sabato 24 novembre 2007

ACTA ANNO XVIII * N°3 SETTEMBRE ‑ NOVEMBRE 2004
Dell’Istituto Storico Repubblica Sociale Italiana


PRIGIONIE D'OLTREMARE SOFFERTE TESTIMONIANZE

Pier Silvio Spadoni ha illustrato a "Italia 1939‑1935, Storia e Memoria" presso l'Università Cattolica di Milano, il 25 maggio 1995 la Sua Tesi di Laurea I PRIGIONIERI ITALIANI NEI CAMPI AMERICANI, INGLESI E FRANCESI, discussa all'Università Statale di Milano ‑ Scienze Politiche.

Della acuta relazione (36 pagine) riassumiamo la parte con le testimonianze del Ten Franco, Cappellano Militare, e di Avanzini, Belli, Beretta, Bersani, Croso, Palermo, Pradelli, Roggiani, Valia ni e Villa e dai campi di Orario (americano e francese) su perquisizioni, propaganda contro le istituzioni italiane, vita nei campi, lavoro e attività ricreative. 1 prigionieri italiani che dall'autunno 1943 divennero ausiliari delle non più nemiche Armate US furono decine di migliaia (19 mila in Italia, 43 mila in Francia). Tra i restanti sotto Gran Bretagna (360 mila), U.S.A. (65 mila) e Degaullisti (25 mila), quel 20% rimasto fedele alla Patria e considerato non cooperatore ostile si ridusse alla metà dopo la resa del Giappone (2 settembre 1945).

Nei soldati combattenti le differenze dei caratteri, gli atteggiamenti disparati e gli stati d'animo dovuti ai differenti motivi della partecipazione al conflitto si uniformano all'unica volontà possibile: vincere! Poiché, nel combattimento, lo spirito di conservazione stesso di confonde con l'impeto necessario a sopraffare il nemico. Anche a battaglia finita, quando diverse sono le reazioni e rispuntano i caratteri di ognuno pur tuttavia quei soldati hanno in comune il senso del dovere e l'idea di servire la Patria.

Ma arrendendosi, diventando prigionieri. Essi sono dei vinti, in preda al disordine e spesso al crollo di ogni disciplina e ritegno.

Psicologicamente il catturato si sente irriconoscibile e sprofonda in uno stato di smarrimento a cui reagisce secondo le proprie riserve morali. La gerarchia militare è spezzata. Alla disciplina precedente succede un periodo caotico con interrogatori, perquisizioni anche umilianti, trasferimenti faticosissimi e a volte inumani per raggiungere la destinazione stabilita dal vincitore.

La reazione della massa a questo tipo di situazione si divide nelle varianti dei depressi, che non parlano più e che si muovono a stento procedendo come robot, e quella degli esaltati, che parlano troppo, non stanno fermi e si abbandonano a una irritabilità rumorosa e pericolosa. A costoro sono da aggiungere poi i casi patologici e i rassegnati. Quest'ultimi, che considerano la cattività come il male minore che possa capitare in guerra, rappresentano un fattore d'ordine sia durante la cattura che durante la prigionia.

I militari subito dopo la cattura venivamo disarmati, perquisiti e, quando il numero ed il tempo lo permettevano, immatricolati con il numero preceduto dalla sigla POW (Prisoner of War). I francesi invece facevano cucire sulle spalle della divisa un rombo di panno rosso, che gli italiani chiamavano la "toppa rossa". Gli italiani catturati dai britannici lamentano nei loro memoriali che gli inglesi, subito dopo la cattura, portavano via frequentemente sia oggetti di valore che capi di vestiario.

Appena disarmati, anche se era stato concesso l'onore delle armi i soldati italiani venivano affidati ad un sottufficiale britannico il quale si serviva dei suoi uomini di colore per la perquisizione e la disciplina. Come primo provvedimento i prigionieri venivano denudati, senza distinzione di età o grado, ed alleggeriti di tutto ciò che possedevano, oggetti, indumenti, ricordi familiari. Tutto veniva loro tolto a titolo di "souvenir", che era una parola di moda. II prigioniero era lasciato senza scarpe, in mutande e dimenticato. (Alfio Beretta).

…la prima notte di cattività non dovevamo dormire a lungo. Ci svegliammo sotto il raggio di una torcia che lì per lì sembrò della scorta. Erano invece due uficiali che stavano perquisendo tutto il gruppo, un elmetto tra le mani. Quando fummo all'impiedi vedemmo nell'elmetto soldi, orologi, anelli. Anche il nostro orologio finì nell'elmetto. Erano orologi che avevano fatto l'Africa orientale, la licenza in Italia, i mesi di guerra:" (Ferdinando Bersani)

...fin dall'inizio si vide subito che piega prendeva la perquisizione. Coperte, lenzuola, lamette da barba, sapone, lapis, specchi, medicinali, accendisigari, tutto quanto poteva far comodo ai vincitori era silenziosamente confiscato. Chi osava protestare si sentiva esplodere sotto il naso il grido di "come on"; e a non filare subito si rischiava di assaporare la più formidabile delle pedate (Piero Belli. Corrispondente di guerra).

Particolarmente drammatiche furono le vicende dei prigionieri in mano francese. Viene raccontato da più reduci che le forze militari francesi in Africa, le truppe degaulliste, erano costituite dalla Legione Straniera e da truppe di colore ‑ goumiers, spahis, senegalesi: un esercito raffazzonato, misto di razze carico di miseria. Ricorda un reduce dai campi "non era la vera Francia che avevamo innanzi, ma bande raccogliticce ... ...si mescolavano in un mosaico a mala pena tenuto insieme da interessi ed ambizioni personali, più che dall'ideale della grande Francia".

Uno dei maggiori centri di raccolta dei prigionieri fu quello di Megez‑el‑Bab in Tunisia. Da qui partirono lunghe colonne dirette a diversi campi nei quali i prigionieri vennero smistati successivamente verso il Sud Africa, l'India, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Ad alcune migliaia di italiani in mano francese toccò, nel giugno del 1943, la sventura di compiere a piedi in 20 giorni un marcia forzata di oltre 500 chilometri attraverso la Tunisia fino a Costantina in Algeria ....si facevano avanzare i primi plotoni e si tenevano fermi gli altri per poi farli correre zoppicanti fino a raggiungere la testa. I più desolati erano quelli di coda che vedevano sempre una interminabile fila serpeggiare innanzi a loro come un'allucinazione ....ufficiali francesi, a cavallo,a sommo dispregio talvolta investivano i pellegrini, calpestandoli ...percosse, minacce, insulti ...un unico camion autoambulanza che funzionava per l'immensa colonna. (Ten. Cappellano don Giacomo Franco)

...durante il percorso non solo gli italiani furono scherniti dalle popolazioni, ma vennero maltrattati anche dalle scatenate truppe di colore che avrebbero dovuto proteggerli. Si parla di un numero di morti imprecisato poichè i prigionieri non erano stati ancora immatricolati: essi figureranno poi fra i Dispersi o i Caduti in combattimento. (Giovanni Roggiani) .

....in molte occasioni avvenne che i prigionieri ricevettero dalla folla sputi, insulti minacce. Particolarmente pietoso fu lo spettacolo offerto da alcuni gruppi di italiani stremati, scalzi, seminudi addirittura alcuni avvolti solo in una coperta, che, provenienti dal campo Mechra Benabbou, attraversarono le vie di Casablanca sotto gli occhi della popolazione che inveiva. Analogo comportamento lo ebbero gli inglesi sia in Egitto che in Africa orientale ...durante i trasferimenti si obbligò per scopi propagandistici i prigionieri a percorrere in pieno giorno le vie dei centri abitati, e qui gli italiani sporchi laceri, affamati, furono esposti agli insulti delle popolazioni locali (Giovanni Palermo) . ....i principali centri di raccolta e transito nell'ex AOI furono quelli situati all'Asmara ed ad Adis Abeba. Nel corso di una lunghissima marcia per arrivare al campo di raccolta di Addis Abeba i prigionieri inermi furono gravemente esposti a pericoli dai quali non ebbero sufficiente protezione ...Fu ordinato agli italiani di rendere omaggio al Negus sfilando davanti a lui, e l'ordine inglese aveva precisato che chi si fosse rifiutato sarebbe stato passato per le armi. La rivisita durò tre lunghe ore. II commento a questa sfilata: "l'umiliazione più grave c'è stata inflitta" (Alfio Beretta).

I militari italiani radunati al forte Baldissera dell'Asmara, venivano smistati in parte verso il Sudan, in parte verso l'interno, mentre la maggioranza era inviata verso i porti di imbarco di Massaua, di Assab, di Berbera e di Mogadiscio per essere poi trasferita ai campi situati principalmente in Kenia, in Sud Africa, in India ed in Australia oppure in Gran Bretagna.
Quelli portati ad Addis Abeba venivano allontanati dall'Etiopia seguendo come direttrice principale dell'evacuazione la linea Auasc, Dire‑Daua, Harrar, Giggica, Hargeisa, fino al porto di imbarco di Berbera .
....la diversità di trattamento dei prigionieri a seconda del detentore, non va ricercata solo nella maggiore durezza dei francesi ma, soprattutto, si deve evidenziare che la sorte degli italiani con tale detentore fu solo esclusivamente di prigionie­ri: "noi siamo stati prigionieri e null'altro. Trattati sempre male, questo si". (Enrico Pradelli).

Con ì detentori anglo americani invece gli italiani vissero un'espe­rienza diversa, vale a dire la trasformazione di buona parte di prigionieri in cooperatori.

Gli inglesi, in particolare, permisero che si verificasse nei loro campi, una situazione diversa e ben più scottante di quella che vissero i prigionieri in mano francese, perfino quelli tenuti nelle peggiori condizioni. Crearono infatti una situazione che vide ita­liani scatenati contro altri italiani per scelte politiche, come se essi avessero realmente vissuto fatti ed avvenenti che non pote­vano ne conoscere obiettivamente ne capire, dato che erano segregati, lontano dall'Italia, senza notizie, sostanzialmente fer­mi agli avvenimenti precedenti alla loro cattura . ....il 13 maggio 1943 dopo la cattura, da parte degli americani provenienti da Nord, di italiani sulla postazione di Enfidaville, avvenne un fatto quantomeno straordinario. Infatti dopo aver trasferito alcuni loro prigionieri con autocarri a Pont du Fash gli americani li conse­gnarono alle truppe degaulliste. (Ettore Villa)

....le stesse autorità americane però finsero d'ignorare, più tardi, dei numerosi italiani che, evadendo dai campi francesi, trova­vano rifugio nei loro campi di prigionia. Essi presero atto del­l'evidente situazione solo quando il Comando francese prote­sto. (Renzo Valiani).

Così come molti militari catturati furono consegnati dagli ameri­cani ai francesi, anche diversi prigionieri, già in mano francese, risultarono essere passati agli americani. Non si sa se ciò sia avvenuto in base ad accordi particolari.
Quanto al comportamento dei soldati americani, dai ricordi dei reduci emerge che furono vari gli interventi in aiuto ai prigionieri italiani, spesso come reazione ai maltrattamenti dei francesi .
....significativo è quanto avvenne a "Maison Carrèe", Algeri, Quando nella stazione si incendiò un treno americano carico di bombe, proprio mentre era presente un altro che trasporta­va prigionieri italiani, stipati 40 per vagone, una parte del tre­no venne allontanata. Nei vagoni rimasti fermi vi furono diversi morti sia fra i guardiani che fra i prigionieri. ma sarebbero stati molti di più se alcuni americani, con pericolo per la loro vita, non avessero aperto parte dei vagoni permettendo che i pri­gionieri uscissero. (Enrico Pradelli).

Nella memorialistica consultata risulta che gli italiani in mano americana furono quasi sempre trattati dal punto di vista ma­teriale, in osservanza alla Convenzione di Ginevra. In complesso le violazioni commesse sono da considerarsi, almeno negli effetti, pari a quelle della Gran Bretagna. II numero dei prigio­nieri italiani che rimasero in mano americana fu di 123.000. Essi furono poi smistati con destinazioni varie: Stati Uniti e nelle isole Hawai, 51.000 compresi i combattenti RSI; in Italia al seguito della V armata 19.000; in Francia e Germania al se­guito delle armate americane oltre 43,000; nel Marocco (zona Casablanca) circa 10.000. Quasi subito iniziò nei campi quel­la propaganda diretta ad intaccare la fiducia del soldato italia­no verso i superiori e le istituzioni.
L'attività di propaganda anglo‑americana verrà sfruttata in se­guito, non più per colpire le figure dei superiori ma per com­battere il fascismo ed il suo massimo rappresentante. Questi sono i principali motivi per cui in tutti i campi si ebbe, in un primo tempo, una grave anarchia contraria agli interessi deiprigionieri stessi, tanto da aggravare la loro vita . ....Temo che se ognuno non riprenderà il controllo dei propri nervi (logorati dalla nostra odissea) andremo al peggio: alle adunate si perde tempo in attesa dei ritardatari; le tavole per i pasti vengono prese d'assalto, e ne soffre chi non ama an­dare all'arrembaggio o è meno prepotente, o meno lesto a trovare un posto; di frequente si inaspriscono le discussioni all'aperto o sotto le tende. (Ettore Villa).

Con il passare del tempo nei campi si svolsero attività dirette al miglioramento delle condizioni materiali; I prigionieri si in­gegnarono in tutti i modi: ....a fare la sintesi di tutti gli accorgi­menti, le astuzie, gli stratagemmi usati dagli italiani per so­pravvivere, trovo adatto un motto quello del generale Nasi, co­mandante degli italiani in Kenia, "acqua dai sassi e sangue dalle rape". (Noé Croso)
..le opere d'artigianato furono di diverso tipo, dalle più sem­plici alle più complesse e qualche prigioniero, riuscì con le sue realizzazioni a stupire le autorità di custodia per l'inventi­va e la capacità creativa (Luigi Avanzini) .

....straordinaria fu anche la costruzione di un violino funzio­nante composto da migliaia e migliaia di stecchini di fiammi­feri usati. "Lo sport fu davvero un reagente energetico di gran­de valore, uno scampo all'ozio" (Alfio Beretta).

Quando furono disponibili, tramite gli Enti assistenziali, dei li­bri si scatenò una vera bramosia per la lettura. Gran parte nella vita dei campi la ebbe anche il teatro. I prigionieri si industria­rono per organizzare lavori teatrali veri e propri. Raramente agli spettacoli assistettero le autorità ed i civili. In molti campi si organizzarono anche concerti strumentali e vocali.

....da dove venissero fuori gli strumenti a fiato non si sa, ma cornetto, sassofoni, trombe, fagotti, clarinetti e flauti sbucaro­no come per evocazione spiritica; strumenti a corda, violini, viole, contrabbassi, chitarre e mandolini furono costruiti nel campo ...in tal modo nacquero orchestre, orchestrine (campo americano di Orano):

In ogni campo si organizzò un giornale murale. Quando le con­dizioni lo permisero, per soddisfare meglio l'esigenza di infor­mazione dei prigionieri e con il beneplacito dei detentori nei diversi campi, vennero stampati periodici tirati in più copie. L'autorità di custodia conservò sempre il rigido controllo sulle notizie che venivano diffuse .
...viene anche stampato, impresa che dapprima sembrava im­possibile data la mancanza d'inchiostro e persino di una ma­tita, un giornale del campo. II primo numero fu manoscritto ed affisso al fianco di una baracca (campo francese di Orano).

Avere notizie sull'andamento della guerra e inerenti alla Patria lontana era per tutti i prigionieri di estrema importanza. Le in­formazioni trasmesse erano ovviamente solo quelle conformi alla logica ed agli interessi del detentore.
.gli inglesi, che sono degli innati psicologi, manovravano con raffinata maestria i moti del nostro animo tramite radioreticolato, propagavano ad arte le notizie più disparate e disperate: un giorno ci mandavano in visibilio con notizie di fulgide vittorie italiane, che qualche giorno dopo venivano smentite od addi­rittura capovolte , con l'effetto che ognuno potrà immaginare. Questi alti e bassi che il nostro stato d'animo seguiva e subiva quasi passivamente, unitamente alla super‑denutrizione, ci debilitavano, lasciandoci in uno strato di prostrazione vera­mente preoccupante; i deboli venivano così stroncati ed i for­ti, ridotti a cenci umani. (Luigi Avanzini)

....da quando l'apparecchio cominciò a funzionare.. stetti in ascolto ogni notte con al cuffia alle orecchie per cinque anni consecu­tivi, in modo che al mattino ogni baracca avesse una copia del notiziario. (Alfio Beretta).

Entravano così nei campi le notizie sulle fasi della guerra ed i prigionieri italiani vivevano nei campi momenti di gran­de gioia o di scoramento, secondo il susseguirsi degli av­venimenti.

domenica 11 novembre 2007


Kindu, il massacro impunito



Sconcertanti rivelazioni sull’eccidio dei 13 avieri massacrati nel 1961



Sull'ultimo numero della rivista bimestrale “'Storia & e Battaglie” un protagonista di quei giorni racconta che i responsabili della strage, avvenuta nel novembre del ’61, furono individuati ed arrestati dalla gendarmeria katanghese di Thsombè, ma successivamente liberati dalle truppe delle Nazioni Unite di stanza in Congo.

