Capitolo 20°
La «Folgore» visse gli ultimi giorni di El Alamein in un continuo allarme.
I suoi capisaldi si erano riordinati alla meno peggio in tutta fretta dopo i giorni della devastazione.
Gino ogni sera ritornava a vedere di buca in buca i suoi ragazzi, resi ora più sicuri dalla vittoria conseguita sul nemico.
Sognavano anzi di poter riprendere l'offensiva dell'agosto, colpendo sul fianco sinistro l'avversario in movimento e quindi in crisi, per accerchiarlo in una sacca gigantesca, da cui non gli sarebbe stata concessa una via di scampo. Sognavano, naturalmente...
Gino seguiva queste illusioni dei suoi ragazzi, i sogni che accarezzavano così arditamente, convinto che, se a nord avessero mollato, come sembrava, sarebbe stata la fine per tutti.
La «Folgore» poi, schierata all'estremo sud, priva di automezzi, sarebbe stata abbandonata di conseguenza all'inesorabile destino del deserto, che non perdona.
Nei primi giorni di novembre, in piena notte, arrivò l'ordine di ripiegamento su di una linea prestabilita, all'altezza del meridiano di Fuca.
Lasciati alcuni centri di fuoco, per trarre in inganno il nemico, l'allineamento della «Folgore» nel silenzio sovrano di quell'ora tragica si mise lentamente in moto.
1 ragazzi non riuscivano a comprendere, a darsi pace e si chiedevano il perché di tale ordine assurdo; molti di loro avevano gli occhi lucidi di pianto, pensando ai compagni sepolti sotto una spanna di sabbia..., che dovevano abbandonare.
Ogni ufficiale, carta topografica alla mano e bussola, seguiva in testa al proprio reparto l'itinerario di marcia; entro la sera successiva avrebbero dovuto essere lungo i costoni di GebelCalac.
Alla prima luce dell'alba il deserto apparve come un immenso formicaio di uomini, ridotti a larve, che faticosamente arrancavano nella sabbia in direzione ovest. 1 loro occhi erano privi di luce, spenti, stanchi, resi ancora più tremendamente vuoti dall'incavo delle orbite rinsecchite e dagli zigomi sporgenti in un contorno di capelli e barba incolti, arruffati, sporchi di sudore, sangue e sabbia; quel poco di viso raggrinzito ed essiccato dal vento e dal sole, libero di peli, era coperto di mosche appic¬cicaticce, fastidiose, affamate, fetide.
La guerra annienta uomini e mezzi, sconvolge terra e cielo, ma non distrugge le mosche del deserto.
Le divise, stinte dal sole, erano come gli uomini, sporche, a chiazze di sangue, qua e là bruciacchiate, forate, a brandelli.
La massa ripiegava in ordine sparso.
Era per di più formata dai ragazzini della «Pavia», abbrutiti da mesi d'Africa, atterriti e sconvolti dai giorni ultimi della batta¬glia d'ottobre; piangevano, quando arrivavano in linea di rincal¬zo, piangevano ora che la lasciavano!
Il sole stava già trionfando dall'orizzonte, quando i reparti giunsero ad un punto d'incontro. Fu necessario l'immediato intervento degli ufficiali, per impedire che amici e compagni di capisaldi diversi, che da mesi non si vedevano, abbandonassero la propria formazione per correre ad abbracciarsi, In testa si trovava il carrozzone del Comando Divisione, seguito dalle auto ambulanze.
Nella breve sosta Gino presentò il reparto al Comandante di Battaglione: "Un ufficiale, tre sottufficiali e venti paracadutisti; di questi metà feriti più o meno gravi".
Egualmente fecero gli altri Comandanti di Compagnia.
Tutti i reparti erano più che dimezzati. Il Maggiore riuscì a stento a frenare la commozione.
Mentre con i suoi ragazzi Gino stava riprendendo la marcia di ripiegamento, venne avvicinato di corsa dal tenente... del IV BTG., il quale in una esuberante esplosione di gioia, dopo aver¬lo abbracciato, gli disse: "Come vedi, non sono ancora mor¬to...!" e rise forte, isterico.
Gino lo fissò attentamente negli occhi, come volesse leggergli nell'animo, indi: "Ma credi ancora a quelle panzane?" gli chiese. "No, no, ma sai?!..." ed accompagnò quelle parole con un gesto ampio delle braccia, come per dire: non si sa mai, a volte anche le streghe azzeccano giusto.
"Dimmi piuttosto domandò Gino quanti uomini ti sono rimasti in Compagnia?"
"Non molti precisò per tutta risposta, diventando improvvisa¬mente triste purtroppo i più li ho dovuti abbandonare nel deserto e, dopo qualche attimo di assorta meditazione, ho visto gli alpini a combattere sul «Tomori», aggiunse con soddisfazio¬ne, ma posso assicurarti che questi ragazzi non hanno alcunché da invidiare a loro...!"
La marcia riprese lenta e pesante.
I piedi sprofondavano nella sabbia. Gli uomini sfiniti dai mesi di linea e dai giorni della battaglia, curvi sotto il peso delle armi e delle cassette munizioni tiravano avanti con la sola forza della volontà.
Il sudore inondava tutto il corpo e l'arsura divorava sempre più la gola: sete, sole, fame, sudore, mosche, pidocchi, stanchezza, desolazione nell'animo per l'abbandono delle postazioni, dei cari amici scomparsi, odore nauseabondo di sporcizia, fatto più acre dal sudore abbondante, disperazione, che faceva sanguina¬re l'anima.
Tutto questo tremendo calvario pesava su quei ragazzi, che dovevano per obbedienza volgere le spalle ad un nemico, che avevano vinto.
In quel silenzio tragico, rotto soltanto dal monotono, cadenza¬to, tonfo sordo dei piedi nella sabbia, improvvisamente si udì da lontano il rombo di una formazione di aerei.
Istintivamente i ragazzi girarono il capo nella direzione: si trat¬tava di alcuni ricognitori inglesi, che perlustravano il deserto; fecero un ampio giro tutt'intorno due o tre volte, indi a tutto gas ritornarono sui loro passi.
