia nemica. Ed invano tentiamo di prendere collegamento con ogni mezzo possibile col nostro Comando Tattico, che è il solo dal quale potremmo sperare d'essere sostenuti. Armi pesanti occorrono ma, purtroppo, non ne abbiamo. Anche delle staffette partono, staffette che si perdono nella notte, chè la morte spietata, inesorabile, le coglie lungo la tortuosa via del sacrificio..

Le mitragliere cantano ancora ma è un canto rabbioso, impotente, che, in questa notte di plenilunio, ha assunto un tono tremendamente tragico. Il ringhio dei nostri piccoli pezzi d'artiglieria somiglia al lamentoso latrare di un cane costretto a catena.

I campi di mine son ben presto superati dal nemico con minime perdite e questo ci piomba addosso irruente, rabbioso, urlante. Mettiamo mano alle bottiglie anticarro e vivide fiamme scacciano il pallore lunare. Ecco, alcuni uomini riescono ad issarsi sulle torrete dei carri. L'esplosivo introdotto attraverso le feritoie morde, dilania, rompe, incendia, sconquassa i primi carri nemici. E' un successo, ma non c'illudiamo: ben altro ci vuole chè, passata la sorpresa, diventeranno più cau­ti e ci falceranno a distanza, prima di entrare nell'angolo morto del carro. Intanto eroici, generosi « ragazzi », tutt'intorno mordono l'a­rida sabbia del deserto! ...Nell'area più conte­sa, carri contorti, sventrati, giacciono in fiam­me.

La notte non ha requie. Grida imperiose, lamenti agghiaccianti di spasimo, tonfi sordi di corpi che si abbattano, esplosioni di armi automatiche, fragore di bombe, frastuono di motori e di ferraglia in movimento, vampe rossastre d'incendi, fumo spesso e graveolen­te, tutto l'insieme, insomma, dà alla tremenda scena 1'apocallitico colore reale di un'inferna­le battaglia.

Si è in piena notte, ormai, e si combatte ancora con rabbia più crescente. Un cerchio di ferro e fuoco ci limita ogni movimento. Mal­grado la veemenza, lo slancio e la generosità dei « ragazzi », la superiorità numerica e di mezzi del nemico dovrà ben presto farsi vale­re. Tentiamo una sortita disperata ma venia­mo ricacciati e stretti più dappresso. E, nel tentativo, altri giovani figli immolano alla Pa­tria la loro vita.

Già albeggia su quest'inospitale terra e le ombre, impaurite dal primo lucore, si dile­guano lontano. Lo scorrere del tempo non si turba per le nostre azioni umane e procede ineluttabile oltre quei confini che noi non co­nosciamo, che forse non conosceremo mai.

Una fredda pallida luce rischiara ora i no­stri volti anneriti: facciamo un rapido calcolo, nell'angusto spazio, per vedere con le nostre

forze quanto potremmo ancora durare: poche facce stanche, ma altrettante anime bramose di riscossa. Le armi bruciano nelle mani ed il nemico preme maggiormente contro le nostre file assottigliate. Ci aggrappiamo disperata­mente agli sfrangiati bordi delle nostre buche, stringiamo i denti per ricacciare ogni dolore in corpo e continuiamo furiosamente il fuoco nel vano tentativo di arrestare la tracotanza di un avversario più numeroso e potentemente armato.

Purtroppo, già segnato è il destino. Infat­ti, non ancora il sole si accenna all'orizzonte che dei tonfi soffocati, lontani, alle nostre spalle, ci fanno comprendere il rapido preci­pitare degli eventi. Ogni illusione cade. Quei rumori di lontana battaglia ci danno la certez­za che anche i reparti di seconda schiera sono stati agganciati tenacemente dal nemico. Un senso tremendo di sfiducia si sta impardro­nendo del nostro spirito. E' la fine!... Allo stremo delle nostre possibilità fisiche, com­pletamente isolati in quest'oceano tempestoso del campo di battaglia, siamo facile preda di un avversario più forte, reso bestiale dalla no­stra strenua resistenza e dalle improvvise per­dite subite nella mischia della lotta ravvici­nata. Duramente provati nel furioso travaglio del combattimento, abbiamo piena coscienza della tragica fine che ci attende. Una carica rabbiosa ci travolge tutti in un infernale vor­tice di polvere e fumo.

Così, sull'arida sabbia di quel deserto osti­le, cadono i migliori.

Mario Tosone

Un'idea fatta di cuore

«FOLGORE»
STORIA DI UNA TESTATA

UN'IDEA FATTA DI CUORE

Ho superato la trentina, mi considero quindi nella maturità e desidero fare il punto della mia travagliata esistenza di... testata: consentitemi, cari lettori, un po' di spazio tutto per me: questo è necessario in quanto voi lettori vi dividete in due grandi gruppi: i vecchi (scusate, volevo dire gli anziani) ed i giovani: i primi sanno abbastanza di me e delle mie traversie, i secondi sanno solo ben poco.

E' necessario premettere che questi miei trenta anni si dividono in quattro grandi periodi: il « militare », il « silenzio », il « privato » ed infine quello attuale, ovvero « l'associativo ».

Cominciamo dal primo periodo: quello militare: 1943‑1946.

Riportiamoci alla fine del 1942: in A.S. la Divisione « Folgore » ha stupito più che gli Italiani, il nemico, cioè il mondo intiero.

Il mio fondatore il Col. Bechi Luserna, stava volando verso l'Italia con uno degli ultimi aerei riusciti a decollare, con in tasca l'ordine preciso di rientrare a qualsiasi costo per riprendere il posto di Capo di S.M. presso la nuova Divisione Paracadutisti Italiani, la «Nembo»: questo giovane ufficiale era stato l'animatore della Divisione, con i suoi scritti e le sue parole ne aveva forgiato il carattere, così come il Papà Badouin a Tarquinia, con la preziosa collaborazione di quel gruppo d'istruttori forgiati all'ombra delle bianche statue del Foro Italico, era stato l'organizzatore e ne aveva forgiato il fisico.

Proprio durante quel tempestoso volo, il giovane ufficiale che malvolentieri aveva obbedito all'ordine di rientro e al esser stato costretto ad abbandonare il suo posto nel momento più critico, andava pensando come ricordare quelle giovani vite immolatesi e si rammentò che prima di essere ufficiale, prima di essere cavaliere, prima di essere paracadutista, era uno scrittore ed un giornalista: la testata era già stata concepita, la gestazione durò pochi mesi.

La « Nembo » costituita si trova in Firenze: stesso itinerario della sorella « Folgore »: nelle casermette di Rovezzano echeggiano gli stessi canti, l'Arno sornione, vede rientrare a notte fonda gruppetti di baschi verdi, i fiorentini malignetti ed arguti rivedono per le loro vie i « cala ...mai », le ragazze fiorentine si rifanno il loro paracadutista... personale e nasco io « Folgore ».

Il primo numero vede la luce nei primi mesi del 1934, senza data precisa, in via dei Macci 17, in Firenze presso l'Industria Tipografica Fiorentina: questo numero arieggia a quotidiano con uno strano formato 55x40: strano formato che sarà dipeso dalla disponibilità di carta da utilizzare: la Direzione è Anonima, L'Ufficiale « A » della Divisione: noi leggiamo Umberto Bruzzese, paracadutista e giornalista.