Le recenti critiche che giungono da più parti alle Nazioni Unite per la gestione di alcune questioni internazionali, come ad esempio quella della Somalia, trovano un’ eco profonda nelle caligini della secessione del Katanga dal Congo ex Belga, avvenuta oltre quarant’anni fa.
Il dramma katanghese è ancora vivamente impresso nella memoria occidentale e africana, e più particolarmente in quella italiana a causa dell’orrendo eccidio di Kindu, l’11 novembre del 1961, quando 13 avieri italiani trovarono una morte orrenda per mano della soldataglia comunista congolese.
I fatti sono noti, soprattutto ai meno gio­vani tra noi, quella di Kindu è una “pento­laccia" che nessuno ha piacere di riaprire anche a causa delle troppe ombre che sono rimaste sull’intera vicenda, che pesano sul­le Nazioni Unite, sui governi congolese, americano e soprattutto italiano, che non si dette mai troppo da fare per chiarire i con­torni di quella tragedia.
Ma oggi un elemento nuovo si aggiunge alla serie di inettitudini, imprudenze, falsità che circondarono l'episodio di Kindu: a di­stanza di più di quarant'anni, un protagoni­sta di quell'epoca scrive su una rivista sto­rica italiana che il leader katanghese Moisè Thsombè individuò e fece arrestare dalla sua "gendarmerie" i responsabili di quel massacro, che furono però liberati dai caschi blu dell'Onu, prima che potesse aver luogo il processo, in occasione degli avvenimenti successivi che portarono alla capitolazione del grande statista africano.
Il protagonista di questi fatti è Enzo Ge­nerali, giornalista, scrittore, esperto di cose africane, ma soprattutto consigliere politico ed amico personale di Thsombè durante tutti quegli anni nei quali il Congo fu al centro dell'attenzione internazionale. Il tormentato Stato africano, come si ricorderà, fu infatti al centro, degli "appetiti" delle multinazionali dei metalli, delle grandi lobbies americane e non solo, che spesso erano legate a doppio filo con governanti e capi di Stato, africani e occidentali. In quegli anni persino il segretario generale delle Nazioni Unite, lo svedese Dag Hammarskjoeld, perse la vita in un incidente aereo in Rhodesia, mentre si recava a incontrate lo stesso Thsombè, incidente la cui dinamica non è stata a tutt'oggi mai chiarita.
Scrive comunque Generali nel numero attualmente in edicola del bimestrale "Storia & Battaglie" edito dall'Editoriale Lupo: “L’episodio più noto di questo fosco periodo fu il massacro di 13 aviatori che formavano parte del contingente messo a disposizione delle Nazioni Unite dal governo italiano. I piloti avevano trasportato a Kindu, nella provincia del Kivu, alcuni carri malesi e altro materiale (…). Alcuni soldati ubriachi (congolesi del generale Lundula) accusarono gli italiani (che si trovavano alla mensa in compagnia di alcuni caschi blu malesi, ndr) di essere mercenari belgi al servizio di Thsombè; tutto si svolse molto rapidamente: l’uccisione, lo smembramento dei corpi e il macabro banchetto che ne seguì. L’inchiesta dell’Onu - prosegue Generali - fu altrettanto superficiale di quella del governo congolese (che in quei giorni aveva mosso guerra al Katanga secessionista di Thsombè con l'appoggio proprio dell'Onu, ndr) Solo le indagini delle autorità katanghesi, dopo la cattura in combattimento dei veri fomentatori ed esecutori della strage, avrebbero permesso la punizione dei colpevoli. Purtroppo - ricorda ancora il consigliere politico del presidente katanghese - questi furono liberati, prima del processo, dalle truppe dell'Onu, durante gli avvenimenti che portarono alla capitolazione di Thsombè (…)”
Nell’articolo, Enzo Generali si sofferma sulle atrocità commesse dai caschi blu delle Nazioni Unite, in prevalenza indiani, nepalesi, malesi,etiopi e altri. Tra queste atrocità ci furono bombardamenti di ospedali, zone residenziali, cannonate sulle autoambulanze: quest’ultimo particolare, poi, fu ufficializzato dallo stessso comandante generale delle truppe delle Nazioni Unite in Congo, Mc Keown, che in un comunicato annunziò che “tutte le autoambulanze katanghesi sarebbero state mitragliate, perché era possibile che trasportassero mercenari europei”.
Generali ricorda che lo stesso ospedale italiano della Croce Rossa di Elisabethville, capitale del Katanga, fu militarizzato dall'Onu quale posto di combattimento. Proteste si registrarono da parte di tutti i medici, privati e universitari di Elisabethville, ma non sortirono alcun esito.
Leggendo i quotidiani italiani dell'epoca, si ha pressappoco la stessa ricostruzione dell'eccidio a Kindu dei nostri tredici eroici aviatori: l'indignazione del popolo italiano fu enorme, soprattutto in considerazione del fatto che la notizia dell’orribile massacro avvenuto l’11 novembre del 1961, fu pubblicata dai giornali italiani soltanto il giorno 17, sebbene essa fosse trapelata il 15, dopo molte arroganti reticenze da parte del governo congolese del comunista Adoula.
Le famiglie delle vittime vissero l'incredibile stillicidio di notizie provocato dall'imbarazzo del governo di Leopoldville e dalla “prudenza” dell'Onu, sino alla beffa atroce del "colonnello" congolese Pakassa, il quale, prendendosi gioco di tutto il mondo, visse il suo momento di celebrità rispondendo alle pressanti richieste dell'Onu di far luce sui fatti e sulla sorte dei 13 aviatori con queste parole: «Godono di buona salute».
La domanda alla quale nessuno sinora ha dato una risposta e probabilmente destinata a rimanere tale, è la seguente; Mc Keown e Sturo Linner, quest'ultimo capo delle ope­razioni Onu in Congo, conoscevano già dall'11 novembre la sorte degli italiani?
E un altro incredibile particolare ci sbi­gottisce, rileggendo le cronache di Kindu: a quanto pare, i soldati congolesi, a centinaia, avendo scambiato gli italiani per mercenari al servizio di Thsombè, circondarono la base dell'Onu tenuta dai caschi blu malesi e, dopo averli percossi selvaggiamente, imprigionarono per alcune ore i malcapitati aviatori, senza che le truppe dell’Onu facessero assolutamente nulla per opporsi. Non un solo colpo di fucile venne sparato dagli oltre duecento soldati malesi. Il resto è storia di ieri: dopo la fucilazione, i corpi subirono quella sorte atroce che non vogliamo qui ricordare per rispetto alle famiglie.
A quell’epoca, e negli anni successivi, fu solo la Destra italiana che ricordò in ogni anniversario i 13 eroici aviatori morti in Africa al servizio del loro Paese e che incalzò i governi affinchè facessero luce sulle responsabilità, che indubbiamente vi furono, che portarono a quel tragico epilogo. Poteva la tragedia essere evitata? Si sarebbe potuto intervenire, da parte delle truppe dell’Onu, con una maggiore energia? Potevano quelle vite essere salvate? E’ difficile dirlo ma ricordiamo che in occasione di un episodio dai contorni analoghi, quando la soldataglia congolese sequestrò un gruppo di soldati irlandesi, il governo dell'Eire intimò alle Nazioni Unite di intervenire immediatamente, preparando al contempo un contingente di paracadutisti da inviare in Congo.
La verità, per quanto scomoda e brutta, va sempre portata a galla, soprattutto quando essa può contribuire ad evitare che in futuro le forze sovranazionali di pace siano inviate nuovamente in difesa di interessi politici ed economici e non a protezione dei popoli oppressi da dittature quanto mai fe­roci e determinate solo ad arricchirsi. La prova di ciò è che da quelle lontane vicende sorse “l’astro” di Mobutu Sese Seko, sergente ai tempi di Thsombè, che approfittò del cataclisma congolese per mettersi in luce e conquistare il potere a forza di massa­cri e di pulizie etniche, per poi tenere il Congo sotto un giogo durissimo per quasi qua­rant'anni: il tutto sotto gli occhi benevoli dell'Occidente, i cui "cartelli" potevano ora liberamente rifornirsi di tantalite, uranio, oro, diamanti e quant'altro, col solo inco­modo di dover riempire le tasche di Mobu­tu e della sua cricca; ciò che permise al dit­tatore africano, quando vi fu la rivolta, gui­data da Laurent Desirée Kabila, di fuggire nella sua reggia in Costa Azzurra dove poi morì nel lusso più sfrenato.
Ha imparato qualcosa l'Occidente dalla lezione di Kindu quarant'anni dopo? A voi la valutazione, ma ci auguriamo che anche queste ultime, non esaustive ma importanti rivelazioni su quei giorni drammatici, contribuiscano alla riflessione, oltre che naturalmente al ricordo, alla memoria e al rispetto dei nostri Caduti, morti nel tentativo di portare la pace in una nazione che oggi è ben lungi dall'essere pacificata e dove tra poche settimane un nuovo contingente delle Nazioni Unite, composto anche da italiani, sarà inviato.

venerdì 9 novembre 2007

da Con la Folgore prima e dopo El Alamein di Rino Stoppele Capitoli 20 e 21

Capitolo 20°

La «Folgore» visse gli ultimi giorni di El Alamein in un continuo allarme.

I suoi capisaldi si erano riordinati alla meno peggio in tutta fretta dopo i giorni della devastazione.

Gino ogni sera ritornava a vedere di buca in buca i suoi ragazzi, resi ora più sicuri dalla vittoria conseguita sul nemico.

Sognavano anzi di poter riprendere l'offensiva dell'agosto, colpendo sul fianco sinistro l'avversario in movimento e quindi in crisi, per accerchiarlo in una sacca gigantesca, da cui non gli sarebbe stata concessa una via di scampo. Sognavano, naturalmente...

Gino seguiva queste illusioni dei suoi ragazzi, i sogni che accarezzavano così arditamente, convinto che, se a nord avessero mollato, come sembrava, sarebbe stata la fine per tutti.

La «Folgore» poi, schierata all'estremo sud, priva di automezzi, sarebbe stata abbandonata di conseguenza all'inesorabile destino del deserto, che non perdona.

Nei primi giorni di novembre, in piena notte, arrivò l'ordine di ripiegamento su di una linea prestabilita, all'altezza del meridiano di Fuca.

Lasciati alcuni centri di fuoco, per trarre in inganno il nemico, l'allineamento della «Folgore» nel silenzio sovrano di quell'ora tragica si mise lentamente in moto.

1 ragazzi non riuscivano a comprendere, a darsi pace e si chiedevano il perché di tale ordine assurdo; molti di loro avevano gli occhi lucidi di pianto, pensando ai compagni sepolti sotto una spanna di sabbia..., che dovevano abbandonare.

Ogni ufficiale, carta topografica alla mano e bussola, seguiva in testa al proprio reparto l'itinerario di marcia; entro la sera successiva avrebbero dovuto essere lungo i costoni di GebelCalac.

