sabato 24 novembre 2007

ACTA ANNO XVIII * N°3 SETTEMBRE ‑ NOVEMBRE 2004
Dell’Istituto Storico Repubblica Sociale Italiana


PRIGIONIE D'OLTREMARE SOFFERTE TESTIMONIANZE

Pier Silvio Spadoni ha illustrato a "Italia 1939‑1935, Storia e Memoria" presso l'Università Cattolica di Milano, il 25 maggio 1995 la Sua Tesi di Laurea I PRIGIONIERI ITALIANI NEI CAMPI AMERICANI, INGLESI E FRANCESI, discussa all'Università Statale di Milano ‑ Scienze Politiche.

Della acuta relazione (36 pagine) riassumiamo la parte con le testimonianze del Ten Franco, Cappellano Militare, e di Avanzini, Belli, Beretta, Bersani, Croso, Palermo, Pradelli, Roggiani, Valia ni e Villa e dai campi di Orario (americano e francese) su perquisizioni, propaganda contro le istituzioni italiane, vita nei campi, lavoro e attività ricreative. 1 prigionieri italiani che dall'autunno 1943 divennero ausiliari delle non più nemiche Armate US furono decine di migliaia (19 mila in Italia, 43 mila in Francia). Tra i restanti sotto Gran Bretagna (360 mila), U.S.A. (65 mila) e Degaullisti (25 mila), quel 20% rimasto fedele alla Patria e considerato non cooperatore ostile si ridusse alla metà dopo la resa del Giappone (2 settembre 1945).

Nei soldati combattenti le differenze dei caratteri, gli atteggiamenti disparati e gli stati d'animo dovuti ai differenti motivi della partecipazione al conflitto si uniformano all'unica volontà possibile: vincere! Poiché, nel combattimento, lo spirito di conservazione stesso di confonde con l'impeto necessario a sopraffare il nemico. Anche a battaglia finita, quando diverse sono le reazioni e rispuntano i caratteri di ognuno pur tuttavia quei soldati hanno in comune il senso del dovere e l'idea di servire la Patria.

Ma arrendendosi, diventando prigionieri. Essi sono dei vinti, in preda al disordine e spesso al crollo di ogni disciplina e ritegno.

Psicologicamente il catturato si sente irriconoscibile e sprofonda in uno stato di smarrimento a cui reagisce secondo le proprie riserve morali. La gerarchia militare è spezzata. Alla disciplina precedente succede un periodo caotico con interrogatori, perquisizioni anche umilianti, trasferimenti faticosissimi e a volte inumani per raggiungere la destinazione stabilita dal vincitore.

La reazione della massa a questo tipo di situazione si divide nelle varianti dei depressi, che non parlano più e che si muovono a stento procedendo come robot, e quella degli esaltati, che parlano troppo, non stanno fermi e si abbandonano a una irritabilità rumorosa e pericolosa. A costoro sono da aggiungere poi i casi patologici e i rassegnati. Quest'ultimi, che considerano la cattività come il male minore che possa capitare in guerra, rappresentano un fattore d'ordine sia durante la cattura che durante la prigionia.

I militari subito dopo la cattura venivamo disarmati, perquisiti e, quando il numero ed il tempo lo permettevano, immatricolati con il numero preceduto dalla sigla POW (Prisoner of War). I francesi invece facevano cucire sulle spalle della divisa un rombo di panno rosso, che gli italiani chiamavano la "toppa rossa". Gli italiani catturati dai britannici lamentano nei loro memoriali che gli inglesi, subito dopo la cattura, portavano via frequentemente sia oggetti di valore che capi di vestiario.

Appena disarmati, anche se era stato concesso l'onore delle armi i soldati italiani venivano affidati ad un sottufficiale britannico il quale si serviva dei suoi uomini di colore per la perquisizione e la disciplina. Come primo provvedimento i prigionieri venivano denudati, senza distinzione di età o grado, ed alleggeriti di tutto ciò che possedevano, oggetti, indumenti, ricordi familiari. Tutto veniva loro tolto a titolo di "souvenir", che era una parola di moda. II prigioniero era lasciato senza scarpe, in mutande e dimenticato. (Alfio Beretta).

…la prima notte di cattività non dovevamo dormire a lungo. Ci svegliammo sotto il raggio di una torcia che lì per lì sembrò della scorta. Erano invece due uficiali che stavano perquisendo tutto il gruppo, un elmetto tra le mani. Quando fummo all'impiedi vedemmo nell'elmetto soldi, orologi, anelli. Anche il nostro orologio finì nell'elmetto. Erano orologi che avevano fatto l'Africa orientale, la licenza in Italia, i mesi di guerra:" (Ferdinando Bersani)

...fin dall'inizio si vide subito che piega prendeva la perquisizione. Coperte, lenzuola, lamette da barba, sapone, lapis, specchi, medicinali, accendisigari, tutto quanto poteva far comodo ai vincitori era silenziosamente confiscato. Chi osava protestare si sentiva esplodere sotto il naso il grido di "come on"; e a non filare subito si rischiava di assaporare la più formidabile delle pedate (Piero Belli. Corrispondente di guerra).

Particolarmente drammatiche furono le vicende dei prigionieri in mano francese. Viene raccontato da più reduci che le forze militari francesi in Africa, le truppe degaulliste, erano costituite dalla Legione Straniera e da truppe di colore ‑ goumiers, spahis, senegalesi: un esercito raffazzonato, misto di razze carico di miseria. Ricorda un reduce dai campi "non era la vera Francia che avevamo innanzi, ma bande raccogliticce ... ...si mescolavano in un mosaico a mala pena tenuto insieme da interessi ed ambizioni personali, più che dall'ideale della grande Francia".

Uno dei maggiori centri di raccolta dei prigionieri fu quello di Megez‑el‑Bab in Tunisia. Da qui partirono lunghe colonne dirette a diversi campi nei quali i prigionieri vennero smistati successivamente verso il Sud Africa, l'India, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Ad alcune migliaia di italiani in mano francese toccò, nel giugno del 1943, la sventura di compiere a piedi in 20 giorni un marcia forzata di oltre 500 chilometri attraverso la Tunisia fino a Costantina in Algeria ....si facevano avanzare i primi plotoni e si tenevano fermi gli altri per poi farli correre zoppicanti fino a raggiungere la testa. I più desolati erano quelli di coda che vedevano sempre una interminabile fila serpeggiare innanzi a loro come un'allucinazione ....ufficiali francesi, a cavallo,a sommo dispregio talvolta investivano i pellegrini, calpestandoli ...percosse, minacce, insulti ...un unico camion autoambulanza che funzionava per l'immensa colonna. (Ten. Cappellano don Giacomo Franco)

...durante il percorso non solo gli italiani furono scherniti dalle popolazioni, ma vennero maltrattati anche dalle scatenate truppe di colore che avrebbero dovuto proteggerli. Si parla di un numero di morti imprecisato poichè i prigionieri non erano stati ancora immatricolati: essi figureranno poi fra i Dispersi o i Caduti in combattimento. (Giovanni Roggiani) .