In questo mio primo periodo di vita, quello « militare », ho una caratteristica tutta mia particolare: avrò cambiato una mezza dozzina di testate: ovviamente mi dimenticavo delle varie tipografie delle varie Città ove peregrinavo al seguito dei Reparti: e così il numero successivo usciva con una testata diversa e così via.

Naturalmente in questo mio primo periodo di vita, quello « militare » dal 1943 al 1946, ho avuto una vita molto saltuaria e stentata; seguivo l'Ufficio « A » della Divisione, alla mia Direzione si avvicendavano gli Ufficiali dell'Ufficio « A »: ricordo solo i nomi del primo e dell'ultimo: Umberto Bruzzese e Roberto Podestà: da Firenze a Firenze. Infatti il primo numero era nato a Firenze ed anche l'ultimo è finito a Firenze nell'ottobre del 1946.

In questo periodo militare ho avuto naturalmente una continuità particolare; dipendeva dalla disponibilità di cassa della Divisione, da quella di carta nelle varie tipografie dove venivo cullata, ma è il periodo in cui ho avuto lo spirito più giornalistico, spigliato, dovuto anche ai disegnatori che hanno collaborato ad animare le mie pagine, se ricordo bene un illustre disegnatore dell’epocta Boccasile, mi dedicava ogni volta una pagina. Sono finita come formato al 25x35, insomma una rivista vera e propria e con il colore!

Non posso dimenticare di dire che in questo mio primo periodo ho avuto una mia doppia vita: uscivo infatti nel Sud e nello stesso tempo al Nord: la cosa durò nel 1944/45: a tal proposito dirò che nella mia edizione « repubblicana » al Nord era stato designato come foglio stampa delle Forze Armate, non solo dei paracadutisti: ero insomma il « Quadrante » dell'epoca.

Il secondo periodo, quello del « silenzio », è stato il periodo più lungo e pericoloso. Dal 1946 al 1956:

dieci lunghi anni: tutti mi avevano dimenticata: tutti mi avrebbero potuto adottare a mia insaputa ed ad insaputa di tutti i paracadutisti d'Italia. Sarei potuta diventare la testata di tutti i partiti politici, di religiosi, di trafficanti, di antimilitaristi, di rivoluzionari ecc. ecc.: nella legislazione vigente infatti è detto che la testata non utilizzata per due anni può essere riscritta presso un qualsiasi tribunale da chicchessia: pensate paracadutisti d'Italia se Vi foste ritrovati un giorno in edicola « Folgore » con una di queste sorprese dentro! Che bella figura ci avreste fatto Voi e la vostra Associazione.

In questo periodo il colmo è che si stamparono giornaletti e numeri unici ma nessuna pensò di utilizzare il mio nome! A Roma l'Associazione ‑ allora era A.P.I. ‑ pubblicò per qualche tempo « L'Informatore paracadutista», la Sezione Fiorentina pubblicò « Calamai » e il « Parac »: altrove, se non vado errato, c'era « La Calotta », il C.M.P. vide nascere « Aggancia la fune », circolò anche « Il Moschettone », « Basco Verde », « Icaro » ecc. ecc.

Finalmente in Firenze un gruppo di reduci, constatato che a Roma si vegetava, pensò di celebrarenel tempio di Santa Croce tua l Caduti Paracadutisti e nell'occasio­ne uno del gruppo recatosi in quel di Prato a propagandare fra i pa­racadutisti pratesi l'idea della ce­lebrazione concluse che la celebra­zione sarebbe riuscita meglio se si fosse potuto pubblicare un nu­mero unico in tale occasione: era l'ottobre del 1955. I paracadutisti di Prato vollero sapere quanto necessitasse per dare vita all’iniziativa: il propagandista buttò una cifra: 40.000: bastarono 10 minuti ed il Bardazzi raccolse in una busta quanto richiesto e la consegnò al
propagandista, che non a caso aveva scelto Prato (la piccola Sesto San Giovanni di Firenze) per la riunone conoscendo che le possibilità economiche dei Pratesi unite ai cuori paracadutisti avrebbero fatto il miracolo: naturalmente gli oblatori chiesero « e che nome avrà codesto giornalino? », il propagandista rispose con una sala parola:« Folgore ».

Un applauso ed un «Folgore » urlato in coro, battezzarono nuovamente quella mattina la mia salvezza; era il primo passa per uscire dal rischio dell'anonimato: il propagandista reduce dalla « Folgore» d'Africa aveva naturalmente un programma lentamente matura­to durante la navigazione sul «Mon­tecuccoli » che con altri reduci l'a­veva portato nel 1954 al primo pel­legrinaggio ad El Alamein.

Di fronte a mare di croci bian­che piantate nella sabbia del de­serto s'era chiesto se si potesse fare qualcosa per ricordare alle ge­nerazioni nuove il sacrificio di quel­le migliaia e migliaia di croci che biancheggiavano a perdita d'oc­chio su quella sabbia .Sulla nave aveva poi visto distribuire ad as­sociati di altre associazioni d'ar­ma più anziani e più organiche i numeri speciali stampati per l'oc­casione: e così il silenzioso redu­ce maturò l'idea della celebrazione solenne in Santa Croce e come conseguenza l'idea di fare un nu­mero unico: tacito per rompere il silenzio e salvare la testata dal pe­ricolo che chiunque la utilizzasse: quando si era presentato agli ami­ci di Prato, aveva già preventivi per un foglio e relativa tiratura di 3.000 copie: naturalmente esuberan­ti per la mattinata della celebra­zione, ma la «resa» sarebbe stata sufficiente per mandare una deci­na di copie a tutte le Sezioni d'Ita­lia per solleticarle, alla vigilia del­l'Assemblea Annuale, a muovere qualcosa.

Convenuti a Roma in Palazzo Bar­berini per l’Assemblea Annuale, Landi di Bolzano chiese di discute­re per primo l'argomento, quello della stampa di un giornale asso­ciativo, nella scia del numero uni­co della Sezione Fiorentina: argomento votato all'unanimità ed ap­provato per direttissima: l'entusia­smo della decisione non fece ap­profondire molto bene l'aspetto e­conomico e si parlò di prenotazio­ne di copie per le sezioni: per far­la breve per il primo anno furono editi 8 numeri ma poche sezioni fe­cero onore all’impegno assunto, per cui al secondo anno fu neces­sario stornare sulla quota tessera­mento la... cospiqua cifra di Lit. 100 annue per ogni socio per desti­narle all'abbonamento di « Folgo­re »: per abbreviare i tempi in set­te anni del periodo « privato » vi­dero uscire 49 numeri di « Folgo­re »: con una uscita complessiva di circa 3.400.000 lire: pari a Lit. 100 per ogni socio iscritto (in seguito aumentata a Lit. 150 annue) con l'obbligo per « Folgore » di tirar fuori 8 numeri annuali: ebbene « Folgore » riuscì nell'impegno pre­so e per un anno intero, il 1959, riuscì incredibilmente a mandare il giornale non solo ai soci pagan­ti ma anche a tutti i nominativi allora accertati che a quell'epoca ammontavano a circa 18.000.

