lunedì 9 febbraio 2009

Pagina d'apertura dedicata al Generale Giuseppe Palumbo "Il 9 febbraio 2009 il mio Comandante è andato avanti per ricongiungersi con i suoi ragazzi"


Giuseppe Palumbo e Mario Chiabrera. Una vita insiemeE'andato avanti il mio Comandante Generale Giuseppe Palumbo.
Per me è stato come un padre.

Esco dal privato per non sottrarre nulla ai suoi paracadutisti per i quali ha mantenuto sempre un amore paterno.

Del comandante ho l'ultimo ordine che mi ha dettato in occasione della Festa della Specialità del 27 ottobre 2007, quando era assente perchè ricoverato in ospedale.

"Ordino a tutti i miei paracadutisti che almeno una volta nella loro vita si rechino al Sacrario di El Alamein e non dimentichino chi è caduto per la Patria".
Roma 27 ottobre 2007
Generale Giuseppe Palumbo .



Il mio sentito Grazie alla nipote dottoressa Sabrina per le amorevoli cure che in anni di dedizione e affetto ha riservato al mio Comandante.
Folgore
Par. Tino Gianbattista Colombo




Nell'immagine di Basco Grigioverde il 25 aprile 1999 il Generale palumbo con la Nipote Sabrina all'innaugurazione del "C-119 Lira 35" Restaurato dal Gruppo Amici del C-119 e posizionato presso il Museo Tematico di Piana delle Orme Borgo Faiti latina

N.B. Per trovare altri post sul Generale Giuseppe Palumbo servirsi del motore di ricerca interno al Blog Basco Grigioverde
Questo è il Link che porta al Famedio del Cimitero del Verano Roma dove verranno deposte provvisoriamente le ceneri del Comandante Generale Giuseppe Palumbo in attesa di essere traslate a El Alamein
http://bascogrigioverde.blogspot.com/2008/06/31-maggio-maggio-al-famedio-del.html
Dopo la cerimonia ci defilavamo ed eravamo soliti a portare un saluto sulla Tomba della moglie Fernanda

Da Folgore

"I NOSTRI GRANDI"

Gen. Giuseppe Palumbo



Divenne Comandante della Scuola Militare di Paracadutismo dopo leggendarie imprese di guerra in Africa. Conquistò il forte di Harrington ed ebbe la soddisfazione di ammainare personalmente la bandiera inglese. Catturato, fu protagonista di ben 13 evasioni: drammatica quella che lo costrinse a nuotare per sette ore nell'oceano, storica quella che dal Kenya lo condusse in Italia.
Di possedere un coraggio al limite della temerarietà, lo scoprì a 12 anni ne. quando, per far breccia nel cuore di una ragazzina di cui si era innamorato, percorse l'intero cornicione al quinto piano del palazzo dove abitava, su un lo monopattino rischiando ad ogni curva di sfracellarsi al suolo!
Da allora ad oggi (ha felicemente ha girato la boa dei 84 anni) la vita del generale paracadutista Giuseppe 1° Palumbo è sempre trascorsa all'insegna delle imprese più clamorose e stravaganti, costantemente al confine tra temerarietà e incoscienza.
Comandante di bande di colore in Africa durante l'ultima guerra, autore di colpi di mano leggendari (come la conquista del munitissimo fortino inglese di Harrington), protagonista di ben tredici evasioni di cui cinque importanti (drammatica quella che lo costrinse a nuotare per sette ore nell'oceano infestato di pescecani; "storica" quella che lo condusse dal Kenya all'Italia con una fuga da Guin­ness dei primati di ben ottomila chilo­ metri!); domatore di tigri e leoni; paracadutista spericolato.
Nel dopoguerra nè il passare degli anni nè le responsabilità del grado (fu comandante della Scuola militare di paracadutismo) attenuarono il suo gusto per l'avventura e per le iniziati­ve provocatorie che scatenarono pole­miche anche a livello nazionale come quando affrontò a ceffoni un giornali­, sta che aveva accusato ingiustamente i suoi paracadutisti o quando restituì le al decorazioni al valor militare al presi­dente Pertini in segno di sdegnata pro­testa.

Quando nel '73 concluse la sua car­riera, volle celebrare l'avvenimento con un gesto spettacolare: "Feci un lancio a Vicenza con la pattuglia acro­batica in caduta libera da tremila metri per chiudere nell'aria la mia vita militare. Così come nell'aria spero un di giorno di lasciarci le penne ".
Figlio di un ufficiale di cavalleria, Giuseppe Palumbo fece il corso allievi ufficiali nel '36 in fanteria e due anni dopo partì per l'Africa orientale parte­cipando con il II Battaglione Colonia­le ai cicli di operazioni di guerra nel territorio del Governo dei Gallo e Sidano ottenendo tre croci al merito di guerra e la decorazione di cavaliere dell'Ordine coloniale della Stella d'Italia.
L'impresa più impegnativa fu l'annientamento della banda di Marfù Tafarrà che aveva tenuto in scacco un intero battaglione.
Scoppiato il secondo conflitto mon­diale, l'allora tenente Palumbo si rese protagonista di leggendari colpi di mano al comando di bande indigene. Il più clamoroso fu la conquista del munitissimo forte inglese di Harrington dopo sei giorni di furiosi combatti­menti.

"Prima di poter conquistare il forte ‑racconta Palumbo ‑ bisognava annien­tare la resistenza di Dirsale, un paesi­no proprio ai piedi di Harrington. Mentre i vari battaglioni si sussegui­vano negli assalti, io ero di riserva con i miei uomini. Stanco di questa attesa snervante, mi presento al Comando attacco, dal col. Cicinelli, e mi offro volontario per occupare il paese con la mia banda. Il col. Cicinelli mi dice, ridendo, che in Africa i manicomi ancora non c'erano, facendomi capire che la mia proposta era pazzesca.
Mi dà comunque via libera e io gioco la carta della sorpresa e della psicologia: a notte, dopo una giornata di intensi combattimenti, i soldati, spossati, avvertono logicamente un calo di tensione. lo approfitto di que­sta situazione e, con pochi uomini, lancio in piena notte un attacco vio­lentissimo con micidiale lancio di bombe a mano.
La sorpresa funziona, i difensori di Dirsale abbandonano il paese e cerca­no scampo nel vicino forte di Harring­ton".
Il primo obiettivo è raggiunto, ades­so resta il compito più arduo.
Palumbo e i suoi uomini restano imbottigliati in prima linea "rigettando ripetuti contrat­tacchi nemici ‑ come riporta la motiva­zione del passaggio di Palumbo in S.P.E. per meriti di guerra proprio in virtù di quell'impresa ‑ e resistendo sul posto per tre giorni consecutivi nono­stante i furiosi bombardamenti avversa­ri effettuati sia da terra sia dall'aria. Infine al quarto giorno, ricevuto l'ordi­ne di assaltare il fortino distante una cinquantina di metri, ci si lanciava a colpi di bombe a mano, mettendo in fuga gli ultimi difensori rimastivi, cat­turando armi e munizioni".
"Naturalmente il forte non cadde solo per merito del mio assalto ma di tutti gli altri battaglioni impegnati nell'attacco ‑ puntualizza Palumbo ‑ Io però ebbi la grande soddisfazione di entrare per primo e di ammainare per­sonalmente la bandiera inglese che i difensori in fuga non fecero in tempo a porre in salvo".
Come "bottino" personale di guerra Palumbo si prese uno splendido cavallo bianco (l'equitazione è sempre stata una sua grande passione, trasmessagli dal padre ufficiale di cavalleria): in sella a quel destriero veniva osannato come un trionfatore dai suoi ascari rimasti sog­giogati dal coraggio che aveva sfoggia­to nella conquista del fortino.

La campagna d'Africa, purtroppo, non registrò solo successi: dopo tante ardite imprese, arrivarono i giorni delle amarezze. Caduto prigioniero il suo reparto, Palumbo con un pugno di uomini tentò di raggiungere l'Amba Alagi dove il duca d'Aosta ancora combatteva. Circondato da truppe soverchianti, dopo un aspro combatti­mento fu costretto ad arrendersi nella piana di Sorfella.

Evaso quasi immediatamente si dava ad azioni di guerriglia con una pattuglia di uomini. Ne fa fede il capo di SM della Somalia col. Luigi Dante Di Marco che, da evaso, organizzava la resistenza nell'Impero.
"Durante il periodo della sua prima evasione ‑ scrive il col. Di Marco nella proposta della concessione di Medaglia d'Argento al Valor Militare al Palumbo ‑ dislocato nel territorio degli Auia a Sud di Harar, insidiò gravemente, alla testa di un pugno di evasi e di indigeni, il traffico militare britannico fra Giggi­ga e Harar: del che successivamente mi fece cavalleresca menzione lo stesso nemico".
Caduto nuovamente. prigioniero, Palumbo non si diede per vinto e pro­seguì nella sua serie di evasioni.
La più clamorosa e drammatica avvenne nel febbraio 1942. Rinchiuso nel munitissimo carcere di Berbera, nella Somalia britannica, Palumbo scommise una sterlina d'oro con un sergente inglese addetto alla sicurezza del campo sostenendo che sarebbe riu­scito a evadere nonostante le eccezio­nali misure di sicurezza. E fu di parola. Di notte, dopo aver messo un manichi­no nel suo letto per ingannare le senti­nelle, con l'aiuto di altri prigionieri riuscì a scardinare una finestra, si calò fino a terra grazie a una fune costruita con le cinture dei suoi compagni di cella, eluse la vigilanza dei soldati inglesi e nel buio corse verso il mare obiettivo, raggiungere una delle nostri navi, ormeggiate al largo, inviate in Somalia per far evacuare, sotto sorve­glianza inglese, le donne italiane.
Con un coltello tra i denti per difen­dersi dai pescecani che pullulavano in quel tratto di mare, Palumbo si lanciò in acqua e cominciò a nuotare verso la libertà. Ore di fatica disumana, resa tre menda dal forte vento che spira verso terra; ormai allo stremo, impossibilitato a reggere tra i denti il coltello se lo infilò nella cintura dei pantaloncini. E proprio a quel banale, forzato cambiamento di posizione, il generale Palumbo deve la vita.
"Sfinito per la fatica ‑ racconta
‑stavo lentamente affondando quando , per un movimento brusco, la punta del coltello mi si piantò in una natica. Il dolore mi fece rinvenire: con uno sfor­zo disperato ripresi a nuotare e rag­giunsi stremato la nave italiana".Sette ore trascorse a lottare contro la corrente avversa l'avevano però sfinito sicché non riuscì ad afferrare la corda che un marinaio italiano gli aveva lan­ciato intimandogli silenzio per non farsi scorgere dalle sentinelle inglesi che erano a bordo del Vulcania.
"Tiratemi su con una corda a due capi, urlai ai marinai ‑ racconta Palum­bo‑ Ma la mia voce attirò l'attenzione di una sentinella inglese che si affacciò dal ponte sparando un colpo a scopo intimidatorio. Poi puntò il fucile verso i marinai italiani costringendoli a molla­re la corda. Per la rabbia e la dispera­zione riacquistai le forze e tornai a nuotare dirigendomi al largo. Ad un tratto sentii alle mie spalle colpi di pistola. Credevo volessero uccidermi, invece cercavano solo di farmi desiste­re dalla fuga e salire a bordo. Tirato su a braccia dagli inglesi, appena misi piede sulla nave mi sentii mancare le forze e, detta alla napoletana, sconnoc­chiai! Ciò fece sorridere un marinaio inglese che mi aveva aiutato ma io mi sentii offeso e tirai fuori il coltello. Ad onor del vero, scendendo dal ponte comando all'infermeria, vidi riflessa la mia immagine in una grande specchio e scoppiai anch'io a ridere! Sembravo infatti un indiano sul sentiero di guerra: tutti i graffi che mi ero prodotto per districarmi dai reticolati al campo erano diventati lividi e gonfi, avevo i capelli ritti in testa e una magrezza impressionante.; insomma, nell'insieme sembravo uno spaventapasseri!".
Appena rifocillato, Palumbo fu fatto sbarcare e venne riportato al campo di prigionia dove il sergente, con tipico fair play inglese, pagò la sterlina della scommessa.
L'episodio è citato, con notevole risalto, anche nel volume "Lunga fuga verso il sud" del principe Giovanni Corsini protagonista, a sua volta, di evasioni leggendarie. Almeno una decina di libri, comunque, fanno riferi­mento alle imprese africane di Palum­bo.
Un altro libro, "Africa senza sole" di F.G. Piccinni, racconta dettagliatamen­te la tredicesima e ultima fuga di Palumbo, quella che lo riportò final­mente in patria.
Ridotto a fare il contrabbandiere di grappa che distillava clandestinamente nel campo da cui evadeva di notte per andarle a vendere e procurarsi così denaro per la fuga, Palumbo finiva spesso nei guai. "Il colonnello inglese ‑é scritto su "Africa senza sole" ‑vedendolo comparire continuamente al processo che si teneva per ogni infra­zione, alla fine gli disse che era stufo di vederlo. Palumbo calmo gli rispose: "Si immagini io, signor colonnello, che la sopporto da oltre cinque anni!" Fu così che il colonnello inglese dette ordine di metterlo in coda a tutti gli elenchi di rimpatrio.
Ma quello scappò di prigione, rag­giunse Nairobi, quindi Mombasa, penetrò nel porto scavalcando di notte la cancellata guardata da sentinelle e si portò su un isolotto all'imboccatura del porto.
Da qui, quando uscì il primo piro­scafo carico di prigionieri, si buttò a nuoto incontro alla nave che lo raccolse e portò in Italia".
Concluso il conflitto mondiale e otte­nuta una promozione per meriti di guerra, il cap. Palumbo fu assegnato al 1 ° Reggimento Granatieri.
"In quel periodo ‑ racconta ‑ venni a contatto con diversi paracadutisti, gente che si dava un sacco d'arie ma veramente in gamba! Tanto che decisi anch'io di diventare paracadutista mili­tare: mi rivolsi al generale Frattini e nel '48 potei fare il corso e ottenere fina­mente il brevetto".
Appena il tempo di cimentarsi nei primi lanci, poi di nuovo in missione in Somalia dove di distinse per coraggio e decisione come gli rico­nobbe il comandante di Mogadisco: "Nella prima metà di aprile il capita­no Palumbo ha svolto un'importante missione in Migiurtinia per il recluta­mento di soldati nativi dimostrando di fronte ad impreviste difficoltà sorte per atteggiamento ostile di alcu­ni gruppi della popolazione, compor­tamento calmo ed energico. In questa occasione ho avuto modo di vederlo personalmente all'opera nella zona di Gallacaio".
Rientrato in Italia nel '52 e pro­mosso maggiore, fu finalmente asse­gnato alle truppe paracadutiste: "Per la precisione, al Centro Militare Para­cadutisti (poi divenuto C.A.PAR.) comandato dal col. Caforio ‑ puntua­lizza ‑ Una denominazione che non mi entusiasmava; protestai, mi diedi da fare per ottenere la vecchia deno­minazione di Scuola Militare Paraca­dutismo e alla fine la spuntai grazie all'intervento del gen. Aloja Capo di Stato Maggiore dell'Esercito".
Dopo una rischiosa esperienza in Libano, Palumbo ottenne il comando della Scuola Militare di Paracaduti­smo. "Proprio in quel periodo ‑ rac­conta ‑
morirono tre miei paracaduti­sti per cause mai accertate, una misteriosa epidemia che provocò allarme e polemiche a livello nazio­nale. Un giornalista di "Paese sera" si permise di scrivere che i paracadutisti prendevano eccitanti per fare i lanci.
Di fronte a questa volgare e vigliacca insinuazione, reagii in maniera assai decisa: mi recai, in borghese, accom­pagnato da mia moglie, nell'albergo pisano dove era alloggiato quel gior­nalista e, nonostante avessi un brac­cio ingessato per tiri incidente di lan­cio, lo affrontai a schiaffoni mandan­dolo all'ospedale". Un episodio che scatenò polemiche violentissime.
"Ma ottenni anche vastissima soli­darietà ‑ si compiace il generale Palumbo ‑ Sapete chi mi difese con maggior vigore? L'on. Andreotti. "Libero schiaffo in libero stato!" disse l'allora Ministro della Difesa con una delle sue celebri frasi. E in quei giorni, nei palazzi politici e ministeriali fu coniata la frase "ti do un Palumbo!" per indicare uno schiaffo particolarmente violento".

Qualche anno dopo, un altro episo­dio clamoroso, per i suoi risvolti poli­tici, portò il generale Palumbo alla ribalta dell'attenzione e delle polemi­che nazionali: restituì le sue decora­zioni al valor militare al Presidente della Repubblica Pertini in segno di protesta.
"
Lo feci per protestare contro l'assegnazione della medaglia d'argento al prof. Bentivegna autore dell'attentato di via Rasella che ucci­se 33 militari altoatesini in divisa tedesca e provocò, per reazione, l'uccisione di 330 italiani alle Fosse Ardeatine perchè l'autore dell'atten­tato non si presentò alle autorità tede­sche. Tra le vittime delle Fosse Ardeatine c'era anche lo zio di mia moglie, il generale di divisione aerea Castaldi Martelli".Tra una polemica e l'altra, l'allora colonnello Palumbo dava anima e colpo alle sue passioni: il paracaduti­smo e gli... animali feroci.
Nell'aprile '64 alla testa dei suoi paracadutisti Palumbo stabilì anche il primato militare di lancio contempo­raneo ad apertura comandata di 14 persone dalla porta assiale del C - 119. "Il lancio, a cui partecipai ‑ racconta il generale Palumbo ‑ fu ideato e pia­nificato dal col. Argento che ne curò in maniera perfetta l'addestramento.
Quella squadra fu poi soprannomina­ta la banda del grappolo".
La passione per gli animali feroci, maturata in Africa, prosegui in Toscana, in una villa di amici dove allevò tigri, leoni, puma, leopardi.

Abbandonato l'allevamento delle bestie feroci (per la felicità dei vicini terrorizzati da non infrequenti fughe degli animali!) il generale Palumbo si accontenta oggi della compagnia di meno impegnativi cani: come la cele­bre Has Fidanken protagonista ‑ ricordate? ‑ di non lontane esibizioni televisive. E con Has Fidanken ben imbragata al petto, il generale Palum­bo effettuava spesso lanci da tremila metri, felice e brillante impegno set­timanale che contribuisce a trasfor­mare i suoi avventurosi 84 anni in una perenne giovinezza.
Gianni Bezzi
Da FOLGORE n° 1 -1995

N.d.r.
Gli Emolumenti riferiti alle seguenti Motivazioni di Conferimento di Medaglie al Valore Militare, dal Generale Giuseppe Palumbo venivano versate nel Fondo per gli orfani e famigliari dei Carabinieri Caduti in servizio.

MEDAGLIA DI BRONZO AL VALOR MILITARE

'Ardito combattente ed ardente patriota, improntava ogni azione individuale e di reparto con generosa dedizione, affrontando rischi e spingendo al di là di ogni limite, spirito di sacrificio ed elevato senso del dovere.
Comandante di bande Dubat in pericolosa delicata situazione: per il suo reparto effettuava azione rischiosa con pochi uomini e la conduceva brillantemente a termi­ne sfidando e superando l'insidia.
Esempio costante di sprezzo d pericolo e profondo attaccamento al dovere”.
A.O. maggio‑giugno 1941

MEDAGLIA DI BRONZO AL VALOR MILITARE

"Ufficiale di chiare virtù militari non sopportò lo stato di prigionia attratto dal prepotente richiamo al dovere
Dopo successive evasioni compiute in drammatiche circostanze ma fallite per l'attiva vigilanza dei detentori, riusciva, affrontando gravi rischi personali a raggiungere il mare e, dopo lunga perigliosa attraversata a nuoto, a salire su nave che trasportava connazionali coi quali ritornava in Patria.
Esempio
d'indomita tenacia e perseverante coraggio”.
A.O. maggio 1942:

La sua marcia preferita

Sui monti e sui mar


Sui monti sui mar
per le strade e nel ciel
lanciamo in alto la sfida ideal.


Lungo sarà il cammino
ma con speranza e con ardor
lanciamo i nostri cuori
nella battaglia ancor.


La pioggia ci bagna
ci arde alto il sol.
D'inverno il gelo
ci morde aspro il cuor.


Ma saldi nel periglio
vitam pro patria exponimus
e la divisa nostra è insegna del valor.


In aspri cimenti
Le forze noi tempriam.
Fra i rischi mortali
la nostra via seguiam.


In faccia al mondo vile
splende la sfida del valor
avanti o Paraca
avanti, avanti ancor.

LIBRO DELLE FIRME
Non sapevo come fare quindi ve le ho messe qui

sono estratti di SMS e Mail

348 2284969

oppure usate i commenti del Blog

Onore al comandante Giuseppe Palumbo da quell’angolo di cielo con i suoi ragazzi ci guiderà ancora Folgore.
A. Piacentini
Onore al comandante Generale Giuseppe Palumbo Folgore
P.Bevilacqua
Onore al Comanda Giuseppe Palumbo da quell’angolo di cielo proteggerà e guiderà noi paracadutisti
B.Tresoldi
Sono sempre i grandi e migliori che ci precedono per andare alla ricerca dei loro simili
E.Sanson
Mi dispiace moltissimo per la perdita del vostro Comandante.
D.Burresi
Generale Giuseppe Palumbo Presente!
Folgore
Un Eroe che ha forgiato Paracadutisti e cuori d’acciaio ha raggiunto quell’angolo di cielo da oggi abbiamo un mito come esempio per non dimenticare.
L.Franchin
Per il posto che occupavi nel Suo cuore mi sento di porgere le condoglianze anche a te per la scomparsa di un grande uomo "padre" di tutti noi paracadutisti ma tuo in particolare.
Con sincera stima
Folgore!
apache^

Il Comandante ci guarda."Sono trascorsi tanti lustri da quando lo vedemmo al CAPAR per la prima volta. Un figura indimenticabile, scattavamo al suo passaggio e bevevamo le sue parole. Oggi ci guarda dal "nostro angolo di cielo", dopo aver fatto indietreggiare più volte la morte.Con lei era stato "a paro a paro" nelle sue memorabili gesta. Non dobbiamo disperarci per la grave perdita, da lassù ci stimola ancora a sorridere come quando lo trovavamo ai raduni o nelle Z.L.. Così faremo,Comandante, gareggeremo ancora nei tuoi cieli blu imitandoti. Ora desideriamo pensare di incontrarti improvvisamente in ogni parte d'Italia, magari aggiustandoci il basco, come facevamo da allievi, verremo a porgerti la mano. Signor Generale Palumbo, i nostri sguardi conserveranno le scintille d'onore che ci hai donato."FredMi dispiace, Tino...so che è un gran dolore per te e ti sono molto vicina...;
A Ceriani
Tino il tuo Comandante ha raggiunto la casa del Padre anche da lassù sarà sempre vicino a te e ai suoi Paracadutisti.

PREGHIERA DEL PARACADUTISTA
Eterno, Immenso Dio, che creasti gli infiniti spazi e ne misurasti le misteriose profondita'
guarda benigno a noi, Paracadutisti d'Italia, che nell'adempimento del dovere balzando
dai nostri aerei, ci lanciamo nelle vastita' dei cieli. Manda l'Arcangelo S. Michele a nostro
custode; guida e proteggi l'ardimentoso volo.
Come nebbia al Sole, davanti a noi siano dissipati i nostri nemici. Candida come la seta del
paracadute sia sempre la nostra fede e indomito il coraggio.
La nostra giovane vita e' tua o Signore!
Se e' scritto che cadiamo, sia! Ma da ogni goccia del nostro sangue sorgano gagliardi figli e
fratelli innumeri, orgogliosi del nostro passato, sempre degni del nostro immancabile avvenire.
Benedici, o signore, la nostra Patria, le Famiglie, i nostri Cari! Per loro, nell'alba e nel tramonto,
sempre la nostra vita! E per noi, o Signore, il Tuo glorificante sorriso.
Così sia.




Preghiera del Paracadutista


Eccelso e sommo Iddio, che domini nell'alto dei cieli e vedi nel profondo dei cuori, noi Ti ringraziamo della Patria che ci hai donato e Ti chiediamo di servirla e onorarla per le vie più ardue e gloriose.

Quando lanciamo il cuore sulla fragile ala e quando dal cielo scendiamo sulla terra, fà che il vento ci sia fratello, sorella la bufera; illumina a noi la notte, fà più acuto il nostro sguardo; alle nostre armi dà la potenza della spada dei tuoi arcangeli, alla nostra anima dà la forza indomabile dei tuoi martiri.

Illumina, Dio, e sostieni chi regge le sorti d'Italia; nuova gloria dona alla nostra Arma; conserva nei secoli la grandezza di Roma.

Dona serenità alle nostre madri, alle spose, a quanti in silenzio ci amano; rendi loro lieve il sacrificio di sangue che per l'Italia affrontiamo.

E se l'ora nostra suonerà e al cielo, dal quale scendemmo, ci sarà dato in gloria di risalire, o Dio, accogli misericordioso le nostre anime nel regno che fu promesso a chi soffre per la causa della giustizia.

E che la nostra bella morte sia vita per la grande Madre Italia.

Così sia.

(1941)

Preghiera del Paracadutista



Eterno, Immenso Iddio, che creasti gli eterni spazi e ne misurasti le misteriose profondità guarda benigno a noi, Paracadutisti d'Italia, che nell'adempimento del dovere, balzando dai no­stri apparecchi, ci lanciamo nella vastità dei cie­li. Manda l'Arcangelo S. Michele a nostro cu­stode; guida e proteggi l'ardimentoso volo.
Come nebbia al Sole, davanti a noi siamo dis­s`pati i nostri nemici.
Candida come la seta nel nostro paracadute sia sempre la nostra fede e indomito il corag­gio. La nostra giovane vita è tua o Signore!
Se è scritto che cadiamo, sia! Ma da ogni goc­cia del. nostro sangue sorgano gagliardi figli e fratelli innumeri, orgogliosi del nostro passato, sempre degni del nostro immancabile avvenire.
Benedici, o Signore, la nostra Patria, le Fa­miglie, i nostri Cari! Per loro, nell'alba e nel tra­monto, sempre la nostra vita! E per noi, o Si­gnore, il Tuo glorificante sorriso.
Così sia.

(1961
U.Bastiani

Mi dispiace immensamente per il tuo comandante
Paola
Giuseppe Palumbo Presente!
F.Corbellino
Tino ti ricordi quando a San Michele Arcangelo 29 settembre 1965 Festa del Patrono di tutti i paracadutisti, era venuto a comunicarci la nostra prima libera uscita davanti refettori della SMIPAR e noi allievi del terzo 65 festanti lo lanciavamo in aria…
Oggi lo lanciamo in quell’angolo di cielo riservato a santi martiri ed Eroi
Cieli blu Comandante.
P.Rossi
Grazie! Comandante per esserci stato ma soprattutto per quanto ci lasci come paracadutisti cittadini esemplari nello stile di vita del PARACADUTISTA.
Sabrina i paracadutisti le sono tutti vicini nel dolore della perdita di zio Peppino.
Cesare.
Paracadutista Giueppe Palumbo Presente!
C. Castagnola
Arrivederci Generale "Come folgore dal cielo come nembo di tempesta canta l'inno della gloria"
Francesco
Lo ricorderò nella Santa Messa delle 17.00
Fr.Agostino
Ho chiesto a Frate Agostino di ricordalo insieme all'Amico frateno Padre Gianfanco Chiti (il frate generale suo commilitone con il quale Palumbo ha combattuto in Somalia) N.d.r.