....in molte occasioni avvenne che i prigionieri ricevettero dalla folla sputi, insulti minacce. Particolarmente pietoso fu lo spettacolo offerto da alcuni gruppi di italiani stremati, scalzi, seminudi addirittura alcuni avvolti solo in una coperta, che, provenienti dal campo Mechra Benabbou, attraversarono le vie di Casablanca sotto gli occhi della popolazione che inveiva. Analogo comportamento lo ebbero gli inglesi sia in Egitto che in Africa orientale ...durante i trasferimenti si obbligò per scopi propagandistici i prigionieri a percorrere in pieno giorno le vie dei centri abitati, e qui gli italiani sporchi laceri, affamati, furono esposti agli insulti delle popolazioni locali (Giovanni Palermo) . ....i principali centri di raccolta e transito nell'ex AOI furono quelli situati all'Asmara ed ad Adis Abeba. Nel corso di una lunghissima marcia per arrivare al campo di raccolta di Addis Abeba i prigionieri inermi furono gravemente esposti a pericoli dai quali non ebbero sufficiente protezione ...Fu ordinato agli italiani di rendere omaggio al Negus sfilando davanti a lui, e l'ordine inglese aveva precisato che chi si fosse rifiutato sarebbe stato passato per le armi. La rivisita durò tre lunghe ore. II commento a questa sfilata: "l'umiliazione più grave c'è stata inflitta" (Alfio Beretta).

I militari italiani radunati al forte Baldissera dell'Asmara, venivano smistati in parte verso il Sudan, in parte verso l'interno, mentre la maggioranza era inviata verso i porti di imbarco di Massaua, di Assab, di Berbera e di Mogadiscio per essere poi trasferita ai campi situati principalmente in Kenia, in Sud Africa, in India ed in Australia oppure in Gran Bretagna.
Quelli portati ad Addis Abeba venivano allontanati dall'Etiopia seguendo come direttrice principale dell'evacuazione la linea Auasc, Dire‑Daua, Harrar, Giggica, Hargeisa, fino al porto di imbarco di Berbera .
....la diversità di trattamento dei prigionieri a seconda del detentore, non va ricercata solo nella maggiore durezza dei francesi ma, soprattutto, si deve evidenziare che la sorte degli italiani con tale detentore fu solo esclusivamente di prigionie­ri: "noi siamo stati prigionieri e null'altro. Trattati sempre male, questo si". (Enrico Pradelli).

Con ì detentori anglo americani invece gli italiani vissero un'espe­rienza diversa, vale a dire la trasformazione di buona parte di prigionieri in cooperatori.

Gli inglesi, in particolare, permisero che si verificasse nei loro campi, una situazione diversa e ben più scottante di quella che vissero i prigionieri in mano francese, perfino quelli tenuti nelle peggiori condizioni. Crearono infatti una situazione che vide ita­liani scatenati contro altri italiani per scelte politiche, come se essi avessero realmente vissuto fatti ed avvenenti che non pote­vano ne conoscere obiettivamente ne capire, dato che erano segregati, lontano dall'Italia, senza notizie, sostanzialmente fer­mi agli avvenimenti precedenti alla loro cattura . ....il 13 maggio 1943 dopo la cattura, da parte degli americani provenienti da Nord, di italiani sulla postazione di Enfidaville, avvenne un fatto quantomeno straordinario. Infatti dopo aver trasferito alcuni loro prigionieri con autocarri a Pont du Fash gli americani li conse­gnarono alle truppe degaulliste. (Ettore Villa)

....le stesse autorità americane però finsero d'ignorare, più tardi, dei numerosi italiani che, evadendo dai campi francesi, trova­vano rifugio nei loro campi di prigionia. Essi presero atto del­l'evidente situazione solo quando il Comando francese prote­sto. (Renzo Valiani).

Così come molti militari catturati furono consegnati dagli ameri­cani ai francesi, anche diversi prigionieri, già in mano francese, risultarono essere passati agli americani. Non si sa se ciò sia avvenuto in base ad accordi particolari.
Quanto al comportamento dei soldati americani, dai ricordi dei reduci emerge che furono vari gli interventi in aiuto ai prigionieri italiani, spesso come reazione ai maltrattamenti dei francesi .
....significativo è quanto avvenne a "Maison Carrèe", Algeri, Quando nella stazione si incendiò un treno americano carico di bombe, proprio mentre era presente un altro che trasporta­va prigionieri italiani, stipati 40 per vagone, una parte del tre­no venne allontanata. Nei vagoni rimasti fermi vi furono diversi morti sia fra i guardiani che fra i prigionieri. ma sarebbero stati molti di più se alcuni americani, con pericolo per la loro vita, non avessero aperto parte dei vagoni permettendo che i pri­gionieri uscissero. (Enrico Pradelli).

Nella memorialistica consultata risulta che gli italiani in mano americana furono quasi sempre trattati dal punto di vista ma­teriale, in osservanza alla Convenzione di Ginevra. In complesso le violazioni commesse sono da considerarsi, almeno negli effetti, pari a quelle della Gran Bretagna. II numero dei prigio­nieri italiani che rimasero in mano americana fu di 123.000. Essi furono poi smistati con destinazioni varie: Stati Uniti e nelle isole Hawai, 51.000 compresi i combattenti RSI; in Italia al seguito della V armata 19.000; in Francia e Germania al se­guito delle armate americane oltre 43,000; nel Marocco (zona Casablanca) circa 10.000. Quasi subito iniziò nei campi quel­la propaganda diretta ad intaccare la fiducia del soldato italia­no verso i superiori e le istituzioni.
L'attività di propaganda anglo‑americana verrà sfruttata in se­guito, non più per colpire le figure dei superiori ma per com­battere il fascismo ed il suo massimo rappresentante. Questi sono i principali motivi per cui in tutti i campi si ebbe, in un primo tempo, una grave anarchia contraria agli interessi deiprigionieri stessi, tanto da aggravare la loro vita . ....Temo che se ognuno non riprenderà il controllo dei propri nervi (logorati dalla nostra odissea) andremo al peggio: alle adunate si perde tempo in attesa dei ritardatari; le tavole per i pasti vengono prese d'assalto, e ne soffre chi non ama an­dare all'arrembaggio o è meno prepotente, o meno lesto a trovare un posto; di frequente si inaspriscono le discussioni all'aperto o sotto le tende. (Ettore Villa).