L'impresa condotta all'insaputa della stessa Presidenza ebbe un ri­sultato concreto; la media dei so­ci che si aggirava prima dell'espe­rimento sui circa 4.000, senza rag­giungerli, balzò a quota 8.000: nes­suno in associazione si è mai chie­sto a cosa fu dovuto un tale fe­nomeno mai più verificatosi, « Fol­gore » solo si spiegò lo strano fe­nomeno, e ne fu orgogliosa.

Ed, eccoci al periodo attuale:

quello « associativo »: dire come e perchè nel 1963 fu attuata.questa tra­sformazione è argomento partico­lare che un giorno sarà spiegato.

La caratteristica particolare di questo periodo è la dovizia di mez­zi: basti dire che allorchè la Pre­sidenza era in trattative per assor­bire la mia « testata » volle rom­pere il ghiaccio utilizzando al mio posto la testata edita allora dalla Sezione di Roma « Fune di Vinco­lo »; ebbene per un solo numero venne erogato tanto quanto a me era stato concesso spesso per un intero anno!
E' questo un discorso lungo che ci porterebbe fuori argomento con molta facilità: dunque in questo florido periodo ho attraversato dei sottoperiodi dal 1963 al 1969 il nor­male, dal 1970 al 1973 il doppio, mi sono cioè sdoppiata in due: no­tiziario mensile e rivista trimestra­le, ed ora nel 1974 ho concretizza­to questo sdoppiamento rendendo­lo permanente con l'obbligatorietà dell'abbonamento alla rivista che, lasciata « libera », si stava anemiz­zando e rischiava di finire male.
Cari lettori questa è la mia storia della quale ho voluto rendervi par­tecipi e spero di avervi interessa­ti e di avervi così legati ancor più a me; per ora e soprattutto per il futuro affido a Voi il compito di salvaguardare la mia sopravviven­za e la mia continuità.

« FOLGORE »

(alias G. Piccinni, il « propagandista dell'articolo », colui che « difese a viso aperto » la travagliata testata).

« FOLGORE», UN NOME MAGICO CHE SI È PERPETUATO NEI CUORI E NELLA TESTATA DI UN GIORNALE PER LA TENACIA E LA PASSIONE DI POCHI PARACADUTISTI, TEDOFORI DI UNA IDEA CHE AVEVANO NEL SANGUE E NELL' ANIMA, PER LA VITA !

"Folgore", Una nascita che pare una favola

I ricordi sempre vivi di un paracadutista che era a Tarquinia nel lontano 1940

"Folgore", una nascita che pare una favola


Nei primi mesi del 1940 cominciarono a circolare fra i militari dei vari Reggimenti, in Patria e fuori, delle voci, recate da « radio fante », che parlavano di una nuova formazione di volontari, che avrebbero dovuto combattere lanciandosi con paracadute dietro le linee nemiche, per determinarne la rottura e per sfruttare al massimo il successo. Ben poco si poteva sapere, anche perché molto spesso i Comandi delle Unità, nel timore di veder partire per questa specialità i propri elementi migliori, non diedero molta diffusione alle notizie che pervenivano; anzi, specialmente nei primi tempi, non fecero nemmeno conoscere ai soldati e talvolta nemmeno agli Ufficiali subalterni le circolari che i Comandi superiori facevano pervenire, allo scopo di promuovere il reclutamento dei volontari paracadutisti. Tuttavia si parlava di questa novità e, collegandola alle notizie dei rapidissimi successi conseguiti dalle truppe tedesche nella presa del forte di Eben‑Emael e di altre inspiegabili rapidissime decisioni di situazioni militari che, nelle previsioni dei più, avrebbero dovuto trascinarsi per lunghi periodi operativi, quasi trasformando la guerra di movimento in guerra di posizione, si venne creando la convinzione che queste truppe fossero state le protagoniste decisive di queste situazioni tattiche e che fossero ancora destinate a giuocare un ruolo essenziale in circostanze analoghe. Ufficiali giovani e anche meno giovani si interessarono presso i Comandi superiori o tramite amici addetti ad Uffici particolari ed ebbero conferma della prossima costituzione di una Grande Unità di truppe paracadutiste, di cui già si stava organizzando ed istruendo il primo contingente nella Scuola di Paracadutismo di Tarquinia.

Cominciarono così ad affluire ai Comandi di Reggimento le prime domande di trasferimento alla Scuola di Paracadutismo e i Comandanti non le poterono rifiutare, date le disposizioni che nel frattempo stavano arrivando dal Ministero della Guerra. Tuttavia tardarono a spedirle ai Comandi superiori e cercarono spesso di indurre i presentatori a ritirare la domanda, facendo presente che il Reggimento aveva biscgno dei suoi elementi migliori: che cosa sarebbe accaduto se tutti i soldati di ogni grado più dotati di qualità militari, di coraggio e di senso del dovere si fossero arruolati nei paracadutisti, che cosa sarebbe accaduto nei Reggimenti che avessero persi questi uomini? Non erano dunque affezionati ai propri Reggimenti? Non si trovavano dunque bene nei loro reparti? Non ritenevano forse di poter fare il loro dovere anche restando dov'erano?

Queste e altre simili argomentazioni furono, per esempio, usate, in perfetta buona fede e per amore dei propri reparti, dai Comandanti dei Reggimenti di una Divisione Celere, alla presenza del Comandante di Divisione, rivolgendosi agli ufficiali aspiranti paracadutisti, riuniti dopo un gran rapporto divisionale. Il Comandante della Divisione, amato e stimato da tutti i suoi dipendenti, proveniva dalla cavalleria e ben si sapeva che ne era giustamente orgoglioso; egli ascoltava le argomentazioni dei suoi ufficiali e sembrava quasi condividerne le opinioni. Sembrava quasi che i volontari volessero disertare i loro reparti per mancanza di spirito di corpo. Salvò la situazione un ufficiale dei bersaglieri, che disse al generale: « Poiché i paracadutisti vengono reclutati da tutti i reparti, e sembrano destinati ad avere un peso notevole nelle azioni di guerra, Le piacerebbe che si constatasse che nessuno di loro proviene dalla cavalleria? Certamente! e come Lei la pensano gli ufficiali dei Reggimenti di cavalleria della Sua Divisione, e così la pensiamo noi bersaglieri ». E si vide il viso di quel magnifico Comandante illuminarsi, sicuro ormai che quella scelta non era un ripudio ma un perfezionamento dello spirito di corpo, e la Sua parola fu di incoraggiamento e di elogio e di augurio. Forse proprio a quella necessità spirituale di superamento reciproco delle varie armi da cui i paracadutisti provenivano si deve il comportamento dei paracadutisti in guerra, forse è proprio da quello spirito di emulazione che nacque la forza morale insuperabile dei reparti paracadutisti. E fu proprio quel generale che, Comandante di Corpo d'Armata, avendo alle Sue dipendenze i paracadutisti della « Folgore », ne rilevò le doti e disse semplicemente che « non potevno essere diversi, date le premesse da cui erano partiti: riunirsi in un'unica forma.zicne, dove ogni arma fosse posta nell'occasione di dimostrarsi migliore delle altre ». Quel Generale, ben degno di comandare il Corpo d'Armata di cui la « Folgore » faceva parte, rimase ucciso in combattimento a pochi passi dalle posizioni tenute dai paracadutisti. E non è mai stato dimenticato, ma è considerato spiritualmente « uno dei nostri »: è il Gen. Ferrari Orsi!