Dopo qualche ora di marcia le colonne si attestarono, per pren¬dere fiato. Invano avevano sperato di poter raggiungere indi¬sturbate l'allineamento delle dune di Gebel Calac. I ragazzi reclamavano acqua. Le borracce erano vuote; sapevano però che non l'avrebbero avuta prima della sera. La marcia riprese più pesante di prima.
Non era ancora mezzogiorno che le colonne vennero improvvi¬samente attaccate da carri armati e da aerei. Fu necessario siste¬mare in fretta i reparti a caposaldo. Gino pensò a quelli rimasti ai centri di fuoco: saranno stati annientati, si disse.
I ragazzi si scavarono in tutta fretta, aiutandosi con il pugnale, la buca, per poter per lo meno proteggere il capo ed il petto dalle schegge delle granate in frantumi, che cadevano come grandine, tutt'intorno. I « 105» divisionali aprirono il fuoco di contro batteria. Gli aerei a bassissima quota spezzonavano e mitragliavano; solo qualche mitragliera da «20» tentò di ostaco¬lare l'offesa aerea sui capisaldi. Così scoperti, privi di riparo, senza alcuna valida reazione antiaerea, nella condizione di non poter fermare i carri, avendo dovuto distruggere i pezzi da « 47» , per non appesantire vieppiù la marcia di ripiegamento, i reparti furono completamente in balia del nemico. In queste condizioni la sofferenza degli uomini aumentò ancor di più, fino a raggiungere la disperazione.
Al calare della sera il nemico cessò improvvisamente il tirò ed indisturbato si preparò il rituale thè. Davanti ai capisaldi della «Folgore» simultaneamente si accesero lungo tutto lo schiera¬mento opposto dei fuocherelli, simili a quelli che usano accen¬dere in montagna lungo i tratturi verdi i pastori, per scaldarsi nelle umide e fredde sere d'autunno. Non c'era tempo da perdere, bisognava sganciarsi al più presto, approfittando delle tenebre venienti. L'ordine fu immediato: seppellire i morti, caricare i feriti sulle auto ambulanze, riempire le borracce, armi e munizioni in spalla e partire.
Gino nel frattempo riuscì a spostarsi di corsa fino alle più vicine autoambulanze: vi trovò in una il veneziano, stava già meglio. C'era anche il Tenente... del IV Battaglione: era stato colpito da una scheggia ad una spalla; una brutta ferita che gli aveva lace¬rato le carni e fracassato la scapola. Il capitano medico gli aveva assicurato che il polmone non era stato offeso; parlava con un fil di voce, tanto che Gino faceva fatica a seguirlo; pregò Pino di aver cura di lui e dei ragazzi.
La marcia riprese più spedita, il fresco della notte dava agli uomini vigore e speranza. Camminavano in silenzio, con il pensiero che volava indietro, vicino e lontano nel tempo e nello spazio; ai compagni caduti ieri, oggi; alle case lontane, alla madre, alla sposa, ai figli, alla ragazza, al padre, ai fratelli.
Dopo qualche ora di luce i mezzi veloci del nemico li raggiun¬sero nuovamente; fu necessario predisporsi immediatamente a capisaldi a raggiera.
L'accanimento del nemico divenne più spietato del deserto.
Data la natura del terreno pietroso, fu difficile per i ragazzi scavarsi con il pugnale anche un minimo riparo. C'erano qua e là dei cespugli secchi e stecchiti, coperti di lumachine, che permisero agli uomini un certo occultamento. Mentre il grandi¬nare delle granate dilaniava carni, armi, mezzi, pietra e sabbia, Gino pensò istintivamente alla Patria lontana: «4 Novembre», giorno della Vittoria della I^ Guerra Mondial... Nelle città, nei paesi, nei casolari sparsi sui monti e nelle valli si celebra oggi l'anniversario di Vittorio Veneto si disse. Rivide la bandiere, i labari, i combattenti con le medaglie sul petto, la gente, i bambini curiosi, allegri, sorridenti... davanti al monumento dei Caduti, ove si legge il bollettino della Vittoria e la banda citta¬dina intona le note solenni del «Piave», squilli d'attenti, presen¬tat'arm, corone d'alloro con nastri tricolori... e dopo: il banchetto, i discorsi, lo spumante, i canti della montagna..., baldoria... "E qui si muore...!" gridò, e si alzò di scatto, correndo qua e là, come cercasse con il petto un colpo in arri¬vo... Era disperato, voleva morire; da giorni gli martellava nel cervello il ricordo lontano di quando bambino vide lo strazio della casa per la morte dello zio prigioniero, il ricordo delle giornate d'angoscia della zia, morta poco dopo di dolore, il ricordo della lettera di un suo compagno prigioniero, che dice¬va: "Morto di patimenti, di stenti, di fame!"
Solo allora s'avvide che non sparavano più.
Si trovava vicino a un ragazzo che agonizzava gemendo; dal ventre squarciato uscivano gli intestini; chiamò, urlò... e venne¬ro i porta feriti...; non lo vollero toccare; nel silenzio repentino gridò: "Meglio ucciderlo, finirlo!"; aveva gli occhi stralunati.
1 ragazzi sorpresi lo stavano a guardare con il capo sollevato dalla sabbia..., quando uno strano mezzo, avanzando veloce, incominciò a sventolare una bandiera bianca.
Il brank carr si avvicinò presto fino a raggiungere i paletti del filo spinato, che delimitava il campo di mine, poste a protezione in tutta fretta lungo i capisaldi; un ufficiale si alzò e con il megafono incominciò a gridare:
"Valorosi soldati della «Folgore», vi siete battuti da leoni; ognuno di voi è un Eroe; il Comandante Supremo, a nome di S.M. Britannica, vi concede l'onore delle armi!; siete senz'acqua, senza viveri, senza munizioni, con poche armi, isolati nel deserto, abbandonati dai vostri alleati, i tedeschi, in fuga verso Tripoli. Non avete più via di scampo, arrendetevi! S.M. Britannica vi concede l'onore delle armi! Eroici ragazzi della «Folgore» arrendetevi o vi annienteremo!"
In un attimo Gino inquadrò la situazione, indi nel silenzio generale gridò l'ordine di sparare alcune raffiche sopra il brank¬car.. Questi, fatto bruscamente dietro front, sparì, lasciandosi dietro una scia di polvere, mentre i carri e gli « 88» riprendeva¬no più violenti di prima il fuoco di annientamento.