SOTTUFFICIALI SEZIONE UNSI DI LIVORNO VIRG COMPONENTI COMITATO ONORANZE CADUTI ALLA MELORIA ET SEZIONE ANPD'I DI PISA INVIANO IL LORO GRIDO DUEPT COMANDANTE GIUSEPPE PALUMBO - PRESENTE!

FREDIANI


Ludo MassimoLancellotti ti ha inviato un link a un blog: Onoro BascoVerde, perché ci insegna con ogni suo gesto il rispetto e la sostanza dell'onore vissuto come un valore concreto ed effettivo. Se questo personaggio si e' formato grazie al Suo Comandante migliore espressione di cordoglio è ricordarne la bontà dei suoi 'ragazzi'
Cieli azzurri.

P.Piana

Il generale Giuseppe Palumbo me lo ricordo a Latina prima dell'infortunio in atterraggio che lo ha ferito. Ma ho ho avuto la fortuna di parlarci e conoscerlo e di essere in aereo con lui.
Cieli Blu Comandante
S.V.

Si Tino, e un giorno triste, mi sento come se o perduto un amico ricercato da molto tempo per poi perderlo senza aver avuto l'opportunità di parlare con lui.
Io so che per te era molto di più, posso immaginare il tuo stato d'animo in questo momento, la FOLGORE a perso un'altro pilastro.
Sento di avere molto da dire ma per il momento mi limito a offrire le mie Condoglianze a tutte le persone che gli sono state vicino, e a te un abbraccio.
ups!! una lacrima.

Tino, this is a sad day, I feel like I lost a friend that searched for a long time, find him and then lose it without having had the opportunity to speak with him.
I know, for you was much more, I can imagine your state of mind at this time, the Paratroop loses another pillar.
I feel I have much to say but for now I merely offer my condolences to all the people that were close to him, and to you a hug my friend.
ups! a tear.
Vittorio Mungiguerra
N.d.r. Vittorio che oggi vive in America è un testimone della rinascita della Brigata e del gruppo "Sabotatori". Nella sua ricerca di vecchi commilitoni vi è il ricordo dei Primi Lanci del Generale Giuseppe Palumbo allora Tenente. Mi aveva chiesto se poteva parlare con il Generale ma il tempo non c'è stato. Vittorio puoi sempre scrivere i tuoi ricordi alla nipote Sabrina al medesimo indirizzo. Quest sono le pagine di Vittorio Mungiguerra http://volosilenteparacadutismo.blogspot.com/ http://vittorioskitchen.spaces.live.com/
L'ho saputo Ieri sera in sezione, i soliti tavoli occupati dagli "anziani" erano mesti e parlavano di ricordi aneddoti sul comandante, anche le risate che non mancano mai nei ricordi divertenti erano sottolineate da una certa alea di dolore.Poi il segretario ha chiesto il silenzio e ha ricordato il Generale Giuseppe Palumbo, alla chiusura il Folgore di saluto al Comandante alto altisonante e fortissimo ha sicuramete raggiunto qell'angolo di cielo dove vanno i Paracadutisti.
Folgore
A.Spina

E sempre triste perdere una persona cara, è importante non perderne i ricordi

lucio

Gen.Paracadutista Giuseppe Palumbo
Chi ha avuto l'onore di conoscerlo non potrà mai dimenticarlo.Folgorè
Franco Ingraito
Onore al Generale Giuseppe Palumbo "Peppino" per gli Amici.
Giacomo
Di pattuglia a Roma ci veniva a salutare anche la sera dopo cena, non ti dimenticherò Comandante Folgore!
Un Paracadutista

Da Il TEMPO .IT 12 febbraio 2008

Folgore Soldato e animalista: era il padrone del cocker Has Fidanken
Addio a Palumbo, eroe di El AlameinMaurizio Piccirilli

Un eroe se ne è andato. Ma lui, il generale Giuseppe Palumbo scomparso martedì a Roma, ha sempre preferito essere considerato un combattente. Paracadutista nell'anima, è stato comandante della Scuola militare di paracadutismo e al ritorno dalla guerra ufficiale dei Granatieri della piazza di Roma e pluridecorato.La sua vita è costellata di atti di eroismo, e sì la parola sfugge. Del resto come descrivere le sue imprese durante la Campagna d'Africa. Conquistò il forte Harrington ammainando lui stesso la bandiera inglese. Un'impresa leggendaria compiuta con un assalto alla garibaldina salendo la collina lanciando bombe a mano. Figlio di un ufficiale di Cavalleria, Palumbo era militare nell'animo. Fu tra gli strenui combattenti di El Alamein e ora nel suo testamento ha lasciato scritto di voler essere cremato e che le sue ceneri sparse su quelle sabbie dove tanti commilitoni persero la vita. Dopo El Alamein riuscì con un pugno di uomini a sfuggire alla cattura e raggiungere l'Amba Alagi dove il Duca d'Aosta ancora combatteva. Alla fine però, nella piana di Sorfella, accerchiato dovette arrendersi. Ma fu questione di giorni. Poi tentò la fuga. Palumbo fu protagonista di ben 13 evasioni. Appena libero con gli uomini che lo avevano seguito organizzò operazioni di guerriglia dietro le linee nemiche. Fatto che gli meritò una delle medaglia al valore. Ancora una cattura e altre evasioni. Una persino a nuoto nell'Oceano Indiano. Alla fine il paracadutista Giuseppe Palumbo riuscì a evadere dal campo di prigionia in Kenya e raggiungere l'Italia. Ma coraggio e spirito cavalleresco non si spensero con gli echi della guerra. Negli anni '70 prese a sberle un giornalista di «Paese Sera» che in un articolo aveva insinuato che i paracadutisti prendevano eccitanti per fare i lanci. «Ottenni una vastissima solidarietà», ricordava poi il generale. L'allora ministro della Difesa Giulio Andreotti commentò con la sua solita ironia «Libero schiaffo in libero stato». E nei palazzi ministeriali iniziò a girare la battuta: «Ti do un Palumbo» per indicare uno schiaffo violento. Clamorosa fu la restituzione della medaglia al presidente Pertini quando questi conferì il medesimo riconoscimento a Bentivegna uno degli autori della strage di via Rasella. «Non si presentò alle autorità tedesche e provocò la strage delle Fosse Ardeatine», disse Palumbo. Tra una polemica e l'altra Palumbo si cimentò nei lanci acrobatici e divenne campione mondiale di paracadutismo. Il giorno del congedo, nel 1973, si lanciò con la pattuglia acrobatica su piazza San Marco a Venezia. Si dedicò per anni all'allevamento di animali feroci in una tenuta in Sardegna. Anche in questo campo lasciò il segno. Il suo cucciolo più famoso fu un cocker, Has Fidanken protagonista con Claudio D'Angelo ed Ezio Greggio di «Drive in», trasmissione cult degli anni '80.

N.d.r. Errori nel Testo il Cabarettista si chiama Gianfranco D'angelo.

Dal pedigree il vero nome di Has Fidanken era "Baby Dell'Aquila Bianca".

Un aneddoto su un lancio con Has Fidanchen che ho saputo dallo Stesso Comandante in una delle tante telefonate durante le quali ci si divertiva raccontandoci anche le cavolate , "continuavo a tirare la maniglia che non veniva, alla fine mi sono accorto che era un'orecchio di Has Fidanchen, poverina...".
Mi mancherà quella sua risata.
Un grande Grifo ci lascia. La sua storia deve essere per tutti la strada maestra esemplare dello stile di vita del Paracadutista. Comandante Generale Giuseppe Palumbo Presente!
M.Arucci
Onore al Comandante Giuseppe Palumbo
M.Barone. M. Coppola

Al Comandante Generale Giuseppe Palumbo "Se e' scritto che cadiamo, sia! Ma da ogni goccia del nostro sangue sorgano gagliardi figli efratelli innumeri, orgogliosi del nostro passato, sempre degni del nostro immancabile avvenire".
Folgore

M.Bacherotti

Ho perso un Camerata!

F.Dente
Preghiera del legionario

Iddio, che accendi ogni fiamma e fermi ogni cuorerinnova ogni giorno la passione mia per l'Italia.Rendimi sempre più degno dei nostri morti, affinchèloro stessi -i più forti- rispondano ai vivi: "Presente"!Nutrisci il mio spirito della tua saggezzae il mio moschetto della tua volontà.Fa più aguzzo il mio sguardo e più sicuro il mio piedesui valichi sacri della Patria:Sulle strade, sulle coste, nelle forestee sulla quarta sponda, che già fu di Roma.Quando il futuro soldato mi marcia accanto nei ranghi,ch'io senta battere il suo cuore fedele.Quando passano i gagliardetti e le bandiere,tutti quanti si riconoscano in quella della Patria,La patria che faremo più grandeportando ognuno la sua pietra al cantiere.Oh Signore! Fa della tua Croce l'insegna che precedeil labaro della mia legione.: E salva l'Italia, del Duce, nel Duce, sempre e nell'ora di nostra bella morte. :Così sia. Così sia.o passano i gagliardetti e le bandiere,tutti quanti si riconoscano in quella della Patria,La patria che faremo più grandeportando ognuno la sua pietra al cantiere.Oh Signore! Fa della tua Croce l'insegna che precedeil labaro della mia legione.: E salva l'Italia, del Duce, nel Duce, sempre e nell'ora di nostra bella morte. :Così sia. Così sia.
Al Comandante Generale Peppino Palumbo

R.Pisani

La Sezione di Trieste dall'Associazione Combattenti X Flottiglia MAS inchina il proprio labaro abbrunato ricordando il valoroso paracadutista Gen. Giuseppe Palumbo che saluta alla voce.
"DECIMA COMANDANTE"

Comunicato stampa 15:14 - giovedì Anpi Viterbo annuncia la scomparsa del comandante Giuseppe Palumbo
Viterbo, Italia - Domani mattina i funerali a Roma(WAPA) - "E’ morto a 94 anni il comandante, e soprattutto l’amico di molti paracadutisti viterbesi: il generale Giuseppe Palumbo, ultimo eroe di una stirpe di arditi le cui gesta sono divenute leggenda. Ha lasciato detto di voler essere cremato e che le sue ceneri fossero sparse fra le sabbie di El Alamein insieme ai suoi commilitoni che in Africa settentrionale scrissero, pur nella disfatta, le pagine più gloriose della II guerra mondiale. Da domani la sua lapide sarà la stessa lapide dei quasi cinquemila italiani sepolti in terra d’Africa, da domani, a pieno titolo, l’epitaffio simbolo dell’onore italiano, sarà anche il suo epitaffio: 'Fra sabbie non più deserte sono qui di presidio per l'eternità i ragazzi della Folgore fior fiore di un popolo e di un esercito in armi caduti per una idea senza rimpianti. Onorati dal ricordo dello stesso nemico. Essi additano agli Italiani nella buona e nell'avversa fortuna il cammino dell'onore e della gloria. Viandante, arrestati e riverisci. Dio degli eserciti accogli gli spiriti di questi ragazzi in quell’angolo di cielo che riserbi ai martiri e agli eroi'. In una breve autobiografia Nunzio De Pinto descrive così l’eroe di El Alamein: 'Divenne comandante della Scuola militare di paracadutismo della Folgore dopo leggendarie imprese di guerra in Africa. Conquistò il forte di Harrington ed ebbe la soddisfazione di ammainare personalmente la bandiera inglese. Catturato, fu protagonista di ben 13 evasioni: drammatica quella che lo costrinse a nuotare per sette ore nell'oceano, storica quella che dal Kenya lo condusse in Italia, dopo 8000 chilometri. Di possedere un coraggio al limite della temerarietà, lo scoprì a 12 anni, quando, per far breccia nel cuore di una ragazzina napoletana del Monte Di Dio, di cui si era innamorato, percorse l'intero cornicione al quinto piano del palazzo dove abitava, su un monopattino rischiando ad ogni curva di sfracellarsi al suolo. Da allora ad oggi, la vita del generale paracadutista Giuseppe Palumbo è sempre trascorsa all'insegna delle imprese più clamorose e stravaganti, costantemente al confine tra temerarietà e incoscienza. Comandante di bande di colore in Africa durante l'ultima guerra, autore di colpi di mano leggendari, protagonista di ben tredici evasioni di cui cinque importanti; domatore di tigri e leoni; paracadutista spericolato. Nel dopoguerra né il passare degli anni né le responsabilità del grado (fu comandante della Scuola militare di paracadutismo) attenuarono il suo gusto per l'avventura e per le iniziative provocatorie che scatenarono polemiche anche a livello nazionale come quando, erano i primi anni ’50, affrontò a ceffoni un giornalista del 'Paese Sera' che aveva accusato ingiustamente i suoi paracadutisti o quando restituì le al decorazioni al valor militare al presidente Pertini per protestare contro l'assegnazione della medaglia d'argento al professor Bentivegna, autore dell'attentato di via Rasella, che uccise 33 militari altoatesini in divisa tedesca e provocò, per reazione, l'uccisione di 330 italiani alle Fosse Ardeatine perché l'autore dell'attentato non si presentò alle autorità tedesche. Tra le vittime delle Fosse Ardeatine c'era anche lo zio della moglie del generale Palumbo, il generale di divisione aerea Castaldi Martelli'. Quando nel '73 concluse la sua carrriera militare, volle celebrare l'avvenimento con un gesto spettacolare: fece un lancio a Vicenza con la pattuglia acrobatica in caduta libera da tremila metri per chiudere nell'aria la sua vita militare. Figlio di un ufficiale di cavalleria, Giuseppe Palumbo fece il corso allievi ufficiali nel '36 in fanteria e due anni dopo partì per l'Africa orientale partecipando con il II Battaglione Coloniale ai cicli di operazioni di guerra nel territorio del Governo dei Gallo e Sidano ottenendo tre croci al merito di guerra, la decorazione di cavaliere dell'Ordine coloniale della Stella d'Italia e due medaglie di bronzo al Valor militare'. Le esequie si svolgeranno a Roma, venerdì, con inizio alle ore 10:30, presso la Chiesa Santa Maria degli Angeli e i parà viterbesi saranno lì per gridare ancora una volta al comandante dei comandanti: 'Folgore… e arrivederci'.
Il presidente dell’Associazione nazionale paracadutisti d’Italia sezione di Viterbo, Giovanni Bartoletti". (Avionews)
Giulio, orgoglioso di aver conosciuto l'eroico Generale ha detto...
Onore al Gen. Palumbo, uomo che ha onorato il nome d'Italia fino alla fine come uomo e come soldato.Che possa vegliare dal cielo su tutti i Paracadutisti!FOLGORE!!!
12 febbraio 2009 7.34
Vittorio ha detto...
Un uomo con cui o avuto contatto solo un paio di ore, ma a lasciato un impronta che e durata 48 anni, un saluto da un folgorino suo subordinato, Vittorio Mungiguerra
12 febbraio 2009 11.44
Oggi, 13 febbraio 2009, è stato dato l'Estremo Saluto al grande Uomo nonché comandante Generale Palumbo paracadutista Giuseppe: una Basilica gremita dai Suoi paracadutisti e dal nostro amato Tricolore ha rappresentato tutti noi, anche chi per motivi di servizio o di spostamento non ha potuto presenziare.
In Suo ricordo ed in Suo Onore: "PRESENTE".

FOLGORE!
apache^
12/02/2009 - 17.50 - ROMA: COMUNE, CONSIGLIO OSSERVA MINUTO DI SILENZIO PER GENERALE PALUMBO
(IRIS) – ROMA, 12 FEB – Un minuto di silenzio durante il consiglio comunale capitolino di oggi in memoria del Generale dei paracadutisti, Giuseppe Palumbo. E' stato chiesto dal consigliere comunale Antonino Torre (PdL) per il valoroso soldato, decorato con tre croci al merito di guerra, scomparso martedì scorso a Roma, all'età di 94 anni e in occasione dei funerali che si terranno domani alle 10,30 a San Maria degli Angeli a Roma.

L'aratro lascia il solco nel terreno per la semina, vi sono uomini che lasciano un solco indelebile nei propri simili Giuseppe Palumbo ha fatto questo e di più.
M. Barilari

Sempre sotto la Sua Guida ancora oggi.

Italo Ferrara
Semplicente GRAZIE Comandante Giuseppe Palumbo, non solo ci hai fatto Uomini ma soprattutto Paracadutisti con ideali che si sintetizzano in Italia=Patria.
Ferdinando

Da EL ALAMEIN (1933 – 1962)
di Paolo Caccia Dominioni
Ed. Mursia
Pagine 338 - 339 – 340 – 341- 342

 Mario Zanninovich può essere fiero dei suoi paracadutisti, formati ed educati con passione, II battaglione del 187°. Il caporal maggiore toscano Dario Ponzecchi è stato mandato di vedetta nel vasto campo minato antistante, per impedire che il nemico, con 1'aiuto del buio e dei nebbiogeni, crei i varchi per l'avanzata degli uomini e dei mezzi blindati. Infatti, il graduato è avvolto rapidamente dalla nebbia artificiale, lattiginosa nel chiarore lunare ma impenetrabile. E sente movimento vicino: si muove deciso, cade in una imboscata, solo, ma non esita a impegnare una furiosa lotta a corpo a corpo. Finalmente, a gran voce, urla ai compagni della linea di aprire il fuoco senza badare a lui: e cosi viene ucciso, per salvare la integrità del campo minato. Il tenente Ferruccio Brandi ha difeso tenacemente il suo centro di fuoco, ma la furia dei carri lo ha sorpassato lateralmente: il suo fuoco non ha neppure fatto il solletico agli Sherman. Allora riunisce gli uomini, esce allo scoperto, contrattacca e volge in fuga le fanterie d'appoggio ai carri. Ma questi convergono sopra il suo nucleo. Brandi incendia uno Sherman con la bottiglia di benzina, quando una raffica di mitraglia gli fracassa la mandibola. orrendamente trasfigurato, ma continua la lotta e salva la posizione. E’ vivo: forse se la caverà. I suoi uomini sono andati da Zanninovich e hanno detto: « Signor maggiore, vogliamo la medaglia d'oro per il tenente ». Forse potrà guarire anche Luciano Maiolatesi paracadutista, che ha avuto la destra sfracellata

Del VII battaglione, senza tema di parzialità, conviene ricordare sette nomi, e gesta che testimoniano la tempra data ai suoi paracadutisti dal primo comandante, il tenente colonnello Marescotti Ruspoli di Poggio Suasa, e dal successore attuale, il capitano Carlo Mautino de  Servat.

« Sparate! » L'ordine supremo, gridato ai compagni dal caporalmaggiore Antonio Andriolo da Bassano. Ha difeso con successo il suo centro dì fuoco, modesto comandante di una squadra mortai: ora, dopo la terza gravissima ferita, e dopo aver contrattaccato alla baionetta il nemico che gli offriva la resa, sta morendo. Il tenente Roberto Bandini di Colle Val d'Elsa, antico granatiere, da sessanta ore, senza sosta, ha difeso la posizione che gli è affidata. Dopo la seconda ferita, che è grave, decide di rompere la minaccia e contrattacca all'arma bianca: è ucciso da un terzo proiettile. Ma il sottotenente Giovanni Gambaudo, piemontese come Mautino, si è visto cadere attorno quasi tutti gli uomini, è stato già colpito tre volte e resiste tenacemente: è ucciso alla quarta ferita. In un centro vicino è il sergente Nicola Pistillo, di San Giuliano dei Sannio Ha difeso la posizione per ventiquattr'ore, ed è già stato ferito, ma rimane al suo posto. Assiste alla sommersione del centro di Gambaudo, riunisce i suoi superstiti e ne ricaccia il nemico all'arma bianca e con le solite bottiglie di benzina sui carri. Ma il nemico ritorna: è nuovamente ferito, rifiuta di arrendersi: la terza ferita gli toglie i sensi, e solo così è possibile la sua cattura. Si spera sia vivo.

 Il paracadutista Leandro Lustrissimi, anch'egli del VII, ha impedito con il suo lanciafiamme che i carri superino il varco a lui affidato, ma dopo ventiquattr'ore non ha più liquido infiammabile. E’, ferito: si difende con le bottiglie, ma viene fatto prigioniero, quasi privo di conoscenza. Poi si riprende, elettrizza i compagni, impegnano assieme un furioso corpo a corpo, si liberano, riescono a raggiungere e rioccupare il loro centro di fuoco. Un gruppo di carri interviene: Lustrissimi disseppellisce una mina e la butta sotto il carro di punta: la vampata e le schegge lo uccidono. Era di Subiaco e aveva ventiquattro anni. Il settimo della serie gloriosa è Leandro Franchi, paracadutista, romano, nato nel 1922. Anch'egli, più volte,ferito, viene sopraffatto e catturato, ma si ribella e d una sanguinosa lotta riesce a liberare un gruppo di compagni: e rientra alla sua linea, dalla terra di nessuno, portando in ispalla un ufficiale gravemente ferito. Non soltanto: guida per mano un altro ufficiale, accecato. In un nuovo attacco il nemico lo fa prigioniero una seconda volta: allora raccoglie la pistola d'un caduto e riprende la lotta: riesce a tornare malconcio tra i suoi. E’ vivo, ma sì teme rimanga cieco e offeso agli arti destri.

Il sacrificio della Folgore è stato alto. Questa cronaca ha già narrato come caddero quattro comandanti di battaglione e di gruppo, Aurelio Rossi e Anileto Carugno in agosto, Ferdinando Macchiato e Vincenzo Patella pochi giorni or sono. Ora sono caduti Marescotti Ruspoli, comandante il raggruppamento che porta sempre il suo nome, Gianni Bergonzi del VI, Francesco Vagliasindi della Torre di Randaccio che aveva sostituito Valletti Borgnini, ferito, al comando del IV. Dei comandanti di compagnia sono stati uccisi Costantino Ruspoli di Poggio Suasa, fratello maggiore di Marescotti e successore di Guido Visconti di Modrone alla ll^/IV, Gastone Simoni della 10a/IV e Felice Loffredo, capitano del genio, comandante i minatori paracadutisti; degli altri undici nominati cinque erano di cavalleria, quattro di fanteria e due d'artiglieria. Continua poi la serie dei tenenti e sottotenenti caduti: Malnig, Cioglia, Mariconda, Mascarin, Viti, Ghignone, Alessi, Mesina, Venturi, Pirami e Mechina. 1 numerosi dispersi non sì contano. La schiera dei sottufficiali uccisi è capitanata dal maresciallo Carta, sardo, artigliere, celebre per le sue qualità ippiche,e la sua severità. In settembre aveva condotto una famosa spedizione nella Depressione di Qattara, assieme al sergente maggiore Liber, padovano, anch'egli caduto i giorni scorsi. E ancora i sergenti maggiori Congami, Piagentini, Fuccaro, Orazio Rossi, Calogero; i sergenti Boi, Danelli, Di Maggio, Lemme, Macario, Vario e Valent: i graduati Beretta, Dubini , Ferro, Giorgi, Bondesan, Perotta, Bertolotti, Frati, Merigo , Giulli, Mario Rossi, Biglietti, Renato Ferrari, Villani,  Di Toro e Zimei: e ancora a centinaia, paracadutisti di ogni grado

P.S. In grassetto Ferruccio Brandi comandante successivo a Giuseppe Palumbo.
 Nicola Pistillo del quale ho avuto modo di apprezzarne l'infinita  bontà d'animo e umiltà.

sabato 25 ottobre 2008

Clicca sul link per vedere il Film
DIVISIONE FOLGORE
http://video.google.it/videoplay?docid=4156841470164498309&hl=it


"Mancò la fortuna, non il valore":

questo cita una lapide posta al kilometro 111 della strada che congiunge El Alamein con Alessandria d'Egitto:
Non manco il coraggio
Ma soprattutto non mancà il TRADIMENTO di "chi" scientemente volle DISTRUGGERE una delle più belle ed EROICHE divisioni al MONDO.
Paracadutisti, in troppi si riempiono la bocca blaterando di "Guerre sbagliate" "Scelte sbagliate".
Dividendo i combattenti caduti per un unico ideale l'Italia che si legge Patria
BASCO GRIGIOVERDE
è
CONTRO LA MASSONERIA I SUOI ISCRITTI
è
REPUBBLICANO ANTIMONARCHICO
"PER L'ONORE D'ITALIA"
Folgoré
W l'ITALIA
Boia chi molla!
Basco Grigioverde

giovedì 18 settembre 2008

Il Racconto del Legionario

Il Racconto del Legionario
Contrado Barbieri 1900 1966

L'ultima battaglia dei Paracadutisti della Divisione Nembo
Written By Luigi Palamara on giovedì 12 settembre 2013 | 09:01
L'ultima battaglia dei Paracadutisti della Divisione Nembo
FEDELTA' NEL SACRIFICIO 
 
In Aspromonte, sui Piani dello Zillastro, spartiacque tra Jonio e Tirreno, il Crocefisso eretto sopra un cumulo di pietre, che volta le spalle a Montalto e al Santuario della Madonna di Polsi, divenne il simbolo nefasto di una montagna ingiustamente pensata nefasta. Era lì che si pagavano i riscatti per liberare i tanti sequestrati dell'Anonima. Poco più su, dispersa dentro una fitta pineta, la croce in ferro a ricordo di Nicola Tallarida, falciato dalla mitragliatrice di un aereo alleato mentre liberava i buoi dal carretto perché si mettessero in salvo dall'incursione degli Alleati. Vicino la strada, altre due croci in ferro a memoria dei Parà del Nembo caduti in combattimento l'8 settembre del 1943. Nonostante la bellezza dei luoghi, lo Zillastro è ricordato come un luogo triste che incute timore, dove ancora si addensa la nebbia. Per troppo tempo morte e violenza campeggiò in quei boschi e tante furono le lacrime versate.
   Erano le 19.42 dell'8 settembre 1943 quando il Generale Pietro Badoglio annunciò l'armistizio. A Cassabile, vicino di Siracusa, alle 17.00 del 3 settembre 1943, il Generale Castellano, firmava le tre copie dell'armistizio. Alla stessa ora in cui Pietro Badoglio comunicava la fine delle ostilità, in Aspromonte, sui Piani dello Zillastro, per i crinali tra Jonio e Tirreno, si spegnevano gli ultimi echi di una epica battaglia tra 400 paracadutisti del 185° Battaglione della Nembo e 5.000 soldati canadesi di due Reggimenti, il Nuova Scozia e l'Edmonton. La storia di questa battaglia, che in breve si trasformò in leggenda, prima che fosse oggetto di studio, venne fuori dalla memoria dei pastori che all'epoca vivevano tra quelle montagne.  
    A Reggio Calabria e provincia, l'ultima battaglia aerea fu combattuta il 4 settembre 1943 e costò la vita a 3 giovani piloti italiani. L'ultima battaglia terrestre ebbe luogo l'8 settembre successivo, in Aspromonte sui Piani dello Zillastro. Fu una vicenda tragica, rimasta a lungo dimenticata, che costò la vita a giovani paracadutisti del Nembo, a guerra ormai conclusa, che seppero morire per l'Onore della Patria.
    