Ma credete che bastasse questo spirito per arri­vare alla Scuola di Paracadutismo di Tarquinia? Ci voleva ben altro! Gli aspiranti venivano sottopo­ sti ad una visita medica severissima da una Com­ missione inviata ai Corpi, che sembrava animata solo dal desiderio di impedire ai fanti, ai cavalieri, agli artiglieri, ai genieri di diventare paracadutisi. Di 26 ufficiali di un Reggimento di bersaglieri solo 6 fu­ rono ammessi alla visita presso l'Istituto psicotec­ nico dell'Aeronautica; e una falcidia simile fu fatta su tutti gli altri gruppi di ufficiali provenienti dagli altri reparti della Divisione celere, tutti uomini perfet­ tamente sani, ben allenati, che avevano già dato otti­ me prove nelle dure esercitazioni e spesso in prece­ denti campagne di guerra. E non meno severe furono le selezioni a cui furono sottoposti, poco dopo, i sottuf­ fuciali e gli uomini di truppa. Ma ancora bisognava superare due scogli: il controllo dell'Istituto Psicotec­ nico dell'Aeronautica, che allora faceva subire visite più severe di quelle a cui sottoponeva i piloti, tanto che la metà e spesso ancor più, venivano rimandati ai corpi con la qualifica « Non idoneo ai corsi para­ cadutisti »; poi i corsi stessi, che sottoponevano gli allievi a un'attività talmente intensa e senza tregua, da mettere in luce ogni piccola debolezza fisica o psi­ chica, ad uno sforzo così continuo e violento da co stituire un vero logorio del fisico e della volontà. E quando, dopo quattro ore continue di ginnastica e di esercitazioni sportive, svolte all'aria aperta sul campo di Tarquinia, la quinta ora si svolgeva in una sala semibuia, con temperatura piuttosto calda, e consisteva in una lezione teorica, svolta da istrut tori che tenevano basso il tono di voce, bastava che
uno degli istruttori che si frammischiavano agli allievi ne sorprendesse uno cui si chiudevano un at timo gli occhi, perché questi venisse segnalato al Comando della Scuola e proposto per il rinvio al Corpo di provenienza. A questo vanno aggiunte le prove attitudinali e di selezione, consistenti nei lanci dalla torre, sia con le funi che col paracadute fre­ nato, e più ancora il salto nel telo, sempre sotto lo sguardo severo degli istruttori, pronti a cogliere un attimo di esitazione o una incertezza nel movimento, per trarne elementi sfavorevoli di giudizio, suffi­ cienti per l'esclusione dai lanci. E le stesse esercita zioni ginnico‑sportive non erano prive di emozioni.
Ogni giorno si aveva notizia di qualche collega che non avrebbe potuto presentarsi al lancio perché si era infortunato durante qualche esercizio. Del resto, un corso di 126 ufficiali ne ha portati al lancio solo 98, perché gli altri 28 o si erano feriti o non avevano resistito al logorio. Non bastava infatti avere doti fisiche eccezionali, ma occorreva anche una volontà di ferro e una capacità di ricupero prontissima per poter arrivare al giorno del lancio in condizioni di esservi ammessi. Chi infatti non ha avuto qualche contusione, qualche distorsione, qualche altro infor­tunio durante il corso? Chi non si, è presentato sul campo con un ginocchio che faceva vedere le stelle, con una caviglia che sembrava spezzata, con un mu­scolo che non voleva contrarsi a dovere, con una spalla mezza slogata, e col sorriso sulle labbra, perché l'istruttore non si accorgesse di nulla? Illusione, per­ché l'istruttore ben si rendeva conto dei guai che ci erano accaduti, ma ci voleva vedere appunto così, capaci di imporci di non sentire il dolore, capaci di reagire alle avversità, capaci di agire come sempre anche quando il corpo sembrava rifiutarsi di ubbi­dire alla volontà. E infine si arrivava alla fine del ,:orso, ammessi a sostenere la prova finale del primo lancio: ed ecco il nostro Col. Baudoin, il Comandante della Scuola, che ci riuniva per darci la buona noti­zia che avevamo superato il corso, che ormai pote­vamo presentarci al lancio, che era una cosetta da nulla, perché i nostri paracadute « si aprivano quasi sempre ». E finalmente il lancio: dei 98, 2 infortu­nati dopo il primo lancio, 13 dopo il secondo, effet­tuato in una giornata di vento, 3 dopo il terzo. Dei 126, solo 80 più c meno interi dopo il terzo lancio, mentre dei 18 infortunati il primo poté essere ricu­perato dopo 40 giorni, altri dopo due mesi, alcuni dopo tre o quattro mesi, mentre quattro non hanno più potuto rimanere nella specialità! E questo perché i paracadute si aprivano, sì, quasi sempre, ma non sempre depositavano a terra delicatamente il loro fardello: spesso anzi lo buttavano là in modo tale che non sempre la tecnica appresa durante il corso bastava a neutralizzare.

Subito dopo, gli allievi, diventati paracadutisti, inquadravano i sottufficiali e la truppa, alla quale impartivano le istruzioni tattiche, mentre gli istrut­tori della Scuola li sottoponevano allo stesso tratta­mento al quale erano stati sottoposti gli ufficiali: così anche i sottufficiali e i soldati crescevano alla stessa scuola e venivano temprati nello stesso modo.
Quanto ha influito sul rendimento di ciascuno 1'orgeglio di mostrarsi degni, durante il corso, 'e più tardi, nei reparti e nelle buche d'Africa, delle virtù dell'Arma o della specialità a cui prima apparteneva?
Ogni alpino, ogni bersagliere, cgni granatiere, ogni fante sentiva su di sé la responsabilità di essere degno delle proprie tradizioni, . di essere migliore di ogni altro. E questo senso della propria dignità era diven­tato ormai una seconda natura, tanto che in ogni occasione ciascuno dava il meglio di sé. E così fu anche in guerra, dove si giunse senza il paracadute, come semplici fanti, artiglieri o genieri, e fin dal primo momento il problema che si presentò ai comandi non fu quello di spingere gli uomini all'azione, ma di trattenerli, di limitarne l'attività, di circoscri­verne rigidamente i compiti, perché ogni pattuglia voleva affrontare il nemico, senza contarne il numero, né la forza né l'armamento, sicura di batterlo, ardente dal desiderio di cimentarsi e di provare innanzi tutto a sé stessi che i paracadutisti erano invincibili. E i primi scontri confermarono queste presunzioni: chè in ogni scontro i paracadutisti furono inferiori di numero, di $rmamentc, di mezzi, eppure sempre vinsero, catturarono dei nemici, portarono con sé bottino ed armi tolte al nemico: cannoni, mezzi cin­golati, camionette, carri armati, che per qualche tempo rappresentarono le armi più potenti di cui erano dotati i reparti. E quando furono attaccati, sempre da forze soverchianti, non cedettero di una spanna, si sacrificarono, ma vinsero, respingendo il nemico con perdite più gravi di quelle a noi inflitte. Ed allora i fanti, gli artiglieri, i cavalieri e i genieri, e perfino quei magnifici ragazzi della « Compagnia servizi »
furono i paracadutisti, furono « i soldati della Fol­gore », si sentirono fusi in un nuovo organismo che li comprendeva tutti, che aveva assommato le virtù di ciascuno, ed ogni gesto eroico o modesto, ogni azione dura o facile, ogni sacrificio ed ogni gioia furono offerti insieme al ricordo indimenticabile del corpo da cui venivano e alla gloria della nuova Divisione di cui stavano scrivendo giorno per giorno la storia.