Alla prima luce dell'alba il deserto apparve come un immenso formicaio di uomini, ridotti a larve, che faticosamente arrancavano nella sabbia in direzione ovest. 1 loro occhi erano privi di luce, spenti, stanchi, resi ancora più tremendamente vuoti dall'incavo delle orbite rinsecchite e dagli zigomi sporgenti in un contorno di capelli e barba incolti, arruffati, sporchi di sudore, sangue e sabbia; quel poco di viso raggrinzito ed essiccato dal vento e dal sole, libero di peli, era coperto di mosche appic¬cicaticce, fastidiose, affamate, fetide.
La guerra annienta uomini e mezzi, sconvolge terra e cielo, ma non distrugge le mosche del deserto.
Le divise, stinte dal sole, erano come gli uomini, sporche, a chiazze di sangue, qua e là bruciacchiate, forate, a brandelli.
La massa ripiegava in ordine sparso.
Era per di più formata dai ragazzini della «Pavia», abbrutiti da mesi d'Africa, atterriti e sconvolti dai giorni ultimi della batta¬glia d'ottobre; piangevano, quando arrivavano in linea di rincal¬zo, piangevano ora che la lasciavano!
Il sole stava già trionfando dall'orizzonte, quando i reparti giunsero ad un punto d'incontro. Fu necessario l'immediato intervento degli ufficiali, per impedire che amici e compagni di capisaldi diversi, che da mesi non si vedevano, abbandonassero la propria formazione per correre ad abbracciarsi, In testa si trovava il carrozzone del Comando Divisione, seguito dalle auto ambulanze.
Nella breve sosta Gino presentò il reparto al Comandante di Battaglione: "Un ufficiale, tre sottufficiali e venti paracadutisti; di questi metà feriti più o meno gravi".
Egualmente fecero gli altri Comandanti di Compagnia.
Tutti i reparti erano più che dimezzati. Il Maggiore riuscì a stento a frenare la commozione.
Mentre con i suoi ragazzi Gino stava riprendendo la marcia di ripiegamento, venne avvicinato di corsa dal tenente... del IV BTG., il quale in una esuberante esplosione di gioia, dopo aver¬lo abbracciato, gli disse: "Come vedi, non sono ancora mor¬to...!" e rise forte, isterico.
Gino lo fissò attentamente negli occhi, come volesse leggergli nell'animo, indi: "Ma credi ancora a quelle panzane?" gli chiese. "No, no, ma sai?!..." ed accompagnò quelle parole con un gesto ampio delle braccia, come per dire: non si sa mai, a volte anche le streghe azzeccano giusto.
"Dimmi piuttosto domandò Gino quanti uomini ti sono rimasti in Compagnia?"
"Non molti precisò per tutta risposta, diventando improvvisa¬mente triste purtroppo i più li ho dovuti abbandonare nel deserto e, dopo qualche attimo di assorta meditazione, ho visto gli alpini a combattere sul «Tomori», aggiunse con soddisfazio¬ne, ma posso assicurarti che questi ragazzi non hanno alcunché da invidiare a loro...!"
La marcia riprese lenta e pesante.
I piedi sprofondavano nella sabbia. Gli uomini sfiniti dai mesi di linea e dai giorni della battaglia, curvi sotto il peso delle armi e delle cassette munizioni tiravano avanti con la sola forza della volontà.
Il sudore inondava tutto il corpo e l'arsura divorava sempre più la gola: sete, sole, fame, sudore, mosche, pidocchi, stanchezza, desolazione nell'animo per l'abbandono delle postazioni, dei cari amici scomparsi, odore nauseabondo di sporcizia, fatto più acre dal sudore abbondante, disperazione, che faceva sanguina¬re l'anima.
Tutto questo tremendo calvario pesava su quei ragazzi, che dovevano per obbedienza volgere le spalle ad un nemico, che avevano vinto.
In quel silenzio tragico, rotto soltanto dal monotono, cadenza¬to, tonfo sordo dei piedi nella sabbia, improvvisamente si udì da lontano il rombo di una formazione di aerei.
Istintivamente i ragazzi girarono il capo nella direzione: si trat¬tava di alcuni ricognitori inglesi, che perlustravano il deserto; fecero un ampio giro tutt'intorno due o tre volte, indi a tutto gas ritornarono sui loro passi.
Dopo qualche ora di marcia le colonne si attestarono, per pren¬dere fiato. Invano avevano sperato di poter raggiungere indi¬sturbate l'allineamento delle dune di Gebel Calac. I ragazzi reclamavano acqua. Le borracce erano vuote; sapevano però che non l'avrebbero avuta prima della sera. La marcia riprese più pesante di prima.
Non era ancora mezzogiorno che le colonne vennero improvvi¬samente attaccate da carri armati e da aerei. Fu necessario siste¬mare in fretta i reparti a caposaldo. Gino pensò a quelli rimasti ai centri di fuoco: saranno stati annientati, si disse.
I ragazzi si scavarono in tutta fretta, aiutandosi con il pugnale, la buca, per poter per lo meno proteggere il capo ed il petto dalle schegge delle granate in frantumi, che cadevano come grandine, tutt'intorno. I « 105» divisionali aprirono il fuoco di contro batteria. Gli aerei a bassissima quota spezzonavano e mitragliavano; solo qualche mitragliera da «20» tentò di ostaco¬lare l'offesa aerea sui capisaldi. Così scoperti, privi di riparo, senza alcuna valida reazione antiaerea, nella condizione di non poter fermare i carri, avendo dovuto distruggere i pezzi da « 47» , per non appesantire vieppiù la marcia di ripiegamento, i reparti furono completamente in balia del nemico. In queste condizioni la sofferenza degli uomini aumentò ancor di più, fino a raggiungere la disperazione.
Al calare della sera il nemico cessò improvvisamente il tirò ed indisturbato si preparò il rituale thè. Davanti ai capisaldi della «Folgore» simultaneamente si accesero lungo tutto lo schiera¬mento opposto dei fuocherelli, simili a quelli che usano accen¬dere in montagna lungo i tratturi verdi i pastori, per scaldarsi nelle umide e fredde sere d'autunno. Non c'era tempo da perdere, bisognava sganciarsi al più presto, approfittando delle tenebre venienti. L'ordine fu immediato: seppellire i morti, caricare i feriti sulle auto ambulanze, riempire le borracce, armi e munizioni in spalla e partire.
Gino nel frattempo riuscì a spostarsi di corsa fino alle più vicine autoambulanze: vi trovò in una il veneziano, stava già meglio. C'era anche il Tenente... del IV Battaglione: era stato colpito da una scheggia ad una spalla; una brutta ferita che gli aveva lace¬rato le carni e fracassato la scapola. Il capitano medico gli aveva assicurato che il polmone non era stato offeso; parlava con un fil di voce, tanto che Gino faceva fatica a seguirlo; pregò Pino di aver cura di lui e dei ragazzi.
La marcia riprese più spedita, il fresco della notte dava agli uomini vigore e speranza. Camminavano in silenzio, con il pensiero che volava indietro, vicino e lontano nel tempo e nello spazio; ai compagni caduti ieri, oggi; alle case lontane, alla madre, alla sposa, ai figli, alla ragazza, al padre, ai fratelli.
Dopo qualche ora di luce i mezzi veloci del nemico li raggiun¬sero nuovamente; fu necessario predisporsi immediatamente a capisaldi a raggiera.
L'accanimento del nemico divenne più spietato del deserto.
Data la natura del terreno pietroso, fu difficile per i ragazzi scavarsi con il pugnale anche un minimo riparo. C'erano qua e là dei cespugli secchi e stecchiti, coperti di lumachine, che permisero agli uomini un certo occultamento. Mentre il grandi¬nare delle granate dilaniava carni, armi, mezzi, pietra e sabbia, Gino pensò istintivamente alla Patria lontana: «4 Novembre», giorno della Vittoria della I^ Guerra Mondial... Nelle città, nei paesi, nei casolari sparsi sui monti e nelle valli si celebra oggi l'anniversario di Vittorio Veneto si disse. Rivide la bandiere, i labari, i combattenti con le medaglie sul petto, la gente, i bambini curiosi, allegri, sorridenti... davanti al monumento dei Caduti, ove si legge il bollettino della Vittoria e la banda citta¬dina intona le note solenni del «Piave», squilli d'attenti, presen¬tat'arm, corone d'alloro con nastri tricolori... e dopo: il banchetto, i discorsi, lo spumante, i canti della montagna..., baldoria... "E qui si muore...!" gridò, e si alzò di scatto, correndo qua e là, come cercasse con il petto un colpo in arri¬vo... Era disperato, voleva morire; da giorni gli martellava nel cervello il ricordo lontano di quando bambino vide lo strazio della casa per la morte dello zio prigioniero, il ricordo delle giornate d'angoscia della zia, morta poco dopo di dolore, il ricordo della lettera di un suo compagno prigioniero, che dice¬va: "Morto di patimenti, di stenti, di fame!"
Solo allora s'avvide che non sparavano più.
Si trovava vicino a un ragazzo che agonizzava gemendo; dal ventre squarciato uscivano gli intestini; chiamò, urlò... e venne¬ro i porta feriti...; non lo vollero toccare; nel silenzio repentino gridò: "Meglio ucciderlo, finirlo!"; aveva gli occhi stralunati.
1 ragazzi sorpresi lo stavano a guardare con il capo sollevato dalla sabbia..., quando uno strano mezzo, avanzando veloce, incominciò a sventolare una bandiera bianca.
Il brank carr si avvicinò presto fino a raggiungere i paletti del filo spinato, che delimitava il campo di mine, poste a protezione in tutta fretta lungo i capisaldi; un ufficiale si alzò e con il megafono incominciò a gridare:
"Valorosi soldati della «Folgore», vi siete battuti da leoni; ognuno di voi è un Eroe; il Comandante Supremo, a nome di S.M. Britannica, vi concede l'onore delle armi!; siete senz'acqua, senza viveri, senza munizioni, con poche armi, isolati nel deserto, abbandonati dai vostri alleati, i tedeschi, in fuga verso Tripoli. Non avete più via di scampo, arrendetevi! S.M. Britannica vi concede l'onore delle armi! Eroici ragazzi della «Folgore» arrendetevi o vi annienteremo!"
In un attimo Gino inquadrò la situazione, indi nel silenzio generale gridò l'ordine di sparare alcune raffiche sopra il brank¬car.. Questi, fatto bruscamente dietro front, sparì, lasciandosi dietro una scia di polvere, mentre i carri e gli « 88» riprendeva¬no più violenti di prima il fuoco di annientamento.
I morti cadevano vicino ai morti, i feriti si lamentavano ed i ragazzi dovevano subire passivamente, senza poter sollevare la testa, con nell'anima l'attesa tragica di una imminente agonia.
Al tramonto, cessata la furia devastatrice degli «88» , i reparti ulteriormente dimezzati, ripresero a ripiegare verso ovest.
Era già buio, quando poterono superare l'allineamento dei dossi di Gebel Calac, oltre i quali si presentò un'interminabile piattaforma pietrosa; ricordava il Calvario del Carso. Qui i piedi non affondavano più nella sabbia e per la frescura umida della notte la marcia divenne più spedita. Alla spettrale luce della luna i ragazzi curvi e pesanti sembravano tante ombre grevi, uscite per incanto dalle tombe della valle della morte.
Gino pensava a ciò che era successo in quel giorno, alla propo¬sta di resa con l'onore delle armi; pensava alla promessa di una linea prestabilita, che si doveva raggiungere, espressa nell'ulti¬mo dispaccio di Rommel: "Valorosi ragazzi della «Folgore» vi ordino di ripiegare su linea prestabilita; a guerra vinta sfilerete a Berlino con le migliori truppe tedesche". Pensava ai ragazzi caduti, a quelli che stavano ancora con lui nella notte, vaganti in un deserto sconfinato, dove alle spalle incalzava un nemico veloce ed agguerrito, mentre davanti vi erano soltanto tenebre e morte...
Durante i giorni della battaglia Rommel aveva pure radiotra¬smesso al Comandante della Folgore: "Generale, la prego di invitare i suoi uomini a risparmiarsi!"
"Ma allora, si diceva Gino cadenzando il passo in testa al repar¬to, a che serve risparmiarsi oggi, se domani sarà la fine?; a che serve addestrare i soldati, curarli, educarli, amarli ad un certo momento come fratelli, se poi è destino che la guerra inesora¬bilmente li travolga e li distrugga...? La Patria ha il suo destino e vive per questi suoi figli pensò e solo per questi, che sanno morire e fu pago di questa risposta a tutti i suoi drammatici interrogativi. Dopo un po', a mezza voce, come parlasse a se stesso aggiunse: speriamo che tutto non sia vano!"
La notte stava abbandonando sparse nel nulla le sue ombre e l'ora antelucana stava già tingendo di perla i densi vapori del deserto, quando i mezzi corazzati inglesi a tenaglia serrarono sotto, per incalzare da vicino i ragazzi, onde annientarli. L'orgoglio inglese voleva ad ogni costo e senza perdere ulterio¬re tempo vendicare l'insulto del rifiuto.
Su quell'altopiano bianco e spettrale, nell'incerto crepuscolo dell'alba, iniziò cosi quella che gli inglesi chiamarono: "La battaglia di sterminio dei resti della «Folgore» nel deserto".
Quanto fu lungo i giorno, pochi «105» divisionali e qualche mitragliera da «20» riuscirono a tenere a debita distanza i pode¬rosi mezzi corazzati d'assalto. 1 ragazzi, nell'impossibilità di una qualsiasi protezione, stavano il più possibile diradati ed appiattiti su quelle pietre infuocate dal sole.
"E' impossibile continuare disse Gino al nuovo comandante di battaglione, un tenente anziano, che aveva assunto il coman¬do al posto del Maggiore, divenuto Comandante di Reggimen¬to per la morte del Colonnello gli uomini sono sfiniti, le munizioni sono agli sgoccioli, da qualche giorno siamo senz'acqua, senza viveri; temo che, riprendendo la marcia, ben pochi riusciranno a rimettersi in piedi".
E così fu. L'ufficiale di coda della colonna di sinistra, che segui¬va l'altopiano lungo la depressione, ad un certo momento, incominciò a sparare sui ragazzi, che cadevano sfiniti.
Sandro riuscì a raggiungere con uno sforzo sovrumano la testa della formazione, per avvertire Gino. Questi, senza aprire bocca, fece cenno al sottufficiale di porsi al suo posto e, messosi sul fianco della lunga colonna, attese la coda: osservava alla chiara luce lunare i ragazzi: la testa piegata sul petto, gli occhi spenti, le braccia abbandonate lungo la vita, le gambe che si piegavano ad ogni passo, i piedi che uscivano dagli stivaletti squarciati nudi e sanguinanti... si fece forza lui stesso, per non cedere.
Come giunse l'ultimo uomo, si affiancò al tenente e, dopo qualche passo, senza togliere lo sguardo dalla bianca pietraia luccicante: "Perché hai sparato?" gli chiese.
L'ufficiale non rispose.

Gino ripetè più forte la domanda e si fermò contemporanea¬mente, afferrandolo stretto per un braccio e fissandolo con gli occhi sbarrati, fuori dalle orbite.
Come uscisse da un mondo tutto _ suo, fatto di paure e di incu¬bi: "Perché ho sparato? chiese di rimando, senza aprire gli occhi; e quasi subito Perché non voglio che facciano una stra¬ziante agonia" rispose stanco e si rimise in marcia, mentre Gino rimase immobile a guardarlo, ma dopo qualche passo incerto sembrava un vecchio cadente.
Giratosi di scatto: "Ho paura io gridò con gli occhi pazzi degli avvoltoi, che mi rondano sopra e delle iene, che mi vengono ad annusare... capisci? ed ancora più forte, agitando le braccia follemente non voglio che i miei ragazzi siano divo¬rati dagli sciacalli, prima ancora di morire!" Si rigirò, riprenden¬do la marcia a grandi passi, per raggiungere gli uomini, che incuranti proseguivano per forza d'inerzia.
Pure Gino allungò il passo fino a raggiungerlo, indi: "Al primo alt gli ingiunse passa in testa alla colonna...; prendo io il tuo posto, anzi da questo momento chiudo io la marcia" e si affiancò, proseguendo stancamente, come tutti gli altri.

Capitolo 21 °

A mano a mano che il sole aumentava il calore, i ragazzi crollavano sempre di più... con la bocca bavosa, la lingua ingrossata imploravano: acqua... acqua! Invano Gino cercava di scuoterli, di animarli, di minacciarli; qualcuno, come si riaveva, apriva pigramente gli occhi e, vedendosi la pistola puntata, balbettava a mezza voce: "Mi spari, signor tenente..., non ce la faccio più!" e richiudeva, forse per sempre gli occhi.
Gino con l'animo straziato ed il pianto in gola lo girava a bocconi, perché il sole e gli avvoltoi non lo sfigurassero anzi¬tempo.
Era tremendo per lui dover abbandonare così i suoi soldati. Prima di giungere a tanto, aveva cercato di aiutare qualcuno, sostenendolo per un braccio passato sopra le sue spalle; ma era come si trascinasse dietro un peso morto; dopo pochi metri di inutile sforzo, cadevano pesantemente l'uno sull'altro. Gli inglesi continuarono a sparare per tutto il giorno. Il comandan¬te diede ordine di non attestarsi a difesa, con la speranza di poter raggiungere prima del tramonto la linea prestabilita. Solo i «105» divisionali, in coda alla colonna, di tanto in tanto si fermavano ad aprire il fuoco, per cercare di ostacolare il più possibile l'incalzante pressione dei mezzi nemici.
1 resti della «Folgore» giunsero così al calar della sera entro una conca, limitata da costoni rocciosi posti a semicerchio, con profonde caverne, che permisero sicuro riparo; si aveva l'impressione di trovarsi in un ampio anfiteatro.
Il nemico, mentre gli uomini si abbandonavano, ormai allo stremo delle forze, all'ombra delle caverne, incrociò un tiro violento di «88», come volesse definitivamente sterminarli; solo il riparo naturale poté impedire agli inglesi di raggiungere lo scopo.
Calarono intanto sul deserto le benefiche ombre notturne.
Il comandante pensò fosse giunto il momento di mettere in salvo i feriti e diede ordine alle autoambulanze di proseguire a tutta velocità verso ovest. Pino volle rimanere con i suoi ragazzi. Gli uomini reclamavano acqua; erano talmente sfatti, che non sentivano più il bisogno di cibo, solo la gola bruciava e la lingua si ingrossava per l'arsura.

"Da tre giorni, precisò il veneziano, che stava sdraiato vicino a Gino sotto il cielo stellato, manca qualsiasi collegamento¬radio con il Comando di Corpo d'Armata".
Gino ascoltava in silenzio.
"Tutte le Divisioni italiane non parliamo dei tedeschi aveva¬no gli automezzi, per ripiegare, in caso di sfondamento della linea; solo la «Folgore», all'estremo sud del fronte, è stata abbandonata senza mezzi a questo strano destino...".
Gino mugugnò qualcosa che Pino non riuscì ad afferrare.
"Il comando divisione ha cercato inutilmente di collegarsi via radio... siamo riusciti soltanto oggi a captare qualche comunica¬to dal Cairo...; proprio questa sera parlavano di noi: "la Folgo¬re" dicevano ha resistito nel deserto oltre ogni possibilità umana!"
"Ha resistito ripeté a voce alta Gino, sottolineando le parole ci fanno dunque tutti morti...!" 1 suoi occhi stavano spalancati sulle stelle, ma il suo cuore, la sua anima, erano lontani... e piangeva in silenzio.
Dopo qualche ora di sosta la colonna riprese la marcia, per allontanarsi il più possibile dal nemico che riposava sicuro a breve distanza.
L'inesorabile decimazione dei giorni precedenti continuò non appena il sole incominciò a bruciare uomini e deserto. Si proce¬deva sempre più lentamente.
Il nemico incalzava da vicino. I ragazzi si trascinavano avanti come ombre, incuranti persino dei colpi, che cadevano d'intor¬no; solo la volontà di arrivare alla linea promessa li sorreggeva ancora... !
Il cielo improvvisamente ebbe pietà di loro: in un baleno il sole sparì dietro una nuvolaglia densa, scura, che si allargava con fulminea rapidità, abbassandosi fino a sfiorare le dune, costeg¬gianti la depressione. Un furioso, gigantesco uragano di vento e di acqua si rovesciò fra lampi, tuoni e fulmini a perdita d'occhio; pareva che la notte avesse seguito il giorno, sembrava la fine del mondo. La benefica acqua cadde a catinelle, inzup¬pando in pochi istanti la sabbia.
1 ragazzi felici e rianimati si abbandonavano bocconi di pozzan¬ghera in pozzanghera fra bagliori e tuoni a non finire, bevendo avidamente acqua e sabbia senza interrompere la marcia. Ai piedi di una duna si era formato un fossato colmo d'acqua; i ragazzi tutt'intorno bevevano avidamente, senza curarsi di quello che stagnava sul fondo: bianche ossa e teschi umani. In ognuno rinacque in cuore una nuova speranza: il miracolo di Dio salva i resti della «Folgore» ed il loro pensiero volò alla casa lontana, ai loro cari in straziante trepidazione...
Purtroppo fu una passeggera illusione, perché con la stessa immediatezza con cui si scatenò, la bufera si dileguò ed il cielo ritornò più lucente di prima.
I mezzi nemici serrarono sotto veloci, riprendendo a martellare violenti. Contemporaneamente una divisione corazzata chiuse a tenaglia da ovest, completando l'accerchiamento.
La piana infuocata era tutta disseminata di morti e moribondi, il deserto un immenso cimitero di cadaveri senza tomba.
Il nemico cessò per incanto il fuoco, comprese d'istinto che si stava consumando un rito.
Gino presentò al Generale i reparti: "3 ufficiali, 22 paracaduti¬sti fra sottufficiali e truppa". La «Folgore» aveva perso l'80% dei suoi uomini.
Il Comandante con le lacrime agli occhi ordinò il "presentat'arm" alla bandiera, mentre le fiamme, che già aveva¬no investito il mezzo divisionale, per poi distruggere i docu¬menti, lambivano gemendo il tricolore, che sventolava alto sul Carrozzone Comando.
Immobili sull'attenti i ragazzi piangevano. Il tramonto era di fuoco.
Con la bandiera ardevano il deserto ed il cielo; con il deserto ed il cielo nel tricolore in fiamme gli spiriti dei vivi e dei morti, nudi e puri davanti a Dio ed agli uomini. Era il 6 Novembre 1942, ore sedici.

Cosi fini la «Folgore».

sabato 27 ottobre 2007

Livorno 27 10 2007 Festa della specialità Paracadutisti

Dal Generale Giuseppe Palumbo,
più o meno tutti sanno che il Comandante è per me un padre.

Uscendo dal personale, come sapete Il Generale Palumbo è il Padre e Comandante carismatico dei Paracadutisti d'Italia.

Mi ha raggiunto questa mattina per telefono per rassicurarmi sul suo stato di salute, che è ottimo.

Il leggero "infortunio" dei giorni scorsi, ha lasciato qualche postumo alla mano sinistra in via di risoluzione.

Mi ha letto il telegramma augurale che ha inviato ai suoi Paracadutisti e alla Brigata Paracadutisti Folgore, in occasione della festa della specialità Anniversario della battaglia di El Alamein 23 ottobre 1942 ore 20.20 che ha avuto luogo oggi alla caserma Vannucci di Livorno.

Ve lo riassumo a memoria.

Caserma Vannucci Livorno
Generale Fioravanti
Il Generale Giuseppe Palumbo, ringrazia per l'invito. Impossibilitato ad intervenire alla festa della specialità Paracadutisti causa malattia.
Auguro a tutti voi ogni bene.
Prego vivamente i suoi Paracadutisti d'Italia, ad essere presenti ad EL Alamein e non dimenticare chi è caduto per la Patria.
Questo è un mio Ordine.
Generale Giuseppe Palumbo
In settimana lascerà l'ospedale Militare de Celio per ritornare alla propria abitazione.


giovedì 25 ottobre 2007

Da il Secolo d’Italia


El Alamein
Storia di una Battaglia
L'offensiva nel deserto

CARLO DE RISIO



SESSANTANNI fa, di questi giorni, gli italiani seguivano con interesse e trepidazione le operazioni in Africa Settentrionale, dopo la conquista della piazzaforte di Tobruk, avvenuta il 21 giugno 1942.

Il nome della località, sulla costa mediterranea, aveva trovato ampio spazio nei resoconti giornalistici dei mesi precedenti, perché gli inglesi avevano sostenuto con successo l'assedio degli italo.tedeschi. Ora quella formidabile posizione era caduta, schiudendo insperate possibilità all'Armata di Rommel.

In uno dei loro incontri, Mussolini e Hitler avevano concordato la strategia nello scacchiere mediterraneo. In caso di favorevole esito dell'offensiva in Libia, fissata per il 26 maggio, Rommel si sarebbe dovuto fermare sul confine libico‑egiziano, arroccandosi sulle posizioni di Halfaia e Sollum. Riordinate le forze aeree, sarebbe iniziato l'attacco a Malta (operazione «Hercules»). Soltanto dopo aver assicurate le vie di rifornimento, l'Armata corazzata avrebbe invaso l'Egitto (operazione «Aida»).