Gli Alleati pretesero che l'Armistizio non venisse reso noto immediatamente ma dopo qualche giorno, in concomitanza con lo sbarco a Salerno. Cosicché, a Reggio Calabria si fronteggiarono due eserciti formalmente nemici, quello degli Alleati e quello italiano che però non lo erano più giuridicamente.
     Il 185° Reggimento della Divisione "Nembo", in ritirata dalla Sicilia, esausto per la fatica delle lunghe marce e martoriato per le perdite subite a causa dell'aviazione Alleata, nonché per gli incidenti d'ogni genere, era giunto in Calabria a sostegno delle Divisioni poste a difesa per sostenere il primo urto con il nemico.  Il Nembo era costituito da tre battaglioni (III , VIII e XI). Quando i tedeschi ricevettero l'ordine di ritirata, per evitare di essere intrappolati dagli sbarchi alleati, i paracadutisti restarono soli a difendere il suolo italiano. Gli Alleati non sapevano quale resistenza avrebbero incontrato sulle spiagge calabresi per mancanza d'informazioni, perché le unità di commandos sbarcati nella zona Jonica giorni prima non fecero più ritorno al proprio comando essendo stati tutti uccisi dalle sole azioni dei Parà della Nembo.
     Quando avvenne lo sbarco, gli anglo canadesi presero terra pacificamente. Non ci fu resistenza alcuna. I soldati avanzarono e superate le spiagge (non erano minate) si inoltrarono nell'abitato. Ad ogni incrocio lanciavano bombe a mano e sparavano prolungate raffiche di mitra, causando vittime di civili che si trovavano per caso lungo il loro passaggio o che andavano ad accogliere amichevolmente gli Alleati.
     I Parà organizzarono la difesa sul nodo stradale di Gambarie d'Aspromonte, punto dominante, mentre i soldati si arrendevano al nemico.
          Impossibile ogni sorta di resistenza, il III e XI Battaglione Paracadutisti si ritirarono verso nord. L'VIII, trattenuto, tra il 4 ed il 7 di settembre, da violenti scontri intorno agli abitati di  San Lorenzo e Bagaladi, si trovò in marcia di retroguardia cercando di raggiungere  Platì, dove vi era il Comando di Reggimento. La sera del 7 settembre giunse sui Piani dello Zillastro e si accampò sotto il faggeto "Mastrogianni". Esausti per la lunga marcia, la fame e gli scontri sostenuti, si abbandonarono ad un sonno ristoratore e non si avvidero di essere stati circondati da ogni lato dall'esercito Anglo-Canadese il quale, per giorni e notti, li aveva inseguiti.
     Il Reggimento West New Scozia si posizionò nel faggeto dell'Altopiano Mastrogianni, mentre l'Edmontons, per chiudere l'accerchiamento, si sistemò sui crinali dello Zillastro, lato Oppido Mamertina. Il Nembo non avrebbe avuto scampo, era circondato.
     In quattrocento contro cinquemila. La lotta fu impari e proseguì fino all'esaurimento delle munizioni. Scambio di bombe a mano, a finire col corpo a corpo con i calci dei fucili. I Parà vennero sopraffatti. Fu un massacro, una tragedia. 
     Cinque furono i caduti italiani recuperati (l'esatto numero delle vittime non è ancora conosciuto):
Capitano Ludovico Picolli de Grandi (Medaglia d'Argento al Valor Militare), Sergente Maggiore Luigi Pappacoda (Medaglia di Bronzo al Valor Militare), Caporale Serafino Martellucci (Medaglia d'Argento al Valor Militare), Parà  Vittorio Albanese (Medaglia di Bronzo al Valor Militare), Parà Bruno Parri (Medaglia di Bronzo al Valor Militare), ParàAldo Pellizzari (Medaglia d'Argento al Valor Militare). I Feriti furono circa una dozzina.  Vennero catturati 57 paracadutisti. Erano in quattrocento.
     Fu questa l'ultima battaglia combattuta tra il Regio Esercito Italiano e le truppe Alleate l'8 settembre 1943, cinque giorni dopo la firma dell'armistizio.
     I morti furono seppelliti nello stesso luogo della battaglia. Negli anni seguenti le salme (quelle conosciute) furono riesumate, trasferite al cimitero di Oppido Mamertina e poi inoltrate ai luoghi di origine. Anche i Canadesi recuperarono le loro vittime. 
     Il 185° Reggimento Nembo, quello che rimase, continuò a combattere con gli Alleati o  nei ranghi della R.S.I., secondo le scelte che ogni paracadutista, di fronte alla propria coscienza, fece in quel drammatico autunno del '43.
     Qualche tempo dopo la battaglia dello Zillastro, un impresario boschivo, Salvatore Accardo, chiese al parroco di Platì di benedire quei luoghi prima di procedere al taglio degli alberi, per i resti umani lì trovati. Nel 1951 il sindaco di Oppido Mamertina, Ragioniere Giuseppe Muscari, fece apporre una croce in ricordo dei luoghi ove avvenne l'ignorato conflitto. Successivamente, nel 1971, un altro sindaco di Oppido, l'Avvocato Giuseppe Mittica, fece innalzare un grande Crocefisso a ricordo della tragedia di quell'otto settembre. Nel 1988, il Generale  Franco Monticone, Comandante della Folgore, impegnato con i suoi Paracadutisti in esercitazioni sulle montagne dell'Aspromonte, venne informato dello sconosciuto o dimenticato conflitto dal Professore e giornalista Antonio Delfino. Dopo più di mezzo secolo, sulla battaglia dello Zillastro resta il mistero. Allo Stato Maggiore dell'Esercito dicono che sia ancora "oggetto di studio". Il numero dei morti non si conoscerà mai. Neanche tra i canadesi.
   Quel fatto d'arme non fu un inutile spargimento di sangue nel quale giovani vite trovarono una morte senza scopo. Il cruento scontro che si compiva in Aspromonte, tra i faggi dei Piani dello Zillastro, in una alba di 70 anni fa, nonostante la guerra perduta e l'armistizio già  firmato ed a poche ore dalla sua proclamazione, non fu vano. Quando tutto crollava, quando a centinaia e migliaia i soldati tornavano a casa senza più combattere, senza contrastare il nemico, che molti sentivano non essere più tale, quando ognuno pensava soltanto a se stesso, quando le popolazioni del Paese erano invase dallo straniero, sebbene rasserenate dalla fine dell'incubo dei bombardamenti e che salutava con gioia e battimani, quando la patria sembrava non esserci più e la confusione degli animi era al colmo, quando gli ordini erano contraddittori e carenti, quando la fame, gli stenti e le continue offese belliche avevano piegato il fisico, quando i nostri erano affranti per i compagni scomparsi e la sconfitta patita, quando tutto crollava, ciò che restava di un Battaglione composto da giovani di 20 anni - sulle montagne dell'Aspromonte - aveva ancora la forza, nello spirito più ancora che nel fisico, in un soprassalto di orgoglio, di  imbracciare le armi per rivolgerle contro il nemico di allora al solo scopo di difendere la bandiera, il nome e l'onore d'Italia. No, non è stato vano quel sacrificio se a distanza di tanti anni noi lo ricordiamo con amore e con orgoglio perché la coscienza di un popolo si forma  nel tempo attraverso il ricordo del suo passato negli aspetti più nobili in cui è possibile cogliere lo spirito e gli ideali che hanno animato i migliori dai quali occorre prendere esempio.

    Nel commemorare quell'otto di settembre, i Paracadutisti  della Sezione A.N.P.d'I. di Reggio Calabria, con le Sezioni del X Gruppo regionale (Calabria e Sicilia), tutti gli anni organizza una marcia "rievocativa" che ripercorre simbolicamente l'impervio cammino compiuto dall'Ottavo Battaglione Paracadutisti Nembo. Quest'anno, 8 settembre 2013, nel 70° anniversario, in quei nei luoghi ormai sacri, i Paracadutisti di tutta Italia si sono dati appuntamento, sui Piani dello Zillastro, per commemorare l'ultima battaglia combattuta in Aspromonte dai Parà del Regio Esercito contro i soldati Anglo-Canadesi e rendere così gli Onori a tutti i Caduti.
Nel 1995, il Sindaco di Oppido Mamertina, dott. Bruno Barillà e il Generale Franco Monticone, presente il Capitano Paracadutista Prof. Paolo Lucifora (uno dei quattrocento), fecero erigere un monumento di pietra che in maniera concisa ammonisce:
"QUI SULLO ZILLASTRO, EPIGONE DI UNA GUERRA DISASTROSA, L'8 SETTEMBRE 1943, SUSCITANDO L'AMMIRAZIONE ED IL RISPETTO DELLE PREPONDERANTI FORZE ANGLO - CANADESI, I QUATTROCENTO PARACADUTISTI DELL' VIII BTG DEL 185° RGT DELLA DIV. 'NEMBO', COMBATTENDO PER L'ONORE DELLA PATRIA, SI COPRIRONO DI GLORIA".

                                                                                              Cosimo Sframeli


Riferimenti:
(1) Agazio Trombetta "La Nembo in Apromonte per l'ultima battaglia"- Grafiche Enotria - Reggio Calabria 2005;
(2) Giuseppe Marcianò "Operazione Baytown" - Città del sole edizioni - Reggio Calabria 2003;

(3) Eric Morris – "La guerra inutile" TEA 1995;
(4) Report n.144 Historical Section Canadian Military headquartiers Canadian Operations, sepetber1943 in Agazio Trombetta – "La Nembo in Aspromonte per l'ultima battaglia op. cit.";

(5) Farley Mowat "Il reggimento" – Longanesi - Milano 1973;
(6) Bernard Mongomery, "Memorie" - Mondadori - Milano 1959. 
(7) Antonio Delfino "Amo l'Aspromonte" Editoriale progetto 2000 – Cosenza 1995.

(8) Belisario Naldini "Morire per qualcosa"  - ANPdI - Firenze 1965






SICILIA '43
Ricordati gli Arditi che combatterono gli Inglesi nella battaglia di Primosole
Un episodio trascurato dalla storiografia ma che rende giustizia al valore dei reparti italiani che contrattarono l'avanzata Alleata nell'Isola
Mer, 17/07/2013 - 10:21 — Giampiero Cannella

Fino a qualche tempo fa la storiografia ufficiale ha raccontato la battaglia per la conquista della Sicilia, nell'estate del '43, attingendo dalle memorie degli Alleati. Vincitori abitualmente parchi (soprattutto il britannico Montgomery) di riconoscimenti per il valore degli avversari. È così dal 10 luglio al 17 agosto di quell'anno è sembrato quasi che gli Anglo-americani avessero fatto una passeggiata nell'Isola. Eppure, al di là della triste contabilità dei caduti, un dato rende l'idea della resistenza accanita quanto impari opposero le truppe dell'Asse: il tempo impiegato per occupare la Sicilia, 38 giorni. Tantissimi se paragonati i 40 che consentirono ai Tedeschi di conquistare "tutta" la Francia o i 29 che occorsero per occupare "tutta" la Polonia.

Come in ogni guerra episodi di valore, di viltà e di barbarie si sono verificati in tutti gli schieramenti. Ma quello che stiamo per raccontare è stato celebrato domenica scorsa dalla sezione Anpd'I di Catania (Associazione paracadutisti d'Ítalia). La sezione etnea si è riunita presso il monumento italiano del Nastro Azzurro presso il ponte di Primosole, sito per troppo tempo "dimenticato".

La storia dello scontro di Primosole risale al 14 luglio del '43. La zona circostante era stata scelta come zona di atterraggio sia per i "Red Devils" inglesi, impegnati nella battaglia per lo sfondamento delle linee Italo-tedesche nella Piana di Catania, sia per i paracadutisti germanici, i temuti "Diavoli Verdi". I parà inglesi, con l’operazione "Marston Tonight" avevano occupato il ponte mentre poco piú a nord, protetti dal fosso Buttaceto i tedeschi e gli italiani resistevano. Ad Acireale, intanto, fin dal maggio di quell'anno erano attendati a Villa Belvedere gli Arditi del II battaglione del X reggimento. Si trattava del reparto dal quale discende l'attuale IX reggimento Incursori "Col Moschin", impegnato attualmente in tutte le più delicate missioni all'estero. Il resoconto più completo dello scontro di Primosole lo offre lo scrittore Tullio Marcon nel suo libro “Assalto a Tre Ponti, Da Cassibile al Simeto nel Luglio 1943”.

Ma nelle sue memorie il maggiore Marcianò, comandante degli Arditi, così ricorda l'episodio. "Alle ore 21,45 del 13 luglio 1943, mi veniva segnalato telefonicamente dal Comando del 102° battaglione costiero che il posto di blocco di Aci Sant'Antonio aveva comunicato la presenza di un nucleo di paracadutisti nemici; 15 erano certamente calati, nella zona di Aci S. Antonio, lanciati dal cielo circa alle 22. Ordinai a due pattuglie di camionette (l'equivalente degli odierni "Lince") di recarsi sul posto, mentre altre pattuglie rastrellavano le adiacenze di Acireale con i compiti di: portarsi nella zona di lancio del nemico; delimitare il campo di lancio, accerchiandolo; procedere al minuzioso rastrellamento della zona, stringendo verso il centro; eliminare o catturare il nemico.

Le pattuglie partirono alle 23,15 ed iniziarono l'azione alle 24. Delimitata la zona di lancio (Aci S. Antonio - Piano d'Api) e preso un appropriato schieramento, detti ordine al grosso delle pattuglie di sostare sulle posizioni sino all'alba in quanto il terreno, coperto da fitti vigneti, era favorevole ad agguati da parte del nemico; nello stesso tempo ordinai ad una mezza pattuglia mobile di vigilare dall' esterno lo schieramento per impedire ad elementi infiltratisi nelle maglie di sorprendere il grosso e a quelli dell'interno di uscire allo scoperto. All'alba detti l'ordine di iniziare il rastrellamento. Le pattuglie individuarono immediatamente gruppi isolati di paracadutisti nemici che, all'intimazioni di resa, risposero con un nutrito fuoco di fucileria e di mortai da 81. Gli arditi, superando ogni ostacolo e incuranti del fuoco avversario si lanciarono sui nuclei avversari e riuscirono con azioni isolate corpo a corpo, con bombe a mano e colpi di pugnale a catturare il nemico che aveva subito la perdita di quattro uomini durante il combattimento.

Le operazioni di rastrellamento terminarono alle 10,45 del 14 luglio; gli altri nuclei furono catturati nella stessa giornata ed in quelle che seguirono. Il giorno dopo, altro fatto d'arme, quello al ponte di Primosole sul fiume Simeto, sempre nella piana di Catania, una decina di chilometri a sud della città. Una pattuglia di arditi in servizio di sorveglianza stabiliva un collegamento con un battaglione tedesco paracadutista impegnato duramente nel mantenimento del ponte contro circa 300 paracadutisti inglesi armati di tre pezzi anticarro. Sono le 21 ed è già buio: il comandante tedesco colonnello Nteris, avvicina il sottotenente Donia e gli chiede aiuto: "Il ponte è praticamente in balia del nemico, bisogna che ricacciamo gli inglesi. Noi da soli non ce la facciamo assolutamente. Ci dareste una mano? Ci occorre gente di primissimo ordine; già sappiamo chi sono gli Arditi del maggiore Marcianò".


Donia informa via radio il suo comandante di battaglione che invia subito tre pattuglie con due camionette ciascuna al comando del capitano Paradisi. Giunto rapidamente sul posto, Paradisi concerta con Nteris di sfruttare al massimo la velocità dei mezzi e le loro armi di bordo in modo di portare lo scompiglio nelle file del nemico, respingerlo e ricacciarlo sulle posizioni di partenza. Dopo un contrattacco del battaglione tedesco, le pattuglie si lanciano nella mischia, oltrepassando il ponte ed incalzando il nemico che, sorpreso, si dava alla fuga, raggiungendo le colline di bivio Gigliotto dove, evidentemente, erano dislocati altri reparti. - Così prosegue il rapporto del comandante di battaglione - "Le pattuglie, dopo aver serrato sotto, lasciavano le macchine ed a piedi, infiltrandosi, attaccavano le nuove posizioni nemiche. Alcuni colpi di mortaio sulla strada, producevano l'incendio di quattro camionette. il nemico rianimato da questo fatto, pensando che le pattuglie si sarebbero trovate in difficoltà per svincolarsi, partiva al contrattacco e circondava gli arditi che si erano portati alle macchine per rientrare nelle nostre linee. In quel momento spiccano in modo particolare le doti di valore degli arditi che, battendosi come leoni, riescono a rompere il cerchio formatosi e, mentre alcuni saltano sulle camionette per portare in salvo quelle rimaste, gli altri, appiedati, combattendo corpo a corpo, proteggono questo movimento e riescono a rientrare nelle nostre linee."

L'azione, durata un'ora e 40 minuti, fu particolarmente concitata e violente e ha procurato alle truppe britanniche numerose perdite, assicurando al battaglione tedesco il possesso del ponte. "Le perdite subite dalle pattuglie (5 morti di cui due ufficiali, 4 feriti e 16 dispersi) dimostrano come sia stato duro il combattimento e come gli Arditi si siano battuti, destando l'ammirazione del comandante tedesco che si è ripetutamente compiaciuto, ringraziando sentitamente per l'aiuto portatogli in un momento delicatissimo” - concluse il suo racconto il maggiore degli Arditi. Un episodio dimenticato da molti e trascurato dalla storiografia ufficiale, ma al quale lo scorso 13 luglio è stato dato il giusto tributo. (Nella foto una delle camionette armate italiane distrutte dopo lo scontro)



http://www.siggmi.it/lettera-del-paracadutista-sebastiano-baron-1946/



Lettera del paracadutista Sebastiano Baron (1946)
Il paracadutista Flavio Trevisiol (Anpdi Vicenza) ci invia una lettera scritta da Sebastiano Baron alla zia (era la parente più vicina essendo lui rimasto orfano a tre anni) scritta dal campo di prigionia. Sebastiano Baron dopo il combattimento a El Alamein fu fatto prigioniero a Takrouna, nel marzo del 1943, in seguito alla battaglia contro i neozelandesi per riconquistare il paese sulla collina. Fu rinchiuso nel POW 305, il ben noto Criminal Camp per i non collaborazionisti, lo stesso di Emilio Camozzi, Glauco Vigentini, Tano Pinna, Enrico Fiumi, Vittorio Bertolini (padre del generale Marco) e tanti altri.
In questa lettera del luglio 1946  Baron risponde alla zia, che lo aveva criticato per non avere collaborato e quindi per essere ancora trattenuto in prigionia mentre i suoi amici e camerati avevano già fatto ritorno.
Risponde alla zia:
«Cara Zia, rispondo a due tue lettere ricevute questa settimana. Rimasi molto contento nel sentire che godi di perfetta salute, il resto nella tua prima del 1-8-46 tutto bene, e mi ha fatto piacere di sapere che mi hai fatto più volte sapere dove si trovavano i miei amici, e come se la passavano, ma quelle tue lettere che parlavano di loro sono andate perse. Nella seconda scritta il  5-6-46 ho trovato qualcosa che o l’ho interpretato male io o effettivamente non andava. A proposito di questo ti voglio chiedere soltanto: se un giorno per qualche mia azione mal fatta ti avessero concentrata, cosa avresti pensato di me? Questo, in secondo luogo, il primo è:  io non ho mai dimenticato nemmeno per un momento che sono soldato e come tale devo accettare quello che mi viene offerto o comandato solo dal mio governo e non credere che, per aver fatto il mio dovere aspiri a ricompense, o perché ora mi trovo abbandonato in un campo di prigionia ne sia pentito di quello che ho fatto, no, sono a posto come coscienza, e questo a me basta. Solo per questo non ho firmato e non firmerò.Da quando ricevi questa mia scrivimi una volta ogni tanto perché spero di poter presto ritornare in Patria. Ti saluto con affetto. Giuseppe.  li  8-7-46»





Il ricordo di Castellacci, dalla Rsi al Bagaglino
CULTURA
Il 4 dicembre di dieci anni fa muore a 78 anni Mario Castellacci, autore teatrale, giornalista, paroliere e scrittore, ma soprattutto indimenticabile fondatore e direttore, insieme a Pierfrancesco Pingitore, del Bagaglino. E non è un caso, perché l’autoironia è proprio il tratto caratteristico che ha accompagnato la vita di Castellacci (nato a Reggio Calabria nel 1924) e che si ritrova fin dalla gioventù, da quando, volontario a diciannove anni nella Guardia nazionale repubblicana della Rsi, scrive il testo del celebre brano “Le donne non ci vogliono più bene perché portiamo la camicia nera”, che prevede, sulle musiche di Gino Fogliata, alcune strofe cantate da voci maschili e quelle di risposta intonate dalle giovani ausiliarie di Salò. Un’esperienza, quella di volontario nella Repubblica Sociale Italiana, che Castellacci testimonia nel toccante libro autobiografico “La memoria bruciata”, pubblicato nel 1998 da Mondadori, dove racconta l’esperienza di chi aveva scelto di combattere “dalla parte sbagliata”, per poi essere costretto a dimenticare, a rimuovere, a cancellare la memoria di quel passato.
La sua carriera giornalistica incomincia dopo il secondo conflitto mondiale, collaborando al “Candido” di Giovannino Guareschi. Quindi è la volta di “Cronache italiane” e del settimanale “Lo Specchio”. Nel 1963 entra in Rai, divenendo caporedattore del Giornale Radio e due anni più tardi dà vita all’avventurosa esperienza del cabaret Il Bagaglino. Nella storica cantina romana di vicolo della Campanella, a due passi da piazza Navona, insieme a Pingitore, scrive una delle più belle pagine di storia del teatro comico italiano. Della scanzonata compagnia fanno anche parte Luciano Cirri, a capo della redazione romana de “Il Borghese”, il musicista Dimitri Gribanovski, Raffaello Della Bona del “Secolo d’Italia”, oltre ai giornalisti Gianfranco Finaldi e Piero Palumbo, già suoi colleghi nel settimanale “Lo Specchio”. Al gruppo si aggiungono l’indimenticabile Oreste Lionello, Pino Caruso, il cantautore Leo Valeriano, Gabriella Gazzolo, Claudia Caminito e Gabriella Ferri. Il loro è un cabaret di destra, il primo esempio di una satira libera dagli schemi, che prende di mira gli emblemi di quegli anni, dalla Democrazia Cristiana ai salotti dell’intellighenzia comunista, dai cosiddetti “preti del dialogo” ai fumi di un Paese che, fra mille contraddizioni sociali, sta precipitando vorticosamente nel precipizio del consumismo. E Castellacci e Pingitore incarnano emblematicamente quel ruolo romantico e rivoluzionario di “anarchici di destra”, di giullari senza un padrone, sempre pronti a sbeffeggiare i potenti di turno e la supposta sacralità dei loro riti consumati. Sono anche gli anni memorabili in cui Pino Caruso canta “Il mercenario di Lucera”, brano destinato a diventare un vero e proprio manifesto per i ragazzi di destra e dedicato all’universo romantico dei soldati di ventura. A fine ’72, sull’onda di un successo crescente, per il Bagaglino c’è la svolta: il gruppo abbandona i locali di vicolo della Campanella e approda nell’olimpo del teatro italiano, in quel Salone Margherita di via Due Macelli, fra memoria e stucchi liberty. L’anno seguente viene trasmesso per la prima volta sul piccolo schermo uno spettacolo del Bagaglino: si tratta del varietà “Dove sta Zazà”, che ha per autori proprio Castellacci e Pingitore e per regista Antonello Falqui. Quindi, sempre negli anni Settanta, l’approdo al cinema, con i film “Nerone” con Pippo Franco, Montesano, Lionello e Gianfranco D’Angelo, “emo e Romolo. Storia di due figli di una lup”, “L’imbranato”, “Sfrattato cerca casa equo canone” e altri ancora. Dagli anni Ottanta c’è un nuovo boom del varietà televisivo, con programmi che segnano la storia di una satira non violenta, ma ugualmente incisiva. Nascono così trasmissioni dal grande seguito popolare quali “Biberon”, “Crème Caramel”, “Viva l’Italia”, “Saluti e baci”. Ad essere presi di mira dal Bagaglino, che nel frattempo ha acquisito fra i suoi anche Leo Gullotta, ancora una volta sono in primo luogo i potenti della politica italiana, ma anche altri personaggi del mondo dello spettacolo. L’imitazione di Giulio Andreotti fatta da Oreste Lionello e quella di Raffaella Carrà da Leo Gullotta restano esempi emblematici e insuperabili. Fra le collaborazioni di Castellacci più note, anche quella fortunata con Gigi Proietti, da cui nascono le trasmissioni “Fantastico 4”, “Di che vizio sei?” e “Club 92”. La sua grande esperienza lo porta a fare interessanti incursioni anche nel campo musicale: scrive, infatti, i testi di diversi brani di Domenico Modugno (“Un calcio alla città”, “Non sia mai”, “Dove, come e quando”) e della canzone “Sempre”, interpretata da Gabriella Ferri. Nel 1981 Castellacci firma anche il musical teatrale intitolato Forza venite gente, ispirato alla vita di San Francesco D’Assisi, di cui scrive i testi, insieme a Piero Castellacci e Piero Palumbo. Dopo il debutto a Viterbo, qualche anno dopo la commedia musicale viene messa in scena, con un suggestivo allestimento, sul sagrato della basilica Superiore di Assisi. Meno noto è il Castellacci poeta: si ricordano le raccolte di versetti e poesie intitolate “Todi et amo”, ma anche “Semi di zucca”, in cui sono condensati settantadue “versetti antimoderni”, e “Viva l’Italia”, raccolta dedicata, ancora una volta, all’esperienza fatta dai tantissimi ragazzi, che – come lui – aderirono alla Repubblica Sociale Italiana