Con il passare del tempo nei campi si svolsero attività dirette al miglioramento delle condizioni materiali; I prigionieri si in­gegnarono in tutti i modi: ....a fare la sintesi di tutti gli accorgi­menti, le astuzie, gli stratagemmi usati dagli italiani per so­pravvivere, trovo adatto un motto quello del generale Nasi, co­mandante degli italiani in Kenia, "acqua dai sassi e sangue dalle rape". (Noé Croso)
..le opere d'artigianato furono di diverso tipo, dalle più sem­plici alle più complesse e qualche prigioniero, riuscì con le sue realizzazioni a stupire le autorità di custodia per l'inventi­va e la capacità creativa (Luigi Avanzini) .

....straordinaria fu anche la costruzione di un violino funzio­nante composto da migliaia e migliaia di stecchini di fiammi­feri usati. "Lo sport fu davvero un reagente energetico di gran­de valore, uno scampo all'ozio" (Alfio Beretta).

Quando furono disponibili, tramite gli Enti assistenziali, dei li­bri si scatenò una vera bramosia per la lettura. Gran parte nella vita dei campi la ebbe anche il teatro. I prigionieri si industria­rono per organizzare lavori teatrali veri e propri. Raramente agli spettacoli assistettero le autorità ed i civili. In molti campi si organizzarono anche concerti strumentali e vocali.

....da dove venissero fuori gli strumenti a fiato non si sa, ma cornetto, sassofoni, trombe, fagotti, clarinetti e flauti sbucaro­no come per evocazione spiritica; strumenti a corda, violini, viole, contrabbassi, chitarre e mandolini furono costruiti nel campo ...in tal modo nacquero orchestre, orchestrine (campo americano di Orano):

In ogni campo si organizzò un giornale murale. Quando le con­dizioni lo permisero, per soddisfare meglio l'esigenza di infor­mazione dei prigionieri e con il beneplacito dei detentori nei diversi campi, vennero stampati periodici tirati in più copie. L'autorità di custodia conservò sempre il rigido controllo sulle notizie che venivano diffuse .
...viene anche stampato, impresa che dapprima sembrava im­possibile data la mancanza d'inchiostro e persino di una ma­tita, un giornale del campo. II primo numero fu manoscritto ed affisso al fianco di una baracca (campo francese di Orano).

Avere notizie sull'andamento della guerra e inerenti alla Patria lontana era per tutti i prigionieri di estrema importanza. Le in­formazioni trasmesse erano ovviamente solo quelle conformi alla logica ed agli interessi del detentore.
.gli inglesi, che sono degli innati psicologi, manovravano con raffinata maestria i moti del nostro animo tramite radioreticolato, propagavano ad arte le notizie più disparate e disperate: un giorno ci mandavano in visibilio con notizie di fulgide vittorie italiane, che qualche giorno dopo venivano smentite od addi­rittura capovolte , con l'effetto che ognuno potrà immaginare. Questi alti e bassi che il nostro stato d'animo seguiva e subiva quasi passivamente, unitamente alla super‑denutrizione, ci debilitavano, lasciandoci in uno strato di prostrazione vera­mente preoccupante; i deboli venivano così stroncati ed i for­ti, ridotti a cenci umani. (Luigi Avanzini)

....da quando l'apparecchio cominciò a funzionare.. stetti in ascolto ogni notte con al cuffia alle orecchie per cinque anni consecu­tivi, in modo che al mattino ogni baracca avesse una copia del notiziario. (Alfio Beretta).

Entravano così nei campi le notizie sulle fasi della guerra ed i prigionieri italiani vivevano nei campi momenti di gran­de gioia o di scoramento, secondo il susseguirsi degli av­venimenti.

domenica 11 novembre 2007


Kindu, il massacro impunito



Sconcertanti rivelazioni sull’eccidio dei 13 avieri massacrati nel 1961



Sull'ultimo numero della rivista bimestrale “'Storia & e Battaglie” un protagonista di quei giorni racconta che i responsabili della strage, avvenuta nel novembre del ’61, furono individuati ed arrestati dalla gendarmeria katanghese di Thsombè, ma successivamente liberati dalle truppe delle Nazioni Unite di stanza in Congo.