Perché la « Folgore » non fu solo prestigio e capa­cità di Capi, preparazione e abilità di quadri inter­medi, ma fu soprattutto entusiasmo e dedizione di uomini, volontà inflessibile di vittoria a costo della vita e orgoglio sovrumano di sentirsi i migliori figli d'Italia!

G. Peyrani

I PARACADUTISTI

I PARACADUTISTI


Un furbo contadino, fatta la conta dei giovani compaesani accorsi volontari ai Battaglioni paracadutisti, decise d'intensificare la coltura del gelso e l'allevamento dei bachi da seta; convinto che di tessuto serico ne sarebbe occorso un centinaio di chilometri a voler dotare ciascuno d'un bel paracadute; onde il vender bozzoli diveniva un affare d'oro.

S'è sbagliato: nel senso che l'equipaggiamento di quei giovani non ha dovuto ‑ la Dio mercè! ‑ attendere i suoi bozzoli e i suoi gelsi; ma è giusto il riconoscergli che, d'ogni paese, l'afflusso di volontari all'ardita specialità ha superato di molte lunghezze le più ampie previsioni.

All'epoca dei primi voli del « più pesante » si usava dire che l'aviazione era scapigliatura dell'eroismo; e l'attributo di « scapigliato » scendeva sul capo degli aviatori dai pulpiti della saggezza che, incuriosita, osservava, restando ben radicata al terreno.

Con maggior convinzione ‑ ma ben mutato animo ‑ oggi si può parafrasare, definendo i paracadutisti: « scapigliatura dell'aeronautica ».

Pei formalisti della disciplina e dell'ordine, che sublimano il militare nell'uniforme geometrica e nel gesto misurato al decimo di millimetro, forse il paracadutista (specie se osservato in libera uscita od in licenza‑premio) ha un qualcosa che « non va »: bracale in abbondanza, porta il basco alla brava, ha un'accollatura di maglione da palombaro da far inorridire i nostalgici del solino all'amido; si pavoneggia spavaldo nell'ampia casacca, tutta fregi, tutta simboli policromi e vistosi, incede con un passo da collaudatore di selciati; e quel pugnale persuasivo, fitto costì di sghimbescio sul davanti del cinturone, par messo li per cavare un « Dio ce la mandi buona! » a più d'un Don Abbondio in vena di ozi arcadici.

S'egli transita per le vie del centro, degustando, disinvolto, un gelato da passeggio, od in ora vespertina, lungo un viale periferico, cinge, col braccio perentorio, la vita d'una delle sue cento fidanzate, subito qualche discendente spirituale del generale Eusebio Bava (1848... e seguenti! ! !) si corruccia, s'avvilisce, brontola e commenta: « che mondo! che tempi! che si vuol fare con simili soldati?! » .

Che si vuol farne ‑ anzi: che se ne fa ‑ l'han detto, ed ancora meglio diranno, i comunicati di guerra; ché « simili soldati » proprio della stessa marca e specialità erano gli Eroi della Folgore che fecero strabiliare ad El Alamein. Ma, procediamo con ordine e preghiamo subordinatamente il sofistico censore di recarsi (gotta permettendo...) in un campo d'addestramento per paracadutisti; avrà agio di rettificare i proprii concetti e di scoprire una meravigliosa palestra, ove, grazie a preparazione e selezione psico‑fisica, morale, si ottengono elementi di altissimo valore, non solo ai fini del combattimento ‑ scopo conclusivo dell'addestramento in senso tecnico ‑ ma agli effetti altresì d'ogni attività costruttiva per la Nazione.

E' una scuola di vita, ancor prima che di guerra, ed attinge i discepoli, da ogni strato sociale, con attitudini congenite al rischio e all'azione.

Le regole d'ammissione sono severissime. Non basta aver diciott'anni, essere piéni d'entusiasmo, di salute. A1 controllo sanitario il medico somatico, l'oculista, 1'otolaringoiatra, eco. formano un complotto di cerberi che sbarra il passo a chi non possiede qualità psico‑fisiologiche eccezionali quindi, un gran numero (due buoni terzi) dei volontari se ne torna sui suoi passi amareggiato e deluso.

Una seconda selezione ‑ minima, stavolta ‑ consegue agli esperimenti d'indole pratica: tuffi pompieristici da rispettabile quota, verso il centro del telone ammortizzatore; corsa in terreno accidentato; prove assortite di elasticità e di resistenza. Qui, il giudizio è demandato all'occhio clinico degli istruttori, i quali

subito si avvedono se il tipo è « in gamba » se ce la fa, ed ha buon fegato.

Agli idonei si spalancano ‑ finalmente! ‑ gli accessi alle caserme ed ai campi di addestramento.

Addestramento scrupoloso sia in attinenza al lato aeronautico quanto all'impiego nel campo sul terreno. Ma qui, al fianco del sofista quarantottesco che riesuma i regolamenti di Lamarmora, può sorgere anche un moderno scolastico della guerra, una di quelle arche di scienza che facevano pioggia o bel tempo dalle cattedre delle scuole « di Guerra » o « d'Applicazione » ; e sottilizzare sul titolo del presente articolo, ponendo quesito se, e fino a qual punto la specialità dei paracadutisti la si possa definire aeronautica.

« Se il paracadutista militare al postutto altro non è che un fante (guastatore, o ardito, o quel che meglio vi pare) il quale si trasferisce sul terreno dell'azione avvalendosi non dei mezzi consueti alle infanterie, bensì verticalmente in funzione di pendolo d'una calotta di seta, sembra ovvio che la sua qualifica di aeronauta abbia a cadere al contempo della imbracatura di cui egli si libera appena giunto al suolo; ma allora tanto vale che l'esercito terrestre affidi momentaneamente ‑ di volta in volta ‑ all'aeronautica, un certo numero di propri soldati affinché essa ne compia il servizio ausiliario d'aviotrasporto e lancio; e tosto li ricuperi ‑ l'esercito ‑ appena hanno effettuata l'inevitabile capriola che segna il ripreso contatto colla terra ».

Ecco, l'errore d'impostazione del quesito è proprio tutto in quel « se altro non è ». Rimorchiamo al nostro seguito anche l'esimio insegnante d'arte militare terrestre: siamo certi che ad ultimata visita d'una scuola per paracadutisti egli modificherà lealmente il proprio concetto.

L'intervento in azione d'un reparto paracadutista, sempre ha carattere d'un audace colpo di mano; è un revulsivo eroico per aiutare a risolvere una situazione tattica, oppure un imprevedibile operare in campo strategico; come sarebbe ‑ nel primo caso ‑ il prendere il nemico d'infilata o alle spalle; e ‑ nel secondo ‑ il guastare viadotti, ferrovie, ponti, incendiare depositi, occupare aeroporti, eco.; audacia, precisione, tempestività e perizia vogliono essere ‑ nell'una e nell'altra ipotesi ‑ le inderogabili modalità d'azione; e s'è pur vero che di tali caratteristiche sarebbe ozioso intitolare il monopolio all'una anziché altra delle Forze Armate, non men vero che, nel caso in esame, esse contrassegnano l'unicità e l'inscindibilità dell'impresa che ha inizio coll'imbarco sul velivolo ed ha termine coll'esaurirsi del compito sul terreno.