El Alamein: 70 anni fa quella battaglia persa di cui andiamo orgogliosi


28-10-2012 / FATTI E PERSONAGGI / NAZARENO GIUSTI
PISA, 28 ottobre - Può una battaglia persa diventare un mito, un simbolo di onore? Sì. Senza dubbio. Anche se può apparire un'assurdità. Ma El Alamein è lì a dimostrarlo. Il nome è quello di una sperduta città delgovernatorato di  Matruh affacciata sul mare tra Il Cairoe Alessandria d'Egitto anche se per tutti quel nome esotico è simbolo di epicità ed eroismo. Non bisogna nemmeno stare a precisare “la battagli di” che poi uno dovrebbe dire le battaglie perchè infatti gli scontri furono due (la prima dal primo luglio al  27 luglio 1942, la seconda dal 23 ottobre al  4 novembre 1942). El Alamein è la battaglia nel deserto con i nostri paracadutisti che sbucano come diavoli dalla sabbia e fanno saltare i carrarmati. A El Alamein si tenne una delle pagine più nobili della seconda guerra mondiale in cui i soldati italiani dimostrarono tutto il loro coraggio.
El Alamein è un simbolo. Non ha caso è stata scelta come anniversario della festa della Brigata Paracadutisti "Folgore" che ogni anno il sabato dopo  la ricorrenza si riuniscono nello stadio di Livorno per festeggiare la loro battaglia, la loro Brigata. Quest'anno la celebrazione era più particolare rispetto agli altri anni: si  ricordavano i  infatti i settant'anni della battaglia nel deserto. Per l'occasione è stato emesso un nuovo francobollo autoadesivo da 1,40 euro emesso il 23 ottobre e raffigurante la base italiana Quota 33, una delle tre strutture architettoniche che compongono ilSacrario Militare di El Alamein, realizzata nel 1948 sulla litoranea per Alessandria d'Egitto.
La cerimonia- tenutasi allo stadio di Pisa- è stata  ridotta (in maniera giusta, anzi, sacrosanta), per la morte dell'alpino Tiziano Chierotti 24 anni, 52esima vittima a cadere nel polveroso e maledetto teatro afgano.
“Presente!” hanno gridato i ragazzi della Folgore tutte le volte che è stato nominato il suo nome.
Una cerimonia ridotta ma, straordinariamente, sentita e amata. Come sempre. Una roba da brividi lungo la schiena. Resa ancora più magica e mitica per una pioggia battente e incessante sotto la quale i militi del cielo sono rimasti fermi, impassibili. Come lo richiedeva la circostanza.
Uno stadio pieno. Tanti applausi per i ragazzi della Folgore ma anche tanti fischi per il Ministro della Difesa Giampaolo Di Paola."Liberi!Liberi!" gridavano dagli spalti - riferendosi ai due marò prigionieri in India - i ragazzi della Folgore in congedo (perchè della Folgore non si è ex).
"Se pur all'interno della libertà di espressione ed opinione, non è questo il momento di fare polemiche bensì, oggi più che mai è il momento di restare tutti uniti": ha detto il ministro De Paola che ha ricordato un'altra importante ricorrenza: i 30 anni di missioni all'estero del nostro esercito.
Settant'anni dopo c'è ancora chi vuole sminuire quella battaglia  che non ha l'intelligenza di vedere al di là degli schieramenti politici il senso più profondo e il valore di quei ragazzi che vi combatterono. 
Ma le proteste sterili e faziose passano, la Storia rimane. Ed, allora, eccola qua la storia: la battaglia di El Alamein (che provocò la morte di 13mila 500 inglesi, 17mila italiani, 9mila tedeschi) nel deserto egiziano, fu una delle più decisive della seconda guerra mondiale: fermò l'avanzata dell'Asse scrivendo la parola fine alla minaccia italo-tedesca sul canale di Suez, consegnando il dominio assoluto del Mediterraneo agli inglesi. Cancellando dallo scacchiere un intero fronte, in prospettiva aprì la strada al secondo fronte, ossia allo sbarco in Sicilia
destinato a riportare gli alleati in Europa ed avviare la Liberazione.
Nel luglio del 1942 l'Armata corazzata italo-tedesca comandata del feldmarescialloErwin Rommel dopo la grande vittoria di Gazala e aver costretto la guarnigione diTobruk (forte di 33mila uomini) alla capitolazione, riuscì ad addentrarsi in Egitto, con l'obiettivo di troncare la vitale linea di rifornimenti britannica del canale di Suez, occupando i campi petroliferi del Medio Oriente.
Gli inglesi, però, disponevano di una netta superiorità aerea, di nuovi cannoni anticarro e dei nuovi carri armati Sherman, infatti, la sera del 23 ottobre, nel silenzio della luna piena, quasi mille pezzi di artiglieria inglese spararono contemporaneamente per circa venti minuti. Alla fine del 24 l'offensiva aveva aperto profonde sacche nello schieramento italo-tedesco, ma non era riuscita ad aprire una vera breccia tra gli uomini del mitico comandante  Rommel, soprannominato,“Volpe del Deserto” che però, non c'era! Era stato, infatti, ricoverato, alla fine di settembre in ospedale in Germania e sostituito dal generale George Stumme che, però, morì d'infarto ventiquattr'ore dopo l'inizio della battaglia. Mentre Hitler chiedeva a Rommel di riprendere il comando tra il  27 e il 28 ottobre le divisioni corazzate tedesche scatenarono una violenta offensiva, invano.
A questo punto scattò, da parte alleata, l'attacco finale: l'operazione Supercharge. Iniziò all'una di notte del 2. Tutti i carri armati italo-tedeschi superstiti attaccarono il saliente britannico su due fronti, ma vennero respinti e iniziò la ritirata.
“Rommel si trovava ormai in piena ritirata, ma vi erano mezzi di trasporto e carburante sufficienti soltanto per una parte delle sue truppe e i tedeschi... si arrogarono la precedenza nell'uso dei mezzi. Parecchie migliaia di uomini appartenenti alle sei divisioni italiane, furono così abbandonate nel deserto... senz'altra prospettiva che quella di essere circondati” annotò Winston Churchill.
Gli ultimi a cedere a El Alamein furono i paracadutisti della Folgore che resistettero per 13 giorni senza cedere un metro.
Giovanni Peroncini, 92 anni, sottotenente della divisione Folgore “bellissimo giovane raggiante di rughe e capelli bianchi, splendido con la sua divisa coloniale, ancora integra, e con il basco in testa” ricorda:
Fu l'inferno: ci investirono con le truppe motorizzante e i carri armati, si sentiva un immenso sferragliare. Noi con i nostri mortai abbiamo sparato all'impazzata... poi la mia buca è stata colpita, ho temuto di morire... sono strisciato fuori e ho tirato fuori dalla sabbia, scavando, il servente del mio mortaio... Nella Grande guerra, si faceva il corpo a corpo. Io, nel deserto, il corpo a corpo non l’ho mai fatto. Quelli venivano avanti con i carri armati e io saltavo fuori da quella buca con la bottiglia di benzina”. Coraggio contro acciaio.
Alla resa ebbero l’onore delle armi e il nome della loro divisione restò da allora leggendario.
La BBC l’11 novembre, a battaglia conclusa, commentò: “i resti della divisione Folgore hanno resistito oltre ogni limite delle possibilità umane”. Churchill, all’indomani della battaglia, disse: “dobbiamo inchinarci davanti ai resti di quelli che furono i leoni della Folgore”.
E dopo settant'anni intorno a quella battaglia c'è uno straordinario culto.  Ora che ormai i superstiti si contano sul “caricatore di una pistola” quel nome è ancora simbolo di coraggio e onore. Ne è stato tratto un notevole film italiano e sul tema la bibliografia è sterminata.
Nel 1985 "Storia Illustrata" usci con allegato alla copertina un dono per i lettori: un sacchettino di sabbia di El Alamein.
“Mi affascinò pensare a quale immensa buca era stata scavata nel deserto per portare in Italia quella sabbia” ricordava Giordano Bruno Guerri. E proprio in quel deserto d’Iskandria, sulla pietra, sono state scolpite le parole di Rommel: “Se il soldato tedesco ha stupito il mondo il bersagliere italiano ha stupito il soldato tedesco”.
E così ogni, come ha scritto in uno splendido articolo per “Il Foglio”, Pietrangelo Buttafuoco“il Signore dei Mondi bacia con la sabbia, il vento e il silenzio di ogni alba” dopo aver accarezzato le parole eterne impresse nel cimitero in cui riposano le salme di circa 5200 nostri soldati. Le scrisse il tenente colonnello Alberto Bechi LusernaMedaglia d’Oro al Valor Militare. Recitano così : “Sono qui di presidio per l’eternità i ragazzi della Folgore, fior fiore di un popolo e di un Esercito in armi. Caduti per un’idea, senza rimpianto, onorati nel ricordo dallo stesso nemico, essi additano agli italiani, nella buona e nell’avversa fortuna, il cammino dell’onore e della gloria. Viandante arrestati e riverisci. Dio degli Eserciti, accogli gli spiriti di questi ragazzi in quell’angolo di cielo che riserbi ai martiri ed agli Eroi”.



Aldo Arcari è salito al padre,Meglio di qualsiasi altro preferisco che sia lo stesso Aldo a raccontare se stesso.
1° REGGIMENTO ARDITI PARACADUTISTI “FOLGORE”
COL BTG. “AZZURRO”
DA CASTEL DI DECIMA
ALLA VALLE D’AOSTA
Nella vasta letteratura dedicata alla grande storia della seconda guerra mondiale, raramente ha trovato posto la storia di questo reparto minore di Arditi Paracadutisti della Regia Aeronautica che organizzati in squadre formavano
il Btg. ADRA (Arditi Distruttori Regia Aeronautica). Brevettati paracadutisti a Tarquinia conseguirono il brevetto di Arditi presso la Scuola di Ardimento a S. Severa, sede del X° Rgt. Arditi.
Alcune squadre Adra effettivamente vennero lanciate in Africa settentrionale nei primi mesi del 1942. L’8a armata britannica aveva respinto l’armata di Graziani sino ad Agedabia ed i nostri
‘commandos’ tentarono di sabotare la linea di rifornimento Bengasi – Marsa Matruk senza successo in quanto catturati prima che potessero compiere l’ardimentosa operazione. Una di queste squadre venne mandata a Creta, isola considerata agevole avamposto da dove partire verso l’Africa settentrionale. Chi scrive queste note ebbe la ventura di fare parte di questa squadra
ma non la fortuna di essere scelto fra i 10 lanciandi. Il Ten. Col. Klinger li portò sull’obbiettivo ma dopo 72 ore nessun segnale radio pervenne al centro R.T. di stanza a Iraklion . Non conoscendo la sorte degli arditi lanciati il Ten. Col.Klinger coraggiosamente partì in volo col suo S.81 (dipinto di nero fumo per nascondere le insegne) ed atterrò nel deserto in un punto le cui
coordinate erano state predisposte per l’eventuale recupero della squadra lanciata. Rimase pericolosamente sul posto per 24 ore e purtroppo dovette rientrare vuoto.
Il centro R.T. della Regia Aeronautica di stanza ad Iraklion era stato aggregato al X° Corpo aereo tedesco ed era comandato dal Ten. Delo Lombardi, un milanese il quale nella consuetudine di quei giorni aveva preso a simpatizzare con questo altro milanese che ero io. I suoi sottoposti erano tutti graduati specialisti di carriera: radiotelegrafisti, elettrotecnici, gogniometristi. Aveva bisogno di un furiere tirapiedi da addestrare alla cifra maneggiando il codice Grifo. Tanto fece che riuscì a trattenermi prendendomi in forza al suo reparto. Un paio di ricognitori Cant.Z. 10-07 bis perlustravano il Mediterraneo orientale.
Trasmettevano in cifra posizione, stazza e classe delle navi inglesi in navigazione o alla fonda nel porto di Alessandria. I messaggi venivano decrittati e ritrasmessi in cifra a Rodi dove la
Squadriglia Aerosiluranti di Ettore Muti decideva sull’opportunità di attaccare. Insomma, io che volevo fare la guerra, mi ritrovai a fare una guerra romantica su quell’isola maneggiando cifrari.
I camerati tedeschi avevano costruito una baracca nelle vicinanze degli onusti ruderi della Reggia di Knossos (Minosse ed Arianna col suo filo). Quante sbornie serali al Knossos Cabaret!!
Per me fu l’iniziazione all’alcool aiutato da un metabolismo che mi consentiva di reggere ai tedeschi. Intanto la Rosa mi spediva decine di lettera su carta velina per via aerea. Quelle lettere
tornarono buone quando a Coltano si riusciva a carpire qualche sacchetto di tabacco da arrotolare, da certi americani di colore bonaccioni che li allungavano fra i reticolati. Un amore epistolare andato in fumo. E venne l’anno nero, il 1943.
La caduta di Mussolini, captata la notte del 25 luglio da radio Praga, lo sbarco atteso a Creta ed invece purtroppo in Sicilia. Il destino mi fu benigno. Con una licenza premio il 31 agosto 1943
mi imbarcai su uno Junker 52 diretto a Brindisi.
L’8 settembre mi colse a Milano.E qui si innesca la storia del Btg. Azzurro Arditi Paracadutisti dell’Aeronautica Nazionale Repubblicana. Il Ten.Col.Edvino Dalmas già comandante del
Btg. Adra dislocato tra Tarquinia – Viterbo – Centocelle, liberato sulla parola dai tedeschi, dopo un breve periodo di internamento, attraverso manifesti diffusi chiamò a raccolta i suoi parac adutisti dispersi nel caos di quei giorni terribili. La mia scelta fu fin troppo naturale.
A Tradate, ridente cittadina in provincia di Varese, tra la fine di ottobre ed inizi di novembre 1943 nasceva la Scuola ed il raggruppamento Arditi Paracadutisti dell’Aeronautica Nazionale
Repubblicana al comando di Dalmas. Scrisse il poeta Cap. Bonola, anziano pluridecorato della 1a guerra mondiale, volontario tra noi ragazzi, nella sua ‘ballata’: “Tradate con le sue rondini
basse e col profumo dei suoi tigli in fiore ...” ecc. ecc. Varrebbe la pena di riproporla tutta se non fosse tanto lunga da riempire due pagine di questo periodico. A Tradate affluirono gli ex
dell’Adra, arditi già del X° Rgt., soprattutto centinaia di giovanissimi volontari. L’addestramento durò 3 mesi sotto la guida di vecchi istruttori delle scuole di Tarquinia e Viterbo ed il 24 aprile 1944 il neo battaglione Azzurro Arditi Paracadutisti si lanciò sull’aeroporto di Vengono per conseguire il brevetto. Il giorno successivo partiva per il fronte di Anzio – Nettuno per raggiungere i due battaglioni Nembo e Folgore già in fase di arretramento per le gravi perdite subite per contrastare lo sbarco Alleato del gennaio precedente.
Per l’Azzurro fu una battaglia di retroguardia fino a Castel di Decima, alle porte di Roma dove il 4 giugno durante l’estrema difesa cadeva eroicamente il Maggiore Rizzati, Cavaliere dell’ideale, Medaglia d’Oro al v.m. alla memoria. Cadde da ardito saltando su un carro nemico con le bombe a mano falciato da un altro carro che sopraggiunse in aiuto del primo.
La ritirata verso il Nord avvenne alla insegna della tradizione tutta italiana perennemente sprovvisti di mezzi di trasporto: arrangiarsi ! Chi scrive, per esempio, radunò la sua squadra, requisì un cavallo trainante un carro e percorse tutta l’Adriatica fino a Forlì dove giunse in piena fiera del cavallo. Un classico mediatore che per via della distorsione professionale assomigliava tout-court ad un cavallo, comprò il nostro. Col ricavato la squadra si sfamò una settimana nelle trattorie del Lago Maggiore dove l’Azzurro si sistemò ad Angera in attesa dei complementi che si stavano addestrando a Tradate dove continuava l’afflusso di giovani volontari. Il lago, nella sua staticità non favoriva il morale dei sopravvissuti.
Intanto i tre battaglioni Nembo, Folgore e Azzurro assunsero la denominazione di I° Reggimento Arditi Paracadutisti “Folgore” al comando del Col. Dalmas in primo momento, in seguito
sarà comandato dal Magg. Sala, la cui storia al comando del 3° Btg. del 185° Nembo in Calabria, nei giorni dello sbarco e dell’armistizio, sarebbe tutta da scrivere. Ma ci ha egregiamente
pensato Nino Arena nel suo volume “Per l’onore d’Italia”. Ma vale la pena di precisare il fatto che diede origine al bracciale di stoffa «8/9/1943 per l’onore d’Italia» da allora indossato dai parà del Rgt. Folgore durante il periodo della R.S.I.: alcuni paracadutisti che passeggiavano per le decorazioni. Li raccolsero e li portarono al Cap.
Sala il quale fu colpito dai significativi colori: nero al centro, bordati di tricolore. Quei nastri significavano visivamente il lutto della Patria e da allora completati dalla frase succitata divennero il simbolo ideale dei paracadutisti della R.S.I..
Angera, dicevamo. In agosto sopravvenne la crisi. Il Feldmaresciallo Von Richthofen cercò di incorporare l’ANR ( parà compresi) per trasformarla in Legione Aera alle dipendenze della sua
2a Luftflotte. Il Col. Dalmas, tempestivamente informato, approntava d’urgenza un reparto di parà Azzurri e lo spediva a Milano bloccando le strade d’accesso al comando della 1a Zat ubicata in piazza Italo Balbo, circondando i tedeschi che già l’assediavano. Anche le compagnie dell’Azzurro di stanza ad Angera vennero mobilitate ed armate. Ci fu molta tensione. Si seppe
poi che l’energico intervento di Mussolini presso il Fhürer scongiurò ‘il colpo di mano’ di Richthofen, il quale venne rimosso e trasferito.
Finalmente a settembre si esce dall’oziosa attesa; esplode il caso della Repubblica dell’Ossola. Questo capitolo è stato largamente raccontato da Nino Arena nel suo volume dedicato alla storia del Rgt. Folgore. L’Azzurro partecipò a quell’evento, la mia compagnia, l’XIa, traghettando il lago di notte da Laveno a Ghiffa (sponda piemontese) proseguendo la marcia in direzione Cannero accadde in quel che a prima vista sembrava un agguato. Fu infatti fatta oggetto ad un’azione di fuoco proveniente da un edificio. Ebbe due feriti. Circondato l’edificio l’equivoco venne chiarito: si trattava di un convalescenziario per feriti tedeschi e della Xa Mas i quali allarmati dai nostri movimenti avevano aperto il fuoco.
Nei pressi del passaggio obbligato di Falmenta la resistenza partigiana di fece intensa, l’XIa venne seriamente coinvolta. Al comando della mia pattuglia definita da Nino Arena ‘kamikaze’,
esco allo scoperto per attirare il fuoco nemico mentre il resto della compagnia procede all’accerchiamento ed annientamento della postazione. Il ponte di Falmenta non salta, Falmenta stessa viene occupata. La mia pattuglia subisce 4 feriti. Per questo episodio, descritto con una certa enfasi sempre da Nino Arena vengo proposto per la M.D.B. al v.m. e promosso al grado di sergente.
Nel 2001, 57 anni dopo l’evento, il camerata Novaresi, appassionato di ricerche storiche sulle FF.AA. della R.S.I., troverà negli archivi di un disciolto reggimento tedesco che aveva partecipato alle operazioni, il decreto col quale lo stesso comando proponeva di decorarmi con la Croce di Ferro di 2a classe con spade per lo stesso episodio. Una bella soddisfazione, non c’è che dire.
L’XIa sfilò per le vie di Domodossola liberata con un certo sollievo da parte dei cittadini. La fame era finita. Ma bisognava andare avanti per la Val Formazza. In località Le Casse ci scontrammo con 400 partigiani asserragliati in posizione dominante dietro postazioni fortificate. Il confine svizzero era vicino per il ‘si salvi chi può’. Lo scontro fu violento e durò tutto il giorno 18 ottobre.
Una piena improvvisa del Toce rischiò di farci rimanere isolati e scoperti. Al nostro fianco la compagnia Allievi al battesimo del fuoco si trovò a dover pagare il prezzo dell’inesperienza. L’XIa
si schierò per proteggere la loro ritirata. Il bilancio a sera era di 3 caduti e 6 feriti. Anche 10 dispersi prigionieri che dovettero seguire i partigiani in Svizzera e internati. Ancora alcuni giorni
per completare la ripulitura della Val Formazza e il 28 ottobre rientrammo a Tradate. La campagna dell’Ossola era finita.
Dopo pochi giorni di sosta a Tradate, l’Azzurro affronta un nuovo ciclo di operazioni non proprio gradite dal reparto.
La sua collocazione nell’ambito dell’Armata italo-tedesca ‘Liguria’ comandata dal M.llo Graziani è marginale nel senso che avrà compiti di retrovia intesi a presidiare e ripulire dai partigiani
le valli a ridosso del fronte francese occidentale.
Inizia così uno stillicidio di marce, puntate di rastrellamento, brevi scontri a fuoco lungo le valli di Lanzo, Viù e Canavesi, puntatine in alta montagna come il Col del Lys (1350 mt) coperto di
neve.
Si fanno soste a Mathi – Foglizzo, località dove spesso veniamo trattenuti dalle autorità locali e dai cittadini al fine di ripristinare la legalità infranta dalle scorrerie partigiane. Ecco, l’unico
conforto in questo lungo inverno di marce massacranti, di guerra fratricida, di perdite umane, fu la benevolenza e la simpatia degli abitanti felici per il ritorno alla vita normale.
Doveva arrivare aprile per apprendere la felice notizia che l’Azzurro deve spostarsi per raggiungere la prima linea sul fronte occidentale franc ese. Ma si dovette pagare ancora un prezzo di
sangue a Ivrea per un attacco proditorio da parte di partigiani travestiti da alpini, e poi ancora un grande rastrellamento in Val d’Aosta che richiese 20 ore di marcia. Improvvisamente la storia cominciò a correre in fretta. Il 19 aprile schieramento a Prè St. Didier – La Thuille con la frenesia di menare le mani, il 24 aprile improvviso l’ordine misterioso di rientrare ad Aosta. Il 25 aprile, asserragliati nella caserma Testafochi si parla apertamente di situazione politica e militare precipitata e non può essere diversamente se assistiamo al passaggio delle truppe tedesche in ritirata. Il 28 aprile una fantomatica radio Milano annuncia l’occupazione della città da parte delle brigate partigiane e l’uccisione di Mussolini. È la fine ! Ma il Comandante Sala deve ancora parlare ai suoi soldati. Il suo discorso è riportato per intero nel mio diario di guerra ed ogni tanto in questi 60 anni sono andato a rileggerlo per potermi sentire saldo nella riconferma dei sentimenti di allora mai rinnegati.
Il Btg. Azzurro lasciò Aosta inquadrato perfettamente ed armato fino ai denti. Due ali di popolo e di partigiani assistevano al nostro passaggio senza osare nulla. Il silenzio e la tensione si potevano tagliare col pugnale. Avevamo chiesto di risalire al Piccolo San Bernardo per continuare a combattere per l’onore d’Italia contro le mire annessionistiche di De Gaulle. Avremmo potuto farlo anche a fianco di quelle formazioni partigiane altrettanto preoccupate di quella situazione ai confini della Patria. Non ci fu concesso salvo il salvacondotto fino a Saint Vincent. Qui ci asserragliammo lussuosamente all’Hotel Biglia (attuale Casinò della Valle) indisturbati per via della soggezione e della paura dei partigiani. La nostra volontaria prigionia, una specie di arresti domiciliari, si consuma fino al 5 maggio tra pasti razionati , ginnastica e turni di guardia armata intorno all’edificio.
Una colonna anglo-americana si avvicina. Il comandante chiede di conferire col nostro Maggiore Sala. Quando sulla divisa dell’ufficiale vediamo il distintivo di paracadutista lo salutiamo
sull’attenti. Noblesse oblige! Lui ci sorride e risponde al saluto. Il nostro disarmo avverrà in modo singolare: ognuno di noi consegnerà l’arma al Com.te Sala il quale la riporrà in un sottoscala dell’Hotel. La diplomazia anglosassone è proverbiale: la forma sarà salva insieme all’onore.
Ci imbarchiamo sui camion scortati da soldati Alleati e attraversiamo a tappe città ostili come Ivrea la lugubre, Vercelli ed i suoi lanciatori di pietre. Un po’ di sollievo a Piacenza dove sul
ponte del Po, a passo d’uomo, incrociamo un camion in senso inverso altrettanto lento. Un attimo e ci riconosciamo: paracadutisti del sud e del nord, attoniti, fanno esplodere da entrambi i
carri i rispettivi gridi ‘Nembo – Folgore! ‘Su quel ponte si gettarono le basi sulle quali nei primi mesi del 1946 si fondarono le prime sezioni provinciali dell’Associazione Nazionale Paracadutisti d’Italia.
In un campo di transito a Modena il Reggimento si riunisce al completo. In quel carnaio bombardato da un sole implacabile rimaniamo fino al 17 maggio, giorno in cui altri camion ci trasferiranno nel mitico campo di Coltano.
Ma qui comincerà un’altra storia.
Aldo Arcari