Il repentino collasso delle difese di Tobruk mandò all'aria l'intero piano. Rommel, promosso al grado di Feldmaresciallo, montò sul cavallo d'Orlando e puntò su Alessandria, Il Cairo, il Canale di Suez. Fu l'illusione di un attimo. Con le truppe a corto di fiato, la spinta offensiva si esaurì a El Alamein, una sconosciuta località del deserto occidentale egiziano, destinata tuttavia a dare il nome a una delle battaglie decisive del secondo conflitto mondiale.
Winston Churchill si trovava al­la Casa Bianca per importanti col­loqui con Roosevelt, quando giun­se la notizia che Tobruk si era ar­resa.

Il Capo di Stato Maggiore Ge­nerale Imperiale britannico, Alan Brooke, che accompagnava il Pre­mier, scrisse in seguito: «Ricordo questo episodio come se fosse ac­caduto ieri. Churchill e io stava­mo parlando con il Presidente seduti davanti alla sua scrivania, quando Marshall entrò nella stan­za con un foglietto di carta rosa contenente la notizia della cadu­ta di Tobruk. Né Winston né io avevamo mai contemplato questa possibilità, e la notizia fu per noi un colpo terribile».
Churchill, a sua volta, scrisse: «Non cercai di nascondere al Pre­sidente l'emozione provata: era un momento assai amaro. La di­sfatta è una cosa, la vergogna è un'altra».

Appena quattro mesi prima, con la capitolazione di Singapore, 85 mila soldati inglesi e del Commonwealth si erano arresi ai giapponesi. Ora era la volta di al­tri 33 mila soldati inglesi e suda­fricani ad alzare le mani davanti agli italo‑tedeschi.



Roosevelt chiese a Churchill: «Che cosa possiamo fare per voi?». E il Premier, di rimando: «Inviare in Medio Oriente, il più celermente possibile, tutti i carri armati Sherman e tutti i semo­venti che avete». Ma sarebbero i rinforzi arrivati in tempo?
La perdita dell'intero presidio, con sette generali, era di per sé grave, ma non tutto si riduceva a quegli uomini.

Entro il perimetro delimitato dai forti Pilastrino, Solaro, Arien­ti, le truppe dell'Asse avevano preso un cospicuo bottino: 2.000 au­tomezzi, quantitativi di munizio­ni e altro materiale bellico, 2.000 tonnellate di benzina.
Paolo Caccia Dominioni ‑ che nel dopoguerra trascorse anni a El Alamein, all'opera pietosa di raccogliere i resti dei caduti di tutti gli eserciti belligeranti ‑ diede, in un libro che vinse il «Premio Bancarella», una vivida im­magine del bottino fatto a To­bruk: «Vi sono alte piramidi di birra in scatola, baracche strapie­ne di farina bianchissima, di si­garette, di tabacco, di uniformi bellissime: e tonnellate di corredi kaki, quella meravigliosa tela a grossa trama che pare pesante e quando la si mette sembra di por­tare un velo rinfrescatore. E marmiellate, e fiumi di whisky, e scatolame prezioso». Il tutto subito presidiato da sentinelle tedesche «dalla fucilata facile». Secondo l'Intendenza dellÁfrika Korps «per disciplinare la distribuzio­ne», secondo gli scanzonati solda­ti italiani «per beccarsi tutto lo­ro».

Alle 9,45 del 21 giugno, dopo aver accettato la resa dal genera­le sudafricano Klopper, Rommel diramò imperiosamente a tutti i comandi dipendenti il messaggio: «La fortezza di Tobruk ha capito­lato. Tutte le unità si riuniscano e si preparino per l'ulteriore avan­zata». Fino a dove? Che cosa ave­va in mente la vecchia volpe?

Lontano, a migliaia di chilome­tri di distanza, a Palazzo Venezia e al Quartier Generale di Hitler, la vittoria nel deserto ebbe l'effetto di una bomba.
Mussolini cercava da tempo l'oc­casione propizia per mettere pie­de in Libia ed essere poi presen­te nella marcia trionfale delle truppe su Alessandria d'Egitto; Hitler stava ancora scrollandosi di dosso le amarezze di un lungo in­verno che aveva inchiodato le sue truppe sul fronte russo. I capi del­l'Asse avevano insomma «fame» di vittorie, anche per tranquilliz­zare il fronte interno. Per questo, la propaganda, a Roma e a Berlino, diede fiato alle trombe e mai come in quel momento italiani e tedeschi si interessarono alla guerra nel deserto, convinti che fosse «la volta buona» per conse­guire un successo conclusivo.

Al fronte, le cose di presentava­no in maniera diversa.
Erano trascorsi esattamente venticinque giorni da quando, in una notte di plenilunio, Rommel aveva ordinato il «caso Venezia», mettendosi con la sua autoblindo alla testa di 500 carri armati e 10 mila automezzi. Contrariamente alle previsioni, lo sperato «blitz» alle spalle dell'Ottava Armata in­glese si era trasformato in una battaglia di logoramento, con fe­roci scontri tra mezzi corazzati e artiglierie.
A Sidi Muftah, Bir Hacheim, Knightsbridge, il cozzo tra le op­poste forze era stato violento. Poi, la superiorità tattica degli italo-­tedëschi era prevalsa e tra l'll e il 12 giugno ‑ come scrive lo sto­rico Correlli Barnett ‑ «le forze corazzate britanniche, attaccate da tutte le parti, subirono la più grande disfatta della loro storia». Centinaia di carri armati, anneri­ti dagli incendi, punteggiarono il deserto della Marmarica e lenta­mente, ma inesorabilmente, la battuta passò all'Afrika Korps e al Ventesimo Corpo d'Armata italia­no.

L’Ottava Armata inglese non disponeva più di una forza coraz­zata in grado di opporsi alle trup­pe dell'Asse.
Rommel compì una finta in di­rezione della frontiera libico‑egi­ziana; poi tornò indietro e investì Tobruk, trovando intatti (incredi­bile ma vero) i depositi di muni­zioni apprestati nell'autunno del 1941, quando aveva pensato di investire la piazzaforte. Era se­guito l'attacco vittorioso a Tobruk, preceduto da un devastante im­piego dell'aviazione italiana e te­desca.
Anche l'Armata corazzata aveva però pagato un prezzo elevato. Molte unità non avevano più li­neamenti organici e vuoti preoc­cupanti si erano aperti nella 15a e 21a Panzer, nella 90a Divisione leggera tedesca, nella Divisione corazzata «Ariete» e nei ranghi della Divisione motorizzata «Trie­ste»: sensibili anche le perdite subite dalle Divisioni di fanteria del X e XII Corpo d'Armata. Con­clusione: si imponeva una sosta per riprendere fiato, per ricevere rinforzi adeguati e tutto lasciava presagire che gli Alti Comandi, in Italia e in Germania, avrebbero suggerito prudenza nella succes­siva condotta delle operazioni.

A Klessheim, il 28 e 29 aprile, Hitler e Mussolini, accompagnati dai rispettivi capi di Stato Mag­giore, avevano definito un piano complessivo per la guerra nel set­tore mediterraneo.
Forze notevoli erano state adu­nate per eliminare, finalm~e, la spina rappresentata da Malta. Gli aerei, i sommergibili, anche le navi di superficie di base nell'isola, avevano imposto un pesante pe­daggio ai convogli dell'Asse e molti rinforzi erano finiti in fon­do al Mediterraneo.
Lo Stato Maggiore italiano ave­va definito l'Operazione C 3, per conquistare Malta; i tedeschi avevano battezzato quella impegna­tiva impresa «Herkules», un no­me convenzionale quanto mai appropriato. La preparazione era stata curata a dovere e la Dìvisìo­ne paracadutisti «Folgore» si sa­rebbe calata sull'isola insieme con 1a Settima Divisione paraca­dutisti tedesca, precedendo una forza anfibia da sbarco il cui ner­bo era formato dal Reggimento «San Marco» e da un Raggruppa­mento scelto di Camicie Nere: an­che cinque Divisioni di fanteria sarebbero state disponibili per ampliare la testa di ponte e procedere alla conquista dell'intero arcipelago maltese. Non meno di mille aerei avrebbero assicurato il controllo dal cielo.
Quanto alle operazioni in Libia, la conquista di Tobruk e il con­trollo di tutti gli aeroporti fino al confine con l'Egitto sarebbero sta­ti ulteriori apporti per il felice esi­to della duplice operazione C 3 «Herkules». Pertanto, l'Armata co­razzata doveva raggiungere la frontiera egiziana, consolidarsi e consentire il ritiro di aliquote del­l'avìazìone, da concentrare in Sì­cilia.

Già all'indomani del 21 giugno 1942 era ravvisabile qualche in­crinatura nel piano complessivo, con Rommel che, chiaramente, stava prendendo la mano a tutti, avendo ordinato alle sue unità di radunarsi «per l'ulteriore avanza­ta».



«Aida», era l'accattivante nome dato alla offensiva in direzione dell'Egitto, subordinata tuttavia alla conquista di Malta.

Perfino coloro che si trovavano lontano dal campo di battaglia so­gnavano a occhi aperti. Giuseppe Bottai scrisse sul suo Diario: «La fulminea presa di Tobruk, l'avan­zata in Egitto, par che stentino a trovare le vie dell'immaginazio­ne. La gente non osa sperare, cre­dere. Eppure le prospettive sono grandi: conquistato l'Egitto, si può dal Sudan riprendere la via del­l'Etiopia, dove, a detta del mini­stro Piacentini, rimpatriato in questi giorni, i capi abissini ci attenderebbero, avendo essi potuto mettere a raffronto occupazione italiana e occupazione inglese. Perfino il Negus si volgerebbe verso di noi, e al Piacentini par­tente avrebbe detto, dopo un col­loquio: "Siete l'unica faccia sim­patica che ho visto dopo il mio ri­torno", con chiara allusione ai suoi ospiti inglesi».


Così Rommel si oppose all’invasione di Malta



Erwin Rommel, 51 anni, comandante dell'Armata italo‑tedesca in Libia, quando voleva, sapeva essere estremamente maleducato e scostante. Al­bert Kesselring, comandante delle Forze Sud, di sei anni più anziano, pervenuto in età matura all'aviazione, rivelava per contro doti di diplomatico ed era di natura affabile, al punto da essere stato sopran­nominato «il sorridente Albert».
Tra i due non correva buon sangue e la cosa era nota: una «ruggine» destinata a protrar­si e ad influenzare, in seguito, la campagna d'Italia, dopo l'8 settembre 1943.
Sia il Capo di .Stato Maggio­re Generale italiano, Ugo Ca­vallero, sia il generale Ettore Bastico ‑ dal quale Rommel dipendeva, almeno sulla carta ‑ avevano avuto prove ripe­tute della protervia di Rom­mel e dei suoi modi sgarbati. A Cavallero, almeno in una occasione, la «volpe del de­serto» aveva inflitto una anti­camera mortificante e un al­tro generale italiano, Gastone Gambara, sempre per contra­sti con Rommel, era stato ri­chiamato in patria.
Kesselring condivideva pie­namente il parere di Cavalle­ro, circa l'ineludibilità del problema di Malta (la «De­lenda Chartago» del Capo di Stato Maggiore Generale ita­liano).
A detta di von Mellenthin, capo dei servizi informativi dell’Afrika Korps, il colloquio avvenuto il 22 giugno 1942 tra Kesselring e Rommel - con le rovine fumanti di To­bruk, appena conquistata ‑ assume presto toni di striden­te contrasto. Kesselring inten­deva riportare in Sicilia i re­parti aerei che avevano ap­poggiato le operazioni nel de­serto, Rommel sosteneva che erano indispensabili per ap­poggiare l'avanzata in Egitto.
La posta in gioco, chiaramen­te, era la realizzazione oppu­re la rinuncia all'operazione studiata contro Malta. Neppu­re la riacquistata funzione of­fensiva dell'isola, nel Canale di Sicilia, valse a schiodare Rommel dalla caparbia deter­minazione di spingersi in profondità nel territorio egi­ziano, con le forze disponibi­li. Di fronte alle meditate obiezioni di Kesselring, Rommel si rivolse direttamente a Hitler.
Nella successione cronologi­ca degli avvenimenti, il passo compiuto da Rommel acqui­sta una grande importanza, cadendo in un momento di particolare euforia, che si era propagata da Roma a Berlino.
Un osservatore svedese nel­la capitale tedesca riferì in­fatti: «La caduta di Tobruk fe­ce una enorme impressione a Berlino e in tutta la Germa­nia. Il morale si alzò imme­diatamente ad un livello mai più raggiunto dalla conclusio­ne della battaglia di Francia nel 1940. Rommel era l'uomo del giorno, al quale nulla era impossibile. "Forse possiamo vincere la guerra, dopotutto”, dicevano tutti, e si abbando­navano alla gioia di una vit­toria che sentivano essere ve­ramente una vittoria».
Questo diffuso sentimento popolare non poteva non ave­re un’ eco nella Cancelleria e Hitler aveva già pronto il ba­stone di Maresciallo per il suo «soldato al sole» (la qual cosa costrinse Mussolini a fare altrettanto, promuovendo al grado di Maresciallo Cavalle­ro e Bastico: il Duce, ironico, aggiunse: «E non escludo an­che Navarra, il mio usciere»).
Un altro fattore ebbe la sua importanza: la sfiducia di Hi­tler nella Marina italiana e quindi il suo scetticismo sulla effettiva possibilità di conqui­stare Malta, tanto più che l'an­no precedente l'aviolancio su Creta era stato pagato a caro prezzo dai paracadutisti tede­schi e si era sfiorata una bru­ciante sconfitta.
Al generale Student ‑ uno specialista nell'impiego degli aviotrasportati ‑ che perora­va l'attuazione dell'operazio­ne « Herkules» ‑ Hitler, nien­te affatto convinto, disse: «Sa che cosa accadrà? Gli inglesi usciranno con le loro navi da Gibilterra e da Alessandria, e allora gli italiani torneranno in porto e lei resterà piantato in asso sull'isola con i suoi paracadutisti! Le proibisco di tornare in Italia!».
In Africa, intanto, dopo Kes­selring venne il turno di Ba­stico a subire la collera di Rommel.
Quando Bastico, Comandan­te Superiore in Libia, affermò che non avrebbe autorizzato l'avanzata in Egitto, Rommel « irritatissimo uscì villana­mente dal locale della riunio­ne» (questo si legge in una pubblicazione del nostro Uf­ficio Storico): un locale scelto ad hoc dal Comandante del­l'Armata, del tutto spoglio, senza un tavolo e una sedia.
Rommel, quando si tentò di farlo ragionare, si alterò nuo­vamente. Quindi affermò con alterigia: « Sono libero ai fian­chi e sulla fronte. Nessuno può fermarmi. So che a Roma insistono per realizzare l'at­tacco a Malta. Bisognava far­lo prima. Malta, del resto, bombardata a dovere e sorve­gliata dalla Marina italiana, non potrà darci fastidio. Io va­do. Se gli italiani vogliono se­guirci, vengano pure, altri­menti si fermino. Per me è in­differente!». Quindi, cambiò umore. Sorrise a Bastico e soggiunse: «Fin da adesso la invito a colazione al Cairo».
In seguito, consapevole di essere andato oltre il segno, Rommel disse che «non vi era differenza tra tedeschi e ita­liani» e che tutti erano ane­lanti di avanzare in Egitto, fi­no alla conclusione della campagna. In effetti, sulla via Balbia, intasatissima, colonne italiane e tedesche si rincor­revano e si superavano, diret­te verso Oriente. Moltissimi automezzi erano di preda bel­lica, e questo fu causa di ul­teriori dispiaceri per gli in­glesi in fuga, che sovente si consegnarono ai vincitöri, a causa degli equivoci sulla na­zionalità delle colonne avanzanti.
Di fatto, però, della forza iniziale degli italo‑tedeschi non era rimasto molto e le poche decine di carri armati efficienti arrancavano sferra­gliando su piste polverose, sotto un sole rovente. Si avan­zava sulle ali dell'entusiasmo, perché consapevoli che gli in­glesi erano alle corde. Ma i ri­schi erano innegabili, man mano che l'Armata si allonta­nava dalle sue fonti di rifor­nimento.
Kesselring, come si è visto, era contrario a giocare d'az­zardo (disse, profeticamente: «Non credo che possa andare oltre El Alamein. Di questo giudizio mi sento responsabi­le davanti alla storia»). II co­mandante delle Forze Sud stava già facendo il conto de­gli aerei efficienti che, in quel momento, si riducevano a 50­-60 caccia tedeschi e altrettan­ti italiani, mentre i servizi lo­gistici stavano incontrando difficoltà a spostarsi in avan­ti.
Contrarissimo era Bastico, mentre Cavallero cominciava ad adeguarsi alle scelte «politiche» dei capi dell'Asse.
Quanto a Mussolini ‑ che aveva scritto a Hitler, solleci­tando una consistente forni­tura di nafta per la Marina e ricordando che al centro del quadro strategico mediterra­neo rimaneva il problema di Malta ‑ la risposta del Führer valse a convincerlo per la pro­secuzione dell'avanzata in Egitto.
Le espressioni usate da Hitler risultarono musica per le orecchie del Duce. «Il destino ‑ scriveva il Führer ‑ ci ha of­ferto una possibilità che in nessun caso si presenterà una seconda volta sullo stesso tea­tro di guerra. La dea della for­tuna nelle battaglie passa ac­canto ai condottieri soltanto una volta. Chi non l'afferra in un momento simile, non po­trà molto spesso raggiungerla mai più». Espressioni enfati­che a parte, la lettera di Hi­tler conteneva anche una pre­cisazione di carattere operati­vo, perché Rommel poteva fa­re affidamento soltanto sulle forze sul posto.
La mente del Führer, nono­stante tutto, era fissa alla nuo­va offensiva estiva in Russia, che sarebbe scattata il 28 giu­gno: non una sola delle pre­ziose Divisioni corazzate po­teva essere inviata in Libia, come Rommel sperava.
Un meditato giudizio sulla decisione presa di andare avanti, fu quello del generale Giuseppe Mancinelli, all'epo­ca ufficiale di collegamento col comando di Rommel. «Molto si è scritto, con mag­giore o minore competenza su questa decisione e certamente riuscirebbe assai facile oggi, sulla scorta del risultato ne­gativo dell'impresa, sostenere che fu un grave errore. Lo sfruttamento a fondo di un successo tanto rilevante si presentava per Rommel come la naturale, necessaria conse­guenza della vittoria: il co­mandante che non avesse ascoltato questo imperativo, arrestandosi titubante sulla soglia del deserto occidentale egiziano, sarebbe stato certa­mente bollato di incapacità e peggio, nonostante ogni pre­cedente prova in contrario».
Quanto all'impresa di Mal­ta, da anteporre a quella in Egitto, a parte i rischi dell'at­tacco, lo scetticismo, a Roma, era piuttosto diffuso. Orio Vergani racconta che Mario Bacchelli, fratello del roman­ziere Riccardo, destinato co­me ufficiale a prendere parte alla famosa operazione C 3­«Herkules», si dilettava intan­to a dipingere la Scalinata di Trinità dei Monti. Avendo Vergani chiesto lumi a Ciano sul­l'epoca dell'attacco, si sentì ri­spondere dal ministro degli Esteri: «Se Mario Bacchelli aspetta di imbarcarsi per Malta, può continuare a dipinge­re per tutta la vita i paesaggi romani».