I morti cadevano vicino ai morti, i feriti si lamentavano ed i ragazzi dovevano subire passivamente, senza poter sollevare la testa, con nell'anima l'attesa tragica di una imminente agonia.
Al tramonto, cessata la furia devastatrice degli «88» , i reparti ulteriormente dimezzati, ripresero a ripiegare verso ovest.
Era già buio, quando poterono superare l'allineamento dei dossi di Gebel Calac, oltre i quali si presentò un'interminabile piattaforma pietrosa; ricordava il Calvario del Carso. Qui i piedi non affondavano più nella sabbia e per la frescura umida della notte la marcia divenne più spedita. Alla spettrale luce della luna i ragazzi curvi e pesanti sembravano tante ombre grevi, uscite per incanto dalle tombe della valle della morte.
Gino pensava a ciò che era successo in quel giorno, alla propo¬sta di resa con l'onore delle armi; pensava alla promessa di una linea prestabilita, che si doveva raggiungere, espressa nell'ulti¬mo dispaccio di Rommel: "Valorosi ragazzi della «Folgore» vi ordino di ripiegare su linea prestabilita; a guerra vinta sfilerete a Berlino con le migliori truppe tedesche". Pensava ai ragazzi caduti, a quelli che stavano ancora con lui nella notte, vaganti in un deserto sconfinato, dove alle spalle incalzava un nemico veloce ed agguerrito, mentre davanti vi erano soltanto tenebre e morte...
Durante i giorni della battaglia Rommel aveva pure radiotra¬smesso al Comandante della Folgore: "Generale, la prego di invitare i suoi uomini a risparmiarsi!"
"Ma allora, si diceva Gino cadenzando il passo in testa al repar¬to, a che serve risparmiarsi oggi, se domani sarà la fine?; a che serve addestrare i soldati, curarli, educarli, amarli ad un certo momento come fratelli, se poi è destino che la guerra inesora¬bilmente li travolga e li distrugga...? La Patria ha il suo destino e vive per questi suoi figli pensò e solo per questi, che sanno morire e fu pago di questa risposta a tutti i suoi drammatici interrogativi. Dopo un po', a mezza voce, come parlasse a se stesso aggiunse: speriamo che tutto non sia vano!"
La notte stava abbandonando sparse nel nulla le sue ombre e l'ora antelucana stava già tingendo di perla i densi vapori del deserto, quando i mezzi corazzati inglesi a tenaglia serrarono sotto, per incalzare da vicino i ragazzi, onde annientarli. L'orgoglio inglese voleva ad ogni costo e senza perdere ulterio¬re tempo vendicare l'insulto del rifiuto.
Su quell'altopiano bianco e spettrale, nell'incerto crepuscolo dell'alba, iniziò cosi quella che gli inglesi chiamarono: "La battaglia di sterminio dei resti della «Folgore» nel deserto".
Quanto fu lungo i giorno, pochi «105» divisionali e qualche mitragliera da «20» riuscirono a tenere a debita distanza i pode¬rosi mezzi corazzati d'assalto. 1 ragazzi, nell'impossibilità di una qualsiasi protezione, stavano il più possibile diradati ed appiattiti su quelle pietre infuocate dal sole.
"E' impossibile continuare disse Gino al nuovo comandante di battaglione, un tenente anziano, che aveva assunto il coman¬do al posto del Maggiore, divenuto Comandante di Reggimen¬to per la morte del Colonnello gli uomini sono sfiniti, le munizioni sono agli sgoccioli, da qualche giorno siamo senz'acqua, senza viveri; temo che, riprendendo la marcia, ben pochi riusciranno a rimettersi in piedi".
E così fu. L'ufficiale di coda della colonna di sinistra, che segui¬va l'altopiano lungo la depressione, ad un certo momento, incominciò a sparare sui ragazzi, che cadevano sfiniti.
Sandro riuscì a raggiungere con uno sforzo sovrumano la testa della formazione, per avvertire Gino. Questi, senza aprire bocca, fece cenno al sottufficiale di porsi al suo posto e, messosi sul fianco della lunga colonna, attese la coda: osservava alla chiara luce lunare i ragazzi: la testa piegata sul petto, gli occhi spenti, le braccia abbandonate lungo la vita, le gambe che si piegavano ad ogni passo, i piedi che uscivano dagli stivaletti squarciati nudi e sanguinanti... si fece forza lui stesso, per non cedere.
Come giunse l'ultimo uomo, si affiancò al tenente e, dopo qualche passo, senza togliere lo sguardo dalla bianca pietraia luccicante: "Perché hai sparato?" gli chiese.
L'ufficiale non rispose.
Gino ripetè più forte la domanda e si fermò contemporanea¬mente, afferrandolo stretto per un braccio e fissandolo con gli occhi sbarrati, fuori dalle orbite.
Come uscisse da un mondo tutto _ suo, fatto di paure e di incu¬bi: "Perché ho sparato? chiese di rimando, senza aprire gli occhi; e quasi subito Perché non voglio che facciano una stra¬ziante agonia" rispose stanco e si rimise in marcia, mentre Gino rimase immobile a guardarlo, ma dopo qualche passo incerto sembrava un vecchio cadente.
Giratosi di scatto: "Ho paura io gridò con gli occhi pazzi degli avvoltoi, che mi rondano sopra e delle iene, che mi vengono ad annusare... capisci? ed ancora più forte, agitando le braccia follemente non voglio che i miei ragazzi siano divo¬rati dagli sciacalli, prima ancora di morire!" Si rigirò, riprenden¬do la marcia a grandi passi, per raggiungere gli uomini, che incuranti proseguivano per forza d'inerzia.
Pure Gino allungò il passo fino a raggiungerlo, indi: "Al primo alt gli ingiunse passa in testa alla colonna...; prendo io il tuo posto, anzi da questo momento chiudo io la marcia" e si affiancò, proseguendo stancamente, come tutti gli altri.
Capitolo 21 °
A mano a mano che il sole aumentava il calore, i ragazzi crollavano sempre di più... con la bocca bavosa, la lingua ingrossata imploravano: acqua... acqua! Invano Gino cercava di scuoterli, di animarli, di minacciarli; qualcuno, come si riaveva, apriva pigramente gli occhi e, vedendosi la pistola puntata, balbettava a mezza voce: "Mi spari, signor tenente..., non ce la faccio più!" e richiudeva, forse per sempre gli occhi.