IL BATTAGLIONE AZZURRO DEL RGT. FOLGORE NASCE A TRADATE NEL ‘43

(Il nostro Aldo Arcari, uno dei protagonisti d'epoca, racconta quei giorni.)
Mi illudevo di trascorrere in santa pace, dopo quasi tre anni di guerra, non proprio guerreggiata ma comunque lontano dalla Patria, una licenza premio capitatami tra capo e collo che mi aveva consentito di imbarcarmi su un aereo il 31 agosto'43 a Heraelion (Creta) destinazione Brindisi. Lungo viaggio in tradotta e finalmente a Milano.
La sera dell'8 settembre mi stavo recando da un paesino del Legnanese (la mia famiglia era sfollata lì) a Legnano per assistere al "Rigoletto" interpretato da un amico dell'adolescenza che aveva studiato canto e che si esibiva per la prima volta. In attesa del trenino vidi la folla che correva da un bar all'altro da dove le radio emanavano ad alta voce un messaggio. Era l'armistizio e la voce era quella di Badoglio. Rinunciai al breve viaggio e tornai a casa in tumulto. Non voglio darmi delle arie nel senso di far credere che capii subito tutto ciò che sarebbe successo ma quella ultima frase del messaggio «... le FF.AA. reagiranno contro eventuali attacchi da qualsiasi parte provengano » mi fece riflettere, sia pure in modo ancora confuso. La massa non si soffermava ad analizzare, festeggiava la fine della guerra e basta.
I giorni che seguirono furono per me decisivi: il Re era scappato insieme a tutti i Capi militari, l'esercito senza Capi era sbandato ed aveva gettato ignominiosamente le armi. La mia confusione si trasformò nella certezza del tradimento con tutte le conseguenze immaginabili.
La liberazione di Mussolini fece il resto e non appena comparvero i bandi di arruolamento corsi a Piazza l. Balbo (ora Piazza Novelli) sede del Comando dell'Aeronautica. Vi trovai il Ten. Mallen paracadutista dell'ADRA il quale, essendo io un graduato, mi spedì subito a Tradate dove era in atto l'organizzazione della futura Scuola di Paracadutismo. Era il 10 ottobre, a Tradate le rondini volavano basse e c'era nell'aria un profumo di tigli in fiore come recitò in seguito il nostro poeta Cap. Bonola.
E fu così che vidi arrivare giorno dopo giorno, insieme a qualche anziano", i "Balilla", nel senso che avevano poco più o poco meno di 17 anni.
Ah! se li ricordo: Briani dai capelli rossi, i gemelli Fumagalli, i Berticelli, i Brovelli, Greguoli, Cartasegna e tanti altri che non posso enumerare non per mancanza di memoria bensì di spazio. Mi dissero che li avevano portati in una caserma dei pompieri a Milano e fatti saltare da mia torre sul telo di salvataggio tanto per vedere se avevano paura... di morire!
Quanta tenerezza; la guerra era perduta ma loro forse sognavano una fantastica eroica Waterloo. Per la verità anch'io la sognavo ma intanto bisognava prepararsi. Con l'arrivo dei carismatici Istruttori di Tarquinia e Viterbo come il Cap. De Santis, il Ten. Martinotti, Carlo Maria Milani (pioniere di Castel Benito) la scuola di Tradate prese forma e sostanza nelle attrezzature tecniche, e con l'arrivo di Ufficiali valenti cominciò anche l'addestramento al combattimento: si doveva diventare Arditi Paracadutisti dell'Aeronautica Repubblicana.
lo dovevo iscriverli a ruolo, un lavoro burocratico necessario affinché... la paga cominciasse a correre per essere spesa tutta nelle serate di libera uscita nella locale Pasticceria (mitica) tanto per non smentire di essere ragazzini.
Nel giro di poche settimane le tre Compagnie che dovevano formare il Battaglione Azzurro furono costituite. 1 tre rispettivi comandanti furono designati nel seguente ordine: Ten. ard. parac. Max Carriere della 1^ Compagnia (in seguito assunse la numerazione di 11^) nella quale io ebbi l'onore e l'onere di assumere il ruolo di Sergente Aiutante. Un ruolo che presupponeva un grado superiore ma, dati i tempi e la scarsità di quadri, capitò spesso in quel periodo rivoluzionario che alcuni comandi operativi venissero assunti da graduati inferiori. E il caso del Magg. Sala che assunse il Comando del Reggimento, di Capitani che assunsero il Comando di Battaglione, di Tenenti che assunsero il Comando di Compagnia.
Mi piace qui ricordare, a proposito di questo ruolo di Aiutante di Compagnia, un episodio dell'immediato dopoguerra quando proprio in questa veste fui citato a testimoniare nel processo contro il S.Ten. Del Monte. Il Pubblico Ministero in quel processo, nel tentativo di sminuire la mia testimonianza, definì quel ruolo come quello di "tirapiedi del Comandante.
Mi piace altresì ricordare, mi si perdoni l'orgoglio, che durante la battaglia di Falmenta (Val d'Ossola) assunsi il comando di una squadra è in quella occasione venni indicato per la Medaglia di Bronzo al V.M. alla faccia del tirapiedi!
Ma andiamo avanti con l'organigramma del Battaglione Azzurro: Ten. ard. parac. Leonida Ortelli della 2^ Compagnia (assumerà la numerazione di 12^), questo valoroso Ufficiale nella Battaglia di Roma scomparirà nella mischia dato per morto verrà insignito la Medaglia d'Oro al V.M. alla moria. Fortunatamente sopravvisse prigioniero in Algeria ma la massima decorazione sarà confermata. Gli succedette al Comandante Ten. ard. parac. Tomasina.
La ^ Compagnia (che assumerà in seguito la numerazione di 10^)! posta al Comando del Cap. Capozzo.
Il Comando del Battaglione Azzurro fu assunto dal Capitano Bussoli un Ufficiale proveniente dal X Arditi e da quella fucina di Arditi fu la Scuola di S. Severa (Civitavecchia).
Ricordo la gran festa quando furono assegnati i pugnali che ci qualificavano Arditi. Mancava ancora il paracadutino di stoffa da cu sulla manica sinistra ma quello va per arrivare.
Bisognava lavorare molto sulla maledetta capovolta a terra:condicio sine qua non per essere ammessi al lancio. La capovolta! Oggetto di odio e amore che gli attuali Paracadutisti non conoscono l'evoluzione tecnica dei mezzi moderni. Il nostro IF42 era un paracadute che, avendo il fascio funicolare non bretellare bensì attaccato al dorso, ci esponeva all'impatto terreno in posizione quasi orizzontale anziché verticale, quindi l'arrivo a terra necessitava di una capovolta atta a distribuire su tutto il corpo l'impatto col terreno.
Dovevamo arrivarci nell'aprile ‘44 ma nel frattempo, in gennaio, lo sbarco anglo‑americano ad Anzio. La notizia arrivò di sera e il Btg. di ragazzini si radunò spontaneamente nel cortile del Castello reclamando a gran voce davanti alla mensa Ufficiali l'ordine di partire immediatamente per il fronte dato che lo sbarco minacciava direttamente Roma.
Che serata ragazzi! Il Col. Dalmas comandante la scuola, rimase interdetto. Ma come, avete appena imparato a marciare in ordine chiuso, reminiscenza dei Balilla, e volete partire subito per la guerra? andate in pasticceria! Cinismo degli adulti, incomprensione di e Comandanti nobilmente timorosi di mandare allo sbaraglio ragazzini imberbi e impreparati.
Non capivano che loro volevano la loro eroica Waterloo.
Finalmente venne il giorno del lancio. Da tre SM. 82 il Btg. Azzurro, il 24 aprile 1944, si lanciò sul campo di Venegono e si fregiò del distintivo di Ardito Paracadutista.
Il giorno seguente lasciammo Tradate diretti al fronte di Anzio/Nettuno dove gli Alleati, sbarcati nel gennaio precedente, erano ancora lì fermi come balena insabbiata. Su quel fronte già combattevano i nostri fratelli del Nembo al comando dell'eroico Magg. Rizzatti. Insieme a loro e al 1° Btg. Folgore di stanza a Spoleto dovevano costituire il 1°Regg. Arditi Paracadutisti “Folgore". Anche noi dell'Azzurro ci fermammo a Spoleto per un periodo di addestramento sulle armi tedesche sotto la guida di tremendi Istruttori teutonici.
Attendati sulle rive del fiume La Bruna trascorremmo un duro periodo, scalpitanti di andare al fronte, insofferenti di quegli Istruttori arcigni. Ci vendicammo battendoli in una partita di calcio Italia‑Germania ante litteram. Quando partimmo per la zona d'operazioni il fronte era già in movimento nel senso che lo sfondamento a Cassino da parte delle forze alleate aveva costretto il fronte di Nettuno a indietreggiare verso i colli Albani. L'Azzurro arrivò per combattere insieme al Nembo una disperata battaglia di retroguardia per la difesa di Roma intorno a Casteldidecima e Ardea. A Casteldidecima trovò la sua eroica morte il Com. Rizzatti Medaglia d'Oro alla memoria definito il Cavaliere dell'ideale. Poi fu la ritirata. Fu quella la gloriosa Waterloo dei ragazzi dell'Azzurro? La copertina di Beltrame sulla "Domenica del Corriere" la eternò.
Il resto è storia spicciola. Un periodo di riposo ad Angera sul Lago Maggiore, l'arrivo dei complementi, altri Balilla provenienti dalla scuola di Tradate che continuava a ricevere e ad addestrare volontari che non smisero di affluire fin quasi alla vigilia della fine. Quale eroica incoscienza!
Un'altra partenza in autunno per la Val d'Ossola, altri combattimenti, ma questa volta ci toccò in sorte una feroce guerra civile di cui i più giovani ignoravano totalmente le lontane premesse e non ne capivano che vagamente le molteplici motivazioni.
Poi ancora un fronte di guerra, l'ultimo in Val d'Aosta sul Piccolo S. Bernardo, a fronteggiare insieme alla Divisione Alpina Monterosa (già, eravamo diventati Paracadutisti/Alpini!) i Francesi gollisti che premevano per occupare l'intera valle e annettersela per mettere tutti davanti al fatto compiuto da far pesare sul futuro tavolo della pace.
Non ci riuscirono, ma forse ne furono dissuasi anche dagli Alleati i quali, bontà loro, non avrebbero mai accettato che il loro fresco cobelligerante italiano del Sud subisse una mutilazione così atroce. Ma questa è un'altra storia che già stata scritta dai Grandi A Yalta.
Quando il 25 aprile 1945 giunse l’annuncio della disfatta definitiva dei Tedeschi sul fronte di Bologna e il conseguente dilagare degli Alleati in Val Padana, il Btg. ebbe l'ordine di ripiegare ed asserragliarsi nella Caserma Testafochi di Aosta. Si trovava con l'Azzurro il Comandante Sala, Comandante del Reggimento. A lui si devono le trattative per la resa che iniziò con lo spostamento in pieno assetto di guerra verso Saint Vincent all'Hotel Billia diventato per alcuni giorni la nostra fortezza. Lasciammo Aosta inquadrati ed armati fra due ali di Aostani silenziosi e in preda al timore che qualche sconsiderato partigiano sparasse un colpo. Sarebbe stata una carneficina.
A S. Vincent fummo raggiunti da una Commissione Interalleata di armistizio la quale, accettando la resa, ci concesse l'onore delle Armi che depositammo nelle mani del nostro comandante durante una suggestiva e struggente cerimonia. Infine, caricati sui camion alleati, prigionieri a Coltano (una località tra Pisa e Livorno) in un viaggio infernale.
Ma qui bisognerebbe aprire un altro capitolo della storia dell'Azzurro che investe la storia di tutto il Reggimento che si ritrovò tutto lì unito, in divisa con cuore puro e conscio di aver servito “L’Onore d’Italia”, una storia finale che segnò per sempre un duraturo cemento di solidarietà e fratellanza fra i Reduci che tuttora rappresentano lo zoccolo duro di italianità, solidarietà, premessa per la rinascita della nostra Associazione la quale l'anno prossimo celebrerà il 55° anniversario della sua fondazione.

Aldo Arcari



... e non avrò
più voglia di parlare,
ma se qualcuno ancora
mi domandasse,
risponderei
semplicemente
ONORE!
(Cap. Bonola, da "Rapsodie di Tradate”)'



MERCOLEDÌ 8 AGOSTO 2012


LA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA



L ’ INFAMIA E IL  TRADIMENTO


Il 14 maggio 1943 la radio annunciava: “Ogni resistenza è cessata in Tunisia per ordine del Duce”. Questo significava che l’ultimo lembo d’Africa era stato perduto dalle forze dell’Asse. Le sorti della guerra volgono al peggio. Ora è il territorio italiano esposto agli attacchi nemici.
E nella notte fra il 9 e il 10 luglio 1943 scatta l’”Operazione Husky” : le armate settima americana agli ordini del Gen. Patton (66000 uomini) e ottava inglese agli ordini del Gen. Montgomery (100000 uomini) sbarcano nella Sicilia sud-orientale sopraffacendo le nostre difese.
Il 22 cade Palermo. La Sicilia è ormai perduta. La popolazione, messa alla fame. La notizia che tutti i siciliani avrebbero accolto con gioia gli anglo-americani acclamandoli è sicuramente non vera. Infatti un po’ in tutto il sud si ebbe una vera e propria resistenza fascista.

Alcuni uomini politici fascisti, fra cui Grandi, chiedono la convocazione del Gran Consiglio del Fascismo. E il Segretario Nazionale Carlo Scorza, d’accordo con Mussolini, lo convoca per il 24 luglio alle ore 17.
Dopo la relazione di Mussolini e alcuni interventi, prende la parola Grandi per illustrare il suo ordine del giorno che propone, in estrema sintesi, di mettere la situazione nelle mani del re. Mussolini avverte che l’approvazione di quell’ O.d.G. metterebbe in crisi il regime e propone di rinviare la discussione, data anche l’ora ormai tarda. Ma Grandi e altri chiedono di andare avanti. Sono ormai passate le ore 2 del 25 luglio allorchè si passa alla votazione degli O.d.G. Quello di Grandi viene approvato con 19 sì, 7 no e 1 astenuto .
Farinacci, il 28° membro, vota il proprio O.d.G. Sono le ore 2,40 del 25 luglio 1943.
La mattina del 25 trascorre senza che nulla accada. Mussolini si reca a Palazzo Venezia come di consueto e sbriga le cose correnti. Però chiede al re di anticipare alle ore 17 di quello stesso giorno, domenica, la consueta udienza settimanale del lunedì.
E alle 17 va dal Re. Non si sa molto del colloquio, nel quale il re comunica a Mussolini  che lo sostituirà con Badoglio.  Il colloquio,  però,  si  conclude  con  una cordiale  stretta  di  mano.  Certo  Mussolini  non  poteva immaginare che, uscito dalla sala dell’udienza, avrebbe trovato i carabinieri incaricati di arrestarlo.

Il re affida l’incarico di formare il nuovo governo al Generale Pietro Badoglio che annuncia subito che la guerra continua a fianco dell’alleato germanico e vieta qualsiasi manifestazione. In realtà egli avvia da subito contatti con gli anglo-americani per trattare le condizioni di un armistizio. Le trattative proseguono ma gli alleati anglo-americani vogliono la resa senza condizioni.
E il 3 settembre 1943 a Cassibile, presso Siracusa, il Gen. Castellano firma l’armistizio. Lo stesso giorno gli alleati sbarcano in Calabria e cominciano a risalire la penisola. Badoglio e il re, che temono le reazioni della Germania, cui fino all’ultimo si è giurata amicizia e rispetto del patto di alleanza, vorrebbero ritardare l’annuncio dell’armistizio (intanto, ad armistizio già firmato, i bombardieri americani continuano a seminare morte in Italia), ma la radio americana, alle ore 17,45 dell’8 settembre diffonde la notizia. E due ore dopo anche Badoglio è costretto a dare l’annuncio. Subito dopo fugge con il re, la sua famiglia e alcuni generali e il 9 è a Brindisi, in territorio già occupato dagli ex-nemici.
L’esercito italiano, lasciato senza ordini, si disperde, la flotta, ancora in piena efficienza, vergognosamente va a Malta a consegnarsi agli inglesi.
Molti italiani sono indignati e non riescono ad accettare la resa ignominiosa.
Lo stesso Eisenhower nel suo “Diario di guerra” scrisse: “…la resa dell’Italia fu uno sporco affare. Tutte le nazioni elencano nella loro storia guerre vinte e guerre perse, ma l’Italia è la sola ad aver perduto questa
guerra con disonore, salvato solo in parte dal sacrificio dei combattenti della R.S.I…”.

In effetti quando all’armistizio “corto” firmato il 3 settembre e che constava di soli 12 articoli e contemplava soltanto la cessazione delle attività militari, seguì l’armistizio “lungo” firmato da Badoglio a Malta sulla nave “Nelson” il 29 settembre, ci si rese conto della eccezionale durezza delle condizioni: Il nuovo testo, composto da 44 minuziosi articoli, stabiliva che al governo italiano veniva tolta, praticamente, ogni potestà. Tutto, assolutamente tutto, doveva passare sotto il controllo degli anglo-americani, che imposero, addirittura, delle modifiche legislative. In pratica l’Italia del sud perdeva ogni sovranità. E i tedeschi, che, dopo l’arresto di Mussolini avevano fatto affluire numerose truppe, catturano e deportano in Germania molti sbandati.
Regna il caos. Modesti tentativi di resistenza ai tedeschi si hanno a Roma ma cessano subito.

12 settembre un audace commando di SS atterra con degli alianti a Campo Imperatore sul Gran Sasso e libera il Duce.  Il comportamento del Gen. Fernando Soleti e dei carabinieri di guardia evita il conflitto e ogni spargimento di sangue. Una “Cicogna”, piccolo apparecchio da ricognizione, lo conduce a Roma da dove, su un aereo militare, raggiunge Monaco di Baviera.
Alcune fonti ritengono che Mussolini, stanco e sfiduciato, avrebbe considerato anche la possibilità di ritirarsi, ma avrebbe poi accettato, su insistenza di Hitler, di creare il nuovo stato per evitare all’Italia le probabili rappresaglie dei tedeschi, furiosi per il vile tradimento.
Il 13 ottobre Badoglio, contraddicendo clamorosamente la sua dichiarata volontà di voler ottenere la pace, dichiara guerra ai tedeschi.


NASCE  IL  NUOVO  STATO


Il 18 settembre Mussolini parla da Radio Monaco, e gli italiani possono riudire la voce ben nota.
I fascisti, che fin dal 9 settembre avevano riaperto molte sedi, si riorganizzarono rapidamente. Il 1 marzo 1944 Pavolini, in una relazione a Mussolini, comunicherà che “sono stati ricostituiti 1072 Fasci con 487.000 iscritti”. Roma ne contò 35.000, Milano 20.000, Ferrara 14.000.
Il 23 settembre Mussolini rientra in Italia e, alla Rocca delle Caminate, sua residenza personale, costituisce il Governo della nuova Repubblica. Il giorno 23 stesso alle ore 14 si ha, nella sede dell’ambasciata germanica a Roma, la prima breve riunione del governo, presieduta da Pavolini.
Il nuovo stato si chiamerà Repubblica Sociale Italiana (tale denominazione verrà deliberata dal Consiglio dei Ministri il 24 novembre 1943). Essa avrà Mussolini come Capo dello Stato e del governo e Ministro degli Esteri, con Graziani Ministro della Difesa Nazionale, Buffarini Guidi Ministro dell’Interno, Ferdinando Mezzasoma Ministro della Cultura Popolare e tutti gli altri.
Il 28 settembre 1943 inizia il funzionamento del nuovo Stato.

Il giorno 11 novembre furono costituiti i Tribunali Straordinari Provinciali per giudicare i fascisti che avevano tradito e un tribunale straordinario  speciale per giudicare i membri del Gran Consiglio che avevano votato l’O.d.G. Grandi, accusati di tradimento. Fra essi c’era anche Galeazzo Ciano, marito di Edda figlia del Duce. Il processo ebbe inizio alle ore 9 dell’8 gennaio 1944 a Verona in Castelvecchio. Il 10 gennaio alle ore 13,40 fu emessa la sentenza. Furono comminate 18 condanne a morte (Cianetti, che aveva ritirato il suo voto a favore fu condannato a 30 anni di reclusione). Ma la maggior parte dei condannati a morte aveva riparato all’estero e furono condannati in contumacia. Solo cinque erano presenti al processo : Ciano, De Bono, Marinelli, Pareschi e Gottardi. Essi furono fucilati l’11 gennaio 1944.

Il 22 febbraio 1944 il Duce nomina il nuovo Direttorio del Partito Fascista Repubblicano. Intanto il nuovo stato  aveva  cominciato  a  funzionare  regolarmente.  Le  condizioni  erano  drammatiche:  le  città  erano martoriate dai bombardamenti (il 20 ottobre 1944 suscitò orrore il bombardamento della scuola di Gorla a Milano, dove trovarono la morte 300 bambini. I civili morti per bombardamenti assommeranno a 64.000), il problema degli approvvigionamenti era impellente, i rapporti spesso non facili con i tedeschi complicavano ulteriormente le cose. A tutto questo, poi, cominciò ad aggiungersi il problema dei partigiani, con i primi assassinii di fascisti. Si trattava in prevalenza di giovani renitenti alla leva che si erano rifugiati in montagna, ma anche di vecchi antifascisti, specie comunisti, che intravedevano la possibilità di abbattere il Fascismo. Ci furono anche dei tentativi di sciopero.
Malgrado tutto ciò i trasporti continuarono a funzionare anche se fra mille difficoltà, le fabbriche continuarono il loro lavoro, le scuole riaprirono regolarmente, l’amministrazione pubblica faceva il proprio dovere, l’economia era governata con mano ferma (l’inflazione, ad esempio, era insignificante se paragonata con quella scatenatasi al sud, nelle terre occupate). Subito dopo l’8 settembre i tedeschi avevano introdotto i Marchi d’occupazione. Una delle prime preoccupazioni del Ministro delle finanze fu quella di farli ritirare. Ciò accadde il 25 ottobre 1943. Da quella data essi persero ogni valore legale. In data 1° dicembre venne costituito un Comitato Economico Italiano col compito di studiare le questioni economiche, con particolare riguardo all’economia di guerra. E in data 5 dicembre viene istituito un Comitato nazionale dei prezzi, con Carlo Fabrizi Commissario, alle dirette dipendenze del Duce.
A riprova di come le cose abbiano sempre continuato a funzionare a dovere durante la R.S.I. sta la testimonianza davvero non sospetta del Maggiore americano Michael Noble del 15° Gruppo di armate alleato. Egli, inviato a Milano per riorganizzare l’uscita dei quotidiani, vi giunse il 27 aprile 1945 e rimase stupito per l’ordine e la normalità che vi regnavano: “…Per prima cosa restai sorpreso vedendo grandi palazzi pieni di una vita normale, i tram che funzionavano, i cinema e i teatri aperti regolarmente, gli uffici pubblici in piena attività, la gente che stava seduta ai caffè vestita decorosissimamente. Era uno spettacolo nuovo ed estremamente civile…”.

Molto intensa fu l’azione di governo tesa a mantenere integro il potere di acquisto della moneta, a mantenere ad alti livelli la produzione agricola e industriale, a mantenere su buoni livelli il tenore di vita della popolazione.
E anche in tale situazione di assoluta emergenza (si pensi alle ingentissime spese militari, alle spese per mantenere in efficienza i servizi continuamente devastati dalle incursioni aeree…), il bilancio dello Stato chiudeva rigorosamente in pareggio.
Anche l’Opera Nazionale Balilla era risorta. In una relazione di Renato Ricci del 19 febbraio 1944 si dice che si sono “costituiti 66 centri provinciali, 2255 vecchi ufficiali rispondono alle chiamate; 50000 organizzati, 8740 ospiti nelle colonie; 300.000 refezioni scolastiche giornaliere”.
Né furono dimenticati gli italiani internati in Germania che avevano rifiutato di aderire alla R.S.I. In data 11.10.1944 si apprende che la Croce Rossa Italiana assiste 520.000 connazionali in Germania.
Ciò  fu  fatto  con  la  prima  Assemblea  Nazionale  del  P.F.R.  che  si  riunì  a  Verona  in  Castelvecchio  il  14 novembre  1943.  Ad  esso  parteciparono:  3  rappresentanti  per  ogni  federazione,  in  gran  parte  elettivi,  i delegati  regionali,  i  capi  delle  organizzazioni  sindacali,  i  membri  del  governo,  i  direttori  dei  giornali quotidiani e dei principali settimanali, i rappresentanti delle associazioni combattentistiche e degli Enti Morali della Nazione. Il Congresso fissò nei 18 punti di un Manifesto Programmatico quella che sarebbe stata la politica interna, estera e sociale della nuova Repubblica. Nacquero, così, i famosi “18 punti di Verona”:

In materia costituzionale interna
1  –  Sia  convocata  la  Costituente,  potere  sovrano  di  origine  popolare,  che  dichiari  la  decadenza  della Monarchia, condanni solennemente l’ultimo Re traditore e fuggiasco, proclami la Repubblica Sociale e ne nomini il Capo.
2 – La Costituente sia composta dai rappresentanti delle provincie invase attraverso le delegazioni degli sfollati e dei rifugiati sul suolo libero.
Comprenda altresì le rappresentanze dei combattenti; quelle dei prigionieri di guerra, attraverso i rimpatriati per minorazione; quelle degli italiani all’estero; quelle della Magistratura, delle Università e di ogni altro Corpo o Istituto la cui partecipazione contribuisca a fare della Costituente la sintesi di tutti i valori della Nazione.
3 – La Costituente repubblicana dovrà assicurare al cittadino – soldato, lavoratore e contribuente – il diritto di controllo e di responsabile critica sugli atti della pubblica amministrazione.
Ogni cinque anni il cittadino sarà chiamato a pronunziarsi sulla nomina del Capo della Repubblica.
Nessun cittadino, arrestato in flagrante, o fermato per misure preventive, potrà essere trattenuto oltre i sette giorni senza un ordine della autorità giudiziaria. Tranne il caso di flagranza, anche per perquisizioni domiciliari occorrerà un ordine dell’autorità giudiziaria.
Nell’esercizio delle sue funzioni la Magistratura agirà con piena indipendenza.
4 – La negativa esperienza elettorale già fatta dall’Italia e l’esperienza parzialmente negativa di un metodo di nomina troppo rigidamente gerarchico contribuiscono entrambe ad una soluzione che concilii le opposte esigenze. Un sistema misto (ad esempio, elezione popolare dei rappresentanti alla Camera e nomina dei Ministri per parte del Capo della Repubblica e del Governo, e nel Partito, elezione di Fascio salvo ratifica e nomina del Direttorio nazionale per parte del Duce) sembra il più consigliabile.
5 – L’organizzazione a cui compete l’educazione del popolo ai problemi politici è unica.
Nel Partito, ordine di combattenti e di credenti, deve realizzarsi un organismo di assoluta purezza politica, degno di essere il custode dell’idea rivoluzionaria.
La sua tessera non è richiesta per alcun impiego od incarico.
6 – La religione della Repubblica è la cattolica apostolica romana. Ogni altro culto che non contrasti alle leggi è rispettato.
7 – Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica.

In politica estera
8 – Fine essenziale della politica estera della Repubblica dovrà essere l’unità, l’indipendenza, l’integrità territoriale della Patria nei termini marittimi ed alpini segnati dalla natura, dal sacrificio di sangue e dalla storia, termini minacciati dal nemico con l’invasione e con le promesse ai Governi rifugiati a Londra. Altro fine essenziale consisterà nel far riconoscere la necessità degli spazi vitali indispensabili ad un popolo di 45 milioni di abitanti sopra una area insufficiente a nutrirli.
Tale politica si adopererà inoltre per la realizzazione di una comunità europea, con la federazione di tutte le Nazioni che accettino i seguenti principi fondamentali:
a)  eliminazione dei secolari intrighi britannici dal nostro Continente;
b)  abolizione del sistema capitalistico interno e lotta contro le plutocrazie mondiali;
c)   valorizzazione, a beneficio dei popoli europei e di quelli autoctoni, delle risorse naturali dell’Africa, nel rispetto  assoluto  di  quei  popoli,  in  ispecie  musulmani,  che,  come  l’Egitto,  sono  già  civilmente  e nazionalmente organizzati.


In materia sociale
9 – Base della Repubblica Sociale e suo oggetto primario è il lavoro, manuale, tecnico, intellettuale, in ogni sua manifestazione.
10 – La proprietà privata, frutto del lavoro e del risparmio individuale, integrazione della personalità umana, è garantita dallo Stato. Essa non deve però diventare disintegratrice della personalità fisica e morale di altri uomini, attraverso lo sfruttamento del loro lavoro.
11 – Nell’economia nazionale tutto ciò che per dimensioni o funzioni esce dall’interesse singolo per entrare nell’interesse collettivo, appartiene alla sfera di azione che è propria dello Stato.
I pubblici servizi, e di regola, le fabbricazioni belliche debbono venire gestiti dallo Stato a mezzo di Enti parastatali.
12 – In ogni azienda (industriale, privata, parastatale, statale) le rappresentanze dei tecnici e degli operai coopereranno intimamente – attraverso una conoscenza diretta della gestione – all’equa ripartizione degli utili tra il fondo di riserva, il frutto al capitale azionario e la partecipazione agli utili stessi per parte dei lavoratori.
In alcune imprese ciò potrà avvenire con una estensione delle prerogative delle attuali Commissioni di fabbrica. In altre, sostituendo i Consigli di amministrazione con Consigli di gestione composti da tecnici e da operai con un rappresentante dello Stato. In altre, ancora, in forma di cooperativa parasindacale.