Quei carri troppo leggeri





QUANDO a Tripoli sbarcarono i primi reparti del’lAfrika Korps di Rommel, molti italiani piansero: di mortificazione, perché arrivavano i tedeschi a sbro­gliare una situazione diventata per noi molto precaria, dopo la disfatta della Decima Armata di Graziani; di rabbia, perché, per la prima volta, vedevano sfilare una «vera» unità corazzata.
Un anno dopo la comparsa della «volpe del deserto», i vul­nerabili e scadenti carri armati medi italiani erano all'incirca gli stessi, con una tonnellata di peso in più e il solito cannone da 47 millimetri in torretta. L’in­dustria nazionale non aveva sa­puto (o voluto) fare di più, no­nostante l'esistenza di grandi complessi come l'Ansaldo, la Fiat e le acciaierie di Terni.
Ai veterani della Divisione co­razzata «Ariete» si erano ag­giunti i nuovi arrivati della Di­visione «Littorio», inserita nello schieramento proprio all'indo­mani della conquista di Tobruk e della decisione di avanzare in territorio egiziano. Le due Divi­sioni, più la motorizzata «Trie­ste», costituivano il nucleo del Ventesimo Corpo d'Armata, già Corpo di Manovra. Si muoveva­no (prevalentemente a piedi) anche le Divisioni di fanteria «Trento», «Pavia», «Bologna» e «Brescia», su due soli reggimen­ti e con poca artiglieria. Rifatti i conti, era tutto quello che il Re­gio Esercito poteva mettere in campo per una partita impe­gnativa, come la conquista di Alessandria, del Cairo e del Ca­nale di Suez.
In Libia, nel ventennio tra le due guerre mondiali, si erano avvicendati i personaggi di spicco del firmamento militare: da Badoglio a De Bono, da Gra­ziani a Balbo. Ma nessuno di lo­ro aveva convenientemente me­ditato sulla particolarità di quel possibile teatro di operazioni, soprattutto dopo la «crescita» dell'Italia nell'area mediterranea e la spinta espansionistica del regime. Per contro, fin dal 1938, gli inglesi, grazie a un lo­ro eclettico generale divisiona­rio, avevano dato vita a una unità mobile, destinata a diven­tare la Settima Divisione coraz­zata, i «Topi del deserto». Sem­pre gli inglesi, pensavano già a reparti 'motorizzati destinati a operare a largo raggio, come il «Long Range Desert Group», af­fidato ai fratelli Sterling, due baronetti scozzesi convinti, al pari di Lawrence d'Arabia, che il deserto andasse «navigato».
Nulla di tutto questo accadde in campo italiano e la verifica sulla povertà del pensiero mili­tare fu dimostrata dalla prima campagna del 1940‑41, quando due sole Divisioni anglo‑india­ne, per di più incomplete, ebbe­ro ragione sulla Decima Arma­ta, imbottita di uomini, ma pri­va di reparti motoblindati.
Gli industriali italiani conti­nuarono a opporre difficoltà di ogni genere per una produzione di mezzi corazzati adeguata al­le necessità, difendendo stre­nuamente il «mercato», il loro «mercato», basato su una reddi­tizia dimensione «autarchica». Rifiutarono perfino ‑ con l'ap­poggio dello Stato Maggiore ‑di riprodurre su licenza i temi­bili Panzer tedeschi. Il Capo di Stato Maggiore Generale, Ugo Cavallero, succeduto a Badoglio e con una precedente (quanto discussa) esperienza nell’Ansal­do, condivise questa politica. Ad esempio, si preferì insistere sul collaudo di un carro «pesante» nazionale, che non entrò mai in linea, se non dopo l'8 settembre, con i colori tedeschi!
Quanto alle materie prime, quando, dopo l'armistizio, si aprirono i depositi, agli occhi stupefatti dei tedeschi si pre­sentò un quantitativo di molibdeno ‑ essenziale come corret­tivo dell'acciaio ‑ che era supe­riore a quello esistente in tutta l'Europa occupata: e dire che si erano pervicacemente prolun­gati gli esperimenti per la pro­duzione di acciai «autarchici», senza che nessuno avesse mos­so obiezioni di sorta.
I tedeschi, lo stesso Rommel, chiamavano «casse da morto ro­tolanti» gli M 13 e M 14 italia­ni; ma in cuor loro ammiravano gli equipaggi che affrontavano il combattimento con quei mez­zi. Il dottor Monzel, capo degli interpreti tedeschi presso il Ven­tesimo Corpo d'Armata, affermò con commossa consapevolezza: « La probabilità di sopravvivere, durante un attacco, in uno di ta­li carri ‑ dal momento che con questi mezzi non si poteva mi­nimamente parlare di successi militari ‑ stava al di là della sfe­ra cui appartiene il valore come fatto morale».
Un autore inglese, Michael Carver, è andato anche oltre, ri­conoscendo il valore dei reparti corazzati italiani: «Che fossero avversari che era pericoloso sot­tovalutare è chiaramente dimostrato nel corso delle predette battaglie dal comportamento della Divisione corazzata «Arie­te» nonché da un notevole nu­mero di eroiche azioni indivi­duali, compiute specialmente dai bersaglieri».
Per sostenere i carri, il Libia furono inviati pochi gruppi di semoventi da 75 millimetri. Per­ché pochi? Dino Campini, un combattente d'Africa, scrive: Chissà? Forse i semoventi co­stavano meno dei carri, forse rendevano meno all'industria. I semoventi da 75 erano in grado di battere gli Sherman america­ni ma come bersaglio, nei con­fronti dei carri americani, erano pulci, delle terribili pulci che non perdonavano».
Quanto ai rifornimenti ‑ sem­pre problematici, con gli inglesi che falcidiavano i nostri convo­gli ‑ nel giugno 1942, proprio quando si decideva di avanzare in Egitto, risultarono i più bassi dall'inizio della guerra, con 32.327 tonnellate sbarcate in Li­bia, contro un fabbisogno che era più del doppio. I convogli, per muoversi, attingevano nafta alle corazzate e agli incrociatori della Squadra, questa la realtà consacrata dalla storio­grafia. Ma all'8 settembre si sco­prì che esisteva una riserva «in­tangibile» di oltre 58.000 ton­nellate di nafta e la Flotta ita­liana si consegnò a Malta senza problemi di carburante per muoversi da La Spezia, Genova, Pola, Taranto.
Ancora: poco arrivava in Libia, perché poco c'era da imbarcare.
Eppure, nelle «carte di Rom­mel» si legge: «In Italia si tro­vavano, in parte da un anno, cir­ca 2.000 automezzi e quasi 100 cannoni di ogni tipo destinati alle unità tedesche e pronti per il trasporto. Ma questo materia­le veniva mandato in Africa con straordinaria lentezza. Altri 1.000 automezzi e 120 carri ar­mati, con la medesima destina­zione, erano in Germania, pron­ti a essere spediti dietro richie­sta». Forse, a Roma, c'era chi vo­leva che i tedeschi contassero un po' meno di quanto già con­tavano, perché l’Afrika Korps era il nerbo dell'intera Armata d'Africa.
Sempre nel giugno del 1942 ‑incredibile ma vero ‑ cominciavano a partire, dirette sul fron­te russo, le Divisioni dell'Armir. Il che sposta il discorso sulla di­spersione delle forze, un altro capitolo poco conosciuto e poco indagato.
Non era bastata l'infelice cam­pagna di Grecia a privare la Li­bia di mezzi, artiglierie, riforni­menti di ogni genere. Quando si aprì il fronte orientale, venne inviato in Russia il Csir, che da solo assorbì 5.500 automezzi e vari gruppi di artiglieria. Hitler scrisse a Mussolini una lettera, ispirata a buonsenso, nella qua­le chiedeva un maggiore impe­gno italiano in Africa Setten­trionale: così facendo, l'«allea­to» contribuiva alla causa co­mune, peraltro sul fronte di sua competenza. Ma il Csir partì ugualmente, insieme con interi autoreparti, mentre le Divisioni in Libia si muovevano sempre a piedi, soprattutto quelle di fanteria.
Nel giugno 1942 accadde di peggio. Partirono verso la Rus­sia non soltanto le Divisioni del­l’Armir, e l'intero Corpo d'Arma­ta alpino, ma ben 16.700 auto­mezzi, 4.470 motomezzi, 1.130 trattori di artiglieria e tutti gruppi diartiglieria moderni.
Lucio Ceva, certo non tenero col regime fascista e storico del­la Resistenza, scrive: «I combat­tenti d'Africa non videro mai un 75/32 e non conobbero il 75/18 nella sua normale versione au­totrainata mentre ne ebbero po­chissimi nella versione corazza­ta, cioè il «semovente». Trenta­sei moderni anticarro italiani (quelli del 201° reggimento) avrebbero rappresentato un grosso apporto se si pensa che lo schieramento anticarro pe­sante dell'Asse, rappresentato essenzialmente dall'88 tedesco, consistette sempre di poche dozzine di cannoni (...). Nella battaglia del maggio‑giugno 1942 che condusse a El Ala­mein, gli 88 tedeschi erano 48. Essi salirono a 86 solo alla vigi­lia dell'ultima battaglia di El Alamein nell'ottobre 1942. Ne il 75/32 italiano, munito di proiet­tile perforante, era molto infe­riore all'88 tedesco in quanto la differenza di calibro era com­pensata dal minore volume e quindi dalla minore vulnerabi­lità».
Insomma, alla decisione di avanzare in Egitto, nel giugno 1942, non corrispose un ade­guato impegno volto a sostene­re, a tutti i costi, l'Armata d’Africa, dopo cinque settimane di logoranti combattimenti, in con­seguenza dei quali le divisioni non avevano più lineamenti or­ganici e gli uomini erano allo stremo delle forze. Un calcolo miope, pagato poi dall'Asse a ca­rissimo prezzo e con la perdita dell'intero Nord Africa.

«Origliando» alla porta degli inglesi

ALLA vigilia della se­conda offensiva estiva tedesca in Russia, il 19 giugno 1942, i piani della Wehrma­cht finirono fortunosamente nel­le mani dell'Armata Rossa (un corriere tedesco fu costretto a un atterraggio forzato e non fece in tempo a distruggere le preziose carte). Il Maresciallo Timoscenko ritenne di dover informare Sta­lin. Chiamato al telefono, il Si­gnore del Cremlino rispose bru­scamente: «Dite a Timoscenko che i documenti non vincono le guerre». E riappese il ricevitore.
Stalin esagerava, con la sua ri­duttiva valutazione dei «docu­menti», perché nel teatro norda­fricano, per mesi, proprio un «documento», o meglio un codi­ce, influenzò grandemente le operazioni e decise la prosecu­zione dell'offensiva italo‑tedesca in Egitto.





ll «Black Code»

La sottrazione del «Black Co­de», in dotazione agli addetti mi­litari americani, da parte del Sim, a Roma, nell'ambasciata di Palazzo Margherita, costò agli inglesi molto di più di una bat­taglia perduta. Alla poca, cura dell'addetto aeronautico ameri­cano, e capo‑missione, colonnel­lo Norman Fiske, si dovette se due uscieri, infiltrati dal Sim, po­terono prendere il calco delle chiavi della cassaforte. Queste chiavi furono riprodotte e pro­vate; nottetempo, la Sezione «P» (Prelevamento) del Sim, entrò negli uffici degli attaché, apri la cassaforte, prelevò il «Black Co­de», lo fotografò e lo rimise a po­sto, senza destare alcun sospetto.
Quando gli Stati Uniti entraro­no in guerra, il «Black Code» non fu cambiato, per cui con le stesse tabelle cifranti e decifran­ti prelevate dal Sim, cominciò a trasmettere dal Cairo il colon­nello Frank Bonner Fellers, uffi­ciale di collegamento americano col Comando inglese del Medio Oriente, che aveva facile accesso anche nei comandi operativi del­l'Ottava Armata.
Fellers trasmetteva, le antenne del Sim intercettavano e la Se­zione crittografica metteva in chiaro. Rommel, cominciò a­ chiamare «piccoli Fellers» quei preziosi dispacci, che gli forni­vano un quadro dettagliato e ag­giornato delle operazioni e per­fino delle intenzioni dei comandi inglesi (la qual cosa ridimen­siona il leggendario fiuto della «volpe del deserto»).
Un riferimento preciso a que­sta vicenda di codici e di spie si trova nel Diario di Ciano: « 2 febbraio 1942 ‑ Mussolini è molto felice per l'andamento delle ope­razioni in Libia: vuole che vengano spinte a fondo tanto più che da alcune intercettazioni americane risulta che le forze inglesi sono piuttosto squinter­nate». Fellers aveva inoltre infor­mato il Dipartimento della Guerra, a Washington, che unità terrestri e aeree britanniche era­no state trasferite in Estremo Oriente, per fare fronte contro i giapponesi, per cui le forze in­glesi, oltre che essere «squinternate», erano nel particolare mo­mento anche indebolite.
Dal Diario di Ciano
Ancora più circostanziata una annotazione di Ciano all'indo­mani della capitolazione di To­bruk: « 23 gennaio 1942 ‑ Da al­cuni telegrammi intercettati dal­l'osservatore americano al Cai­ro, Fellers, risulta che gli inglesi sono a terra e che se Rommel vuole continuare l'azione ha molte possibilità di arrivare alla zona del Canale».
Che cosa aveva comunicato Fellers a Washington?
Dei 1.564 carri armati che l'Ot­tava Armata britannica aveva il 27 maggio, all'inizio delle ope­razioni, ne erano rimasti 100 al fronte e appena 27 nella zona del Delta: le artiglierie perdute si aggiravano sul 50 per cento; le truppe avevano perduto la fidu­cia nei loro comandanti; il mo­rale della Raf era bassissimo e la «Mediterranean Fleet» era impo­tente.
La valutazione dell'osservato­re americano al Cairo così con­tinuava: « Rommel potrebbe ten­tare l'invasione dell'Egitto dopo un breve periodo di riordina­mento delle proprie unità, du­rante il quale l'Asse potrebbe pe­raltro attaccare Malta, in modo da assicurare un'ininterrotta li­nea di rifornimenti dall'Italia e dalla Grecia».
Gli inglesi, inoltre, attribuiva­no all'Armata italo‑tedesca una forza corazzata ancora temibile: 115 carri, aumentabili a 180 al 25 giugno ed a 200 a fine mese. Il colonnello Fellers concludeva: « Se Rommel ha intenzione di prendere il Delta, ora è il mo­mento opportuno».
Quando questa valutazione dell'osservatore americano giun­se nelle mani di Rommel, questi ebbe un argomento in più per sostenere che le operazioni do­vessero essere spinte a fondo, sia pure con la tensione delle ultime energie e affrontando oltre cin­quecento chilometri «allo scoperto», sotto la minaccia dei bombardieri inglesi.
Prima di riprendere il filo del discorso, è il caso di accennare a quanto scrive il generale Fardel­la, in quanto proprio la decritta­zione dei telegrammi di Fellers contribuì alla «galoppata» in direzione di Alessandria: «Si do­vrebbe concludere che la sagace opera del Servizio Informazioni in tale momento sia stata con­troproducente?». Ma si tratte­rebbe di una forzatura bella e buona, perché le antenne del Sim avevano svolto un lavoro eccellente «origliando» alle pa­reti dei comandi inglesi, grazie ai dispacci di Fellers. La crisi dell'Ottava Armata era innega­bile, al punto che il comandante del Medio Oriente, generale Claude Auchinleck, si era porta­to in prima linea, dopo aver ri­mosso il comandante dell'Ottava Armata, generale Ritchie.
Altri interrogativi
Piuttosto, l'intera vicenda cela tra le sue pieghe altri in­terrogativi, rimasti senza ri­sposta.
E acquisito dalla storiografia sul secondo conflitto mondiale che il sistema elet­tromeccanico inglese «Ultra Secret» leggeva le comunica­zioni tedesche, cifrate con la macchina «Enigma». Ora, i di­spacci di Fellers ‑ messi in chiaro ‑ venivano passati dal Sim al Comando Forze Sud di Kesselring, che li ritrasmette­va a Rommel, con la macchi­na «Enigma», attraverso le antenne di Monte Cavo, sopra Frascati, dove aveva sede il Funkabwehr. Come mai, se «Ultra Secret» aveva sfonda­to le comunicazioni tedesche, non diede l'allarme, in quan­to un flusso ininterrotto di informazioni di prima mano perveniva dal comando di Kesselring a quello di Rom­mel? I’ascolto di «Ultra Se­cret» era discontinuo, come discontinuo era il suo rendi­mento? Non meno di 80mila soldati inglesi e più di 2.000 mezzi corazzati furono elimi­nati anche grazie alla «falla» che si era prodotta al Cairo, sia pure all'insaputa del co­lonnello Fellers (la colpa di tutto era del suo collega di Roma, che si era fatto « soffia­re» il «Black Code», mentre beveva tranquillamente la sua birra nel bar dell'hotel Ambasciatori, in via Veneto).
Non mancarono episodi pa­radossali, perfino grotteschi, a margine di questa vicenda. Il Capo di Stato Maggiore Gene­rale, Cavallero, dopo una visi­ta al comando di Kesselring, convocò d'urgenza a Palazzo Vidoni il capo del Sim, generale Cesare Amé e lo investi in malo modo: «Ho appena avuto un lungo colloquio con Kes­selring: come mai i tedeschi sanno tutto delle operazioni in Africa e noi non sappiamo niente?».
Amé dovette spiegare che ogni mattina, con precedenza assoluta, i dispacci di Fellers, messi in chiaro, venivano co­municati al Comando Supre­mo e che soltanto dopo veni­vano passati al Comando For­ze Sud di Kesselring. La verità era che Cavallero non degnava di uno sguardo il «mattinale» del Sim, contenente le prezio­se intercettazioni ricavate dai dispacci di Fellers al Diparti­mento della Guerra, a Wa­shington.
Un'altra conseguenza delle concitate giornate di fine giu­gno 1942, fu la decisione di Mussolini di recarsi in Libia, per essere presente all'entrata delle truppe vittoriose ad Ales­sandria (in piena notte, fu sve­gliato il maestro Ruccione, perché componesse una can­zone sulla presa di Alessandria).