Le recenti critiche che giungono da più parti alle Nazioni Unite per la gestione di alcune questioni internazionali, come ad esempio quella della Somalia, trovano un’ eco profonda nelle caligini della secessione del Katanga dal Congo ex Belga, avvenuta oltre quarant’anni fa.
Il dramma katanghese è ancora vivamente impresso nella memoria occidentale e africana, e più particolarmente in quella italiana a causa dell’orrendo eccidio di Kindu, l’11 novembre del 1961, quando 13 avieri italiani trovarono una morte orrenda per mano della soldataglia comunista congolese.
I fatti sono noti, soprattutto ai meno gio­vani tra noi, quella di Kindu è una “pento­laccia" che nessuno ha piacere di riaprire anche a causa delle troppe ombre che sono rimaste sull’intera vicenda, che pesano sul­le Nazioni Unite, sui governi congolese, americano e soprattutto italiano, che non si dette mai troppo da fare per chiarire i con­torni di quella tragedia.
Ma oggi un elemento nuovo si aggiunge alla serie di inettitudini, imprudenze, falsità che circondarono l'episodio di Kindu: a di­stanza di più di quarant'anni, un protagoni­sta di quell'epoca scrive su una rivista sto­rica italiana che il leader katanghese Moisè Thsombè individuò e fece arrestare dalla sua "gendarmerie" i responsabili di quel massacro, che furono però liberati dai caschi blu dell'Onu, prima che potesse aver luogo il processo, in occasione degli avvenimenti successivi che portarono alla capitolazione del grande statista africano.
Il protagonista di questi fatti è Enzo Ge­nerali, giornalista, scrittore, esperto di cose africane, ma soprattutto consigliere politico ed amico personale di Thsombè durante tutti quegli anni nei quali il Congo fu al centro dell'attenzione internazionale. Il tormentato Stato africano, come si ricorderà, fu infatti al centro, degli "appetiti" delle multinazionali dei metalli, delle grandi lobbies americane e non solo, che spesso erano legate a doppio filo con governanti e capi di Stato, africani e occidentali. In quegli anni persino il segretario generale delle Nazioni Unite, lo svedese Dag Hammarskjoeld, perse la vita in un incidente aereo in Rhodesia, mentre si recava a incontrate lo stesso Thsombè, incidente la cui dinamica non è stata a tutt'oggi mai chiarita.
Scrive comunque Generali nel numero attualmente in edicola del bimestrale "Storia & Battaglie" edito dall'Editoriale Lupo: “L’episodio più noto di questo fosco periodo fu il massacro di 13 aviatori che formavano parte del contingente messo a disposizione delle Nazioni Unite dal governo italiano. I piloti avevano trasportato a Kindu, nella provincia del Kivu, alcuni carri malesi e altro materiale (…). Alcuni soldati ubriachi (congolesi del generale Lundula) accusarono gli italiani (che si trovavano alla mensa in compagnia di alcuni caschi blu malesi, ndr) di essere mercenari belgi al servizio di Thsombè; tutto si svolse molto rapidamente: l’uccisione, lo smembramento dei corpi e il macabro banchetto che ne seguì. L’inchiesta dell’Onu - prosegue Generali - fu altrettanto superficiale di quella del governo congolese (che in quei giorni aveva mosso guerra al Katanga secessionista di Thsombè con l'appoggio proprio dell'Onu, ndr) Solo le indagini delle autorità katanghesi, dopo la cattura in combattimento dei veri fomentatori ed esecutori della strage, avrebbero permesso la punizione dei colpevoli. Purtroppo - ricorda ancora il consigliere politico del presidente katanghese - questi furono liberati, prima del processo, dalle truppe dell'Onu, durante gli avvenimenti che portarono alla capitolazione di Thsombè (…)”
Nell’articolo, Enzo Generali si sofferma sulle atrocità commesse dai caschi blu delle Nazioni Unite, in prevalenza indiani, nepalesi, malesi,etiopi e altri. Tra queste atrocità ci furono bombardamenti di ospedali, zone residenziali, cannonate sulle autoambulanze: quest’ultimo particolare, poi, fu ufficializzato dallo stessso comandante generale delle truppe delle Nazioni Unite in Congo, Mc Keown, che in un comunicato annunziò che “tutte le autoambulanze katanghesi sarebbero state mitragliate, perché era possibile che trasportassero mercenari europei”.
Generali ricorda che lo stesso ospedale italiano della Croce Rossa di Elisabethville, capitale del Katanga, fu militarizzato dall'Onu quale posto di combattimento. Proteste si registrarono da parte di tutti i medici, privati e universitari di Elisabethville, ma non sortirono alcun esito.
Leggendo i quotidiani italiani dell'epoca, si ha pressappoco la stessa ricostruzione dell'eccidio a Kindu dei nostri tredici eroici aviatori: l'indignazione del popolo italiano fu enorme, soprattutto in considerazione del fatto che la notizia dell’orribile massacro avvenuto l’11 novembre del 1961, fu pubblicata dai giornali italiani soltanto il giorno 17, sebbene essa fosse trapelata il 15, dopo molte arroganti reticenze da parte del governo congolese del comunista Adoula.
Le famiglie delle vittime vissero l'incredibile stillicidio di notizie provocato dall'imbarazzo del governo di Leopoldville e dalla “prudenza” dell'Onu, sino alla beffa atroce del "colonnello" congolese Pakassa, il quale, prendendosi gioco di tutto il mondo, visse il suo momento di celebrità rispondendo alle pressanti richieste dell'Onu di far luce sui fatti e sulla sorte dei 13 aviatori con queste parole: «Godono di buona salute».
La domanda alla quale nessuno sinora ha dato una risposta e probabilmente destinata a rimanere tale, è la seguente; Mc Keown e Sturo Linner, quest'ultimo capo delle ope­razioni Onu in Congo, conoscevano già dall'11 novembre la sorte degli italiani?
E un altro incredibile particolare ci sbi­gottisce, rileggendo le cronache di Kindu: a quanto pare, i soldati congolesi, a centinaia, avendo scambiato gli italiani per mercenari al servizio di Thsombè, circondarono la base dell'Onu tenuta dai caschi blu malesi e, dopo averli percossi selvaggiamente, imprigionarono per alcune ore i malcapitati aviatori, senza che le truppe dell’Onu facessero assolutamente nulla per opporsi. Non un solo colpo di fucile venne sparato dagli oltre duecento soldati malesi. Il resto è storia di ieri: dopo la fucilazione, i corpi subirono quella sorte atroce che non vogliamo qui ricordare per rispetto alle famiglie.
A quell’epoca, e negli anni successivi, fu solo la Destra italiana che ricordò in ogni anniversario i 13 eroici aviatori morti in Africa al servizio del loro Paese e che incalzò i governi affinchè facessero luce sulle responsabilità, che indubbiamente vi furono, che portarono a quel tragico epilogo. Poteva la tragedia essere evitata? Si sarebbe potuto intervenire, da parte delle truppe dell’Onu, con una maggiore energia? Potevano quelle vite essere salvate? E’ difficile dirlo ma ricordiamo che in occasione di un episodio dai contorni analoghi, quando la soldataglia congolese sequestrò un gruppo di soldati irlandesi, il governo dell'Eire intimò alle Nazioni Unite di intervenire immediatamente, preparando al contempo un contingente di paracadutisti da inviare in Congo.
La verità, per quanto scomoda e brutta, va sempre portata a galla, soprattutto quando essa può contribuire ad evitare che in futuro le forze sovranazionali di pace siano inviate nuovamente in difesa di interessi politici ed economici e non a protezione dei popoli oppressi da dittature quanto mai fe­roci e determinate solo ad arricchirsi. La prova di ciò è che da quelle lontane vicende sorse “l’astro” di Mobutu Sese Seko, sergente ai tempi di Thsombè, che approfittò del cataclisma congolese per mettersi in luce e conquistare il potere a forza di massa­cri e di pulizie etniche, per poi tenere il Congo sotto un giogo durissimo per quasi qua­rant'anni: il tutto sotto gli occhi benevoli dell'Occidente, i cui "cartelli" potevano ora liberamente rifornirsi di tantalite, uranio, oro, diamanti e quant'altro, col solo inco­modo di dover riempire le tasche di Mobu­tu e della sua cricca; ciò che permise al dit­tatore africano, quando vi fu la rivolta, gui­data da Laurent Desirée Kabila, di fuggire nella sua reggia in Costa Azzurra dove poi morì nel lusso più sfrenato.
Ha imparato qualcosa l'Occidente dalla lezione di Kindu quarant'anni dopo? A voi la valutazione, ma ci auguriamo che anche queste ultime, non esaustive ma importanti rivelazioni su quei giorni drammatici, contribuiscano alla riflessione, oltre che naturalmente al ricordo, alla memoria e al rispetto dei nostri Caduti, morti nel tentativo di portare la pace in una nazione che oggi è ben lungi dall'essere pacificata e dove tra poche settimane un nuovo contingente delle Nazioni Unite, composto anche da italiani, sarà inviato.