13 – Nell’agricoltura, l’iniziativa privata del proprietario trova il suo limite là dove l’iniziativa stessa viene a mancare.  L’esproprio  delle  terre  incolte  e  delle  aziende  mal  gestite  può  portare  alla  lottizzazione  fra braccianti da trasformare in coltivatori diretti, o alla costituzione di aziende cooperative, parasindacali, o
parastatali, a seconda delle varie esigenze dell’economia agricola.
Ciò è del resto previsto dalle leggi vigenti, alla cui applicazione il Partito e le organizzazioni sindacali stanno imprimendo l’impulso necessario.
14 – E’ pienamente riconosciuto ai coltivatori diretti, agli artigiani, ai professionisti, agli artisti il diritto di esplicare le proprie attività produttive individualmente, per famiglie o per nuclei, salvo gli obblighi di consegnare agli ammassi la quantità di prodotti stabiliti dalla legge o di sottoporre a controllo le tariffe delle
prestazioni.
15 – Quello della casa non è soltanto un diritto di proprietà, è un diritto alla proprietà. Il Partito iscrive nel suo programma la creazione di un Ente nazionale per la casa del popolo, il quale, assorbendo lo Istituto esistente  e  ampliandone  al  massimo  l’azione,  provveda  a  fornire  in  proprietà  la  casa  alle  famiglie  dei lavoratori  di  ogni  categoria,  mediante  diretta  costruzione  di  nuove  abitazioni  o  graduale  riscatto  delle esistenti. In proposito è da affermare il principio generale che l’affitto – una volta rimborsato il capitale e pagatone il giusto frutto – costituisce titolo di acquisto.
Come primo compito, l’Ente risolverà i problemi derivanti dalle distruzioni di guerra, con requisizione e distribuzione di locali inutilizzati e con costruzioni provvisorie.
16 – Il lavoratore è iscritto d’autorità nel sindacato di categoria, senza che ciò gli impedisca di trasferirsi in altro  sindacato  quando  ne  abbia  i  requisiti.  I  sindacati  convergono  in  una  unica  Confederazione  che comprende tutti i lavoratori, i tecnici, i professionisti, con esclusione dei proprietari che non siano dirigenti o tecnici. Essa si denomina Confederazione generale del Lavoro, della Tecnica e delle Arti.
I dipendenti delle imprese industriali dello Stato e dei servizi pubblici formano sindacati di categoria, come ogni altro lavoratore.
Tutte le imponenti provvidenze sociali realizzate dal Regime fascista in un ventennio restano integre. La Carta del Lavoro ne costituisce nella sua lettera la consacrazione, così come costituisce nel suo spirito il punto di partenza per l’ulteriore cammino.
17 – In linea di attualità il Partito stima indilazionabile un adeguamento salariale per i lavoratori attraverso l’adozione di minimi nazionali e pronte revisioni locali, e più ancora per i piccoli e medi impiegati tanto statali che privati. Ma perché il provvedimento non riesca inefficace e alla fine dannoso per tutti occorre che con spacci cooperativi, spacci d’azienda, estensione dei compiti della “Provvida”, requisizione dei negozi colpevoli di infrazioni e loro gestione parastatale o cooperativa, si ottenga il risultato di pagare in viveri ai prezzi ufficiali una parte del salario. Solo così si contribuirà alla stabilità dei prezzi e della moneta e al risanamento del mercato. Quanto al mercato nero, si chiede che gli speculatori – al pari dei traditori e dei disfattisti – rientrino nella competenza dei Tribunali straordinari e siano passibili di pena di morte.
18 – Con questo preambolo alla Costituente il Partito dimostra non soltanto di andare verso il popolo, ma di stare col popolo.
Da parte sua, il popolo italiano deve rendersi conto che vi è per esso un solo modo di difendere le sue conquiste di ieri, oggi, domani : ributtare l’invasione schiavistica delle plutocrazie anglo-americane, la quale, per mille precisi segni, vuole rendere ancora più angusta e misera la vita degli italiani. V’è un solo modo di raggiungere tutte le mete sociali: combattere, lavorare, vincere.

E la politica sociale fu quella che caratterizzò veramente la R.S.I. Il 30 giugno 1944 entra in vigore la legge sulla socializzazione che era stata approvata il 12 febbraio. Il 22 gennaio 1945 viene socializzata la FIAT, il 1 febbraio  la  Pirelli,  la  Morelli,  la  Snia  Viscosa,  la  Marzotto,  i  Lanifici  Rossi…  E  il  5  aprile  1945  la socializzazione viene estesa a tutte le aziende.
In data 15 gennaio 1945 era stato creato il Ministero del Lavoro, trasformando in Ministero il Commissariato Nazionale del Lavoro che funzionava fin dal 7 dicembre 1943. Il nuovo ministero assorbì anche la politica sociale che era di competenza del Ministero dell’Economia Corporativa, il quale, da allora, assunse la denominazione di Ministero per la Produzione Industriale.
Il governo della RSI aveva sede sul lago di Garda, a Salò. Mussolini aveva la sua sede a Gargnano nella Villa Orsoline, mentre la sua residenza era a Salò nella Villa Feltrinelli.
E, naturalmente, impegno prioritario del governo della RSI era quello di contrastare, a fianco dei tedeschi, l’avanzata degli anglo-americani. La situazione si faceva sempre più drammatica. Eppure lo Stato continua a funzionare, Mussolini difende con le unghie e con i denti l’autonomia della sua Repubblica e tenta disperatamente, anche con atti di grande clemenza, di attenuare gli effetti nefasti della guerra civile. E anche l’attività legislativa non si arresta.

LA GLORIOSA “ DECIMA MAS ”

Il parallelismo tra Decima Legione e Decima MAS nasce da riferimenti comuni. La Decima Legione fu il corpo scelto di Giulio Cesare per la sua comprovata fedeltà agli ordini, al Comandante, a Roma. Composta da veterani di sperimentato valore, "I Triari", dotati di caratteristiche qualità morali e fisiche, costituiva il nerbo dell'esercito romano. Quando scoppiò la guerra civile, Cesare ricorse soprattutto alla Decima Legione per affrontare Pompeo e sconfiggerlo dopo aver attraversato il Rubicone.
Così, come prima, ma soprattutto dopo l'8 settembre del '43, la Decima MAS, corpo scelto di volontari votati all'estremo sacrificio, costituì la leggenda delle unità militari, per contendere al nemico ogni lembo di mare e di terra italiano; il nemico, che dopo l'armistizio fu reso imbaldanzito dal tradimento e da una guerra civile non voluta dall'autentico popolo italiano.

I partigiani? All'inizio, dopo l'8 settembre ‘43 non esistevano. Un grave errore fu quello di lasciare liberi i prigionieri di guerra inglesi, americani, greci, neo-zelandesi, che alla data dell'armistizio si trovavano nei campi di prigionia nel Nord. Nell'impossibilità di raggiungere i loro reparti, la quasi totalità di questi si nascose in alta montagna. Alimentati ed armati da lanci aerei degli anglo-americani, i quali avevano lo scopo di far continuare la guerra a danno del popolo italiano, questi ex prigionieri furono il punto di raccolta di sbandati italiani renitenti alla chiamata alle armi, "resistenza" che, per altro, prese consistenza operante solo nei mesi del '45, quando le armate anglo-americane stavano ormai dilagando sul suolo italiano.
Le stragi e le crudeltà commesse in quel periodo e nei giorni cosiddetti della "liberazione" sono ormai di dominio pubblico e servono ad indicare la bassezza morale di chi se ne è reso responsabile.
Oggi viene ancora ripetuto che la nostra Repubblica è nata dalla resistenza. Ma la realtà è che la Repubblica Italiana è nata da una guerra perduta, da una sconfitta perseguita da chi ha voluto tradire la Patria.
La caduta progressiva di principi eterni quali Dio, Patria, Famiglia, si accompagnava gradualmente alla caduta dei valori guida nella vita dell'uomo quali l'onestà, la lealtà, il coraggio, l'impegno, la competenza. Per questa ragione la società italiana si trova a vivere oggi uno dei periodi più bui della sua storia, mentre dalla nebbia che sembra avvolgere ogni cosa, riemergono invece le verità che la realtà storica non può tenere nascoste.

Come è noto la X° FLOTTIGLIA MAS del Comandante Principe Junio Valerio Borghese non ammainò mai la bandiera e, fin dall’8 settembre 1943 aprì a La Spezia un centro di reclutamento che vide subito l’affluenza di molti volontari.
In data 14 settembre fra il Comandante Borghese e il Capitano di Vascello Berninghaus, la più alta autorità germanica in sede, fu stipulato il seguente accordo:
1)    La X°  Flottiglia MAS è unità complessa appartenente alla marima militare italiana, con completa autonomia nel campo logistico, organico, della giustizia e disciplinare, amministrativo;
2)    È alleata delle forze armate germaniche, con parità di diritti e di doveri;
3)    Batte bandiera da guerra italiana;
4)    È riconosciuto a chi ne fa parte il diritto all’uso di ogni arma;
5)    È autorizzata a ricuperare e armare, con bandiera ed equipaggi italiani, le unità italiane trovantisi nei porti italiani; il loro impiego operativo dipende dal Comando della Marina germanica;
6)    Il Comandante Borghese ne è il Capo riconosciuto, con i diritti e i doveri inerenti a tale incarico.

Alcuni ordini interni, poi, caratterizzarono le Decima e ne marcarono la linea di condotta:
1)  Rancio e caldaio unico per Ufficiali, Sottufficiali e marinai.
2)  Sospensione di ogni promozione fino alla fine della guerra, esclusion fatta per le promozioni per merito di guerra sul campo.
3)  Reclutamento esclusivamente volontario.
4)   La pena di morte è prevista per i militari della “Decima” che siano riconosciuti colpevoli dai regolari Tribunali, dei seguenti reati:
a)  furto o saccheggio;
b)  diserzione;
c)  codardia di fronte al nemico.

Fu l'atto di nascita della Marina nazionale repubblicana, che consentì la ripresa della nuova forza armata: oltre al recupero di grandi quantità di materiali e mezzi, la Decima fece affluire nelle sue file anche un gran numero di marinai e soldati internati dai tedeschi.
Migliaia  di  volontari  si  presentarono  a  La  Spezia,  chiedendo  di  essere  arruolati  nella  formazione  e rapidamente tutti gli organici dei reparti e delle scuole navali furono al completo. Venne decisa così la formazione di reparti di fanteria di marina: nell'inverno 43/44 vennero costituiti i primi tre battaglioni, il Nuotatori Paracadutisti, il Maestrale (rinominato poi Barbarigo) ed il Lupo.

Il Principe Borghese si trovava a capo di una unità militare che aveva già dato filo da torcere agli anglo- americani. Suoi sono gli uomini che hanno sperimentato le tecniche più audaci e innovative per tentare di controbilanciare la superiorità dei mezzi avversari. I siluri umani, i barchini esplosivi, le cariche magnetiche, i bauletti esplosivi, mezzi usati contro navi nemiche, mezzi inventati dalla fantasia di uomini di mare italiani e che costituiscono una schiera di spiriti eletti, che partono per le più incredibili missioni con la consapevolezza di una probabile fine. Raggiungono e affondano navi della flotta avversaria, riparata nei munitissimi porti di Algeri, Alessandria, Malta, Suda, Gibilterra.
Il capo del governo inglese, Churchill, dopo l'impresa di Alessandria degli uomini di Borghese afferma: "L'Inghilterra ha perso, con la perdita delle navi affondate, la supremazia della flotta in Mediterraneo; prepariamoci a subirne le conseguenze".

Il  battaglione  BARBARIGO,  al  comando  del  Maggiore  Umberto  Bardelli,  fu  fra  i  primi,  insieme  ai paracadutisti del NEMBO, ad essere impiegati nella battaglia di Anzio dove si distinse per valore. Contava 1180 uomini.
Ma il contributo maggiore alla difesa dei confini della Patria fu dato nelle regioni orientali minacciate dagli slavi di Tito. Borghese era stato nominato dal Duce “comandante di tutte le truppe oltre Isonzo” ed egli fu a Fiume e in altre località della zona a organizzare la disperata difesa di quelle terre. Epico il combattimento del Btg. FULMINE, comandato dal Ten.Vasc. Elio Bini a Selva di Tarnova in difesa di Gorizia. La 1^, la 2^ e la 3^ Cmp del FULMINE per tre giorni, dal 19 al 21 gennaio 1945 resisterono all’attacco di 2000 slavi e pagarono un altissimo tributo di sangue: 86 morti di cui 5 ufficiali e 56 feriti, su una forza complessiva di 214 uomini. I nemici, però, ebbero 300 morti e 500 feriti. Le truppe della Decima furono spostate tutte in Venezia Giulia nell’ottobre 1944.

All'inizio del 1945 la Decima venne riorganizzata in due gruppi di combattimento:
1° Gruppo: Barbarigo, NP, Lupo, Gruppo artiglieria Colleoni ed una parte del battaglione genio Freccia
2° Gruppo: Valanga, Fulmine, Sagittario, gruppi di artiglieria San Giorgio e Da Giussano, più l'altra parte del Freccia.
Il 1° Gruppo venne inviato al sud mentre il 2° rimase a difesa dei confini orientali. Quando ai primi di aprile si scatenò l'offensiva alleata, i reparti della Decima si ritirarono ordinatamente verso il Veneto per tentare il ricongiungimento dei due gruppi; nei dintorni di Padova vennero circondati da unità corazzate alleate e furono costretti ad arrendersi, ricevendo l'onore delle armi. La Decima Mas venne sciolta ufficialmente dalsuo comandante a Milano, alla fine dell'aprile 1945, alla presenza dei rappresentanti del CLN.
Quando Borghese per l’ultima volta uscì dalla caserma, due partigiani di sentinella gli presentarono le armi.


LA  TRAGICA  FINE

Il 16 dicembre 1944 Mussolini si reca a Milano dove susciterà immensi entusiasmi e dove avrà il suo ultimo bagno di folla. Terrà al Teatro Lirico il suo ultimo discorso, nel quale esalterà il programma sociale della RSI e inciterà i camerati milanesi alla riscossa.
Il  19  giugno  i  tedeschi  cominciano  ad  arroccarsi  sulla  nuova  linea  difensiva  che  va  dalla  Versilia  alla Romagna: la “linea Gotica”. Tuttavia contrastano l’avanzata americana passo per passo.

Sulla linea “gotica” gli anglo-americani vengono bloccati per tutto l’inverno e fino ai primi di aprile del 1945. Nei primi giorni di quel mese riprende l’attacco e, poco dopo la metà del mese, le resistenze italo-tedesche vengono sopraffatte e il nemico dilaga nella pianura padana.
Intorno agli ultimi giorni del mese le truppe tedesche si arrendono, seguite da quelle italiane, che si erano battute valorosamente sui vari fronti di guerra. Qualcuno resiste in armi fino ai primi di Maggio e si arrende
agli americani. Molti dei militari arresisi ai partigiani verranno vigliaccamente trucidati. I sopravvissuti verranno rinchiusi nell’infernale campo di concentramento di Coltano.
Occorre qui precisare che il mito dell’insurrezione del 25 aprile è un mito assolutamente falso e infondato. Nessuna città è stata “liberata” da un atto insurrezionale, ma si è trovata “liberata” semplicemente perché i tedeschi e i fascisti si erano ritirati.

Mussolini, che il 25 aprile si era portato a Milano e il 26 a Como, alle ore 8 del 27 aprile viene catturato dai partigiani nei pressi di Dongo mentre con alcuni gerarchi, uomini della Brigata Nera di Lucca e un reparto tedesco si sta dirigendo verso Nord.
Secondo la versione partigiana (ormai da molti messa in dubbio) Mussolini, che era stato isolato dagli altri gerarchi, viene ucciso insieme a Claretta Petacci a Giulino di Mezzegra, davanti al cancello di Villa Belmonte,
alle ore 16,20 del 28 aprile 1944. A Dongo, alle ore 17,48 dello stesso giorno, vengono uccisi quindici gerarchi o  presunti  tali  :  Pavolini,  Barracu,  Mezzasoma,  Zerbino,  Liverani,  Romano,  Porta,  Coppola,  Daquanno, Utimpergher, Calistri, Casalinovo, Nudi, Bombacci, Gatti. Ed anche Marcello Petacci, che i gerarchi non vollero fosse fucilato con loro, fu ucciso subito dopo.
Il 29 i diciotto cadaveri vengono portati a Milano con un camion e appesi per i piedi alla tettoia di un distributore di benzina a Piazzale Loreto. I cadaveri vengono vergognosamente insultati e vilipesi da una folla imbarbarita.

E non furono i soli morti della R.S.I. In quei giorni si scatenò una feroce caccia al fascista e diverse decine di migliaia di fascisti, civili o militari, furono trucidati, spesso in modo orrendo, anche quando, fidando nella parola del nemico che garantiva salva la vita, avevano già deposto le armi. Molte le stragi da ricordare, avvenute soprattutto nel nord Italia, opera quasi sempre di partigiani comunisti.
Alcune decine di migliaia di combattenti della R.S.I., più fortunati, ebbero salva la vita e furono rinchiusi in campi di concentramento. Circa 35.000 di essi furono rinchiusi nel Campo di concentramento di Coltano, presso Pisa, dove vissero in condizioni disumane fino all’autunno, allorché i sopravvissuti poterono tornare in libertà. Non tutti, però, poterono tornare veramente liberi alle loro case. Molti dovettero vivere nascosti ancora per mesi, per non essere assassinati dai partigiani comunisti, ancora ben armati e ancora a caccia di fascisti. E per lunghi anni i fascisti superstiti patiranno le conseguenze di una feroce discriminazione, che li condannerà ai margini della società, costringendoli a lavori spesso umili, quasi sempre autonomi, essendo stati quasi tutti rimossi dai loro impieghi mediante la così detta “epurazione”. La lotta per la sopravvivenza delle loro persone e dei loro ideali fu, per molti fascisti della R.S.I., la continuazione di una guerra che per loro non era ancora finita. E nessuno si è arreso.


ALI ITALIANE

http://www.youtube.com/watch?feature=endscreen&NR=1&v=ZpMV3_uuqwY


ALESSANDRO TANDURA, IL PRIMO PARACADUTISTA SABOTATORE DELLA STORIA

Siamo proprio un popolo strano! Sempre pronti ad entusiasmarci alle imprese belliche degli altri, ma anche sempre pronti a dimenticare le nostre, forse per paura di essere tacciati di “militarismo”, anche quando si tratta di atti eroici che testimoniano l’attaccamento alla nostra terra.
Prendiamo la vicenda del trevigiano Alessandro Tandura, classe 1893, che va ricordato per essere stato, oltre 90 anni fa, in assoluto il primo soldato paracadutato dietro le linee nemiche per raccogliere informazioni e sabotare le linee di rifornimento austriache. Un’impresa  che oggi verrebbe compiuta a truppe speciali, super addestrate  e super attrezzate, ma che nell’estate del 1918 fu affidata ad un tenentino di 25 anni degli Arditi privo di esperienza di spionaggio.
L’importanza della sua impresa è nelle poche e secche parole con cui il tenente colonnello Dupont, capo dell’Ufficio Informazioni dell’allora VIII Armata, gli illustrò l’operazione al limite del suicidio: «Noi abbiamo bisogno di gente che si infiltri tra le file del nemico per osservare e riferire. Il compito è estremamente difficile, non glielo nascondo. Ma io conosco gli ufficiali veneti, so quanto stia loro a cuore di prendere la rivincita di Caporetto. Non entro nei particolari dell’impresa: tenente Tandura, si sente di accettare quanto le propongo?».
Tandura accetta ma non sa ancora come sarà portato al di là delle linee nemiche. Due giorno dopo il colloquio con Dupont gli offrono tre opzioni: 1) passare per il Piave di notte, vestito da austriaco, mediante dei fili tesi da sponda a sponda tra Pederobba e Grave di Ciano; 2) atterrare con un aeroplano in una località delle terre invase; 3) lasciarsi cadere per mezzo di un paracadute da un aereo.
L’aeroplano, il fascino del volo, lo spirito di avventura, la voglia di rivedere al più presto i suoi cari che abitano proprio nella zona dell'operazione,che sarebbe stata poi ribattezzata Vittorio Veneto, gli fanno scegliere la terza soluzione. Ha solo una richiesta: vedere come funziona il paracadute. Gli rispondono che «gli apparecchi non sono nostri, bensì del comando inglese, che ne ha a disposizione pochissimi e costano assai. Ma non abbia timore, dopo 200 metri si aprono … infallibilmente».
A capofitto nel vuoto
Dopo le necessarie istruzioni, la notte tra il 9 e 10 agosto 1918, sui cieli al di là del Piave avviene il primo lancio al mondo in azione di guerra. Poco prima della mezzanotte del 9 agosto all’aeroporto di Villaverde in provincia di Vicenza, è pronto un Savoia-Pomilio SP3, bimotore da ricognizione, pilotato dal capitano della RAF Ben Wedgwood e affiancato dal maggiore canadese Barker in qualità di ufficiale osservatore.
Nella parte posteriore dell’aereo è stato montato un sedile ribaltabile per mezzo di una leva  manovrabile dal pilota o dall’osservatore, situati a prua del veicolo. Il “passeggero” viaggia con i piedi penzoloni nel vuoto e con la schiena rivolta alla direzione del volo, impossibilitato a comunicare con l’equipaggio, nell’attesa che all’improvviso il suo sedile venga ribaltato ed inizi così la caduta.
Il paracadute, racchiuso in un involucro sistemato sotto la fusoliera e collegato per mezzo di una fune al cinturone del tenente (che prima del volo ha bevuto un bicchierino di grappa … per darsi la carica), si sarebbe sganciato ed aperto a causa del peso del corpo che precipita nel vuoto.
In una lettera inviata nel 1919 all’amico torinese Cesare Schiapparelli così Tandura descrive la sua avventura:«Mi pareva di sognare a trovarmi a quell’altezza e quando meno me l’aspettavo, mi sono sentito precipitare nel vuoto. Ho alzato gli occhi ed ho visto per la prima volta il paracadute aperto. Ho guardato giù ed ho cominciato a scorgere località a me ben note».
L’impatto con il terreno avviene, dopo aver sfiorato i filari del vigneto, nell’orto del parroco di San Martino di Colle Umberto, mentre la discesa era programmata in quel di Sarmede, ma un forte temporale aveva fatto saltare i piani.
Da quel momento comincia l’azione che lo porterà sul Col Visentin dove, attraverso piccioni viaggiatori, il tenente Tandura, grazie anche all’aiuto della sorella Emma e della fidanzata Emma Metterle, entrambe decorate di medaglia d’argento al valore militare, si manterrà in costante contatto con il comando italiano, consentendo all’VIII Armata di «entrare in azione con la piena coscienza delle unità che aveva di fronte e della loro dislocazione», come scrisse nel suo rapporto il generale Caviglia.
Da parte sua, il capitano Vedgwood, divenuto dopo la guerra deputato di sua Maestà britannica, nel libro pubblicato nel 1919 sulla prima guerra mondiale scrive: «Non ho mai visto un uomo più coraggioso di questo piccolo (Tandura non raggiungeva il metro e 60, ndr) soldato italiano, il più valoroso soldato del mondo». 
Da disertori ad eroi
In quell’operazione di spionaggio che dura dal 10 agosto al 30 ottobre, Alessandro Tandura (che viene catturato dagli austriaci due volte e due volte riesce a fuggire rocambolescamente) s’impegna in un compito non richiesto ma importantissimo sul piano umano: quello di ridare dignità di combattenti a tutti quelli sbandati, a quei disertori o soltanto fuggiaschi che, dopo Caporetto, erano stati tagliati fuori dai combattimenti e non erano riusciti, o non avevano neanche tentato, a ricongiungersi con i propri reparti, dandosi alla macchia in attesa di tempi migliori.
Dopo la guerra non sono pochi quelli che devono la vita al giovane e piccolo ufficiale degli Arditi per le testimonianze che egli fornisce ai vari comandi sul fatto che molti giovani non erano disertori, ma soltanto sbandati, invocando il fatto che sotto la sua guida si erano organizzati in vere e proprie “bande armate” che costituirono un importante reparto alle spalle degli austriaci, sabotando ponti e ferrovie per far deragliare treni di munizioni e soldati, modificare la segnaletica stradale per creare caos nei trasporti del nemico: un anticipo di quella che poco meno di trent'anni anni dopo farà la Resistenza.
Quando il 30 ottobre si scatenò la battaglia di Vittorio Veneto, le tante “bande” costituite dal Tandura stringeranno gli austriaci nella morsa creata a sud dalle avanguardie dell’esercito italiano ed a nord, appunto, dalle bande.
Alessandro Tandura morirà a Mogadiscio il 29 dicembre del 1937, dopo aver descritto la sua avventura in “Tre mesi di spionaggio oltre Piave”


In ricordo di Enrico Vezzalini, Prefetto di Novara

Enrico Vezzalini, Prefetto di Novara, fucilato il 23 settembre 1945.
Ultima lettera al padre:
“ Babbo,
il tuo Enrico, che volesti generoso come tuo padre, garibaldino, e, come te, volontario per la Patria, cade. Cade da soldato della propria Fede, con fierezza. Sii fiero.
Sii forte.
Bacio te, mamma; Nera, Bianca… ed i miei cari. Aiutali; li lascio nella miseria.
E ricorda sempre loro che non c’è che la vita del sacrificio che possa permettere di morire con assoluta fortezza.
Ti bacio.
Tuo Enrico”
nota: Enrico Vezzalini (Ceneselli, 16 ottobre 1904 – Novara, 23 settembre 1945) è stato un prefetto italiano, in carica nelle province di Ferrara e Novara.
Nacque a Ceneselli (RO) il 16 ottobre 1904.
Iscritto al Partito Nazionale Fascista (PNF), dopo il 8 settembre 1943 aderì al Partito Fascista Repubblicano (PFR).
Partecipò alla spedizione punitiva di Ferrara del novembre 1943, dove vennero uccisi 11 antifascisti in risposta all’uccisione del commissario federale Igino Ghisellini.
Successivamente fu nominato Prefetto a Ferrara e Novara, dove, nel corso della guerra civile, venne coordinata la lotta anti-partigiana ed operò con estrema determinazione, in particolare nella Val d’Ossola.
Fu membro del collegio giudicante del Tribunale speciale per la difesa dello Stato della Repubblica Sociale Italiana in occasione del Processo di Verona, che processò i membri del Gran Consiglio che firmarono l’Ordine del giorno Grandi per la sfiducia al Presidente del Consiglio Benito Mussolini.
Finita la guerra fu processato e condannato a morte su richiesta del pubblico ministero e futuro presidente della Repubblica Italiana Oscar Luigi Scalfaro da un tribunale partigiano. La sentenza capitale fu eseguita a Novara il 23 settembre 1945. Sussistono dei dubbi sulla reale colpevolezza dei fatti attribuiti al prefetto Vezzalini.