Lotta sotterranea


Si è sempre fatta molta iro­nia sul cavallo bianco, in sel­la al quale il Duce sperava di entrare nella città mediterra­nea egiziana. In realtà, era iniziata una sotterranea lotta tra tedeschi e italiani sui me­riti della vittoria, e Mussolini si era lamentato che le opera­zioni fossero legate unica­mente al nome di Rommel.
Nel deserto, molto sangue italiano era stato versato e anche i nostri generali stava­no rimanendo sul terreno, co­me i generali Baldassarre e Piacenza.
Sta di fatto che Rommel non gradì affatto la presenza di Mussolini, che gli «rubava la scena», al punto che per ven­ti giorni non trovò tempo e modo di incontrarlo, a riprova del carattere difficile del Maresciallo e della sua estre­ma suscettibilità. In parole povere, quella era una «sua» vittoria, che non intendeva di­videre con nessuno, nemmeno con il Capo del governo italiano e comandante della nazione in guerra. Mussolini rimase in Libia fino al 20 lu­glio, poi fece ritorno a Roma, irritato e deluso.


Mediterraneo, la battaglia parallela

CHE cosa accadeva sul mare e nel cielo, mentre la battaglia infuriava nel deser­to?
A riprova dell'importanza di Malta, per insidiare le linee marittime di rifornimento de­gli italo‑tedeschi, l'Ammiraglio inglese organizzò due convogli, da Oriente (operazione « Vigorous») e da Occidente (operazione «Harpoon») per far pervenire rifornimenti e mate­riali all'isola assediata.
Poiché, a metà giugno 1942, dopo aver assunto l'iniziativa, Rommel controllava l'intera Cirenaica e i relativi aeroporti, il Comando del Medio Oriente decise di attaccare le basi ae­ree dell'Asse con «comman­dos» del «Long Range Desert Group» e sabotatori sbarcati da sommergibili. Il tratto di mare compreso tra la Cirenai­ca e Creta era stato ribattezza­to «viale delle bombe» e ap­punto contro i due obiettivi venne concentrata l'élite degli assaltatori.
I’ennesimo dispaccio del co­lonnello Frank Bonner Fellers, intercettato e messo in chiaro dal Sim, valse a dare l'allarme. Sempre convinto che il «Black Code» fosse a prova di sfonda­mento, Fellers aveva candida­mente comunicato al Diparti­mento della Guerra a Wa­shington: «La notte tra il 12 e il 13 giugno, unità di sabota­tori britannici effettueranno un attacco simultaneo contro gli aerei di nove aeroporti dell'Asse».
Nelle basi di Martuba ed El Fteiah, gli incursori inglesi fu­rono in gran parte catturati o uccisi; limitati i danni in altri due aeroporti. A Creta, invece, i tedeschi si fecero sorprende­re perdendo 28 aerei, 100mila litri di benzina e 400 bombe. Ma, grazie alla loro organizza­zione, i comandi della Luftwaf­fe fecero affluire altri aerei dalla Grecia e ristabilirono la situazione.
L’azione simultanea dei «commandos» era dunque fallita e il convoglio inglese pro­veniente da Oriente era espo­sto, come in precedenti casi, al­l'offesa aerea. Da Taranto, era uscito il nerbo della Squadra Navale italiana e, prima del contatto, si assistette a una se­rie di inversioni di rotta degli inglesi, i quali, alla fine, ri­nunciarono a proseguire, non senza aver perduto navi da guerra e mercantili, ad opera di aerei, sommergibili e motosiluranti. Un pessimo esordio delle due operazioni combina­te da Gibilterra e da Alessan­dria.
Quanto all'altro convoglio, quello proveniente da Occi­dente, prima fu attaccato dall'aria, poi dalla Settima Divi­sione Navale, nelle acque di Pantelleria.
Gli incrociatori «Eugenio di Savoia» e «Montecuccoli», rientrarono nel porto di Napo­li con i cannoni alla massima elevazione, in segno di vitto­ria. Mussolini decorò tutti, per quello che sembrava un indi­scutibile successo (il Duce af­fermò, con enfasi, che «per la prima volta il leone inglese aveva avvertito nelle sue carni il morso della lupa di Roma»).
Purtroppo, c'era molta esage­razione e la verità venne subi­to a galla. La registrò, al soli­to, Ciano nel suo Diario: «Da un colloquio con Bigliardi (Candido Bigliardi, comandan­te di Marina) ho appreso che i risultati della battaglia aero­navale sono stati ben più mo­desti di quanto non si sia an­nunciato. Le navi mercantili sono state in realtà colpite e molte affondate, ma le perdite del naviglio militare britanni­co si riducono a un incrociato­re ‑ non certo ‑ e ad un cac­ciatorpediniere certo. Infatti, l'incrociatore «Cairo» era stato leggermente danneggiato, mentre il cacciatorpediniere di squadra «Bedouin» era andato a fondo.
L'«Operazione Mezzo Giu­gno» ‑ tale la denominazione data dagli Stati Maggiori ita­liani ‑ fece comunque regi­strare un «fiasco» degli inglesi: su diciassette mercantili diret­ti a Malta ne giunsero a desti­nazione appena due, troppo poco per risollevare le sorti dell'isola.
La guerra sul mare rincrudi­va anche per noi: siluramento della nave da battaglia «Litto­rio», perdita dell'incrociatore pesante «Trento», danneggia­mento grave del cacciatorpe­diniere «Vivaldi». Soprattutto, era ricominciato lo stillicidio dei mercantili affondati, pro­prio quando la battaglia in corso nel deserto divorava uo­mini, carri armati, automezzi, artiglierie e imponeva un con­sumo crescente di carburanti. Perdita del «Giuliani», del «Reichenfels», del «Santanto­nio», del «Regulus». Tutti affondamenti da attribuire al­l'intercettazione delle comuni­cazioni tedesche da parte degli inglesi? Non sempre. Il so­spetto che ci fosse qualcosa di torbido, di oscuro si era insi­nuato da tempo anche a Pa­lazzo Vidoni, sede dello Stato Maggiore Generale, ed era la dannazione dei servizi di sicu­rezza. Il dubbio era se lo spio­naggio avveniva nei porti, op­pure a Roma e, fatte le dovute verifiche, si propendeva per questa seconda ipotesi.
Categorico il parere di Rom­mel, forse non dovuto soltanto a malanimo nei confronti degli italiani: «La sicurezza dei con­vogli marittimi era affidata al­la Marina italiana. Gran parte degli ufficiali di Marina italia­ni non erano per Mussolini e avrebbero volentieri visto la nostra disfatta, anziché la no­stra vittoria. Perciò facevano opera di sabotaggio dovunque potessero. Non se ne traevano però le conseguenze politiche».
Rincrudiva anche la guerra aerea. Perfino i tedeschi soffri­vano del «mal di Malta», per­ché nel cielo dell'isola il tasso delle perdite continuava a sa­lire. Non per niente, nei primi due anni di guerra, la Luftwaf­fe ci rimise 897 aerei di tutti i tipi, 570 bombardieri e caccia l'Aeronautica italiana, mentre la Raf cancellava dai propri re­gistri 844 tra «Spitfire» e «Hur­ricane».
Con caparbietà, la Marina inglese continuava i lanci a di­stanza degli aerei diretti a Malta, facendo uscire le por­taerei che si portavano all'al­tezza del meridiano di Algeri, per le operazioni di involo, sempre a rischio; perché le grandi navi con ponte di volo potevano finire a fondo, al pa­ri dell'«Ark Royal» e della «Eagle», colate a picco dai som­mergibili tedeschi in due for­tunate ma ardimentose azioni.
Era nel deserto, tuttavia, che il confronto tra le opposte aviazioni era diventato terribilmente impegnativo per uo­mini e macchine.
Gli Alleati avevano inaugu­rato un ponte aereo tra Tako­radi (Costa d'Oro, nell'Africa Occidentale) e Khartum, nel Sudan, per poi raggiungere i campi egiziani. Gli aerei arri­vavano nel porto africano smontati in casse e una gran­de organizzazione logistica era stata impiantata per il mon­taggio, il concentramento de­gli specialisti e del personale di volo. Beneficiaria di questo impegno gravoso, la «Western Desert Air Force», destinata ad appoggiare l'Ottava Armata e a bombardare i lontani centri di rifornimento dell'Asse. Con l'intervento degli Stati Uniti, il «ponte aereo» di Takoradi era stato ulteriormente potenziato.
Quanto alla qualità degli ae­rei, la Regia Aeronautica, met­tendo in linea i Macchi MC 202, aveva, in parte, ridotto il divario tecnico con i caccia in­glesi, sempre numericamente superiori.
Nonostante gli appelli, le in­timazioni, gli anatemi, l'indu­stria aeronautica italiana non era riuscita a standardizzare la produzione ed a disporre, ad esempio, di un bombardiere a tuffo (l'aviazione tedesca aveva ceduto un centinaio di «Stuka», da noi ribattezzati «picchiatelli»). Per la specialità dell'assalto, in Africa Setten­trionale si continuò ad andare avanti con i biplani! Scrisse un comandante inglese: «Vedo passare, alti nel cielo, i biplani italiani Fiat CR 42: non so se ridere di scherno o piangere di commozione».
I biplani, arcaici, superatissi­mi, continuarono a uscire dal­le catene di montaggio fino al 1943! Questo accadeva in Ita­lia, dove era semplicemente improponibile il raffronto con Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania e Giappone. Si pen­si che gli aerei bellici entrati in linea tra il 10 giugno 1940 e l'8 settembre 1943 furono 7.844, che rappresentavano, in cifra tonda, gli 8/9 della mas­sima produzione americana di un mese.
Dopo il sacrificio della Quin­ta Squadra Aerea nella prima campagna del 1940‑41, gli stormi e i gruppi della Regia Aeronautica continuarono ad affluire in Libia; ma quasi mai, nemmeno con l'appoggio tede­sco, fu possibile pareggiare il numero degli apparecchi a di­sposizione della «Western De­sert Air Force». E un esercito privo di adeguato «ombrello aereo» era condannato alla di­struzione.
Quando Rommel, sordo a ogni invito alla prudenza, superò la frontiera libico‑egiziana, tornò a udire il rombo de­gli aerei della Raf e il crepitio i delle armi di bordo. Una squa­driglia dopo l'altra, gli si av­ventarono contro i 200 bom­bardieri e i 160 caccia con le coccarde inglesi, ancora dispo­nibili nel deserto occidentale.
Una ennesima baruffa si verificò tra Rommel e Kessel­ring, perché questi chiedeva un adeguato numero di auto­mezzi, per portare avanti il di­spositivo logistico della Luftwaffe. Nonostante il gran­de bottino fatto a Tobruk, i vari comandi erano sempre alle prese con la motorizzazione dei reparti e ognuno di essi di­fendeva il possesso anche de­ gli automezzi di preda bellica.
Né era sperabile un sostanzio­so rinforzo. Hitler aveva messo le mani avanti, nella lettera indirizzata a Mussolini, dopo la resa di Tobruk: «Ordinate il proseguimento delle operazio­ni fino al completo annienta­mento delle truppe britanni­che, fino a che il Vostro Co­mando ed il Maresciallo Rom­mel crederanno di poterlo fa­re militarmente con le loro forze