Gino con l'animo straziato ed il pianto in gola lo girava a bocconi, perché il sole e gli avvoltoi non lo sfigurassero anzi¬tempo.
Era tremendo per lui dover abbandonare così i suoi soldati. Prima di giungere a tanto, aveva cercato di aiutare qualcuno, sostenendolo per un braccio passato sopra le sue spalle; ma era come si trascinasse dietro un peso morto; dopo pochi metri di inutile sforzo, cadevano pesantemente l'uno sull'altro. Gli inglesi continuarono a sparare per tutto il giorno. Il comandan¬te diede ordine di non attestarsi a difesa, con la speranza di poter raggiungere prima del tramonto la linea prestabilita. Solo i «105» divisionali, in coda alla colonna, di tanto in tanto si fermavano ad aprire il fuoco, per cercare di ostacolare il più possibile l'incalzante pressione dei mezzi nemici.
1 resti della «Folgore» giunsero così al calar della sera entro una conca, limitata da costoni rocciosi posti a semicerchio, con profonde caverne, che permisero sicuro riparo; si aveva l'impressione di trovarsi in un ampio anfiteatro.
Il nemico, mentre gli uomini si abbandonavano, ormai allo stremo delle forze, all'ombra delle caverne, incrociò un tiro violento di «88», come volesse definitivamente sterminarli; solo il riparo naturale poté impedire agli inglesi di raggiungere lo scopo.
Calarono intanto sul deserto le benefiche ombre notturne.
Il comandante pensò fosse giunto il momento di mettere in salvo i feriti e diede ordine alle autoambulanze di proseguire a tutta velocità verso ovest. Pino volle rimanere con i suoi ragazzi. Gli uomini reclamavano acqua; erano talmente sfatti, che non sentivano più il bisogno di cibo, solo la gola bruciava e la lingua si ingrossava per l'arsura.
"Da tre giorni, precisò il veneziano, che stava sdraiato vicino a Gino sotto il cielo stellato, manca qualsiasi collegamento¬radio con il Comando di Corpo d'Armata".
Gino ascoltava in silenzio.
"Tutte le Divisioni italiane non parliamo dei tedeschi aveva¬no gli automezzi, per ripiegare, in caso di sfondamento della linea; solo la «Folgore», all'estremo sud del fronte, è stata abbandonata senza mezzi a questo strano destino...".
Gino mugugnò qualcosa che Pino non riuscì ad afferrare.
"Il comando divisione ha cercato inutilmente di collegarsi via radio... siamo riusciti soltanto oggi a captare qualche comunica¬to dal Cairo...; proprio questa sera parlavano di noi: "la Folgo¬re" dicevano ha resistito nel deserto oltre ogni possibilità umana!"
"Ha resistito ripeté a voce alta Gino, sottolineando le parole ci fanno dunque tutti morti...!" 1 suoi occhi stavano spalancati sulle stelle, ma il suo cuore, la sua anima, erano lontani... e piangeva in silenzio.
Dopo qualche ora di sosta la colonna riprese la marcia, per allontanarsi il più possibile dal nemico che riposava sicuro a breve distanza.
L'inesorabile decimazione dei giorni precedenti continuò non appena il sole incominciò a bruciare uomini e deserto. Si proce¬deva sempre più lentamente.
Il nemico incalzava da vicino. I ragazzi si trascinavano avanti come ombre, incuranti persino dei colpi, che cadevano d'intor¬no; solo la volontà di arrivare alla linea promessa li sorreggeva ancora... !
Il cielo improvvisamente ebbe pietà di loro: in un baleno il sole sparì dietro una nuvolaglia densa, scura, che si allargava con fulminea rapidità, abbassandosi fino a sfiorare le dune, costeg¬gianti la depressione. Un furioso, gigantesco uragano di vento e di acqua si rovesciò fra lampi, tuoni e fulmini a perdita d'occhio; pareva che la notte avesse seguito il giorno, sembrava la fine del mondo. La benefica acqua cadde a catinelle, inzup¬pando in pochi istanti la sabbia.
1 ragazzi felici e rianimati si abbandonavano bocconi di pozzan¬ghera in pozzanghera fra bagliori e tuoni a non finire, bevendo avidamente acqua e sabbia senza interrompere la marcia. Ai piedi di una duna si era formato un fossato colmo d'acqua; i ragazzi tutt'intorno bevevano avidamente, senza curarsi di quello che stagnava sul fondo: bianche ossa e teschi umani. In ognuno rinacque in cuore una nuova speranza: il miracolo di Dio salva i resti della «Folgore» ed il loro pensiero volò alla casa lontana, ai loro cari in straziante trepidazione...
Purtroppo fu una passeggera illusione, perché con la stessa immediatezza con cui si scatenò, la bufera si dileguò ed il cielo ritornò più lucente di prima.
I mezzi nemici serrarono sotto veloci, riprendendo a martellare violenti. Contemporaneamente una divisione corazzata chiuse a tenaglia da ovest, completando l'accerchiamento.
La piana infuocata era tutta disseminata di morti e moribondi, il deserto un immenso cimitero di cadaveri senza tomba.
Il nemico cessò per incanto il fuoco, comprese d'istinto che si stava consumando un rito.
Gino presentò al Generale i reparti: "3 ufficiali, 22 paracaduti¬sti fra sottufficiali e truppa". La «Folgore» aveva perso l'80% dei suoi uomini.
Il Comandante con le lacrime agli occhi ordinò il "presentat'arm" alla bandiera, mentre le fiamme, che già aveva¬no investito il mezzo divisionale, per poi distruggere i docu¬menti, lambivano gemendo il tricolore, che sventolava alto sul Carrozzone Comando.
Immobili sull'attenti i ragazzi piangevano. Il tramonto era di fuoco.
Con la bandiera ardevano il deserto ed il cielo; con il deserto ed il cielo nel tricolore in fiamme gli spiriti dei vivi e dei morti, nudi e puri davanti a Dio ed agli uomini. Era il 6 Novembre 1942, ore sedici.