Per far cadere un grave non è indispensabile conoscere le esperienze di Galileo: basta privarlo del sostegno; ma se il Rrave è un soldato che deve giungere al suolo in ottime condizioni di spirito e di corpo, oltreché in perfetto assetto guerriero, allora la faccenda si fa un pochino più complessa; è contemplata un'attività che si distingue in tre fasi: uscita dall'aereo ‑ discesa ‑ atterraggio.

L'uscire da un aereo che si muova ‑ supponiamo‑ a trecento chilometri orari, significa essere proiettati contro l'aria, a pari velocità; poi, precipitare per una cinquantina di metri in attesa che il paracadute si apra automaticamente; è un po' la caduta e la traiettoria d'un sasso che l'uomo deve compiere, pur senza possedere, del sasso, la buona forma aerodinamica. Bisogna, all'inizio del lancio, assumere una particolare positura che potrebbe definirsi di nuoto nell'aria, e mantenervela con simmetria bilaterale, finché lo « strappo » non avverta che il paracadute s'è aperto; altrimenti si producono squilibri di incidenza e di portanza ch egenerano coppie rotanti e l'uomo incomincia le capriole nel vuoto, i giri a trottola, impigliandosi nella fune di vincolo; il che significa proseguire ‑ a paracadute chiuso ‑ fino al suolo, con quali conseguenze voi stessi me lo dite, toccando alla svelta, ferro omogeneo.

Avvenuta l'apertura s'inizia la discesa « regolare »; d'una regolarità che gli effetti pendolari non sempre fanno piacevole; in giornate ventose i moti oscillatori e rotatori sottopongono 1 paracadutista a durissima prova; egli deve allora mettere in pratica tutti gli accorgimenti appresi alla Scuola per giungere a quota zero nelle condizioni più desiderate; deve, all'occor­renza ,graduare la velocità della discesa modificando la portanza della calotta con manovra che rammenta l'arte della navigazione velica.

Intanto il terreno s'avvicina, si particolarizza e ra­ramente ha l'amabilità di presentarsi quale prato fio­rito, ampio, uniforme e sgombro d'ostacoli; il con­tatto può avverarsi in condizioni fortunose, tali da menomare o paralizzare il paracadutista propro quan­do ‑ novello Ercoile ‑ dall'amplesso della madre Terra, egli deve trarre moltiplicate energie per svilup­pare l'azione; è ancora la Scuola che prevede e prov­vede con sapiente preparazione dell'allievo.

Una locuzione elegante di norme d'equitazione, esor­ta il cavaliere a lanciare l'animo oltre l'ostacolo e, subito, balzare a riafferrarlo; qualcosa di analogo (ma in progressione cubica) lo si esige dal paracaduti­sta. Occorre avere un cuore « grande così » (il lettore comprende pur senza la cinematica del gesto), un cuore che si forma e si consolida colla consuetudine al rischio, colla familiarità al volo ed acrobazie rela­tive; requisiti che trascendono alquanto la docile inerzia del vivente « pacco postale » affidato all'aero­nautica per aviotrasporto e lancio da effettuarsi even­tualmente come servizio ausiliario.

Un'idea del come si pervenga a possedere tali re­quisiti, ce l'offre il complesso delle attrezzature che servono alla specialissima istruzione; pare, a prima vista, un compromesso fra la palestra ginnica ed il parco dei divertimenti, ma in realtà è il prodotto originale di esperienze e studi appassionati ,per cui va data amplissima lode ai pionieri ed ai cultori del paracadutismo. Qui sono riprodotte, colla maggior fe­deltà possibile ‑ le condizioni in cui si verificano l'uscita dall'aereo, la discesa e l'atterraggio; qui gli allievi, cameratescamente guidati dagli istruttori e paternamente vigilati dal medico, compiono per cen­tinaia di volte determinati esercizi, finché non li ac­quisiscono all'istinto; il tuffo nell'aria, la discesa in­frenata da un contrasto aerodinamico, le oscillazioni pendolari, il brusco atterraggio, le capriole scientifi­che per non venir malamente rimorchiati dalla ca­lotta veleggiante al suolo, sono il pane quotidiano dellinsegnamento pratico; e, attorno all'istruttore, che sovente è un modesto graduato di truppa, noi vedia­mo aggruppati perfino sottufficiali ed ufficiali si­gnorsì: con qualche binario di nastrini sul petto) al­lievi anch'essi, disciplinati e deferenti come e più del­le giovanissime reclute; poiché qui si formano (me­glio, si ri‑formano ,in senso di superamento e perfe­zionamento) quadri dei reparti adeguandoli alle esi­genze della specialità.

A questo punto il nostro dotto precettore della Scuola di Guerra, che, incredulo aveva accolto l'in­vito d'un sopraluogo, ha già ripiegata gran parte della propria tesi; un dubbio residuo, ma di grande impor­tanza, ancora lo trattiene dall'aderire alla nostra; è curioso di vedere come il nostro aeronauta se la, cavi in combattimento (od in azione guastatrice) a terra.

Accontentiamolo all'istante, conducendolo al cam­po di esercitazioni (un campo predisposto, al cospet­to del quale il classico « percorso di guerra » è d'una banalità alfabeteggiante).

Qui si può assistere ad azioni di movimento e fuoco che sono il corollario armonico del balzo da cielo in terra; immutato lo stile e l'impeto; qui ci si rende conto della elasticità, duttilità, prontezza d'intuizione di questi assalitori di fortilizi, distruttori di carri ar­mati, morditori all'arma bianca; si può sondare il grado di preparazione teorica di tutti e di ciascuno, per collocare, innescare, far brillare una mina, o vi­ceversa neutralizzarla tranciando un... « positivo »; come si approfitti d'ogni appiglio tattico e si scelga l'istante per assalire, travolgere, sfruttare il successo.
Quietato, finalmente, lo scolastico, ci rimane a sod­disfare il sofista quarantottesco, arrabbiato mnemonico del regolamento di . disciplina. Borbotta come gia­culatoria il « pronta ‑ rispettosa ed assoluta » ignaro che senza gli aggettivi « spontanea e sentita » la di­sciplina fa del soldato un automa a 'carica limitata. A sentir lui questi ragazzi, venuti volontari con due o tre anni di anticipo sulla chiamata di leva, sono fantasiosi sconsiderati, il cui entusiasmo è destina­to a sbollire alla prima « stretta di freni », testé che si sono scaldate alla vista delle illustrazioni a colori degli episodi di guerra. Veniamo al sodo: avvicinia­mo uno di cotesti adolescenti, l'allievo Pini, per esempio; questo romagnolo quindicenne, biondo ric­ciuto, dalla corporatura precocemente atletica e dal volto serafico, che Luca Signorelli ‑ nei suoi dipin­ti ‑ avrebbe collocato parimenti nella milizia cele­ste, salvo a sorreggerlo, nell'aria, con ali candide, di autentiche penne, applicate al posto della imbraga­tura di canape.