IL MESTIERE PIÙ VECCHIO DEL MONDO
Mercéde
Se ci pensate bene imputano alla donna il mestiere più vecchio del mondo: la prostituzione del proprio corpo. E prostituire vuol dire: “vendere, offrire, cedere in cambio di denaro o di altri vantaggi ciò che comunemente si ritiene non possa essere oggetto di lucro o di calcolo interessato (Istituto della Enciclopedia Italiana, Vocabolario della Lingua Italiana, vol. III**, Roma 1991, p. 1157).
Mica male! La prostituzione è invece vista “come attività abituale e professionale di chi offre prestazioni sessuali a scopo di lucro (Ivi). Ma non è tutto. Scorrendo i vari significati fino in fondo ecco apparire una vera e propria curiosità (almeno per me che sono ignorante, ovvero non conosco): “In etnologia e nella storia delle religioni, prostituzione sacra, atto rituale presente nelle cerimonie di culto di molte popolazioni, che si compiva occasionalmente durante la cerimonia o la cui pratica era stabilmente affidata a sacerdotesse, secondo concezioni cosmologiche che attribuivano all’atto sessuale un valore propiziatorio legato al culto della fertilità (Ivi).
In realtà, a mio avviso, il mestiere più vecchio è quello del mercenario, seguito a stretto giro di boa dal fabbricante d’armi e dal mercante d’armi. Poi c’è il pappone, ovvero il così detto protettore (taluni lo chiamano «ricottaro»), che ramazza su qualche femmina per portarla al mercenario. A ben vedere la femmina che si prostituisce, per fede o per coercizione (non stiamo qui a cavillare), non riesce nemmeno ad aggiudicarsi una pedana sul podio, ma solo un risicato quinto posto. Il mercenario, meglio definibile come contractor, è un derivato del guerriero nudo e crudo, il quale se deve praticare il mestiere delle armi non può praticare e/o impratichirsi nell’arte del tacchinaggio.
Dicesi tacchinaggio (da tacchino, animale galliforme) il mettersi in mostra per rimorchiare una femmina. Pertanto, se non ha il tempo materiale per recuperare una femmina con cui sedare i propri naturali istinti mascolini, qualcuno gliela deve pur portare. E, nel qual caso, ciò avviene a fronte di un controvalore: do ut des (dò se mi dai). Io ti do la femmina, tu mi dai parte del denaro che ti hanno dato per evitare che qualcuno glielo porti via tutto. Oppure (ed è il caso decisamente più frequente e che oggigiorno va per la maggiore): «io ti do le femmine, tu mi dai parte del tuo denaro, che ti hanno dato affinché ne possano avere molto di più di quello che gli spetta, a scapito di chi non ti può pagare altrettanto bene per farti rimanere a casa a tacchinare».

Gli affari sono affari.
Perché talune femmine erano (o sono) chiamate «donne di malaffare»? Nel senso che a farci all’amore assieme poteva risultare un pessimo affare? Se l’affare è un qualcosa che si deve o si dovrebbe fare, risulta altresì indicativo di una operazione economica che sottintende sia un acquisto di ricchezza, sia una perdita o una semplice trasformazione della stessa. Ma il malaffare è un «cattivo» affare? Il vocabolario così suggerisce: «nella locuzione aggettivale di malaffare, riferita a chi conduce vita non conforme alla legge o alle consuetudini morali: gente di malaffare, donna di malaffare, prostituta; casa di malaffare, postribolo» (Istituto della Enciclopedia Italiana, Vocabolario della Lingua Italiana, vol. III*, Roma 1989, p. 33).
Ebbene non si parla di uomini, ma solo di donne e, incidentalmente, di «persone». L’uomo non si vende? Non si prostituisce? Non mette in piedi un bordello dove mercificarsi creando una casa di malaffare? Non è che questo sia un sottile e ben riuscito tentativo di convincere i maschietti a non mescolarsi con le femminucce se non per garantirsi una discendenza? E poi, ingravidata la donna e fatto quindi il proprio dovere, che gli istinti sessuali se li sedassero buttandoselo reciprocamente nel «baugigi» (meglio definito come «magazzino del cacao»).
Ad ogni buon conto, nemmeno l’uomo rimane esente da vizi e così recita la Bibbia (Genesi 13.13): “Gli abitanti di Sodoma erano perversi e grandi peccatori contro il Signore” (tratto da: http://www.laparola.net; versione Nuova Riveduta); inoltre (Giuda 7): “Allo stesso modo Sodoma e Gomorra e le città vicine, che si abbandonarono, come loro, alla fornicazione e ai vizi contro natura, sono date come esempio, portando la pena di un fuoco eterno” (Ibidem); ma questo versetto è più incisivo (Romani 1.27): “similmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono infiammati nella loro libidine gli uni per gli altri commettendo uomini con uomini atti infami, ricevendo in loro stessi la meritata ricompensa del proprio traviamento” (Ibidem). Il Levitico è poi chiarissimo (Levitico 19.13): “Se uno ha con un uomo relazioni sessuali come si hanno con una donna, tutti e due hanno commesso una cosa abominevole; dovranno essere messi a morte; il loro sangue ricadrà su di loro” (Ibidem).

Il mestiere del sedere
Il più bel mestiere è quello dello starsene a sedere! Ma non è proprio questo il punto. Oggi si fa delle tendenze sessuali «sodomitiche et gomorritiche» ampia e sempre più palese manifestazione. Per quale motivo? Se una donna risulta volgarotta e fuori luogo quando si atteggia ad ochetta, figuriamoci un maschietto che la imita. Il buon gusto ne soffre. E pure qualcos’altro. Ma non è che il mestiere più vecchio del mondo l’ha praticato il maschietto agli albori della civiltà? Ve ne spiego brevemente il fascino. Cominciamo col fare un salto indietro nel tempo, diciamo di un bel po’ di migliaia di anni. Nel momento in cui maschietti e femminucce decidono di passare dallo status di cacciatori-raccoglitori a quello di stanziali inurbati, anche i più deboli hanno la possibilità di ricavarsi un posto nella neonata società. Prima era sempre un corri, fuggi, caccia, scappa se quello che stai cacciando dà la caccia a te. In pratica il maschio o era tale sotto ogni punto di vista o la natura, tendenzialmente, se lo toglieva di torno con una certa rapidità. La femmina possiede invece una resistenza notevole e se ha i piccoli da accudire è una combattente a dir poco eccezionale (seppure non in ogni popolo). Ora, il ricoverare le stanche membra, dopo una giornata di lavoro, tra quattro mura e magari protette da una bella cinta fortificata che delimita l’intero insediamento, è un bel vantaggio. Se il pericolo arrivava, bastavano poche persone per fare la guardia ed avvisare il resto della comunità. Dietro una palizzata o dall’alto di un muro di cinta anche il più inetto riusciva a combinare qualcosa se si trattava di lanciare quattro sassi e dare l’allarme. Pertanto, anche colui il quale era d’indole più simile al cincillà che alla pantera, sopravviveva. A questo punto, l’inadatto, come sbancava il lunario, oltre a fare la sentinella? Oppure: non è che a starsene di vedetta schiantava di noia e, quindi, si distraeva un poco con un altro anche lui di sentinella? Ditemelo un po’ voi. Ma io penso che il mestiere più vecchio del mondo lo abbia incominciato proprio lui.


Documento inserito il 14/07/2012



LA COSTITUZIONE DELLA RSI
Tra parentesi sono riportate le modifiche apportate da Mussolini di sua mano.

Capo I
La Nazione - Lo Stato

1 – La Nazione Italiana è un organismo politico ed economico nel quale compiutamente si realizza la stirpe con i suoi caratteri civili, religiosi, linguistici, giuridici, etici e culturali. Ha vita, volontà, e fini superiori per potenza e durata a quelli degli individui, isolati o raggruppati, che in ogni momento ne fanno parte.
2 – Lo Stato italiano è una Repubblica sociale. Esso costituisce l’organizzazione giuridica integrale della Nazione.
3 – La Repubblica Sociale Italiana ha come scopi supremi: 1) la conquista e la conservazione della libertà dell’Italia nel mondo, perché questa possa esplicare e sviluppare tutte le sue energie e assolvere, nel consorzio internazionale fondato sulla giustizia, la missione civile affidatale da Dio, segnata dai ventisette secoli della sua storia, voluta dai suoi profeti, dai suoi martiri, dai suoi eroi, dai suoi geni [le parole “voluta dai suoi profeti, dai suoi martiri, dai suoi eroi, dai suoi geni” sono state cancellate da Mussolini e sostituite con la congiunzione “e”], vivente nella coscienza nazionale; 2) il benessere del popolo lavoratore, mediante la sua elevazione morale e intellettuale, l’incremento della ricchezza del paese e un’equa distribuzione di questa, in ragione del rendimento di ognuno nell’utilità [le parole “nell’utilità” sono state cancellate da Mussolini e sostituite con le parole “nella comunità”] nazionale.
4 – La capitale della Repubblica Sociale Italiana è Roma.
5 – La bandiera nazionale è quella tricolore: verde, bianca, rossa, col fascio repubblicano sulla punta dell’asta.
6 – La religione cattolica apostolica e romana è la sola religione della Repubblica Sociale Italiana.
7 – La Repubblica Sociale Italiana riconosce la sovranità della Santa Sede nel campo internazionale, come attributo inerente alla sua natura, in conformità alla sua tradizione e alle esigenze della sua missione nel mondo. La Repubblica Sociale Italiana riconosce alla Santa Sede la piena proprietà e la esclusività ed assoluta potestà e giurisdizione sovrana sulla Città del Vaticano.
8 – I rapporti tra la Santa Sede e la Repubblica Sociale Italiana si svolgono nel sistema concordatario, in conformità dei Trattati e del Concordato vigenti.
9 – Gli altri culti sono ammessi, purché non professino principi e non seguano riti contrari all’ordine pubblico e al buon costume. L’esercizio anche pubblico di tali culti è libero, con le sole limitazioni e responsabilità stabilite dalla legge.

Capo II
Struttura dello Stato

10 – La sovranità promana [da] tutta la Nazione.
11 – Sono organi supremi della Nazione: il Popolo e il Duce della Repubblica.

§ I
Il popolo - La rappresentanza

12 – Il popolo partecipa integralmente, in modo organico e permanente, alla vita dello Stato e concorre alla determinazione delle direttive, degli istituti e degli atti idonei al raggiungimento dei fini della Nazione, col suo lavoro, con la sua attività politica e sociale, mediante gli organismi che si formano nel suo seno per esprimere gli interessi morali, politici ed economici delle categorie di cui si compone, e attraverso l’Assemblea costituente e la Camera dei rappresentanti del lavoro.
13 – Nell’esplicazione delle sue funzioni sociali lo Stato, secondo i principi del decentramento, si avvale, oltre che dei propri organi diretti, di tutte le forze della Nazione, organizzandole giuridicamente in enti ausiliari territoriali e istituzionali, ai quali concede una sfera di autonomia ai fini dello svolgimento dei compiti loro assegnati nel modo più efficace e più utile per la Nazione.

Sezione I
L’Assemblea Costituente

14 – L’Assemblea Costituente è composta da un numero di membri pari a 1 ogni 50.000 cittadini. Deve essere l’espressione di tutte le forze vive della Nazione e pertanto debbono farne parte:
1) per ragione delle loro funzioni: coloro che, al momento della riunione della Costituente, fanno parte del Governo della Repubblica e ricoprono determinate cariche nell’amministrazione centrale e periferica dello Stato, nella magistratura, nell’ordine scolastico, in enti locali territoriali e istituzionali, in organismi politici e culturali ai quali lo Stato abbia riconosciuti o assegnati compiti di alto interesse nazionale.
La legge stabilisce le cariche che importano in chi le ricopre appartenenza alla Costituente.
I membri di diritto non possono superare un terzo dei componenti della Costituente;
2) per elezione popolare, coloro che siano designati a far parte della Costituente dagli appartenenti alle organizzazioni riconosciute dallo Stato quali rappresentanti:
– dei lavoratori (imprenditori, operai, impiegati, tecnici, dirigenti) dell’industria, dell’agricoltura, del commercio, del credito e dell’assicurazione, delle professioni e arti, dell’artigianato e della cooperazione;
– dei dipendenti dallo Stato e dagli enti pubblici;
– degli ex-combattenti per la causa nazionale, e, in particolare, dei decorati e dei volontari;
– delle famiglie dei caduti per la causa nazionale;
– delle famiglie numerose;
– degli italiani all’estero;
– delle altre categorie che in dati momenti della vita nazionale siano riconosciute, per legge, espressione di importanti interessi pubblici.
La legge stabilisce i requisiti e le forme per il riconoscimento di tali organizzazioni, nonché, per ciascuna di esse, il numero e i modi dell’elezione dei rappresentanti nella Costituente.
15 – La Costituente elegge il Duce della Repubblica Sociale Italiana.
Delibera:
1) sulla riforma della Carta costituzionale o sulle deroghe eccezionali alle norme della stessa;
2) sugli argomenti di supremo interesse nazionale che il Duce intenda sottoporle, o sui quali la decisione della Costituente sia richiesta dalla Camera dei rappresentanti del lavoro, con una maggioranza di almeno due terzi dei suoi membri di [sic, al posto di “in”] carica.
16 – La Costituente è convocata dal Duce che ne fissa l’ordine del giorno.
Nel caso di richiesta della Camera dei rappresentanti del lavoro, ai sensi dell’articolo precedente, la convocazione deve aver luogo entro un mese dal voto e nell’ordine del giorno debbono essere inseriti gli argomenti indicati dalla Camera.
In caso di impedimento del Duce, la Costituente è convocata dal Capo del Governo.
In caso di morte del Duce la Costituente deve esser convocata per la nomina del successore, entro un mese dalla morte.

Sezione II
La Camera dei Rappresentanti del Lavoro

17 – La Camera dei rappresentanti del lavoro è composta di un numero di membri pari a 1 ogni 100.000 abitanti, eletti col sistema del suffragio universale diretto da tutti i cittadini lavoratori maggiori degli anni 18.
Di essa inoltre fanno parte di diritto il Capo del Governo, nonché i Ministri e Sottosegretari di Stato.
18 – Sono considerati lavoratori coloro che sono rappresentati da un’Associazione professionale riconosciuta e i dipendenti da enti eventualmente esenti dall’inquadramento.
Sono, agli effetti dell’elettorato attivo, equiparati ai lavoratori:
1) coloro che hanno cessato di lavorare per ragioni di invalidità o vecchiaia;
2) coloro che seguono regolarmente un corso di studi, in istituti scolastici statali o pareggiati;
3) coloro che siano disoccupati involontari, o svolgano attività, da determinarsi per legge, fuori del campo della disciplina professionale.
19 – Possono essere eletti rappresentanti del lavoro coloro che siano in possesso di tutti i seguenti requisiti:
1) Siano maggiori degli anni 25, oppure siano decorati al valor militare o civile, volontari di guerra, mutilati o feriti di guerra o comunque per la causa nazionale, maggiori degli anni 21;
2) siano elettori;
3) non abbiano subito condanne per delitti o atti incompatibili colla dignità e il prestigio di rappresentanti del lavoro. La legge determina tali delitti o atti, escludendo quelli compiuti per ragioni di convinzioni politiche.
20 – I membri della Camera rappresentano tutto il popolo lavoratore, e non gli appartenenti alle circoscrizioni territoriali o alle categorie professionali che li hanno eletti.
21 – I rappresentanti del lavoro non possono essere ammessi all’esercizio delle loro funzioni se non dopo aver prestato il giuramento dinanzi a Dio e ai Caduti della patria di servire con fedeltà la Repubblica Sociale Italiana, di osservare lealmente la Costituzione e le leggi, nel solo intento del bene della Nazione.
22 – I rappresentanti del lavoro hanno il dovere di esprimere le loro opinioni e di dare i loro voti secondo coscienza e per i fini della loro funzione.
Sono liberi e insindacabili nell’esercizio delle loro funzioni.
23 – I rappresentanti del lavoro non possono essere arrestati, salvo il caso di flagranza di delitto, né processati, senza l’autorizzazione preventiva della Camera.
24 – I rappresentanti del lavoro restano in carica per tutta la durata della legislatura (art. 25). E sono rieleggibili.
Decadono però dalla loro funzione:
1) se tradiscono il giuramento prestato;
2) se perdono alcuno dei requisiti per la loro eleggibilità;
3) se trascurano i doveri della funzione rimanendo assenti per dieci sedute consecutive della Camera, senza autorizzazione da accordarsi dal Presidente (art. 34); qualora concorrano giustificati motivi.
25 – I lavori della Camera sono divisi in legislature.
Ogni legislatura dura cinque anni, ma può essere sciolta anche prima, nel caso stabilito dal presente Statuto.
La fine di ciascuna legislatura è stabilita con decreto del Duce, su proposta del Capo del Governo (art. 50).
Il decreto fissa anche la data di convocazione dell’Assemblea per ascoltare il discorso del Duce, col quale si inizia la legislatura successiva.
26 – La Camera dei rappresentanti del lavoro collabora col Duce e col Governo per la formazione delle leggi.
Per l’esercizio dell’ordinaria funzione legislativa la Camera è periodicamente convocata dal Capo del Governo.
27 – Il potere di proposizione delle leggi spetta al Duce (art. 41) e ai rappresentanti del lavoro (art. 49).
28 – La Camera esercita le sue funzioni per mezzo dell’Assemblea plenaria, della Commissione generale del bilancio e delle Commissioni legislative.
29 – È di competenza esclusiva della Assemblea plenaria la discussione e l’approvazione:
1) dei disegni di legge concernenti: le attribuzioni e le prerogative del Capo del Governo; la facoltà del Governo di emanare norme giuridiche; l’ordinamento professionale; i rapporti fra lo Stato e la Santa Sede; i trattati internazionali che importino variazioni al territorio dello Stato e delle Colonie; l’ordinamento giudiziario, sia ordinario che amministrativo; le deleghe legislative di carattere generale;
2) dei progetti di bilancio e di rendiconto consuntivo dello Stato, delle aziende autonome statali e degli enti pubblici economici di importanza nazionale la cui gestione sia rilevante per il bilancio dello Stato;
3) dei disegni di legge per i quali tale forma di discussione sia richiesta dal Governo o dall’Assemblea, oppure proposta dalle Commissioni e autorizzata dal Capo del Governo;
4) delle proposte di sottoporre alla Costituente la decisione di argomenti di supremo interesse nazionale.
30 – Le sedute dell’Assemblea plenaria sono pubbliche.
Però la riunione può esser tenuta in segreto, quando lo richiedano il Capo del Governo o almeno venti [cancellato da Mussolini e corretto con “cinquanta”] dei rappresentanti del lavoro.
Le votazioni hanno sempre luogo in modo palese.
31 – Le commissioni legislative sono costituite, in relazione a determinate attività nazionali, dal Presidente della Camera.
Esse eleggono nel proprio seno il Presidente; a questo spetta convocarle.
32 – Sono [sic, al posto di “È”] di competenza delle Commissioni la emanazione delle norme giuridiche, aventi oggetto diverso da quello indicato nell’art. 28 e che importano creazione, modifica o perdita dei diritti soggettivi dei cittadini, salvo che la legge ne attribuisca la competenza anche ad altri enti e organi.
La legge determina i modi, le forme e i termini per la discussione e l’approvazione dei disegni di legge sottoposti alle Commissioni legislative.
33 – Le deliberazioni dell’Assemblea plenaria e delle Commissioni sono prese a maggioranza assoluta, salvo il caso dell’art. 15.
Nessuna deliberazione è valida se non [è] presa con la presenza di almeno due terzi e col voto di almeno la metà dei rappresentanti del lavoro in carica.
34 – La Camera:
– provvede alla approvazione e modifica del suo regolamento;
– elegge, al principio di ogni legislatura, il proprio Presidente e i Vice-Presidenti.
Il Presidente nomina alle altre cariche stabilite dal regolamento della Camera.

§ II
Il Duce della Repubblica Sociale Italiana

35 – Il Duce della Repubblica Sociale Italiana è il Capo dello Stato.
Quale supremo interprete della volontà nazionale, che è la volontà dello Stato, realizza in sé l’unità dello Stato.
36 – È eletto dall’Assemblea Costituente. Dura in carica cinque [cancellato da Mussolini e corretto con “sette”] anni. È rieleggibile [Mussolini ha aggiunto le parole “una volta sola”].
37 – All’atto dell’assunzione delle sue funzioni, deve prestare giuramento dinanzi a Dio e ai Caduti per la Patria, di servire la Repubblica Sociale Italiana con tutte le sue forze e di ispirarsi in ogni atto del suo ufficio all’interesse supremo della Nazione e alla giustizia sociale.
38 – Il Duce non è responsabile verso alcun altro organo dello Stato per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni.
39 – Il Duce comanda tutte le forze armate, in tempo di pace a mezzo del Ministro per la Difesa Nazionale, in tempo di guerra a mezzo del Capo di Stato Maggiore Generale; dichiara la guerra; fa i trattati internazionali, dandone comunicazione alla Costituente o alla Camera dei rappresentanti del lavoro appena che ritenga ciò consentito dai supremi interessi dello Stato.
I trattati che importino variazioni nel territorio dello Stato, limitazioni o accrescimenti della sua sovranità o oneri per le finanze, non diventano esecutivi se non dopo avere ottenuto l’approvazione della Costituente o della Camera dei rappresentanti del lavoro, ai sensi di questa Costituzione.
40 – Il Duce esercita il potere legislativo in collaborazione con il Governo e con la Camera dei rappresentanti del lavoro.
41 – Il Duce convoca ogni anno la Camera. Può prorogarne le sessioni.
42 – Qualora ravvisi il dissenso politico tra il popolo dei lavoratori e la Camera, il Duce può scioglierla, convocandone un’altra nel termine di tre mesi.
43 – Il Duce presenta alla Camera i disegni di legge per mezzo del Governo.
44 – Il Duce sanziona le leggi.
45 – Al Duce appartiene il potere esecutivo. Esso lo esercita direttamente e a mezzo del Governo.
Il Duce promulga le leggi.
Il Duce nomina a tutte le cariche dello Stato.
Con decreto del Duce, sentito il Consiglio dei Ministri, sono emanate le norme giuridiche per disciplinare:
1) l’esecuzione delle leggi;
2) l’uso delle facoltà spettanti al potere esecutivo;
3) l’organizzazione e il funzionamento delle amministrazioni dello Stato, e di altri enti pubblici indicati dalla legge.
Con decreto del Duce, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, possono emanarsi norme aventi forza di legge:
1) quando il Governo sia a ciò delegato da una legge;
2) nei casi di urgente e assoluta necessità sulla materia di competenza dell’Assemblea generale e delle Commissioni legislative della Camera, nonché per la messa in vigore dei disegni di legge su cui le Commissioni legislative non abbiano deliberato nei termini fissati dalla legge. In questi casi il Decreto del Duce deve essere a pena di decadenza presentato alla Camera, per la conversione in legge, entro sei mesi dalla sua pubblicazione. Se la Camera non l’approvi e decorrano due anni dalla pubblicazione, senza che sia intervenuta la conversione, il decreto cessa di aver vigore.
46 – Il Duce ha il diritto di amnistia, di grazia e di indulto.
47 – Al Duce spetta di istituire ordini cavallereschi e stabilirne gli statuti.
48 – I titoli di nobiltà sono mantenuti a coloro che vi hanno diritto. Al Duce spetta di conferirne di nuovi.

§ III
Il Governo

49 – Il Governo della Repubblica è costituito dal Capo del Governo e dai Ministri.
50 – Il Capo del Governo è nominato e revocato dal Duce.
È responsabile verso il Duce dell’indirizzo generale politico del Governo.
51 – Il capo del Governo dirige e coordina l’opera dei Ministri, convoca il consiglio dei Ministri, ne fissa l’ordine del giorno e lo presiede.
52 – Nessuno oggetto può esser posto all’ordine del giorno della Camera, senza il previo assenso del Capo del Governo.
53 – L’assenso del Capo del Governo è necessario per presentazione alla Camera delle proposte di legge di iniziativa dei rappresentanti del lavoro.
54 – I Ministri sono nominati e revocati dal Duce su proposta del Capo del Governo.
Sono responsabili verso il Duce e verso il Capo del Governo di tutti gli atti e provvedimenti dei loro Ministeri.
55 – I sottosegretari di Stato sono nominati e revocati dal Duce, su proposta del Capo del Governo, sentito il Ministro competente.
56 – A giudicare dei reati commessi da un Ministro con abuso delle sue funzioni, è competente la Camera costituita in Corte giurisdizionale. L’azione è esercita da Commissari nominati all’inizio di ogni legislatura e sostituiti in caso di vacanza, dal Presidente della Camera.
Contro le sentenze pronunziate dalla Camera come Corte giurisdizionale non è dato alcun ricorso.

§ IV
Le forze armate

57 – Le forze armate hanno lo scopo di combattere per la difesa dell’onore, della libertà e del benessere della Nazione.
Esse comprendono l’Esercito, la Marina da guerra, l’Aeronautica.
58 – La bandiera di combattimento per le forze armate è il tricolore, con fregio e una frangia marginale di alloro, e ai quattro lati il fascio repubblicano, una granata, un’àncora e un’aquila.
59 – La coscrizione militare è un servizio d’onore per il popolo italiano, ed un privilegio per la parte più eletta di esso.
Tutti i cittadini hanno il diritto e il dovere di servire in armi la Nazione, quando ne abbiano la idoneità fisica e non si trovino nelle condizioni di indegnità morale, stabilite dalla legge.
60 – Al Duce soltanto spettano nei riguardi delle forze armate i poteri di coordinamento; di nomina e di promozione, di ispezione, di dislocazione delle truppe, di mobilitazione.

§ V
La giurisdizione

61 – La giurisdizione garantisce l’attuazione del diritto positivo nello svolgimento dei fatti e dei rapporti giuridici.
62 – Le sentenze sono emanate nel nome della Legge, della quale esse realizzano la volontà.
63 – La funzione giurisdizionale è esercitata dai giudici, collegiali o unici, nominati dal Duce.
La loro organizzazione, la loro competenza per materia e per territorio, la procedura che debbono seguire nello svolgimento delle loro funzioni, sono regolate dalla legge.
64 – Una sola Suprema Corte di cassazione è costituita per tutta la Repubblica. Essa ha sede in Roma.
Ad essa spetta di assicurare un’uniforme interpretazione e applicazione del diritto da parte dei giudici di merito, e di risolvere i conflitti di attribuzione tra l’autorità giudiziaria e quella amministrativa.
65 – Nell’esercizio delle sue funzioni è garantita piena indipendenza alla magistratura: questa è vincolata dalla legge e soltanto dalla legge.
66 – Nessuno può esser punito per un fatto che non sia espressamente preveduto dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite, né senza un giudizio svolto con le regole da essa fissate.
67 – Nei casi che debbono essere determinati con legge approvata dall’Assemblea della Camera, possono essere istituiti tribunali straordinari per un tempo limitato, e per determinati delitti.
La giurisdizione dei tribunali militari non può essere estesa a cittadini non in servizio militare se non in tempo di guerra e per i reati espressamente preveduti dalla legge.
68 – Quando lo Stato e gli altri enti pubblici agiscono nel campo del diritto privato sono pienamente soggetti al codice civile e alle altre leggi.
69 – Gli organi amministrativi dello Stato e degli altri enti pubblici debbono ispirarsi nell’esercizio delle loro funzioni alla realizzazione del principio della giustizia nell’amministrazione.
70 – Colui che sia stato leso da un atto amministrativo in suo interesse legittimo, dopo l’esperimento dei ricorsi gerarchici, in quanto ammessi, può proporre contro l’atto stesso ricorso per violazione di legge, eccesso di potere e incompetenza dinanzi agli organi della giustizia amministrativa. Questi, oltre alla generale competenza di legittimità, hanno competenza di merito nei casi stabiliti dalla legge.