venerdì 9 novembre 2007

da Con la Folgore prima e dopo El Alamein di Rino Stoppele Capitoli 20 e 21

Capitolo 20°

La «Folgore» visse gli ultimi giorni di El Alamein in un continuo allarme.

I suoi capisaldi si erano riordinati alla meno peggio in tutta fretta dopo i giorni della devastazione.

Gino ogni sera ritornava a vedere di buca in buca i suoi ragazzi, resi ora più sicuri dalla vittoria conseguita sul nemico.

Sognavano anzi di poter riprendere l'offensiva dell'agosto, colpendo sul fianco sinistro l'avversario in movimento e quindi in crisi, per accerchiarlo in una sacca gigantesca, da cui non gli sarebbe stata concessa una via di scampo. Sognavano, naturalmente...

Gino seguiva queste illusioni dei suoi ragazzi, i sogni che accarezzavano così arditamente, convinto che, se a nord avessero mollato, come sembrava, sarebbe stata la fine per tutti.

La «Folgore» poi, schierata all'estremo sud, priva di automezzi, sarebbe stata abbandonata di conseguenza all'inesorabile destino del deserto, che non perdona.

Nei primi giorni di novembre, in piena notte, arrivò l'ordine di ripiegamento su di una linea prestabilita, all'altezza del meridiano di Fuca.

Lasciati alcuni centri di fuoco, per trarre in inganno il nemico, l'allineamento della «Folgore» nel silenzio sovrano di quell'ora tragica si mise lentamente in moto.

1 ragazzi non riuscivano a comprendere, a darsi pace e si chiedevano il perché di tale ordine assurdo; molti di loro avevano gli occhi lucidi di pianto, pensando ai compagni sepolti sotto una spanna di sabbia..., che dovevano abbandonare.

Ogni ufficiale, carta topografica alla mano e bussola, seguiva in testa al proprio reparto l'itinerario di marcia; entro la sera successiva avrebbero dovuto essere lungo i costoni di GebelCalac.