La «Folgore» visse gli ultimi giorni di El Alamein in un continuo allarme.
I suoi capisaldi si erano riordinati alla meno peggio in tutta fretta dopo i giorni della devastazione.
Gino ogni sera ritornava a vedere di buca in buca i suoi ragazzi, resi ora più sicuri dalla vittoria conseguita sul nemico.
Sognavano anzi di poter riprendere l'offensiva dell'agosto, colpendo sul fianco sinistro l'avversario in movimento e quindi in crisi, per accerchiarlo in una sacca gigantesca, da cui non gli sarebbe stata concessa una via di scampo. Sognavano, naturalmente...
Gino seguiva queste illusioni dei suoi ragazzi, i sogni che accarezzavano così arditamente, convinto che, se a nord avessero mollato, come sembrava, sarebbe stata la fine per tutti.
La «Folgore» poi, schierata all'estremo sud, priva di automezzi, sarebbe stata abbandonata di conseguenza all'inesorabile destino del deserto, che non perdona.
Nei primi giorni di novembre, in piena notte, arrivò l'ordine di ripiegamento su di una linea prestabilita, all'altezza del meridiano di Fuca.
Lasciati alcuni centri di fuoco, per trarre in inganno il nemico, l'allineamento della «Folgore» nel silenzio sovrano di quell'ora tragica si mise lentamente in moto.
1 ragazzi non riuscivano a comprendere, a darsi pace e si chiedevano il perché di tale ordine assurdo; molti di loro avevano gli occhi lucidi di pianto, pensando ai compagni sepolti sotto una spanna di sabbia..., che dovevano abbandonare.
Ogni ufficiale, carta topografica alla mano e bussola, seguiva in testa al proprio reparto l'itinerario di marcia; entro la sera successiva avrebbero dovuto essere lungo i costoni di GebelCalac.
Alla prima luce dell'alba il deserto apparve come un immenso formicaio di uomini, ridotti a larve, che faticosamente arrancavano nella sabbia in direzione ovest. 1 loro occhi erano privi di luce, spenti, stanchi, resi ancora più tremendamente vuoti dall'incavo delle orbite rinsecchite e dagli zigomi sporgenti in un contorno di capelli e barba incolti, arruffati, sporchi di sudore, sangue e sabbia; quel poco di viso raggrinzito ed essiccato dal vento e dal sole, libero di peli, era coperto di mosche appic¬cicaticce, fastidiose, affamate, fetide.
La guerra annienta uomini e mezzi, sconvolge terra e cielo, ma non distrugge le mosche del deserto.
Le divise, stinte dal sole, erano come gli uomini, sporche, a chiazze di sangue, qua e là bruciacchiate, forate, a brandelli.
La massa ripiegava in ordine sparso.
Era per di più formata dai ragazzini della «Pavia», abbrutiti da mesi d'Africa, atterriti e sconvolti dai giorni ultimi della batta¬glia d'ottobre; piangevano, quando arrivavano in linea di rincal¬zo, piangevano ora che la lasciavano!
Il sole stava già trionfando dall'orizzonte, quando i reparti giunsero ad un punto d'incontro. Fu necessario l'immediato intervento degli ufficiali, per impedire che amici e compagni di capisaldi diversi, che da mesi non si vedevano, abbandonassero la propria formazione per correre ad abbracciarsi, In testa si trovava il carrozzone del Comando Divisione, seguito dalle auto ambulanze.
Nella breve sosta Gino presentò il reparto al Comandante di Battaglione: "Un ufficiale, tre sottufficiali e venti paracadutisti; di questi metà feriti più o meno gravi".
Egualmente fecero gli altri Comandanti di Compagnia.
Tutti i reparti erano più che dimezzati. Il Maggiore riuscì a stento a frenare la commozione.
Mentre con i suoi ragazzi Gino stava riprendendo la marcia di ripiegamento, venne avvicinato di corsa dal tenente... del IV BTG., il quale in una esuberante esplosione di gioia, dopo aver¬lo abbracciato, gli disse: "Come vedi, non sono ancora mor¬to...!" e rise forte, isterico.
Gino lo fissò attentamente negli occhi, come volesse leggergli nell'animo, indi: "Ma credi ancora a quelle panzane?" gli chiese. "No, no, ma sai?!..." ed accompagnò quelle parole con un gesto ampio delle braccia, come per dire: non si sa mai, a volte anche le streghe azzeccano giusto.
"Dimmi piuttosto domandò Gino quanti uomini ti sono rimasti in Compagnia?"
"Non molti precisò per tutta risposta, diventando improvvisa¬mente triste purtroppo i più li ho dovuti abbandonare nel deserto e, dopo qualche attimo di assorta meditazione, ho visto gli alpini a combattere sul «Tomori», aggiunse con soddisfazio¬ne, ma posso assicurarti che questi ragazzi non hanno alcunché da invidiare a loro...!"
La marcia riprese lenta e pesante.
I piedi sprofondavano nella sabbia. Gli uomini sfiniti dai mesi di linea e dai giorni della battaglia, curvi sotto il peso delle armi e delle cassette munizioni tiravano avanti con la sola forza della volontà.
Il sudore inondava tutto il corpo e l'arsura divorava sempre più la gola: sete, sole, fame, sudore, mosche, pidocchi, stanchezza, desolazione nell'animo per l'abbandono delle postazioni, dei cari amici scomparsi, odore nauseabondo di sporcizia, fatto più acre dal sudore abbondante, disperazione, che faceva sanguina¬re l'anima.
Tutto questo tremendo calvario pesava su quei ragazzi, che dovevano per obbedienza volgere le spalle ad un nemico, che avevano vinto.
In quel silenzio tragico, rotto soltanto dal monotono, cadenza¬to, tonfo sordo dei piedi nella sabbia, improvvisamente si udì da lontano il rombo di una formazione di aerei.
Istintivamente i ragazzi girarono il capo nella direzione: si trat¬tava di alcuni ricognitori inglesi, che perlustravano il deserto; fecero un ampio giro tutt'intorno due o tre volte, indi a tutto gas ritornarono sui loro passi.