Luglio ’42, l’iniziativa passa agli inglesi


LA più incredibile delle vittorie, e insieme la dimostra­zione del forte ascendente esercitato da Rommel anche sui gene­rali inglesi, fu quella di Marsa Matruh, il 28 e 29 giugno 1942. Nonostante l'impegno perso­nale del comandante in capo del Medio Oriente, Claude Au­chinleck, l'Ottava Armata britannica non era riuscita a «interporre distanza» con gli italo­-tedeschi.
Le Divisioni dell'Asse erano tali soltanto di nome, coi bat­taglioni ridotti a duecento uo­mini e con poche decine di car­ri armati. Pure, l'azzardata ma­novra di Rommel riuscì. Quasi ipnotizzati, gli inglesi non fu­rono capaci di impiegare al meglio i loro 150 carri e la Se­conda Divisione Neozelandese, agguerrita e appena giunta dalla Siria.
Quando gli ultimi spari si spensero nel perimetro del campo trincerato di Marsa Matruh, altri seimila soldati in­glesi e indiani furono presi pri­gionieri, 40 i carri armati di­strutti. Ma il grosso delle fan­terie poté essere schierato più indietro, a El Alamein (in ara­bo, «due bandiere»), che cominciò a figurare nei bollettini di guerra.
Nel 1940, il prestigioso gene­rale francese Maxime Wey­gand, comandante dell'«Armée d'Orient», era stato prodigo di consigli su come sfruttare la «strozzatura» del deserto occi­dentale egiziano, tra El Ala­mein e la Depressione di Qat­tara, una sessantina di chilo­metri più a sud, una orrida zona 134 metri sotto il livello del mare, costellata di sabbie mo­bili.
Arrivo a El Alamein
Schierato l'esercito, trincerato in una serie di «box», Auchinleck at­tese l'attacco di Rommel. Molti uf­ficiali inglesi scoprivano che a El Alamein non c'era alcuna «linea», ma il solito deserto, dove rilievi appena percettibili del terreno di­ventavano di grande importanza tattica.
Superate le località costiere di Fuka, el Dabà, Sidi Rahman, gli italiani giunsero davanti alla stazioncina di El Alamein per saggiare la consistenza di quel­l'ultima posizione, un centinaio di chilometri da Alessandria.
Gli uomini erano però esausti e si addormentavano alla guida degli automezzi, sognando una nuotata nel mare azzurro, che si estendeva oltre una spiaggia dalla sabbia bianchissima. L’A­frika Korps era rimasto con 55 carri armati efficienti, e con 14 carri il Ventesimo Corpo d'Ar­mata italiano.
Il resto arrancava più indie­tro, sgranato lungo i cinque­cento chilometri che correvano dalla frontiera libica a quella fluttuante prima linea.
Il generale Auchinleck, vero protagonista di quelle ore così cariche di destino, era consape­vole che Rommel si era spinto troppo in avanti, con la tensio­ne delle ultime forze. Pertanto, indirizzò alle truppe un non rassegnato messaggio, facendo appello alla tradizionale tena­cia britannica, specialmente nei momenti di crisi: «Il nemico si è esteso sino all'estremo limite, e crede che noi siamo un'arma­ta battuta. La sua tattica contro i neozelandesi è stata assoluta­mente inefficace. Egli spera di prendere l'Egitto con un bluff. Mostriamogli che si sbaglia».
Il comandante in capo non poteva che esprimersi in questi termini. Ma al Cairo ci si preparava al peggio: nell'amba­sciata inglese si bruciavano gli archivi, ed era stato proclamato lo stato d'assedio. Molti coman­di stavano sfollando in Palesti­na e nell'Alto Nilo. Anche il re, Faruk, aveva pronte le valigie; ma molti suoi giovani ufficiali, come Anwar el Sadat ‑ futuro Presidente egiziano ‑ si prepa­ravano ad accogliere gli italiani e i tedeschi come liberatori.
La bella danzatrice del ventre, Mehkmet Fahmy, aveva provo­catoriamente ballato il «valzer di Tobruk» (dopo la resa della piazzaforte) scatenando una ris­sa nel «Kit Kat», un locale not­turno, tra gli egiziani e i mili­tari inglesi. Mehkmet Fahmy era una spia dell'Abwehr (il ser­vizio informazioni militare te­desco) e l'ammiraglio Canaris disponeva di altri elementi per tenere d'occhio il fronte interno egiziano e sorvegliare gli ingle­si al Cairo.
Dal 1° al 3 luglio Rommel tentò di sfondare, ma fu re­spinto. Per avere ragione di una Brigata indiana, appena giunta dall'Iraq, 18 dei 55 carri de11Á­frika Korp rimasero immobili sul terreno.Cede l'«Ariete»
Quando il comandante dell'a­viazione lo informò che la flot­ta inglese aveva sgombrato il porto di Alessandria, Rommel ordinò perentoriamente: «Esi­go un energico attacco da tutto l Alfrika Korps». Ma Auchinleck tenne duro e un micidiale tiro di artiglieria, da nord, da est, da sud, investì le colonne ita­liane e tedesche.
In modo del tutto inatteso, ce­dette l'«Ariete», con i suoi pochi carri e le artiglierie: lentamen­te, l'iniziativa tattica passava agli inglesi. Dopo tre giorni di tentativi, l'Armata‑fantasma di Rommel fu costretta ad assu­mere uno schieramento difen­sivo.
« La nostra forza è svanita», fu costretto ad ammettere il Ma­resciallo. I fatti davano ragione a Kesselring, il quale aveva lu­cidamente predetto: « Non cre­do che possa andare oltre El Alamein».
Una dopo l'altra, cedevano an­che le Divisioni italiane di fan­teria del Decimo e Ventunesi­mo Corpo d'Armata. La «défail­lance» della «Sabratha», appe­na inserita in linea e non an­cora bene orientata, ebbe con­seguenze gravi per tutta l'Armata.
Per tamponare là falla, anche la Compagnia Intercettazioni di Rommel venne improvvida­mente portata avanti, insieme con i fanti della 164 Divisione tedesca, appena giunti da Cre­ta. Reparti della Nona Divisio­ne australiana piombarono sul­la «Horck Kompanie» coman­data dall'abile capitano Alfred Seebhom, che nello scontro ri­mase mortalmente ferito.
Tutti i documenti rinvenuti negli automezzi, irti di anten­ne, furono passati al vaglio, comprese molte tracce delle in­tercettazioni dei dispacci di Fel­lers, il colonnello americano di­staccato presso il comando del Medio Oriente al Cairo.
David Khan, storico della crit­tografia americana, ha scritto: « E che razza di dispacci erano! Fornivano a Rommel, fuori di ogni dubbio, il più ampio e il più chiaro quadro delle forze e delle intenzioni avversarie che un comandante dell'Asse abbia mai avuto durante tutta la guerra».
La «buona fonte», che aveva consentito a Rommel di ori­gliare alle pareti del comando Medio Oriente e dell'Ottava Ar­mata, si inaridì di colpo. Gli inglesi, con garbo, informarono il colonnello Frank Bonner Fel­lers dell'«infortunio» nel quale era incappato (ma la colpa di quell'incredibile vicenda era del colonnello Norman Fiske, il quale, a Roma, si era fatto «sof­fiare» il « Black Code» degli ad­detti militari statunitensi dagli «uomini ombra» del Sim).
Roosevelt richiamò in patria Fellers e ordinò un'inchiesta, sul cui esito gli americani non hanno mai detto una parola. Ancora oggi non se ne sa nien­te.
Il capo del Sim, generale Ce­sare Amé, aggiunse dell'altro, scrivendo: «Dopo il 1945 fu pa­lese e insistente il proposito americano di soffocare l'episo­dio nell'oblio, ed a tale intento furono rivolte sollecitazioni e cauti inviti anche all'ex capo del Sim, da parte del Servizio Informazioni americano. Ma senza esito. Era del resto chia­ra e fondamentale l'importanza del caso, che coi suoi riflessi e sviluppi aveva improntato l'in­tera vicenda bellica in Nord Africa in momenti e condizioni tali da non poter essere trascu­rato senza spezzare la correla­zione degli avvenimenti. Da parte inglese l'episodio non creò né alimentò suscettibilità, per quanto fossero stati proprio gli inglesi a sopportarne le con­seguenze».
Infatti, i «piccoli Fellers» ‑ co­me Rommel chiamava i pre­ziosi dispacci ‑ avevano, con­tribuito a una serie di rovesci inglesi, da gennaio a giugno, con la perdita di 80 mila uo­mini e più di 2.000 mezzi co­razzati.
In luglio, Rommel fu costret­to a un continuo lavoro di «rammendo» della linea, per­ché gli inglesi continuavano ad attaccare. A un certo punto, il comandante dell'Armata prese anche in considerazione un ar­retramento alla frontiera libi­ca; ma i fattori «politici» erano ormai predominanti, e gli fu ordinato di tenere a tutti i costi il fronte.
Elogio agli italiani
Circa il cedimento degli ita­liani, Rommel, nel libro «Guer­ra senza odio», riconobbe che con il loro cattivo armamento, non si poteva chiedere di più agli alleati. Scrisse anche: «Bi­sogna dire che le prestazioni di tutte le unità italiane, ma spe­cialmente delle unità motoriz­zate, superarono di molto ciò che l'esercito italiano ha fatto negli ultimi. decenni. Molti ge­nerali e ufficiali suscitarono la nostra ammirazione dal punto di vista umano come da quel­lo militare».
«La sconfitta degli italiani ‑scrisse anche Rommel ‑ fu una conseguenza dell'intero siste­ma militare e statale italiano, del cattivo armamento e del poco interesse che molte alte personalità, capi militari e uo­mini di Stato, avevano per que­sta guerra».

Non fu tutta colpa «di Enigma»

LEGGERE attentamente il Diario del Capo di Stato Maggiore Generale, Ugo Cavallero, significa comprendere quali (inutili) sforzi egli compì per coordinare l'azione delle tre forze armate. Perché mai fu uguagliata, da parte italiana, la stretta unità d'azione tra Ottava Armata inglese, Royal Navy e Raf. Per Cavallero era difficile anche farsi obbedire:
«Perdita del "Carbonia" (un mercantile). Informo l'ammiraglio Riccardi (Capo di Stato Maggiore della Marina) che ho appreso la notizia dal Maresciallo Rommel. Insisto per un maggiore collegamento». Ancora: «Telefono a Riccardi: affondamento "Istria". Faccio rilevare che la notizia è giunta in ritardo. La perdita è grave». Non basta. «Occorre insistere molto per ottenere dalla Marina quello che si chiede». Quindi una annotazione sconsolata: «Noi non possiamo perdere le navi e il carburante in questo modo! Ho la sensazione che la responsabilità non è stata sentita nella sua importanza fin dal principio».
Non andavano molto meglio le cose col generale Rino Rougier (Capo di Stato Maggiore dell'Aeronautica), il quale disertava le riunioni e si faceva sostituire dal Sottocapo, generale Santoro. Sovente, la scorta ai mercantili non era assicurata con un adeguato numero di caccia, e carichi preziosi finivano in fondo al Mediterraneo.
Prendiamo il caso del «Monviso», una motonave, perduta come tante altre. «Aveva ‑ è sempre Cavallero che scrive ‑2.860 tonnellate di materiali vari più 400 tonnellate di carburante nostro e 200 dei tedeschi. Aveva 6 motocarrelli e 120 automezzi, 7 autoblindo tedesche e 11 carri armati nostri». La serie degli affondamenti di carichi indispensabili era senza fine: 54 automezzi e 10 carri armati tedeschi sull'«Apuania», 3000 metri cubi di carburante e un gruppo di semoventi sul «Pisani», 150 automezzi sul «Dandolo», e così via.
Nell'agosto del 1942 ben dieci motonavi e piroscafi carichi fu­rono affondati. Successi da ascri­vere, in tutti i casi, all'intercetta­zione di «Enigma», la macchina cifrante tedesca? Non sempre. Ci fu anche dolo. Non si spieghe­rebbe, diversamente, perché gli Alleati, nel Trattato di Pace con l'Italia, firmato il 10 febbraio 1947 a Parigi, inserirono l'artico­lo 16, che recitava: «I’Italia non incriminerà né molesterà i cittadini italiani, particolarmente i componenti delle Forze Armate, per il solo fatto di aver espresso simpatia per la causa delle Po­tenze Alleate e Associate o di aver svolto azione a favore della causa stessa durante il periodo compreso tra il 10 giugno 1940 e la data di entrata in vigore del presente Trattato». Questo nel te­sto francese, quello ufficiale. Nel­la versione inglese invece si leg­ge «...compresi i componenti delle Forze Armate».
Impensabile che gli Alleati pre­tesero un articolo del genere (in­dubbiamente vergognoso) per «coprire» figure di secondo piano e non piuttosto ufficiali superio­ri che si trovavano nei vari «su­percomandi».
Insieme con le oltre 60mila tonnellate di naviglio andate a fondo in agosto, si perdettero in­teri battaglioni corazzati, auto­gruppi, migliaia di tonnellate di carburante, artiglierie, viveri, rifornimenti di ogni genere. Que­sto accadeva mentre, un miglio dopo l'altro, attraversava l'Atlan­tico, l'Oceano Indiano e il Mar Rosso un grande convoglio al­leato di 100 mila tonnellate, sul quale erano stati caricati 300 carri pesanti americani « Sher­man» e 100 semoventi da 105 millimetri (la nave sulla quale erano stati caricati i motori degli «Sherman» venne affondata da un sommergibile tedesco; senza dire una parola, gli americani fe­cero partire un'altra nave, con un ugual numero di motori).
Importanti mutamenti avveni­vano intanto negli alti comandi inglesi. Se l'Egitto era stato salvato, lo si doveva al generale Au­chinleck, il quale aveva evitato che l'Ottava Armata ripiegasse fi­no in Palestina.
Come scrive Alan Moorehead nella sua «trilogia africana»: «Dopo l'Egitto sarebbe caduta Malta, che significava il control­lo del Mediterraneo. Avremmo perduto il canale di Suez, e con esso depositi e materiali cin­quanta volte più importanti di quelli lasciati a Tobruk. Suez, Porto Said, Alessandria, Beirut e Tripoli di Siria avrebbero fatto la stessa fine. Di conseguenza, Pa­lestina e Siria non potevano spe­rare di resistere, e una volta giunti a Gerusalemme e Dama­sco i tedeschi sarebbero stati in vista dei pozzi di petrolio, e la Turchia sarebbe rimasta pratica­mente circondata. Il Mar Rosso sarebbe diventato un lago del­l'Asse, e, una volta sboccata nel­l'Oceano Indiano, la flotta italia­na avrebbe potuto controllare tutte le rotte per l'Africa, l'India e l'Australia. Il nemico si sarebbe avvicinato da due lati all'India, e il fianco sinistro dell'esercito russo si sarebbe trovato pericolosa­mente esposto».
Winston Churchill, lungi dal­l'essere riconoscente col genera­le Claude Auchinleck, il quale aveva fermato gli italo‑tedeschi a El Alamein, preparò la sua ri­mozione. In agosto, il Premier ‑ diretto a Mosca, compiendo un lungo giro in aereo ‑ sostò al Cairo, all'andata e al ritorno. Con rabbia, Churchill esclamò: «Rom­mel! Rommel! Rommel! Bisogna sconfiggerlo a tutti i costi». E tirò fuori il suo asso nella manica, d'accordo col Capo di Stato Mag­giore Generale Imperiale, Alan Brooke.
Al comando dell'Ottava Arma­ta fu designato il generale Ber­nard L. Montgomery, al comando del Medio Oriente il generale Harold Alexander. Montgomery, legnoso, pieno di sé, si insediò addirittura prima che Auchinleck lasciasse il suo quartier generale. II futuro visconte di El Alamein non trovò soltanto le cose aggiu­state, ma anche definito il piano, nelle linee generali, per sventare l'ultimo tentativo degli italo‑tedeschi di sfondare in direzione di Alessandria e del Delta.
La grande paura di luglio era alle spalle e la Nona e Decima Armata, nel Vicino e Medio Oriente, avevano ceduto alla Ot­tava uomini e mezzi, sempre in attesa dei carri armati «made in Usa» che Roosevelt e Marshall avevano ceduto agli alleati in­glesi in un momento di sconfor­to e di crisi.
Da parte dell'Asse, non vi fu certo la volontà di puntare asso­lutamente tutto per battere defi­nitivamente l'Ottava Armata e raggiungere Alessandria e il Del­ta. Lo Stato Maggiore italiano po­teva inviare in Libia la Divisione corazzata «Centauro» e la Divi­sione motorizzata «Piave». Nem­meno da parte tedesca si ritenne di creare un centro di gravità nel Mediterraneo, anche a scapito di altri settori non di primaria im­portanza. Rommel, per un atti­mo, sperò che gli venissero in­viate la Settima e Decima Divi­sione corazzata: le due unità fu­rono effettivamente equipaggiate per l'Africa, ma poi finirono in Russia. Era accaduta la stessa co­sa nel 1941, quanto la Sesta Divisione corazzata era partita per l'Ucraina, con i carri armati che erano stati dipinti con il colore ocra, per operare nel deserto.
Anche la Marina italiana fu re­stia ad «avvicinarsi» al teatro nordafricano. L'Ottava Divisione navale rimase a lungo inattiva nel porto greco di Navarino e fu scartata l'idea di avvicinarla a Suda, nell'isola di Creta.
In considerazione della posta in giocò, l'Ammiragliato britannico ‑ con la momentanea stasi sul fronte del deserto ‑ ritenne giun­to il momento di dare fondo a tutte le riserve per rifornire Mal­ta e consentire all'isola ‑ insi­gnita dal re d'Inghilterra della «George Cross» ‑ di riacquistare pienamente la sua funzione of­fensiva.
In occasione dell'operazione «Pedestal», una vera e propria « Armada» attraversò lo Stretto di Gibilterra diretta verso Oriente. C'erano le supercorazzate «Nel­son» e « Rodney» , tre portaerei e uno stuolo di incrociatori, cac­ciatorpediniere e altre unità mi­nori: il tutto, per scortare quattordici mercantili carichi di rifor­nimenti. La cisterna «Ohio», in particolare, aveva a bordo undi­cimila tonnellate di carburante ed era stata fornita dagli Stati Uniti, insieme con altre due mo­tonavi.
La battaglia di Mezzo Agosto ‑ venne chiamata così ‑ fu pagata dalla Marina inglese a carissimo prezzo. Andarono a fondo la por­taerei «Eagle», gli incrociatori «Manchester» e «Cairo», il cacciatorpediniere «Foresight»; la portaerei «Indomitable» subì se­ri danni, al pari degli incrociato­ri «Nigeria» e «Kenya». Mai, pri­ma di allora, un così grande nu­mero di navi da guerra era stato eliminato, temporaneamente o per sempre.
Dei quattordici mercantili, ben nove furono affondati; ma cin­que, compresa la preziosa petro­liera «Ohio», che navigava col bordo a fior d'acqua per i colpi ricevuti, riuscirono a raggiunge­re Malta, salvandola.
La flotta di superficie italiana mancò la sua grande occasione, e fu vera jattura averla richiamata prima che potesse dare il colpo di grazia al convoglio. Da Messina, Napoli, Cagliari, La Spezia, erano salpati sei incrociatori ‑ tre dei quali pesanti ‑ e undici cacciatorpediniere, che non spararono una cannonata. Sulla rot­ta di ritorno, un sommergibile inglese silurò gli incrociatori «Bolzano» e «Attendolo», che an­darono praticamente perduti, senza costrutto.
A Washington le fasi della bat­taglia furono seguite attenta­mente. Se l'operazione «Pedestal» si fosse conclusa con un disastro completo, quanti erano riluttanti a «infilarsi» nel Mediterraneo avrebbero avuto un argomento in più per non impegnarsi nel settore, con gli sbarchi programmati per l'autunno. Ma, a Roma, nessuno sembrò valutare queste implicazioni.