Alla prima luce dell'alba il deserto apparve come un immenso formicaio di uomini, ridotti a larve, che faticosamente arrancavano nella sabbia in direzione ovest. 1 loro occhi erano privi di luce, spenti, stanchi, resi ancora più tremendamente vuoti dall'incavo delle orbite rinsecchite e dagli zigomi sporgenti in un contorno di capelli e barba incolti, arruffati, sporchi di sudore, sangue e sabbia; quel poco di viso raggrinzito ed essiccato dal vento e dal sole, libero di peli, era coperto di mosche appic¬cicaticce, fastidiose, affamate, fetide.
La guerra annienta uomini e mezzi, sconvolge terra e cielo, ma non distrugge le mosche del deserto.
Le divise, stinte dal sole, erano come gli uomini, sporche, a chiazze di sangue, qua e là bruciacchiate, forate, a brandelli.
La massa ripiegava in ordine sparso.
Era per di più formata dai ragazzini della «Pavia», abbrutiti da mesi d'Africa, atterriti e sconvolti dai giorni ultimi della batta¬glia d'ottobre; piangevano, quando arrivavano in linea di rincal¬zo, piangevano ora che la lasciavano!
Il sole stava già trionfando dall'orizzonte, quando i reparti giunsero ad un punto d'incontro. Fu necessario l'immediato intervento degli ufficiali, per impedire che amici e compagni di capisaldi diversi, che da mesi non si vedevano, abbandonassero la propria formazione per correre ad abbracciarsi, In testa si trovava il carrozzone del Comando Divisione, seguito dalle auto ambulanze.
Nella breve sosta Gino presentò il reparto al Comandante di Battaglione: "Un ufficiale, tre sottufficiali e venti paracadutisti; di questi metà feriti più o meno gravi".
Egualmente fecero gli altri Comandanti di Compagnia.
Tutti i reparti erano più che dimezzati. Il Maggiore riuscì a stento a frenare la commozione.
Mentre con i suoi ragazzi Gino stava riprendendo la marcia di ripiegamento, venne avvicinato di corsa dal tenente... del IV BTG., il quale in una esuberante esplosione di gioia, dopo aver¬lo abbracciato, gli disse: "Come vedi, non sono ancora mor¬to...!" e rise forte, isterico.
Gino lo fissò attentamente negli occhi, come volesse leggergli nell'animo, indi: "Ma credi ancora a quelle panzane?" gli chiese. "No, no, ma sai?!..." ed accompagnò quelle parole con un gesto ampio delle braccia, come per dire: non si sa mai, a volte anche le streghe azzeccano giusto.
"Dimmi piuttosto domandò Gino quanti uomini ti sono rimasti in Compagnia?"
"Non molti precisò per tutta risposta, diventando improvvisa¬mente triste purtroppo i più li ho dovuti abbandonare nel deserto e, dopo qualche attimo di assorta meditazione, ho visto gli alpini a combattere sul «Tomori», aggiunse con soddisfazio¬ne, ma posso assicurarti che questi ragazzi non hanno alcunché da invidiare a loro...!"
La marcia riprese lenta e pesante.
I piedi sprofondavano nella sabbia. Gli uomini sfiniti dai mesi di linea e dai giorni della battaglia, curvi sotto il peso delle armi e delle cassette munizioni tiravano avanti con la sola forza della volontà.
Il sudore inondava tutto il corpo e l'arsura divorava sempre più la gola: sete, sole, fame, sudore, mosche, pidocchi, stanchezza, desolazione nell'animo per l'abbandono delle postazioni, dei cari amici scomparsi, odore nauseabondo di sporcizia, fatto più acre dal sudore abbondante, disperazione, che faceva sanguina¬re l'anima.
Tutto questo tremendo calvario pesava su quei ragazzi, che dovevano per obbedienza volgere le spalle ad un nemico, che avevano vinto.
In quel silenzio tragico, rotto soltanto dal monotono, cadenza¬to, tonfo sordo dei piedi nella sabbia, improvvisamente si udì da lontano il rombo di una formazione di aerei.
Istintivamente i ragazzi girarono il capo nella direzione: si trat¬tava di alcuni ricognitori inglesi, che perlustravano il deserto; fecero un ampio giro tutt'intorno due o tre volte, indi a tutto gas ritornarono sui loro passi.
Dopo qualche ora di marcia le colonne si attestarono, per pren¬dere fiato. Invano avevano sperato di poter raggiungere indi¬sturbate l'allineamento delle dune di Gebel Calac. I ragazzi reclamavano acqua. Le borracce erano vuote; sapevano però che non l'avrebbero avuta prima della sera. La marcia riprese più pesante di prima.
Non era ancora mezzogiorno che le colonne vennero improvvi¬samente attaccate da carri armati e da aerei. Fu necessario siste¬mare in fretta i reparti a caposaldo. Gino pensò a quelli rimasti ai centri di fuoco: saranno stati annientati, si disse.
I ragazzi si scavarono in tutta fretta, aiutandosi con il pugnale, la buca, per poter per lo meno proteggere il capo ed il petto dalle schegge delle granate in frantumi, che cadevano come grandine, tutt'intorno. I « 105» divisionali aprirono il fuoco di contro batteria. Gli aerei a bassissima quota spezzonavano e mitragliavano; solo qualche mitragliera da «20» tentò di ostaco¬lare l'offesa aerea sui capisaldi. Così scoperti, privi di riparo, senza alcuna valida reazione antiaerea, nella condizione di non poter fermare i carri, avendo dovuto distruggere i pezzi da « 47» , per non appesantire vieppiù la marcia di ripiegamento, i reparti furono completamente in balia del nemico. In queste condizioni la sofferenza degli uomini aumentò ancor di più, fino a raggiungere la disperazione.
Al calare della sera il nemico cessò improvvisamente il tirò ed indisturbato si preparò il rituale thè. Davanti ai capisaldi della «Folgore» simultaneamente si accesero lungo tutto lo schiera¬mento opposto dei fuocherelli, simili a quelli che usano accen¬dere in montagna lungo i tratturi verdi i pastori, per scaldarsi nelle umide e fredde sere d'autunno. Non c'era tempo da perdere, bisognava sganciarsi al più presto, approfittando delle tenebre venienti. L'ordine fu immediato: seppellire i morti, caricare i feriti sulle auto ambulanze, riempire le borracce, armi e munizioni in spalla e partire.
Gino nel frattempo riuscì a spostarsi di corsa fino alle più vicine autoambulanze: vi trovò in una il veneziano, stava già meglio. C'era anche il Tenente... del IV Battaglione: era stato colpito da una scheggia ad una spalla; una brutta ferita che gli aveva lace¬rato le carni e fracassato la scapola. Il capitano medico gli aveva assicurato che il polmone non era stato offeso; parlava con un fil di voce, tanto che Gino faceva fatica a seguirlo; pregò Pino di aver cura di lui e dei ragazzi.
La marcia riprese più spedita, il fresco della notte dava agli uomini vigore e speranza. Camminavano in silenzio, con il pensiero che volava indietro, vicino e lontano nel tempo e nello spazio; ai compagni caduti ieri, oggi; alle case lontane, alla madre, alla sposa, ai figli, alla ragazza, al padre, ai fratelli.
Dopo qualche ora di luce i mezzi veloci del nemico li raggiun¬sero nuovamente; fu necessario predisporsi immediatamente a capisaldi a raggiera.
L'accanimento del nemico divenne più spietato del deserto.
Data la natura del terreno pietroso, fu difficile per i ragazzi scavarsi con il pugnale anche un minimo riparo. C'erano qua e là dei cespugli secchi e stecchiti, coperti di lumachine, che permisero agli uomini un certo occultamento. Mentre il grandi¬nare delle granate dilaniava carni, armi, mezzi, pietra e sabbia, Gino pensò istintivamente alla Patria lontana: «4 Novembre», giorno della Vittoria della I^ Guerra Mondial... Nelle città, nei paesi, nei casolari sparsi sui monti e nelle valli si celebra oggi l'anniversario di Vittorio Veneto si disse. Rivide la bandiere, i labari, i combattenti con le medaglie sul petto, la gente, i bambini curiosi, allegri, sorridenti... davanti al monumento dei Caduti, ove si legge il bollettino della Vittoria e la banda citta¬dina intona le note solenni del «Piave», squilli d'attenti, presen¬tat'arm, corone d'alloro con nastri tricolori... e dopo: il banchetto, i discorsi, lo spumante, i canti della montagna..., baldoria... "E qui si muore...!" gridò, e si alzò di scatto, correndo qua e là, come cercasse con il petto un colpo in arri¬vo... Era disperato, voleva morire; da giorni gli martellava nel cervello il ricordo lontano di quando bambino vide lo strazio della casa per la morte dello zio prigioniero, il ricordo delle giornate d'angoscia della zia, morta poco dopo di dolore, il ricordo della lettera di un suo compagno prigioniero, che dice¬va: "Morto di patimenti, di stenti, di fame!"
Solo allora s'avvide che non sparavano più.
Si trovava vicino a un ragazzo che agonizzava gemendo; dal ventre squarciato uscivano gli intestini; chiamò, urlò... e venne¬ro i porta feriti...; non lo vollero toccare; nel silenzio repentino gridò: "Meglio ucciderlo, finirlo!"; aveva gli occhi stralunati.
1 ragazzi sorpresi lo stavano a guardare con il capo sollevato dalla sabbia..., quando uno strano mezzo, avanzando veloce, incominciò a sventolare una bandiera bianca.
Il brank carr si avvicinò presto fino a raggiungere i paletti del filo spinato, che delimitava il campo di mine, poste a protezione in tutta fretta lungo i capisaldi; un ufficiale si alzò e con il megafono incominciò a gridare:
"Valorosi soldati della «Folgore», vi siete battuti da leoni; ognuno di voi è un Eroe; il Comandante Supremo, a nome di S.M. Britannica, vi concede l'onore delle armi!; siete senz'acqua, senza viveri, senza munizioni, con poche armi, isolati nel deserto, abbandonati dai vostri alleati, i tedeschi, in fuga verso Tripoli. Non avete più via di scampo, arrendetevi! S.M. Britannica vi concede l'onore delle armi! Eroici ragazzi della «Folgore» arrendetevi o vi annienteremo!"
In un attimo Gino inquadrò la situazione, indi nel silenzio generale gridò l'ordine di sparare alcune raffiche sopra il brank¬car.. Questi, fatto bruscamente dietro front, sparì, lasciandosi dietro una scia di polvere, mentre i carri e gli « 88» riprendeva¬no più violenti di prima il fuoco di annientamento.
I morti cadevano vicino ai morti, i feriti si lamentavano ed i ragazzi dovevano subire passivamente, senza poter sollevare la testa, con nell'anima l'attesa tragica di una imminente agonia.
Al tramonto, cessata la furia devastatrice degli «88» , i reparti ulteriormente dimezzati, ripresero a ripiegare verso ovest.
Era già buio, quando poterono superare l'allineamento dei dossi di Gebel Calac, oltre i quali si presentò un'interminabile piattaforma pietrosa; ricordava il Calvario del Carso. Qui i piedi non affondavano più nella sabbia e per la frescura umida della notte la marcia divenne più spedita. Alla spettrale luce della luna i ragazzi curvi e pesanti sembravano tante ombre grevi, uscite per incanto dalle tombe della valle della morte.
Gino pensava a ciò che era successo in quel giorno, alla propo¬sta di resa con l'onore delle armi; pensava alla promessa di una linea prestabilita, che si doveva raggiungere, espressa nell'ulti¬mo dispaccio di Rommel: "Valorosi ragazzi della «Folgore» vi ordino di ripiegare su linea prestabilita; a guerra vinta sfilerete a Berlino con le migliori truppe tedesche". Pensava ai ragazzi caduti, a quelli che stavano ancora con lui nella notte, vaganti in un deserto sconfinato, dove alle spalle incalzava un nemico veloce ed agguerrito, mentre davanti vi erano soltanto tenebre e morte...
Durante i giorni della battaglia Rommel aveva pure radiotra¬smesso al Comandante della Folgore: "Generale, la prego di invitare i suoi uomini a risparmiarsi!"
"Ma allora, si diceva Gino cadenzando il passo in testa al repar¬to, a che serve risparmiarsi oggi, se domani sarà la fine?; a che serve addestrare i soldati, curarli, educarli, amarli ad un certo momento come fratelli, se poi è destino che la guerra inesora¬bilmente li travolga e li distrugga...? La Patria ha il suo destino e vive per questi suoi figli pensò e solo per questi, che sanno morire e fu pago di questa risposta a tutti i suoi drammatici interrogativi. Dopo un po', a mezza voce, come parlasse a se stesso aggiunse: speriamo che tutto non sia vano!"
La notte stava abbandonando sparse nel nulla le sue ombre e l'ora antelucana stava già tingendo di perla i densi vapori del deserto, quando i mezzi corazzati inglesi a tenaglia serrarono sotto, per incalzare da vicino i ragazzi, onde annientarli. L'orgoglio inglese voleva ad ogni costo e senza perdere ulterio¬re tempo vendicare l'insulto del rifiuto.
Su quell'altopiano bianco e spettrale, nell'incerto crepuscolo dell'alba, iniziò cosi quella che gli inglesi chiamarono: "La battaglia di sterminio dei resti della «Folgore» nel deserto".
Quanto fu lungo i giorno, pochi «105» divisionali e qualche mitragliera da «20» riuscirono a tenere a debita distanza i pode¬rosi mezzi corazzati d'assalto. 1 ragazzi, nell'impossibilità di una qualsiasi protezione, stavano il più possibile diradati ed appiattiti su quelle pietre infuocate dal sole.
"E' impossibile continuare disse Gino al nuovo comandante di battaglione, un tenente anziano, che aveva assunto il coman¬do al posto del Maggiore, divenuto Comandante di Reggimen¬to per la morte del Colonnello gli uomini sono sfiniti, le munizioni sono agli sgoccioli, da qualche giorno siamo senz'acqua, senza viveri; temo che, riprendendo la marcia, ben pochi riusciranno a rimettersi in piedi".
E così fu. L'ufficiale di coda della colonna di sinistra, che segui¬va l'altopiano lungo la depressione, ad un certo momento, incominciò a sparare sui ragazzi, che cadevano sfiniti.
Sandro riuscì a raggiungere con uno sforzo sovrumano la testa della formazione, per avvertire Gino. Questi, senza aprire bocca, fece cenno al sottufficiale di porsi al suo posto e, messosi sul fianco della lunga colonna, attese la coda: osservava alla chiara luce lunare i ragazzi: la testa piegata sul petto, gli occhi spenti, le braccia abbandonate lungo la vita, le gambe che si piegavano ad ogni passo, i piedi che uscivano dagli stivaletti squarciati nudi e sanguinanti... si fece forza lui stesso, per non cedere.
Come giunse l'ultimo uomo, si affiancò al tenente e, dopo qualche passo, senza togliere lo sguardo dalla bianca pietraia luccicante: "Perché hai sparato?" gli chiese.
L'ufficiale non rispose.