Dopo qualche ora di marcia le colonne si attestarono, per pren¬dere fiato. Invano avevano sperato di poter raggiungere indi¬sturbate l'allineamento delle dune di Gebel Calac. I ragazzi reclamavano acqua. Le borracce erano vuote; sapevano però che non l'avrebbero avuta prima della sera. La marcia riprese più pesante di prima.
Non era ancora mezzogiorno che le colonne vennero improvvi¬samente attaccate da carri armati e da aerei. Fu necessario siste¬mare in fretta i reparti a caposaldo. Gino pensò a quelli rimasti ai centri di fuoco: saranno stati annientati, si disse.
I ragazzi si scavarono in tutta fretta, aiutandosi con il pugnale, la buca, per poter per lo meno proteggere il capo ed il petto dalle schegge delle granate in frantumi, che cadevano come grandine, tutt'intorno. I « 105» divisionali aprirono il fuoco di contro batteria. Gli aerei a bassissima quota spezzonavano e mitragliavano; solo qualche mitragliera da «20» tentò di ostaco¬lare l'offesa aerea sui capisaldi. Così scoperti, privi di riparo, senza alcuna valida reazione antiaerea, nella condizione di non poter fermare i carri, avendo dovuto distruggere i pezzi da « 47» , per non appesantire vieppiù la marcia di ripiegamento, i reparti furono completamente in balia del nemico. In queste condizioni la sofferenza degli uomini aumentò ancor di più, fino a raggiungere la disperazione.
Al calare della sera il nemico cessò improvvisamente il tirò ed indisturbato si preparò il rituale thè. Davanti ai capisaldi della «Folgore» simultaneamente si accesero lungo tutto lo schiera¬mento opposto dei fuocherelli, simili a quelli che usano accen¬dere in montagna lungo i tratturi verdi i pastori, per scaldarsi nelle umide e fredde sere d'autunno. Non c'era tempo da perdere, bisognava sganciarsi al più presto, approfittando delle tenebre venienti. L'ordine fu immediato: seppellire i morti, caricare i feriti sulle auto ambulanze, riempire le borracce, armi e munizioni in spalla e partire.
Gino nel frattempo riuscì a spostarsi di corsa fino alle più vicine autoambulanze: vi trovò in una il veneziano, stava già meglio. C'era anche il Tenente... del IV Battaglione: era stato colpito da una scheggia ad una spalla; una brutta ferita che gli aveva lace¬rato le carni e fracassato la scapola. Il capitano medico gli aveva assicurato che il polmone non era stato offeso; parlava con un fil di voce, tanto che Gino faceva fatica a seguirlo; pregò Pino di aver cura di lui e dei ragazzi.
La marcia riprese più spedita, il fresco della notte dava agli uomini vigore e speranza. Camminavano in silenzio, con il pensiero che volava indietro, vicino e lontano nel tempo e nello spazio; ai compagni caduti ieri, oggi; alle case lontane, alla madre, alla sposa, ai figli, alla ragazza, al padre, ai fratelli.
Dopo qualche ora di luce i mezzi veloci del nemico li raggiun¬sero nuovamente; fu necessario predisporsi immediatamente a capisaldi a raggiera.
L'accanimento del nemico divenne più spietato del deserto.
Data la natura del terreno pietroso, fu difficile per i ragazzi scavarsi con il pugnale anche un minimo riparo. C'erano qua e là dei cespugli secchi e stecchiti, coperti di lumachine, che permisero agli uomini un certo occultamento. Mentre il grandi¬nare delle granate dilaniava carni, armi, mezzi, pietra e sabbia, Gino pensò istintivamente alla Patria lontana: «4 Novembre», giorno della Vittoria della I^ Guerra Mondial... Nelle città, nei paesi, nei casolari sparsi sui monti e nelle valli si celebra oggi l'anniversario di Vittorio Veneto si disse. Rivide la bandiere, i labari, i combattenti con le medaglie sul petto, la gente, i bambini curiosi, allegri, sorridenti... davanti al monumento dei Caduti, ove si legge il bollettino della Vittoria e la banda citta¬dina intona le note solenni del «Piave», squilli d'attenti, presen¬tat'arm, corone d'alloro con nastri tricolori... e dopo: il banchetto, i discorsi, lo spumante, i canti della montagna..., baldoria... "E qui si muore...!" gridò, e si alzò di scatto, correndo qua e là, come cercasse con il petto un colpo in arri¬vo... Era disperato, voleva morire; da giorni gli martellava nel cervello il ricordo lontano di quando bambino vide lo strazio della casa per la morte dello zio prigioniero, il ricordo delle giornate d'angoscia della zia, morta poco dopo di dolore, il ricordo della lettera di un suo compagno prigioniero, che dice¬va: "Morto di patimenti, di stenti, di fame!"
Solo allora s'avvide che non sparavano più.
Si trovava vicino a un ragazzo che agonizzava gemendo; dal ventre squarciato uscivano gli intestini; chiamò, urlò... e venne¬ro i porta feriti...; non lo vollero toccare; nel silenzio repentino gridò: "Meglio ucciderlo, finirlo!"; aveva gli occhi stralunati.
1 ragazzi sorpresi lo stavano a guardare con il capo sollevato dalla sabbia..., quando uno strano mezzo, avanzando veloce, incominciò a sventolare una bandiera bianca.
Il brank carr si avvicinò presto fino a raggiungere i paletti del filo spinato, che delimitava il campo di mine, poste a protezione in tutta fretta lungo i capisaldi; un ufficiale si alzò e con il megafono incominciò a gridare:
"Valorosi soldati della «Folgore», vi siete battuti da leoni; ognuno di voi è un Eroe; il Comandante Supremo, a nome di S.M. Britannica, vi concede l'onore delle armi!; siete senz'acqua, senza viveri, senza munizioni, con poche armi, isolati nel deserto, abbandonati dai vostri alleati, i tedeschi, in fuga verso Tripoli. Non avete più via di scampo, arrendetevi! S.M. Britannica vi concede l'onore delle armi! Eroici ragazzi della «Folgore» arrendetevi o vi annienteremo!"
In un attimo Gino inquadrò la situazione, indi nel silenzio generale gridò l'ordine di sparare alcune raffiche sopra il brank¬car.. Questi, fatto bruscamente dietro front, sparì, lasciandosi dietro una scia di polvere, mentre i carri e gli « 88» riprendeva¬no più violenti di prima il fuoco di annientamento.