Confrontiamolo un istante agli efebi oziosi che onorano di lor presenza i «locali » di lusso: ne sca­turisce un abisso.
Il Pini, figlio di lavoratori dalle mani callose, fre­quentava in inverno la scuola industriale; e, in estate « si godeva » le vacanze lavorando in officina. S'è ar­ruolato paracadutista colla semplicità di chi fa la cosa più naturale del mondo.

Proviamoci a indurlo in tentazione, quest'ingenuo ragazzo; domandiamogli in confidenza, ben discosti dai superiori, se la disciplina militare (la « naja », via, come si diceva in vecchio gergo di caserma) non gli riesca a volte pesantuccia, fastidiosa.

Ti concederà un « va bene... » più reverenziale che ccnvinto; ma, subito, con un « d'altronde » ti osserva che se togli la disciplina ‑‑ o sotto le armi; o da bor­ghese ‑ tutto va a rotoli.

E poi lui, il Pini, ha un conticino personale da li­quidare coi « liberatori » che in ripetute incursioni han semidistrutta la sua bella Rimini; se al suo reparto non vi fosse ordine e disciplina, quella per­sonale sodisfanzioncella, forse, non se la potrebbe cavare.

Paracadutisti, scapigliatura dell'aeronautica, spe­ranza della Patria, giovinezza di eroi,. orgoglio dei padri, tenera ansia delle madri, sogno dei fanciulli, amore di tutto il popolo, testimonianza vitale di virtù latine: marciate sicuri, sotto l'azzurro del cielo, nella luce del sole; il vento di primavera ingagliardisce il vostro canto e dissipa il velo di tristezza nel cuore dei veterani.
TAMBORNINO
da « AR‑44 »
Rivista dell'Aviazione Repubblicana

mercoledì 9 gennaio 2008

E' morto Umberto Scaroni

E’ morto Umberto Scaroni
Anno IV articolo n.2141
Volontario della RSI, fondatore del MSI, consigliere regionale della Lombardia
Trento, 5 gennaio 2008. E' morto questa mattina, l’avv. Umberto Scaroni. La triste notizia ci è giunta, nel pomeriggio, in redazione.L'avv. Scaroni fu volontario della RSI, fondatore del MSI, consigliere regionale della Lombardia, per anni segretario provinciale del MSI di Brescia. Successivamente venne eletto Presidente del Raggruppamento Nazionale Combattenti Reduci della RSI - Continuità Ideale. Figura storica della Destra bresciana, ha vissuto con coraggio e coerenza la "scelta dell'onore", aderendo giovanissimo alla Repubblica Sociale Italiana. Valente avvocato si è distinto per capacità e umanità nella attività forense. Sempre in prima linea, ha generosamente manifestato le sue idee e le sue convinzioni politiche e si è battuto, negli anni di piombo, a difesa della libertà di tanti italiani.Progetto Trentino Libero, la Redazione e Claudio Taverna porgono, in questo doloroso momento, ai Familiari dell’avv. Umberto Scaroni sentite condoglianze.

Notizia tratta da Trentinonolibero www.trentinolibero.org

Umberto Scaroni, è stato un Padre, un Amico che ha contribuito di persona ad illuminarmi sulla verità storica negata del Novecento d'Italia, quindi non muore, rimane Presente in quel ricordo di affetto e devozione che si riversa alle persone coerenti delle loro scelte che hanno dato significato a quell'Italia che si legge Patria, per il significato profondo degli ideali che sono l'anima eroica del Soldato d'Italia.
In questo pezzo che ho scelto per Ricordare Umberto Scaroni vi è il riassunto di una intiera vita spesa a tramandare sentimenti unici e rari.
Tino Gianbattista Colombo
348 2284969
Da Nuovo fronte n° 225 gennaio/febbraio 2003