Gino ripetè più forte la domanda e si fermò contemporanea¬mente, afferrandolo stretto per un braccio e fissandolo con gli occhi sbarrati, fuori dalle orbite.
Come uscisse da un mondo tutto _ suo, fatto di paure e di incu¬bi: "Perché ho sparato? chiese di rimando, senza aprire gli occhi; e quasi subito Perché non voglio che facciano una stra¬ziante agonia" rispose stanco e si rimise in marcia, mentre Gino rimase immobile a guardarlo, ma dopo qualche passo incerto sembrava un vecchio cadente.
Giratosi di scatto: "Ho paura io gridò con gli occhi pazzi degli avvoltoi, che mi rondano sopra e delle iene, che mi vengono ad annusare... capisci? ed ancora più forte, agitando le braccia follemente non voglio che i miei ragazzi siano divo¬rati dagli sciacalli, prima ancora di morire!" Si rigirò, riprenden¬do la marcia a grandi passi, per raggiungere gli uomini, che incuranti proseguivano per forza d'inerzia.
Pure Gino allungò il passo fino a raggiungerlo, indi: "Al primo alt gli ingiunse passa in testa alla colonna...; prendo io il tuo posto, anzi da questo momento chiudo io la marcia" e si affiancò, proseguendo stancamente, come tutti gli altri.