I morti cadevano vicino ai morti, i feriti si lamentavano ed i ragazzi dovevano subire passivamente, senza poter sollevare la testa, con nell'anima l'attesa tragica di una imminente agonia.
Al tramonto, cessata la furia devastatrice degli «88» , i reparti ulteriormente dimezzati, ripresero a ripiegare verso ovest.
Era già buio, quando poterono superare l'allineamento dei dossi di Gebel Calac, oltre i quali si presentò un'interminabile piattaforma pietrosa; ricordava il Calvario del Carso. Qui i piedi non affondavano più nella sabbia e per la frescura umida della notte la marcia divenne più spedita. Alla spettrale luce della luna i ragazzi curvi e pesanti sembravano tante ombre grevi, uscite per incanto dalle tombe della valle della morte.
Gino pensava a ciò che era successo in quel giorno, alla propo¬sta di resa con l'onore delle armi; pensava alla promessa di una linea prestabilita, che si doveva raggiungere, espressa nell'ulti¬mo dispaccio di Rommel: "Valorosi ragazzi della «Folgore» vi ordino di ripiegare su linea prestabilita; a guerra vinta sfilerete a Berlino con le migliori truppe tedesche". Pensava ai ragazzi caduti, a quelli che stavano ancora con lui nella notte, vaganti in un deserto sconfinato, dove alle spalle incalzava un nemico veloce ed agguerrito, mentre davanti vi erano soltanto tenebre e morte...
Durante i giorni della battaglia Rommel aveva pure radiotra¬smesso al Comandante della Folgore: "Generale, la prego di invitare i suoi uomini a risparmiarsi!"
"Ma allora, si diceva Gino cadenzando il passo in testa al repar¬to, a che serve risparmiarsi oggi, se domani sarà la fine?; a che serve addestrare i soldati, curarli, educarli, amarli ad un certo momento come fratelli, se poi è destino che la guerra inesora¬bilmente li travolga e li distrugga...? La Patria ha il suo destino e vive per questi suoi figli pensò e solo per questi, che sanno morire e fu pago di questa risposta a tutti i suoi drammatici interrogativi. Dopo un po', a mezza voce, come parlasse a se stesso aggiunse: speriamo che tutto non sia vano!"
La notte stava abbandonando sparse nel nulla le sue ombre e l'ora antelucana stava già tingendo di perla i densi vapori del deserto, quando i mezzi corazzati inglesi a tenaglia serrarono sotto, per incalzare da vicino i ragazzi, onde annientarli. L'orgoglio inglese voleva ad ogni costo e senza perdere ulterio¬re tempo vendicare l'insulto del rifiuto.
Su quell'altopiano bianco e spettrale, nell'incerto crepuscolo dell'alba, iniziò cosi quella che gli inglesi chiamarono: "La battaglia di sterminio dei resti della «Folgore» nel deserto".
Quanto fu lungo i giorno, pochi «105» divisionali e qualche mitragliera da «20» riuscirono a tenere a debita distanza i pode¬rosi mezzi corazzati d'assalto. 1 ragazzi, nell'impossibilità di una qualsiasi protezione, stavano il più possibile diradati ed appiattiti su quelle pietre infuocate dal sole.
"E' impossibile continuare disse Gino al nuovo comandante di battaglione, un tenente anziano, che aveva assunto il coman¬do al posto del Maggiore, divenuto Comandante di Reggimen¬to per la morte del Colonnello gli uomini sono sfiniti, le munizioni sono agli sgoccioli, da qualche giorno siamo senz'acqua, senza viveri; temo che, riprendendo la marcia, ben pochi riusciranno a rimettersi in piedi".
E così fu. L'ufficiale di coda della colonna di sinistra, che segui¬va l'altopiano lungo la depressione, ad un certo momento, incominciò a sparare sui ragazzi, che cadevano sfiniti.
Sandro riuscì a raggiungere con uno sforzo sovrumano la testa della formazione, per avvertire Gino. Questi, senza aprire bocca, fece cenno al sottufficiale di porsi al suo posto e, messosi sul fianco della lunga colonna, attese la coda: osservava alla chiara luce lunare i ragazzi: la testa piegata sul petto, gli occhi spenti, le braccia abbandonate lungo la vita, le gambe che si piegavano ad ogni passo, i piedi che uscivano dagli stivaletti squarciati nudi e sanguinanti... si fece forza lui stesso, per non cedere.
Come giunse l'ultimo uomo, si affiancò al tenente e, dopo qualche passo, senza togliere lo sguardo dalla bianca pietraia luccicante: "Perché hai sparato?" gli chiese.
L'ufficiale non rispose.
Gino ripetè più forte la domanda e si fermò contemporanea¬mente, afferrandolo stretto per un braccio e fissandolo con gli occhi sbarrati, fuori dalle orbite.
Come uscisse da un mondo tutto _ suo, fatto di paure e di incu¬bi: "Perché ho sparato? chiese di rimando, senza aprire gli occhi; e quasi subito Perché non voglio che facciano una stra¬ziante agonia" rispose stanco e si rimise in marcia, mentre Gino rimase immobile a guardarlo, ma dopo qualche passo incerto sembrava un vecchio cadente.
Giratosi di scatto: "Ho paura io gridò con gli occhi pazzi degli avvoltoi, che mi rondano sopra e delle iene, che mi vengono ad annusare... capisci? ed ancora più forte, agitando le braccia follemente non voglio che i miei ragazzi siano divo¬rati dagli sciacalli, prima ancora di morire!" Si rigirò, riprenden¬do la marcia a grandi passi, per raggiungere gli uomini, che incuranti proseguivano per forza d'inerzia.
Pure Gino allungò il passo fino a raggiungerlo, indi: "Al primo alt gli ingiunse passa in testa alla colonna...; prendo io il tuo posto, anzi da questo momento chiudo io la marcia" e si affiancò, proseguendo stancamente, come tutti gli altri.
Capitolo 21 °
A mano a mano che il sole aumentava il calore, i ragazzi crollavano sempre di più... con la bocca bavosa, la lingua ingrossata imploravano: acqua... acqua! Invano Gino cercava di scuoterli, di animarli, di minacciarli; qualcuno, come si riaveva, apriva pigramente gli occhi e, vedendosi la pistola puntata, balbettava a mezza voce: "Mi spari, signor tenente..., non ce la faccio più!" e richiudeva, forse per sempre gli occhi.