L’effimera corsa dei sei giorni


I L 22 agosto 1942, nove giorni prima dell'ultima offensiva in direzione di Alessandria e del Delta, Rommel chiese di essere sostituito per malattia. Dopo quasi due anni di sforzi fisici e di tensione nervosa, il Maresciallo appariva in precarie condizioni di salute: soffriva di disturbi gastroenterici, pressione bassa, frequente irritazione alle vie respiratorie. L’annuncio provocò vivo allarme a Berlino e a Roma.
« Rommel farà o no l'offensi­va?» ‑ annotò Cavallero sul Diario. «Se non agirà, dovremo metterci sulla difensiva. Dimo­stro che la situazione impernia­ta su di un uomo non va. Ecco le conseguenze!».
Con chi sostituire il coman­dante dell'Armata»? Venne subi­to fatto il nome di Kesselring, il quale proveniva dalla fanteria e soltanto in seguito era approda­to all'aviazione. In realtà, il Maresciallo Albert Kesselring com­prendeva tutti i difficili aspetti di una guerra moderna ‑ terre­stri, aerei e navali ‑ e non per niente era stato messo al co­mando dello scacchiere «Sud»: nel 1943‑45 avrebbe diretto, con molta abilità, la campagna d'I­talia, imponendo agli Alleati due gravosi arresti, prima sulla linea «Gustav», poi sulla linea «Gotica». Insomma, era l'alto gallonato più idoneo per con­durre in battaglia l’Armata d'A­frica.
Quando Erwin Rommel com­prese che poteva essere sosti­tuito da Kesselring, dimenticò subito i suoi acciacchi e non vol­le cedere il comando: ancora e sempre la vecchia «ruggine» tra i due Marescialli.
Tutto sommato, non fu una so­luzione felice, perché la «volpe», per la prima volta, era riluttan­te a uscire dalla tana e azzan­nare gli inglesi. Sfiduciato, de­luso, tormentato dai dubbi, Rommel era contrario ad assu­mere l'iniziativa. Invece di ordi­nare una accurata ricognizione del terreno, si abbandonava a recriminazioni, a volte prete­stuose, sulla mancanza di rifor­nimenti, che, quasi sempre, era­no risultati al di sotto delle ri­chieste.
Diciamo subito che la cosid­detta «corsa dei sei giorni» (31 agosto ‑ 5 settembre) non fallì per mancanza di benzina, per­ché nessuna unità rimase im­mobilizzata, con i serbatoi a sec­co. Il piano d'attacco prevedeva di coprire, di slancio e di notte, cinquanta chilometri verso Oriente, sbucando dal settore meridionale di El Alamein.
Una volta realizzato questo primo tempo, le colonne coraz­zate e motorizzate avrebbero dovuto ruotare verso la costa, raggiungere la località di El Hammam e avviluppare, da Est verso Ovest, l'intero schiera­mento britannico. Con qualche variante, era la ripetizione del «caso Venezia» del maggio pre­cedente, contro la linea Ain el Ghazàla‑Bir Hacheim.
Rispetto al mese di luglio, l'Ar­mata italo‑tedesca aveva rim­polpato i ranghi, aggiungendo qualche pedina in più al suo di­spositivo. La Divisione corazza­ta «Littorio» era stata completa­ta; la 164 a Divisione tedesca era giunta da Creta e, soprattutto, avevano fatto la loro comparsa i paracadutisti: la Divisione ita­liana «Folgore» e la Brigata Ramcke, tedesca.
Severo il giudizio di Caccia Dominioni sullo scriteriato im­piego, nel deserto, di quella truppa scelta, cacciata «in buca», privata della sua mobilità. Un parere largamente condiviso dai veterani della guerra in Nord Africa.
«Noi italiani ‑ disse un uffi­ciale della Divisione «Trento» ‑siamo in stato fallimentare, ma da bravi scialacquatori usiamo l'acqua di colonia e lo sciampa­gna per lavare il pavimento, fabbrichiamo cascinali in mar­mo di Candoglia, e ora seppelliamo nella sabbia del deserto i paracadutisti che dovevano espugnare Malta».
E innegabile che il Comando Supremo italiano ‑ cioè Caval­lero ‑ aveva garantito un rego­lare afflusso di benzina e che ciò non accadde perché le pe­troliere «San Andrea» e «Picci Fassio» finirono in fondo al Me­diterraneo. Ma era semplice­mente inimmaginabile che una offensiva di quella importanza avesse inizio con scarso carbu­rante: le lamentele successive non risultarono affatto convin­centi e il tutto aveva sapore di pretesto, per giustificare il falli­mento della più incredibile e «svogliata» impresa militare di Rommel.
Come sempre, il nerbo dellAr­mata era formato dalle due Di­visioni corazzate tedesche e dal Ventesimo Corpo d’Armata ita­liano. La 158 Panzer entrava in battaglia con 70 carri tipo III e IV, molti dei quali «Spezial», con cannone lungo; la 218 Panzer, con altri 120 carri. Le Divisioni «Ariete», «Littorio» e «Trieste» disponevano di 243 carri medi. Le altre Divisioni dovevano in­scenare un attacco dimostrativo, per distogliere l'attenzione degli inglesi dal settore meridionale.
Si disse che una « ruse de guer­re», concepita da Freddy de Guingand, Capo di Stato Maggiore di Montgomery, contribuì a depistare Rommel e i suoi col­laboratori. Prima della batta­glia, era stata deliberatamente fatta cadere nelle mani degli ita­lo‑tedeschi una carta topografi­ca nella quale risultavano cede­voli i tratti di deserto duri e compatti, e viceversa. Ma lo stratagemma ebbe in realtà un'importanza relativa.
Piuttosto, come avverte il no­stro Ufficio Storico, « i campi (minati) erano molto somma­riamente noti nelle loro dimen­sioni e nella esatta ubicazione e nessuna ricognizione specifica risulta essere stata compiuta preventivamente». Una grave di­menticanza, che contrastava con la cura che aveva contraddistin­to precedenti operazioni in grande stile nel deserto.
Quando, la notte sul 31 ago­sto, il fronte meridionale si in­cendiò e i corazzati mossero in avanti, le mine imposero subito un pesante pedaggio. Il valente comandante della 21^ Panzer, generale Georg von Bismarck, rimase ucciso; ferito seriamente il generale Walther Nehring, co­mandante dell'Afrika Korps. Inoltre, un fuoco micidiale ac­colse italiani e tedeschi, mentre la Raf imperversava con attac­chi a volo radente.
A giorno fatto, l'avanzata di cinquanta chilometri non si era realizzata e molti reparti erano ancora invischiati nei campi mi­nati, anche se la Divisione «Lit­torio», con molta bravura, si era portata al di là delle letali «fa­sce» predisposte dagli inglesi. L’offensiva appariva inceppata fin dalle prime battute.
Rommel si consultò con il co­lonnello Fritz Bayerlein, suo Ca­po di Stato Maggiore, che lo convinse a insistere nella spinta offensiva, approfittando di una tempesta di sabbia che soffiava in faccia agli inglesi, inchiodan­do a terra la Raf.
La manovra a largo raggio verso El Hammam («grande so­luzione») appariva irrealizzabi­le, anche perché gli inglesi non aspettavano altro per lanciare i loro carri armati sul fianco esposto dell'Asse. Si optò per una manovra a raggio più corto: obiettivo il crinale di Alam el Halfa («piccola soluzione»): la quota 132 diventò di grande im­portanza, perché il suo possesso era essenziale per raggiungere la costa e sboccare alle spalle di El Alamein.
Il generale Claude Auchinleck, prima di cedere il comando a Montgomery, aveva indicato Alam el Halfa come la posizio­ne‑chiave, l'aveva fatta fortifica­re e ora era presidiata dalla 44' Divisione, con adeguata arti­glieria controcarri.
L’attacco diretto al crinale co­stò a Rommel molti carri e non riuscì. Già la sera del 1° settembre il Maresciallo decise di sospendere l'offensiva e di ritornare, passo passo, sulle po­sizioni di partenza. I combatti­menti durarono ancora tre giorni e si concluse così l'effi­mera «corsa».
Le truppe, che già sognavano dì sfilare ai piedi delle Pirami­di, erano frastornate e non capivano perché la benzina con­sumata nella manovra di arre­tramento non era stata usata per continuare l'attacco. Dopo la guerra, Kesselring ebbe a di­chiarare: «Mancò la ferrea determinazione di proseguire a ogni costo». Anche il generale dei paracadutisti Hermann Ramcke criticò la sospensione dell'offensiva: «Per noi è stato un mistero perché Rommel non abbia continuato a darci dentro. Avevamo posto nuova­mente in rotta gli inglesi, non avevamo da far altro che inse­guirli e annientarli».
Hitler portò il discorso su un piano più elevato e disse che «era una follia mantenere trop­po a lungo un uomo in una po­sizione di alta responsabilità; con il passare del tempo è de­stinato a crollare». Una critica sottile al «calo» di Rommel co­me comandante d'Armata. Qualcuno ha perfino adom­brato la tesi che Erwin Rom­mel fosse già «dall'altra parte», avendo poi partecipato al complotto contro Hitler, cosa che lo costrinse a suicidarsi per evitare la corte marziale.
Montgomery, arrivato da ap­pena due settimane, si cinse di allori non suoi e annunciò trionfante: «L’Egitto è salvo. Or­mai è matematicamente certo che finirò per annientare Rommel». Sui moli di Suez, Porto Said, Alessandria, stava­no per sbarcare centinaia di carri armati «made in Usa» destinati a schiacciare l'Armata italo‑tedesca. II 14 settembre un attacco inglese dal deserto e dal mare contro Tobruk fallì, con gravi perdite. Rommel giunse sul posto e si compli­mentò con i difensori. Il 23 set­tembre ‑ sostituito dal genera­le Georg Stumme, che prove­niva dal fronte russo il Ma­resciallo salì su un aereo diret­to in Germania, per curarsi.

La triste ritirata verso Tripoli

UN uragano di fuoco investì le linee italo‑tedesche a El Alamein, alle 20.45 del 23 ottobre 1942: era l'inizio dell'offensiva preparata, con dovizia di mezzi, dall'Ottava Armata britannica. La guerra in Africa Settentrionale era giunta a una svolta, tanto più che, di lì a due settimane, sarebbero avvenuti gli sbarchi degli Alleati in Marocco e Algeria.

Secondo lo storico Correlli Barnett, la battaglia di El Alamein fu voluta da Churchill per motivi di prestigio: prima di rassegnarsi a una direzione americana del conflitto, bisognava vantare un vittoria esclusivamente inglese. Anche senza El Alamein, l'Asse avreb­be dovuto comunque sgombra­re il territorio egiziano, con gli Alleati alle spalle.
Lo stesso Correlli Barnett scri­ve: «Ma la mattina del 24 otto­bre, a dispetto di tutti i piani, l'attacco si era già trasformato in un macello. Data l'entità del­le forze d'assalto, ammassate su un fronte tanto ristretto, queste, come uno spadaccino in mezzo a una folla compatta, non ave­vano spazio sufficiente per combattere.
Neppure la crisi al vertice del Comando dell'Asse fu sufficien­te per agevolare i piani del ge­nerale Montgomery. Quando la battaglia ebbe inizio, Rommel si trovava in Germania per cu­rarsi: il suo sostituto, generale Stumme, recatosi in prima li­nea, morì per un colpo apoplettico, per cui si verificò un vuoto nella direzione delle ope­razioni. Hitler telefonò allora a Rommel e questi partì subito: la sera del 25 ottobre, il Mare­sciallo trasmise a tutti i reparti il messaggio: «Ho ripreso il co­mando dell'Armata».
Nelle intenzioni degli inglesi, il primo urto violento avrebbe dovuto scardinare le posizioni italiane, a sud dello schiera­mento, così da consentire l'av­volgimento dell'intera linea. Af­fiorava, in questo calcolo, il di­sprezzo o, quanto meno, la sot­tovalutazione degli italiani af­flitti come sempre da scarso ar­mamento, problemi di organico e di rifornimenti.
L'attacco si risolse in uno scac­co completo.
La Divisione paracadutisti «Folgore», inquadrata nel Deci­mo Corpo, contenne l'attacco, contrattaccò e mantenne le po­sizioni. Paolo Caccia Dominio­ni, che in seguito ispezionò il terreno, raccolse i resti di seicento caduti inglesi, indivi­duando i reggimenti di appar­tenenza, unità cariche di tradizione e molto prestigiose: « Da­vanti all'intatta linea italiana fumavano centoventi carri del­la 7^ Divisione corazzata e si al­lineavano 600 cadaveri delle Divisioni britanniche 44^ e 50^»; più a sud, era parimenti fallito l'attacco di una Divisione di Francesi Liberi.
La «Folgore» ebbe nei fratelli Ruspoli, caduti nel campo, de­corati di Medaglia d'Oro, le fi­gure più rappresentative dei cinquemila uomini partiti mesi prima da Tarquinia e finiti «in buca» nel deserto.
Con la consueta abilità tattica, Rommel impiegò i suoi carri armati e quelli del Ventesimo Corpo italiano: ma si trattava di una lotta «per esaurimento», la partita era decisa in parten­za.
Non c'erano soltanto 300 car­ri armati «Sherman» e 100 se­moventi «made in Usa» a fare la differenza, ma altre centinaia di carri affluiti in Egitto nelle settimane precedenti e, inoltre, montagne di munizioni. L’Otta­va Armata era sul serio il più formidabile strumento di guer­ra apprestato dall'Impero, perché gli inglesi erano affiancati da australiani, sudafricani, neozelandesi, indiani, nepalesi e da altre truppe del Com­monwealth. Pure, lo sperato, immediato successo non si verificò.
Lontano dal campo di batta­glia, a Londra, esplose la rabbia di Churchill per la situazione di «impasse». II Premier, irritatis­simo, investì con duri accenti il Capo di Stato Maggiore Generale Imperiale, Alan Braoke, chiedendo che cosa stava com­binando il «suo» Montgomery, mentre la Raf dominava incon­trastata.
«Perché (Montgomery) aveva assicurato che tutto sarebbe fi­nito in una settimana, perché non intendeva impegnarsi a fondo? Possibile che in Gran Bretagna non ci fosse un solo generale che sapesse vincere al­meno una battaglia?».
Il «mito» di Rommel aveva fatto molte vittime, nei due an­ni precedenti: Wavell, Cunnin­gham, Ritchie, Auchinleck. Il ti­more, non confessato, era che anche Montgomery è Alexan­der potessero essere giocati dalla «volpe»: ma i tempi erano cambiati e mutati erano so­prattutto i rapporti di forze.
Durante la sua licenza, a Rommel erano stati mostrati i primi carri armati «Tigre», raz­zi multipli, nebbiogeni: ma nul­la di tutto questo era stato in­viato in Africa. Poi, era rico­minciato lo stillicidio delle perdite in mare, con decine di mi­gliaia di tonnellate di armi, benzina, rifornimenti, finite in fondo al Mediterraneo. Né Stumme, il sostituto, né i rap­presentanti militari tedeschi a Roma erano riusciti a miglio­rare la situazione.
Quanto alla minaccia che si profilava alle spalle dell'Arma­ta, con gli sbarchi nel Nord Africa francese, i pareri erano discordi e il capo dell’Abwehr (Servizio Militare Informazio­ni), ammiraglio Canaris, si comportò in maniera equivoca, attuando un vero e proprio de­pistaggio (Canaris era un op­positore di Hitler e pagò poi con la vita questa sua scelta).
In conclusione, l'Armata d'A­frica non ricevette gli sperati rinforzi e nulla fu predisposto per parare la minaccia alle spalle. Caddero nel vuoto an­che gli Sos di Rommel «in arti­culo mortis» della sua Armata, perché le Divisioni, i Reggi­menti, si fondevano come cu­betti di ghiaccio esposti alla fiamma.
Nel campo opposto, i rim­brotti di Churchill se avevano l'effetto di rendere molto movi­mentate le riunioni del Gabi­netto di Guerra, non turbavano granché il Capo di Stato Mag­giore Generale, consapevole che Montgomery disponeva di riserve adeguate ed era in gra­do di rimanere «bilanciato». Non uno, ma cento Rommel sa­rebbero stati in grado di mutare l'esito finale della battaglia.
Giuseppe Bottai annotava sul diario in quei giorni: «Gli in­glesi hanno buttato il grosso delle loro forze verso il mare, senza fare la prevista manovra dal sud. Rommel avrebbe volu­to senz'altro ripiegare su Age­dabia, abbandonando di nuovo tutta la Cirenaica per difendere Tripoli. Ma un ordine di Hitler, rifischiato, commenta Galeazzo (Ciano), da Mussolini, l'ha in­chiodato sul posto, dove si vin­ce o si muore».
Da Rastenburg, dove si trova­va la «Tana del lupo» di Hitler, Rommel aveva infatti ricevuto l'ordine di indicare alle truppe la strada che portava alla vitto­ria o alla morte. Per la prima volta, da quando aveva messo piede in Africa, Erwin Rommel si vedeva privato della libertà d'azione, della facoltà di deci­dere.
Nelle precedenti campagne, il comandante dell'Armata si era fatto la fama di «volpe» proprio perché era riuscito a districarsi anche nelle situazioni più diffi­cili, salvando il nerbo delle sue divisioni, così da contrattaccare efficacemente alla prima occa­sione. Il movimento pendolare delle operazioni era dovuto proprio a questa elasticità nel­la manovra, che ora veniva im­provvisamente ad essere negata da un ordine dello stesso Hi­tler. Per motivi esclusivamente politici, propagandistici, si con­dannava l'Armata alla disfatta.
Con l'operazione «Superchar­ge». Montgomery fu in grado di scagliare una nuova massa co­razzata, ottenendo finalmente lo sfondamento della linea ita­lo‑tedesca; per la verità, il cedimento si verificò sul tratto te­nuto dalla 164 a Divisione ger­manica.
Si compì anche il destino del­la Divisione corazzata «Ariete». Nel libro di Rommel, «Guerra senza odio», si legge: «A sud est e a sud del comando si ve­devano grandi nuvole di polve­re. Qui si svolgeva la disperata lotta dei piccoli e scadenti car­ri armati italiani del 20° Corpo con circa 100 carri armati pe­santi britannici che avevano ag­girato gli italiani sul fianco de­stro scoperto. Come riferì più tardi il maggiore Von Luck, da me mandato con il suo reparto a tamponare la falla fra gli ita­liani e il Dak, i primi, che rap­presentavano ormai le nostre più forti truppe motorizzate, combatterono con straordinario valore. Von Luck era andato in aiuto degli italiani attaccando come poteva con le armi a sua disposizione, ma non aveva po­tuto mutare la sorte del corpo corazzato. Uno dopo l'altro i carri armati esplodevano o s'in­cendiavano mentre il violentis­simo fuoco dell'artiglieria ne­mica ricopriva le posizioni del­la fanteria e dell'artiglieria ita­liane. Verso le 15,30 partì l'ulti­mo messaggio radio dell'Arie­te. «Carri armati nemici fatta irruzione a sud della Ariete, con ciò Ariete accerchiata. Trovasi circa 5 chilometri nord‑ovest Bir el Abd. Carri Ariete com­battono». La sera il 20° corpo italiano, dopo valorosa lotta, era annientato. Con la Ariete perdemmo i nostri più anziani camerati italiani, ai quali, biso­gna riconoscerlo, avevamo sempre chiesto più di quello che erano in grado di fare con il loro cattivo armamento.
I resti dell'Armata d'Africa ri­piegarono verso ovest e il cau­to Montgomery non fu in grado di accerchiarlo. Anche l'Ottava Armata, peraltro, usciva dalla battaglia abbastanza provata: aveva perduto 13.500 uomini, tra morti, feriti e dispersi, e 600 carri armati. Italiani e tedeschi iniziavano una ritirata di due­mila chilometri, verso Tripoli. Come disse il generale Ettore Bastico, «Avevano le spalle ri­volte al sole e il viso rivolto al­la notte».

(Fine)