Capitolo 21 °

A mano a mano che il sole aumentava il calore, i ragazzi crollavano sempre di più... con la bocca bavosa, la lingua ingrossata imploravano: acqua... acqua! Invano Gino cercava di scuoterli, di animarli, di minacciarli; qualcuno, come si riaveva, apriva pigramente gli occhi e, vedendosi la pistola puntata, balbettava a mezza voce: "Mi spari, signor tenente..., non ce la faccio più!" e richiudeva, forse per sempre gli occhi.
Gino con l'animo straziato ed il pianto in gola lo girava a bocconi, perché il sole e gli avvoltoi non lo sfigurassero anzi¬tempo.
Era tremendo per lui dover abbandonare così i suoi soldati. Prima di giungere a tanto, aveva cercato di aiutare qualcuno, sostenendolo per un braccio passato sopra le sue spalle; ma era come si trascinasse dietro un peso morto; dopo pochi metri di inutile sforzo, cadevano pesantemente l'uno sull'altro. Gli inglesi continuarono a sparare per tutto il giorno. Il comandan¬te diede ordine di non attestarsi a difesa, con la speranza di poter raggiungere prima del tramonto la linea prestabilita. Solo i «105» divisionali, in coda alla colonna, di tanto in tanto si fermavano ad aprire il fuoco, per cercare di ostacolare il più possibile l'incalzante pressione dei mezzi nemici.
1 resti della «Folgore» giunsero così al calar della sera entro una conca, limitata da costoni rocciosi posti a semicerchio, con profonde caverne, che permisero sicuro riparo; si aveva l'impressione di trovarsi in un ampio anfiteatro.
Il nemico, mentre gli uomini si abbandonavano, ormai allo stremo delle forze, all'ombra delle caverne, incrociò un tiro violento di «88», come volesse definitivamente sterminarli; solo il riparo naturale poté impedire agli inglesi di raggiungere lo scopo.
Calarono intanto sul deserto le benefiche ombre notturne.
Il comandante pensò fosse giunto il momento di mettere in salvo i feriti e diede ordine alle autoambulanze di proseguire a tutta velocità verso ovest. Pino volle rimanere con i suoi ragazzi. Gli uomini reclamavano acqua; erano talmente sfatti, che non sentivano più il bisogno di cibo, solo la gola bruciava e la lingua si ingrossava per l'arsura.

"Da tre giorni, precisò il veneziano, che stava sdraiato vicino a Gino sotto il cielo stellato, manca qualsiasi collegamento¬radio con il Comando di Corpo d'Armata".
Gino ascoltava in silenzio.
"Tutte le Divisioni italiane non parliamo dei tedeschi aveva¬no gli automezzi, per ripiegare, in caso di sfondamento della linea; solo la «Folgore», all'estremo sud del fronte, è stata abbandonata senza mezzi a questo strano destino...".
Gino mugugnò qualcosa che Pino non riuscì ad afferrare.
"Il comando divisione ha cercato inutilmente di collegarsi via radio... siamo riusciti soltanto oggi a captare qualche comunica¬to dal Cairo...; proprio questa sera parlavano di noi: "la Folgo¬re" dicevano ha resistito nel deserto oltre ogni possibilità umana!"
"Ha resistito ripeté a voce alta Gino, sottolineando le parole ci fanno dunque tutti morti...!" 1 suoi occhi stavano spalancati sulle stelle, ma il suo cuore, la sua anima, erano lontani... e piangeva in silenzio.
Dopo qualche ora di sosta la colonna riprese la marcia, per allontanarsi il più possibile dal nemico che riposava sicuro a breve distanza.
L'inesorabile decimazione dei giorni precedenti continuò non appena il sole incominciò a bruciare uomini e deserto. Si proce¬deva sempre più lentamente.
Il nemico incalzava da vicino. I ragazzi si trascinavano avanti come ombre, incuranti persino dei colpi, che cadevano d'intor¬no; solo la volontà di arrivare alla linea promessa li sorreggeva ancora... !
Il cielo improvvisamente ebbe pietà di loro: in un baleno il sole sparì dietro una nuvolaglia densa, scura, che si allargava con fulminea rapidità, abbassandosi fino a sfiorare le dune, costeg¬gianti la depressione. Un furioso, gigantesco uragano di vento e di acqua si rovesciò fra lampi, tuoni e fulmini a perdita d'occhio; pareva che la notte avesse seguito il giorno, sembrava la fine del mondo. La benefica acqua cadde a catinelle, inzup¬pando in pochi istanti la sabbia.
1 ragazzi felici e rianimati si abbandonavano bocconi di pozzan¬ghera in pozzanghera fra bagliori e tuoni a non finire, bevendo avidamente acqua e sabbia senza interrompere la marcia. Ai piedi di una duna si era formato un fossato colmo d'acqua; i ragazzi tutt'intorno bevevano avidamente, senza curarsi di quello che stagnava sul fondo: bianche ossa e teschi umani. In ognuno rinacque in cuore una nuova speranza: il miracolo di Dio salva i resti della «Folgore» ed il loro pensiero volò alla casa lontana, ai loro cari in straziante trepidazione...
Purtroppo fu una passeggera illusione, perché con la stessa immediatezza con cui si scatenò, la bufera si dileguò ed il cielo ritornò più lucente di prima.
I mezzi nemici serrarono sotto veloci, riprendendo a martellare violenti. Contemporaneamente una divisione corazzata chiuse a tenaglia da ovest, completando l'accerchiamento.
La piana infuocata era tutta disseminata di morti e moribondi, il deserto un immenso cimitero di cadaveri senza tomba.
Il nemico cessò per incanto il fuoco, comprese d'istinto che si stava consumando un rito.
Gino presentò al Generale i reparti: "3 ufficiali, 22 paracaduti¬sti fra sottufficiali e truppa". La «Folgore» aveva perso l'80% dei suoi uomini.
Il Comandante con le lacrime agli occhi ordinò il "presentat'arm" alla bandiera, mentre le fiamme, che già aveva¬no investito il mezzo divisionale, per poi distruggere i docu¬menti, lambivano gemendo il tricolore, che sventolava alto sul Carrozzone Comando.
Immobili sull'attenti i ragazzi piangevano. Il tramonto era di fuoco.
Con la bandiera ardevano il deserto ed il cielo; con il deserto ed il cielo nel tricolore in fiamme gli spiriti dei vivi e dei morti, nudi e puri davanti a Dio ed agli uomini. Era il 6 Novembre 1942, ore sedici.

Cosi fini la «Folgore».