Gino con l'animo straziato ed il pianto in gola lo girava a bocconi, perché il sole e gli avvoltoi non lo sfigurassero anzi¬tempo.
Era tremendo per lui dover abbandonare così i suoi soldati. Prima di giungere a tanto, aveva cercato di aiutare qualcuno, sostenendolo per un braccio passato sopra le sue spalle; ma era come si trascinasse dietro un peso morto; dopo pochi metri di inutile sforzo, cadevano pesantemente l'uno sull'altro. Gli inglesi continuarono a sparare per tutto il giorno. Il comandan¬te diede ordine di non attestarsi a difesa, con la speranza di poter raggiungere prima del tramonto la linea prestabilita. Solo i «105» divisionali, in coda alla colonna, di tanto in tanto si fermavano ad aprire il fuoco, per cercare di ostacolare il più possibile l'incalzante pressione dei mezzi nemici.
1 resti della «Folgore» giunsero così al calar della sera entro una conca, limitata da costoni rocciosi posti a semicerchio, con profonde caverne, che permisero sicuro riparo; si aveva l'impressione di trovarsi in un ampio anfiteatro.
Il nemico, mentre gli uomini si abbandonavano, ormai allo stremo delle forze, all'ombra delle caverne, incrociò un tiro violento di «88», come volesse definitivamente sterminarli; solo il riparo naturale poté impedire agli inglesi di raggiungere lo scopo.
Calarono intanto sul deserto le benefiche ombre notturne.
Il comandante pensò fosse giunto il momento di mettere in salvo i feriti e diede ordine alle autoambulanze di proseguire a tutta velocità verso ovest. Pino volle rimanere con i suoi ragazzi. Gli uomini reclamavano acqua; erano talmente sfatti, che non sentivano più il bisogno di cibo, solo la gola bruciava e la lingua si ingrossava per l'arsura.
"Da tre giorni, precisò il veneziano, che stava sdraiato vicino a Gino sotto il cielo stellato, manca qualsiasi collegamento¬radio con il Comando di Corpo d'Armata".
Gino ascoltava in silenzio.
"Tutte le Divisioni italiane non parliamo dei tedeschi aveva¬no gli automezzi, per ripiegare, in caso di sfondamento della linea; solo la «Folgore», all'estremo sud del fronte, è stata abbandonata senza mezzi a questo strano destino...".
Gino mugugnò qualcosa che Pino non riuscì ad afferrare.
"Il comando divisione ha cercato inutilmente di collegarsi via radio... siamo riusciti soltanto oggi a captare qualche comunica¬to dal Cairo...; proprio questa sera parlavano di noi: "la Folgo¬re" dicevano ha resistito nel deserto oltre ogni possibilità umana!"
"Ha resistito ripeté a voce alta Gino, sottolineando le parole ci fanno dunque tutti morti...!" 1 suoi occhi stavano spalancati sulle stelle, ma il suo cuore, la sua anima, erano lontani... e piangeva in silenzio.
Dopo qualche ora di sosta la colonna riprese la marcia, per allontanarsi il più possibile dal nemico che riposava sicuro a breve distanza.
L'inesorabile decimazione dei giorni precedenti continuò non appena il sole incominciò a bruciare uomini e deserto. Si proce¬deva sempre più lentamente.
Il nemico incalzava da vicino. I ragazzi si trascinavano avanti come ombre, incuranti persino dei colpi, che cadevano d'intor¬no; solo la volontà di arrivare alla linea promessa li sorreggeva ancora... !
Il cielo improvvisamente ebbe pietà di loro: in un baleno il sole sparì dietro una nuvolaglia densa, scura, che si allargava con fulminea rapidità, abbassandosi fino a sfiorare le dune, costeg¬gianti la depressione. Un furioso, gigantesco uragano di vento e di acqua si rovesciò fra lampi, tuoni e fulmini a perdita d'occhio; pareva che la notte avesse seguito il giorno, sembrava la fine del mondo. La benefica acqua cadde a catinelle, inzup¬pando in pochi istanti la sabbia.
1 ragazzi felici e rianimati si abbandonavano bocconi di pozzan¬ghera in pozzanghera fra bagliori e tuoni a non finire, bevendo avidamente acqua e sabbia senza interrompere la marcia. Ai piedi di una duna si era formato un fossato colmo d'acqua; i ragazzi tutt'intorno bevevano avidamente, senza curarsi di quello che stagnava sul fondo: bianche ossa e teschi umani. In ognuno rinacque in cuore una nuova speranza: il miracolo di Dio salva i resti della «Folgore» ed il loro pensiero volò alla casa lontana, ai loro cari in straziante trepidazione...
Purtroppo fu una passeggera illusione, perché con la stessa immediatezza con cui si scatenò, la bufera si dileguò ed il cielo ritornò più lucente di prima.
I mezzi nemici serrarono sotto veloci, riprendendo a martellare violenti. Contemporaneamente una divisione corazzata chiuse a tenaglia da ovest, completando l'accerchiamento.
La piana infuocata era tutta disseminata di morti e moribondi, il deserto un immenso cimitero di cadaveri senza tomba.
Il nemico cessò per incanto il fuoco, comprese d'istinto che si stava consumando un rito.
Gino presentò al Generale i reparti: "3 ufficiali, 22 paracaduti¬sti fra sottufficiali e truppa". La «Folgore» aveva perso l'80% dei suoi uomini.
Il Comandante con le lacrime agli occhi ordinò il "presentat'arm" alla bandiera, mentre le fiamme, che già aveva¬no investito il mezzo divisionale, per poi distruggere i docu¬menti, lambivano gemendo il tricolore, che sventolava alto sul Carrozzone Comando.
Immobili sull'attenti i ragazzi piangevano. Il tramonto era di fuoco.
Con la bandiera ardevano il deserto ed il cielo; con il deserto ed il cielo nel tricolore in fiamme gli spiriti dei vivi e dei morti, nudi e puri davanti a Dio ed agli uomini. Era il 6 Novembre 1942, ore sedici.
Cosi fini la «Folgore».
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