STRAORDINARIE AVVENTURE DI SOLDATI DELLA RSI
Umberto Scaroni

Fra le tante, gloriose e spesso incredibili imprese compiute dai Reparti speciali della Decima Flottiglia MAS, al comando del Principe Junio Valerio Borghese, le meno conosciute, anche perché segretissime, sono forse quelle affidate agli "N" del Gruppo Ceccacci, composto di due Squadre di esperti "nuotatori", agli ordini del S. Ten. Aladar Kummer e del S. Ten. Renzo Zanelli, particolarmente addestrati all'uso di esplosivi e destinati ad incursioni di sorpresa oltre le linee nemiche.
Tali azioni non erano certamente facili da portare a termine, ed il loro successo dipendeva da un lungo e specifico addestramento, compiuto sulle spiagge di Jesolo, ma anche e soprattutto da un perfetto affiatamento fra i componenti della Squadra, nonché dalla fiducia e dalla stima reciproca, dato che la vita di uno era nelle mani dell'altro.
Ci occuperemo qui, in particolare, delle azioni compiute dalla Squadra del S. Ten. Aladar Kummer, che, a causa del suo nome, è stato talora indicato come Ufficiale tedesco, mentre si tratta di un italianissimo figlio di Fiume che, dopo aver combattuto come Sottotenente nella Divisio­ne "Trieste" nella battaglia di El Alamein e, successivamente, in diverse azioni di contenimento durante la lunga ritirata di Libia, fu ferito ai confini della Tunisia e quindi trasferito con una Nave Ospedale a Napoli, ove rimase rico­verato per una ventina di giorni.
Dopo una breve licenza di con­valescenza, fu destinato alla "dife­sa aeroporti" di Pianello Val Tidone (Piacenza), ove lo colse la vergognosa resa dell'8 settembre.
Mentre l'Esercito si sfasciava miseramente, Kummer non esitò a presentarsi al Centro di recluta­mento della Decima MAS, a La Spezia, l'unico Reparto che non aveva ammainato la Bandiera, e, fra le varie specialità, essendo un ottimo nuotatore, scelse gli "N" del Btg. "N.P", e provvide perso­nalmente a costituire la squadra al suo comando, reclutando a Fiume dieci giovani amici, tutti univer­sitari. Quindi raggiunse tesolo, per uno speciale addestramento, effet­tuato in gran segreto. In seguito ad una richiesta d'impiego di due Squadre "N" giunte dalla zona di operazioni, Kummer e Zanelli si recarono a Penne, sede del Grup­po Ceccacci, famoso per le missio­ni già compiute oltre le linee, nei territori occupati dal nemico.
Purtroppo, proprio quando le Squadre erano pronte a compiere un'audace azione contro i mezzi da sbarco inglesi nel porto di Ortona, in seguito allo sfondamento del fronte a Cassino il Gruppo dovette ripiegare, risalendo l'Adriatico con tutti i suoi mezzi, fino a Cesenatico, ove requisì l'Albergo Roma, nel re­cinto del Porto Canale.
Finalmente, verso la fine di lu­glio'44, la Squadra ebbe il battesi­mo del fuoco, sbarcando nottetempo con i "barchini" sulla costa fra Senigallia ed Ancona (già in mano agli "alleati"); ove recò notevoli danni ad un deposito di munizio­ni, a diverse linee telefoniche ed a vari automezzi inglesi, rientrando incolume, dopo poche ore, con il motoscafo d'appoggio.
L’entusiasmo della Squadra era alle stelle per il successo ottenuto, e già si stava organizzando una nuova audace impresa quando il Gruppo fu ancora costretto ad ar­retrare verso Nord, fino a Dosson (Treviso), usufruendo del Porto Corsini quale base operativa e di partenza per le azioni.
Fu allora che la Squadra Kummer, onde poter disporre di un mezzo veloce per avvicinarsi agli obiettivi e sbarcare sulle spiag­ge con i battellini, si recò a Vene­zia, ove requisì il motoscafo del Conte Volpi di Misurata, che usò a metà ottobre per compiere un'azio­ne nella zona tra Miramare di Rimini e Riccione.
Lasciato al largo il motoscafo, gli incursori raggiunsero silenziosa­mente la spiaggia con i battellini. Quindi, strisciando sulla sabbia, raggiunsero i cespugli sulla strada ove erano allineati numerosi grossi autocarri carichi di munizioni e di esplosivi.
Minati, indisturbati, tutti gli automezzi, gli arditi "nuotatori" provvidero quindi a tagliare tutti i fili di collegamento telefonico tra i vari Comandi alleati, creando un vero caos.
Quando la Squadra, raggiunta la spiaggia, già si trovava al largo con i suoi battellini, iniziò una se­rie di terribili esplosioni che pro­vocarono un fuggi‑fuggi generale ed il più completo scompiglio fra gli occupanti.
Purtroppo, il previsto appuntamento con il motoscafo non av­venne perché si stava avvicinando l'alba, ed ai primi chiarori il mez­zo aveva l'ordine di allontanarsi dal luogo dello sbarco, per cui Kummer decise di pagaiare con il battellino verso Nord, accorgendo­si però, dopo un giorno di faticosa navigazione, che la corrente con­traria lo allontanava sempre più dalla spiaggia, per cui preferì pun­tare verso terra, per sbarcare la sera sulla spiaggia e tentare di attraver­sare le linee a piedi.
La Squadra sbarcò infatti vici­no a Rimini, e si avviò camminan­do in colonna lungo la circonval­lazione della città. Ad un certo punto, però, arrivò nel senso con­trario una pattuglia nemica (anche questa in fila indiana) che portava sul basco dei distintivi simili a quelli dei nostri Marò, il cui capofila li salutò militarmente. Kummer, istintivamente, tese il braccio in avanti nel regolamentare saluto fa­scista, ma, accorgendosene, ripiegò subito il braccio portando la mano al berretto. Tutto andò liscio, e le colonne sfilarono così una accan­to all'altra con una sequenza da film comico, malgrado la perico­losità della situazione.
La squadra Kummer decise quindi di dividersi per tentare separatamente di rientrare attraverso le linee con maggiori possi­bilità di successo: chi scelse di in­dossare abiti civili e chi, con Kummer, decise di restare in divi­sa. Quest'ultimo gruppetto si di­resse quindi verso Cesenatico, zona familiare, e si rifugiò in una cascina disabitata dei dintorni, ma improvvisamente, di notte, fu sor­preso e catturato da un gruppo di soldati polacchi, che lo caricò a calci su un camion e lo portò in carcere a Forlì, da dove, dopo qual­che giorno, fu trasferito a Roma, a Cinecittà, ove aveva sede il servi­zio di spionaggio alleato.
Kummer, dopo venti giorni di demoralizzante isolamento, fu in­fine interrogato da un ufficiale maltese, che parlava italiano, ed avendo appreso che anche gli altri componenti della Squadra erano stati catturati in borghese, riuscì a salvar loro la vita dichiarando e dimostrando che non erano spie, ma militari incursori del suo Re­parto che tentavano di passare le linee senza dar nell'occhio.
Quanto alle informazioni mi­litari richieste, Kummer ebbe l'im­pressione che quegli interrogato­ri, anche se rimanevano senza ri­sposta, fossero inutili, dato che gli "alleati"... sapevano già tutto!
In tempi successivi, nella sua stessa cella furono rinchiusi il col­lega Zanelli ‑ la cui Squadra era stata pure catturata dopo un riu­scito attacco nelle retrovie inglesi ‑ ed il fratello Carlo, dei mezzi d'assalto della Decima dislocati a San Remo, catturato in mare dopo aver affondato il suo M.T.M.
I tre prigionieri studiarono su­bito insieme un piano di fuga, ma non riuscirono a realizzarlo perché vennero divisi e trasferiti nel cam­po di concentramento di Afragola (Napoli). Ad Afragola furono ca­ricati su un treno di carri bestia­me diretto a Taranto, dove sarebbero stati imbarcati per l'Algeria. Giunti in Basilicata, non volendo essere trasferiti in Africa, i nostri amici tentarono finalmente la fuga, riuscendo a scardinare le tavole dal fondo del vagone con un vecchio chiodo arrugginito strappato a fa­tica dalla porta. Quindi, dì notte, riuscirono a calarsi uno alla volta sulle rotaie, approfittando dei ral­lentamenti del treno e subito si al­lontanarono dalla ferrovia attra­verso la campagna dove, in una casa colonica, trovarono una insperata e generosa accoglienza da parte dei contadini, ai quali si era­no presentati come cittadini del Nord desiderosi di tornare a casa, e che offrirono loro da mangiare e da dormire.
All'indomani, considerata la grande distanza dalle linee del fronte, allora attestate sulla Linea Gotica, approfittando del fatto che Zanelli parlava l'inglese, i tre fug­giaschi compirono una ennesima bravata, chiedendo ed ottenendo il passaggio su un camion diretto al Nord. Tutto andò bene, e con un auto‑stop dopo l'altro il gruppetto riuscì ad arrivare a Roma senza destar sospetti.
Proseguendo a piedi verso la Toscana, mentre attraversavano la piazza di un paese, i tre fuggitivi furono però notati da alcuni citta­dini che, insospettiti, li trattenne­ro in Comune "per chiarimenti" fino all'arrivo dei Carabinieri, i quali, evidentemente informati della loro fuga, senza tanti discor­si li portarono a Roma, proprio a Cinecittà, ove l'Ufficiale maltese dei Servizi Segreti li accolse sorri­dendo ironicamente chiedendo loro se avevano fatto un bel viaggio!
Ciò, anziché deprimere, stimo­lò la reazione dei nostri Eroi, che subito si misero all'opera per rea­lizzare il piano di fuga già studia­to nel corso della loro precedente "villeggiatura" a Cinecittà. Dopo aver svitato con un coltello trafugato la griglia dell'aeratore sul soffitto della cella, strisciando nel tubo dell'aria Kummer e Zanelli riuscirono infatti a calarsi nella "stanza dei microfoni" (ove si registravano le conversazioni fra i detenuti), che non aveva reticolati alle finestre, e di qui scapparono di notte, ultimando con successo le loro mirabolanti avventure.
Arrestati dagli inglesi nel 1945, verso la fine della guerra, Kummer e Zanelli vennero trattenuti "per punizione" nel campo speciale di concentramento di Rimini fino al­l'estate 1947, quando gli inglesi, la­sciando l'Italia, furono costretti a liberarli.
II S. Ten. Aladar Kummer è ora un attivo componente ed un valido collaboratore della Federazione di Bergamo dell'U.N.C.R.S.I..