§ VI
La difesa della stirpe

71 – La Repubblica considera l’incremento demografico come condizione per l’ascesa della Nazione e per lo sviluppo della sua potenza militare, economica, civile.
72 – La politica demografica della Repubblica si svolge con tre finalità essenziali: numero, sanità morale e fisica, purità della stirpe.
73 – Presupposto della politica demografica è la difesa della famiglia, nucleo essenziale della struttura sociale dello Stato.
La Repubblica la attua proteggendo e consolidando tutti i valori religiosi e morali che cementano la famiglia, e in particolare:
– col favore accordato al matrimonio, considerato anche quale dovere nazionale e fonte di diritti, perché esso possa raggiungere tutte le sue alte finalità, prima: la procreazione di prole sana e numerosa;
– col riconoscimento degli effetti civili al sacramento del matrimonio, disciplinato nel diritto canonico;
– col divieto di matrimonio di cittadini italiani con sudditi di razza ebraica, e con la speciale disciplina del matrimonio di cittadini italiani con sudditi di altre razze o con stranieri;
– con la tutela della maternità;
– con la prestazione di aiuti e assistenza per il sostenimento degli oneri familiari. Speciali agevolazioni spettano alle famiglie numerose.
74 – La protezione dell’infanzia e della giovinezza è un’elevata funzione pubblica, che la Repubblica svolge, anche a mezzo appositi istituti, con l’ingerenza nell’attività educativa familiare (art. 76), con la protezione della filiazione illegittima e con l’assistenza tutelare dei minori abbandonati.

§ VII
L’educazione e l‘istruzione del popolo

Sezione I
Dell’Educazione


75 – La Repubblica pone tra i suoi principali compiti istituzionali l’educazione morale, sociale e politica del popolo.
76 – L’educazione dei figli, conforme ai principi della morale e del sentimento nazionale, è il supremo obbligo dei genitori.
Lo Stato, col rispetto dei diritti e dei doveri della patria potestà, invigila perché l’educazione familiare raggiunga i suoi fini di formare l’onesto cittadino, lavoratore e soldato, e si avvale degli ordinamenti scolastici per integrare e indirizzare l’opera della famiglia. Ove quest’opera manchi, provvede a sostituirla, affidandone lo svolgimento a istituti di pubblica assistenza o a privati.
77 – Organo fondamentale dell’educazione politica del popolo è il Partito fascista repubblicano.
Esso è riconosciuto come organo ausiliario dello Stato, e ha quali compiti essenziali:
– difendere e potenziare la rivoluzione, secondo i principi della dottrina di cui esso è assertore e depositario;
– suscitare e rafforzare nel popolo la coscienza, la passione, la [corretto da Mussolini in “la passione della”] solidarietà nazionale, e il dovere di subordinare tutti gli interessi individuali e collettivi, all’interesse supremo della libertà della Nazione nel mondo;
– diffondere nel popolo la conoscenza dei problemi internazionali e interni che interessano l’Italia.
78 – L’iscrizione al P.F.R. non importa alcun privilegio o speciale diritto. Essa importa il dovere di votarsi fino al limite estremo delle proprie forze, con assoluto disinteresse e purità d’intenti, alla causa nazionale.
Fuor del campo delle attività aventi carattere preminentemente politico, l’iscrizione al P.F.R. non è condizione né costituisce titolo di preferenza per l’assunzione o la conservazione di impieghi e cariche né per il trattamento morale ed economico dei lavoratori.

Sezione II
Dell’Istruzione

79 – La scuola si propone la formazione di una cultura del popolo, inspirata agli eterni valori della razza italiana e della sua civiltà.
80 – I programmi scolastici sono fissati in vista della funzione della scuola per l’educazione delle nuove generazioni.
81 – L’accesso agli studi e la loro prosecuzione sono regolati esclusivamente col criterio delle capacità e delle attitudini dimostrate. Collegi di Stato garantiscono la continuazione degli studi ai giovani capaci non abbienti.
82 – L’istruzione elementare, da impartirsi in scuole chiare e salubri, è obbligatoria e gratuita per tutti i cittadini della Repubblica.
83 – La Repubblica Sociale Italiana considera fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica l’insegnamento della Dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica: perciò l’insegnamento religioso è obbligatorio nelle scuole pubbliche elementari e medie. La legge può stabilire particolari casi di esenzione.
84 – La fondazione e l’esercizio di istituti privati di istruzione sono ammessi soltanto previa autorizzazione dello Stato e sotto controllo di questo sull’organizzazione, i programmi e la capacità morale e formazione scientifica degli insegnanti.

§ VIII
L’amministrazione locale

85 – I Comuni e le Province sono enti ausiliari dello Stato.
La loro istituzione e le loro circoscrizioni sono regolate dalla legge.
86 – I Comuni e le Province hanno come fine esclusivo la tutela degli interessi amministrativi dei cittadini che loro appartengono.
A tal fine sono muniti dallo Stato di poteri, che debbono esercitare coordinandoli e subordinandoli agli interessi superiori della Nazione.
Nello svolgimento delle loro funzioni i Comuni e le Province agiscono in modo autonomo, secondo i principi del decentramento amministrativo, ma sono sottoposti al controllo di legittimità e, nei casi stabiliti dalla legge, al controllo di merito degli organi diretti dallo Stato.
87 – Gli organi dell’amministrazione autonoma locale sono stabiliti dalla legge.
I Consigli comunali e provinciali sono eletti col sistema del suffragio universale diretto dai cittadini lavoratori residenti domiciliati nel territorio del Comune o della Provincia.
88 – I Consigli eleggono nel loro seno il Podestà del Comune e il Preside della Provincia.
La legge stabilisce le cause di incapacità, ineleggibilità, incompatibilità per le nomine a Podestà o a Preside.
Tali nomine sono soggette all’approvazione dello Stato, da darsi con decreto del Duce.

Capo III
Diritti e doveri del cittadino

89 – La cittadinanza italiana si acquista e si perde alle condizioni e nei modi stabiliti dalla legge, sulla base del principio che essa è titolo d’onore da riconoscersi e concedersi soltanto agli appartenenti alla stirpe ariana italiana.
In particolare la cittadinanza non può essere acquistata da appartenenti alla razza ebraica e a razze di colore.
90 – I sudditi di razza non italiana non godono del diritto di servire l’Italia in armi, né, in genere, dei diritti politici: godono dei diritti civili entro i limiti segnati dalla legge, secondo il criterio della loro esclusione da ogni attività, culturale ed economica, che presenti un interesse pubblico, anche se svolgentesi nel campo del diritto privato.
In quanto non particolarmente disposto vale per essi, in quanto applicabile, il trattamento riservato agli stranieri.
91 – Fondamentale dovere del cittadino è quello di collaborare con tutte le sue forze, e in ogni campo della sua attività, al raggiungimento dei fini supremi della Repubblica Sociale Italiana, accettando volenterosamente e disciplinatamente, gli oneri, le restrizioni ed i sacrifici che rispondono alle esigenze nazionali, per il principio che non può essere veramente libero se non il cittadino della Nazione libera.
92 – Tutti i cittadini sono uguali dinanzi alla legge.
93 – I diritti civili e politici sono attribuiti a tutti i cittadini.
Ogni diritto soggettivo, pubblico e privato, importa il dovere dell’esercizio in conformità del fine nazionale per cui è concesso.
A questo titolo lo Stato ne garantisce e tutela l’esercizio.
94 – La libertà personale è garantita.
Nessuno può essere arrestato se non nei casi previsti e nelle forme prescritte dalla legge.
Nessun cittadino, arrestato in flagrante o fermato per misure preventive, può esser trattenuto oltre tre giorni senza un ordine dell’autorità giudiziaria nei casi previsti e nelle forme prescritte dalla legge.
95 – Il domicilio è inviolabile.
Tranne i casi di flagranza, nessuna visita o perquisizione domiciliare è consentita senza ordine dell’autorità giudiziaria nei casi previsti e nelle forme prescritte dalla legge.
96 – A ogni cittadino deve esser assicurata la facoltà di controllo, diretto o a traverso i suoi rappresentanti, e di responsabile critica sugli atti politici e su quelli della pubblica amministrazione, nonché sulle persone che li compiono o vi sono preposte.
97 – La libertà di parola, di stampa, d’associazione, di culto è riconosciuta dalla Repubblica come attributo essenziale della personalità umana e come strumento utile per gli interessi e per lo sviluppo della Nazione.
Deve esser garantita fino al limite in cui è compatibile con le preminenti esigenze dello Stato e con la libertà degli altri individui.
98 – L’organizzazione politica è libera.
I partiti possono esplicare la loro attività di propaganda delle loro idee e dei loro programmi, purché non in contrasto con i fini supremi della Repubblica.
99 – L’organizzazione professionale è libera. Ma soltanto la Confederazione unitaria del lavoro della tecnica e delle arti, o le associazioni ad essa aderenti e riconosciute dallo Stato, rappresentano legalmente gli interessi di tutte le categorie produttive e sono munite di pubblici poteri per lo svolgimento delle loro funzioni.
100 – È vietata, salva la preventiva autorizzazione dello Stato nel territorio della Repubblica la costituzione di associazioni aderenti a organizzazioni sindacali o politiche straniere o internazionali, o che ne costituiscano sezioni o comunque conservino con esse collegamenti.
101 – È vietata nel territorio della Repubblica la costituzione di società segrete.

Capo IV
Struttura dell’economia nazionale

§ I
La produzione e il lavoro

Sezione I
La Produzione

102 – Il complesso della produzione è unitario dal punto di vista nazionale. Suoi obiettivi sono il benessere dei singoli e lo sviluppo della potenza della Nazione.
103 – Nel campo della produzione la Repubblica si propone di conseguire l’indipendenza economica della Nazione, condizione e garanzia della sua libertà politica nel mondo.
A tale scopo la Repubblica, oltre a promuovere in tutti i modi l’aumento, il perfezionamento della produzione e la riduzione dei costi, fissa, a mezzo dei suoi organi e degli enti idonei, le direttive e i piani generali della produzione nazionale o di settori di questa.
All’osservanza di tali direttive e al successo di tali piani sono impegnati tutti i lavoratori, sia nella determinazione degli indirizzi, che nello svolgimento dell’attività produttiva.
104 – Nei rapporti tra le categorie dei vari rami della produzione nazionale, come nel seno di ogni singola impresa, si attua la collaborazione dei diversi fattori della produzione tra loro, il contemperamento dei loro interessi, la loro subordinazione agli interessi superiori della Nazione.
105 – La Repubblica considera la proprietà privata frutto del lavoro e del risparmio individuale, come completamento e mezzo di esplicazione della personalità umana, e ne riconosce la funzione sociale e nazionale, quale un mezzo efficace per sviluppare e moltiplicare la ricchezza e per porla a servizio della Nazione.
A questi titoli la Repubblica rispetta e tutela il diritto di proprietà privata e ne garantisce l’esercizio e i trasferimenti sia per atto fra i vivi che per successione legittima o testamentaria, secondo le regole stabilite dal codice civile e dalle altre leggi.
106 – La Repubblica protegge con particolare cura la proprietà rurale, di interesse vitale per l’economia nazionale e per la sanità morale e fisica della stirpe. Perciò favorisce con ogni mezzo il ritorno ai campi, con la costruzione di case coloniche, con le agevolazioni all’acquisto della piccola proprietà rurale da parte del più gran numero di lavoratori, coltivatori diretti.
Nei trasferimenti di terreni coltivabili o coltivati non può farsi luogo a frazionamenti che non rispettino l’unità colturale necessaria e sufficiente per il lavoro di una famiglia agricola o per una conveniente coltivazione.
107 – Si può procedere all’espropriazione della proprietà privata per pubblico interesse, nei casi legalmente accertati di pubblica utilità e quando il proprietario abbandoni o trascuri l’esercizio del diritto in modo dannoso per l’economia nazionale.
Si può altresì disporre il trasferimento coattivo della proprietà, quando sia di pubblico interesse assegnarne l’esercizio a persone o enti più adatti, ma solo nelle ipotesi espressamente stabilite dalla legge.
Sia in caso di espropriazione che di trasferimenti coattivi nel pubblico interesse è dovuta al proprietario una congrua indennità conformemente alle leggi.
108 – La Repubblica considera l’iniziativa privata nel campo della produzione come lo strumento più utile nell’interesse della Nazione, e pertanto la favorisce e la controlla.
109 – L’organizzazione privata della produzione essendo una funzione di interesse nazionale, l’organizzatore dell’impresa è responsabile dell’indirizzo della produzione di fronte alla Repubblica.
110 – L’intervento dello Stato nella gestione di imprese economiche ha luogo nei casi in cui siano in giuoco interessi politici dello Stato, nonché per controllare l’iniziativa privata e per incoraggiarla, integrarla e, quando sia necessario, sostituirla se essa si dimostri insufficiente o manchi.
111 – La Repubblica assume direttamente la gestione delle imprese che controllino settori essenziali per la indipendenza economica e politica del Paese, nonché di imprese fornitrici di prodotti e servizi indispensabili a regolare lo svolgimento della vita economica del Paese. La determinazione delle imprese che si trovino in tale situazione è fatta per legge.
112 – In caso di assunzione della gestione di imprese private, per insufficienza della loro iniziativa, lo Stato la affida ad altro gestore privato, oppure, ma soltanto per il periodo in cui ciò non sia possibile o conveniente, a speciali enti pubblici.

Sezione II
Il Lavoro

113 – I1 lavoro è il soggetto e il fondamento dell’economia produttiva.
114 – Il lavoro, sotto tutte le sue forme organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche e manuali è un dovere nazionale.
Soltanto il cittadino che adempie il dovere del lavoro ha la pienezza della capacità giuridica, politica e civile.
115 – Come l’adempimento del dovere di svolgere l’attività lavorativa secondo le capacità e attitudini di ognuno è pari titolo di onore e di dignità, così la Repubblica assicura la piena uguaglianza giuridica di tutti i lavoratori.
116 – La Repubblica garantisce a ogni cittadino il diritto al lavoro, mediante l’organizzazione e l’incremento della produzione e mediante il controllo e la disciplina della domanda e dell’offerta di lavoro.
Il collocamento dei lavoratori è funzione pubblica, svolta gratuitamente da idonei uffici dall’organizzazione professionale riconosciuta.
117 – Poiché la attuazione, rigorosa e inderogabile, delle condizioni fondamentali costituenti garanzia del lavoro è di preminente interesse pubblico, la disciplina del rapporto di lavoro è affidata alla legge o alle norme da emanarsi dall’organizzazione professionale riconosciuta.
Tali norme si inseriscono automaticamente nei contratti individuali, i quali possono contenere norme diverse ma soltanto più favorevoli al lavoratore.
118 – La retribuzione del prestatore di lavoro deve corrispondere alle esigenze normali di vita, alle possibilità della produzione e al rendimento del lavoro.
Oltre alla retribuzione normale saranno corrisposti al lavoratore anche nello spirito di solidarietà tra i vari elementi della produzione, assegni in relazione agli oneri familiari.
119 – L’orario ordinario di lavoro non può superare le 44 ore settimanali e le 8 ore giornaliere, salvo esigenze di ordine pubblico per periodi determinati e per settori produttivi da stabilirsi per legge.
La legge o le norme emanate dalle associazioni professionali riconosciute stabiliscono i casi e i limiti di ammissibilità del lavoro straordinario e notturno e la misura della maggiorazione di retribuzione rispetto a quella dovuta per il lavoro ordinario.
120 – Il lavoratore ha diritto a un giorno di riposo ogni settimana, di regola in coincidenza con la domenica e a un periodo annuale di ferie retribuito.
121 – Ogni lavoratore ha diritto a sciogliere il rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Se il licenziamento avviene senza sua colpa, il lavoratore ha diritto, oltre a un congruo preavviso, a un’indennità proporzionata agli anni di servizio.
122 – In caso di morte del lavoratore, quanto a questo spetterebbe se fosse licenziato senza sua colpa, spetta ai figli, al coniuge, ai parenti conviventi a carico o agli eredi, nei modi stabiliti dalla legge.
123 – La previdenza è un’alta manifestazione del principio di collaborazione tra tutti gli elementi della produzione, che debbono concorrere agli oneri di essa.
La Repubblica coordina e integra tale azione di previdenza, a mezzo dell’organizzazione professionale, e con la costituzione di speciali Istituti per l’incremento e la maggiore estensione delle assicurazioni sociali.
L’opera convergente dello Stato e delle categorie interessate deve garantire a tutti i lavoratori piena assistenza per la vecchiaia, l’invalidità, gli infortuni sul lavoro, le malattie, la gravidanza e puerperio, la disoccupazione involontaria, il richiamo alle armi.
124 – Allo scopo di dare e accrescere la capacità tecnica e produttiva e il valore morale dei lavoratori e di agevolare l’azione selettiva tra questi, la Repubblica anche a mezzo dell’associazione professionale riconosciuta, promuove e sviluppa l’istruzione professionale.

§ II
La gestione socializzata dell’impresa

125 – La gestione dell’impresa, sia essa pubblica che privata, è socializzata.
Ad essa prendono parte diretta coloro che nell’impresa svolgono, in qualunque forma, una effettiva attività produttiva.
126 – Ogni impresa ha un capo, responsabile di fronte allo Stato, politicamente e giuridicamente, dell’andamento della produzione e della disciplina del lavoro nell’impresa.
127 – Il capo dell’impresa pubblica è nominato dal Governo.
128 – Il capo dell’impresa privata è l’imprenditore.
Imprenditore è colui che ha organizzato l’impresa, determinandone l’oggetto e lo scopo economico, o colui che ne ha preso posto.
Nelle imprese individuali o ad amministratore unico, il capo dell’impresa è il titolare o l’amministratore unico.
Nelle imprese con organo amministrativo collegiale il capo dell’impresa è stabilito, dallo statuto o dall’atto costitutivo, nella persona del Presidente del Consiglio di amministrazione o dell’Amministratore delegato o di un tecnico, che può essere estraneo al Consiglio, e a cui si conferiscono le funzioni di Direttore generale.
129 – Le aziende pubbliche sono amministrate da un Consiglio di gestione eletto dai lavoratori dell’impresa, operai, impiegati tecnici.
Il Consiglio di gestione decide su tutte le questioni inerenti all’indirizzo e allo svolgimento della produzione dell’impresa nel quadro del piano unitario nazionale determinato dalla Repubblica a mezzo dei suoi competenti organi; forma il bilancio dell’impresa e delibera la ripartizione degli utili determinando la parte spettante ai lavoratori; decide sulle questioni inerenti alla disciplina e alla tutela del lavoro.
130 – Nelle imprese private, degli organi collegiali di amministrazione, formati secondo la legge, gli atti costitutivi e gli statuti fanno parte i rappresentanti degli operai, impiegati e tecnici dell’impresa in numero non inferiore a quello dei rappresentati eletti dall’assemblea dei portatori del capitale sociale, e uno o più rappresentanti dello Stato qualora esso partecipi alla formazione del capitale.
131 – Nelle imprese individuali e in quelle per le quali l’atto costitutivo e gli statuti prevedano un amministratore unico, qualora esse impieghino complessivamente almeno cinquanta lavoratori, verrà costituito un consiglio di operai, impiegati e tecnici dell’impresa di almeno tre membri.
Il Consiglio collabora col titolare dell’impresa e con l’amministratore unico alla gestione dell’impresa. Deve esser sentito per la formazione del bilancio e per le decisioni che importino trasformazione della struttura, della forma giuridica e dell’oggetto dell’impresa.
132 – In ogni impresa, che occupi più di dieci lavoratori, si costituisce il consiglio di fabbrica, eletto da tutti gli operai, impiegati e tecnici, il quale partecipa alla formazione dei regolamenti interni e alla risoluzione delle questioni che possano sorgere nella loro applicazione.
Nelle imprese in cui non vi sia un organo collegiale, di amministrazione né il consiglio dei lavoratori, il capo dell’impresa deve sentire il parere del consiglio di fabbrica nelle questioni riguardanti la disciplina del lavoro, e può sentirlo nelle altre questioni che egli intenda di sottoporgli.
133 – La legge, in relazione alla situazione economica, stabilisce i limiti massimi e i modi con cui può esser determinato il compenso al capitale impiegato nell’impresa, in generale o per i vari tipi di esse.
Entro questi limiti e nei modi consentiti la determinazione del compenso è stabilita convenzionalmente.
134 – Gli utili dell’impresa, dopo la deduzione del compenso dovuto al capitale, sono distribuiti tra il capo, gli amministratori e gli operai, impiegati e tecnici dell’impresa, nelle proporzioni fissate per legge, per norma collettiva o, in mancanza degli atti costitutivi, dagli statuti e dalle deliberazioni degli organi di gestione.
La parte degli utili non distribuita, è assegnata alla riserva nei limiti minimi e massimi stabiliti dalla legge, e se vi sia ancora un’eccedenza, questa è devoluta allo Stato che l’amministra o la impiega per scopi di carattere sociale.

§ III
L’organizzazione professionale

135 – Tutte le categorie di prestatori d’opera e di lavoratori, operai, impiegati, dirigenti, di artigiani, di imprenditori, di professionisti e gli artisti sono organizzati in un’organizzazione professionale nazionale.
Nel seno dell’organizzazione unica possono formarsi sezioni per le varie branche della produzione e per le varie categorie professionali.
136 – L’associazione professionale unica si ispira ai principi della Repubblica Sociale Italiana e ne cura l’attuazione nel campo dell’economia nazionale: essa costituisce l’organizzazione giuridica a traverso la quale si opera la trasformazione di tutte le forze della produzione in forze nazionali, e si realizza la loro partecipazione stabile alla costituzione e alla vita dello Stato.
137 – L’organizzazione professionale unica ha l’esclusiva integrale rappresentanza degli interessi delle categorie in essa organizzate. In virtù di questa integrale rappresentanza, essendo gli interessi delle categorie produttive, considerate nella loro funzione nazionale, di supremo interesse statale, essa è giuridicamente riconosciuta come ente ausiliario dello Stato.
138 – L’associazione professionale unica ha come precipui compiti istituzionali, che essa può assolvere anche a traverso le associazioni che si formino nel suo seno: tutelare gli interessi delle categorie rappresentate, contemperandoli tra loro e subordinandoli ai fini superiori della Nazione; promuovere in tutti i modi l’incremento qualitativo e quantitativo della produzione, e la riduzione dei costi e dei prezzi di beni e servizi, nell’interesse dei produttori e dei consumatori; curare che gli appartenenti alle categorie produttive si uniformino, nell’esercizio della loro attività, ai principi dell’ordinamento sociale nazionale e agli obblighi che vi derivano; assicurare l’uguaglianza giuridica tra i vari elementi della produzione, suscitarne e rafforzarne la solidarietà tra loro e verso la Nazione; promuovere ed attuare provvedimenti e istituti di previdenza sociale fra i produttori; coltivare l’istruzione, specialmente professionale, e l’educazione morale, politica e religiosa degli appartenenti alle categorie; prestare assistenza ai produttori rappresentati; in genere svolgere tutte le altre funzioni utili al mantenimento della disciplina della produzione e del lavoro.
139 – All’associazione professionale unica, per l’assolvimento dei suoi compiti lo Stato affida l’esercizio di poteri:
a) normativo, per cui, nelle forme e nei modi stabiliti dalla legge, essa detta norme giuridiche obbligatorie per la disciplina dei rapporti collettivi di lavoro e può dettare, ove se ne verifichi la necessità, norme giuridiche obbligatorie per la disciplina dei rapporti collettivi economici ai fini del coordinamento della produzione;
b) fiscale, per cui, onde sostenere le spese obbligatorie facoltative connesse alle sue funzioni, può imporre contributi a tutti i lavoratori rappresentati nella misura massima stabilita dalla legge procedendo all’esazione colle procedure e i privilegi per la riscossione delle imposte;
c) conciliativo, per cui deve esperire il tentativo di conciliazione nelle controversie individuali e collettive relative ai rapporti di lavoro e all’applicazione delle norme collettive economiche da esso emanate: tale tentativo di conciliazione costituisce un presupposto necessario per la proposizione delle relative controversie giudiziarie;
d) disciplinare, per cui può infliggere ai rappresentati sanzioni disciplinari determinate nello Statuto dell’associazione, per inosservanza ai doveri nascenti dall’ordinamento sociale nazionale; al fine di accertare tali eventuali inosservanze essa può disporre gli opportuni controlli, a mezzo di propri organi e dei fiduciari di fabbrica, ove siano istituiti;
e) consultivo, per cui il suo parere deve esser sentito dalle amministrazioni dello Stato, nelle materie interessanti la disciplina della produzione e del lavoro.
140 – Nello svolgimento delle sue funzioni la Confederazione unica gode di piena autonomia.
I suoi atti sono solamente sottoposti al controllo di legittimità, e le persone al controllo politico dello Stato, a mezzo degli organi designati dalla legge.
141 – Per la risoluzione delle controversie collettive relative alla formazione, alla revisione o alla interpretazione delle norme collettive di lavoro o alla interpretazione delle norme collettive economiche, emanate dall’organizzazione professionale riconosciuta è istituita la Magistratura del Lavoro, organo della Magistratura ordinaria.
La Magistratura del Lavoro è costituita da tre giudici dell’ordine giudiziario e da due giudici esperti, da scegliere in appositi albi da tenersi nei modi stabiliti dalla legge.
Alla proposizione delle azioni per la risoluzione delle controversie collettive è legittimata soltanto l’Associazione professionale riconosciuta o, previa autorizzazione, le associazioni ad essa aderenti. In mancanza, l’azione può essere proposta dal Pubblico Ministero, il cui ricorso deve esser notificato alla Associazione professionale riconosciuta, che può intervenire nel giudizio.
Nelle controversie collettive promosse dalla Associazione professionale, l’intervento del Pubblico Ministero è obbligatorio a pena di nullità.
Le decisioni della Magistratura del Lavoro in sede di controversie collettive hanno la stessa efficacia delle norme collettive emanate dalla organizzazione professionale riconosciuta.
Tali decisioni non possono essere impugnate se non per errori di procedura dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione.
142 – Poiché l’ordinamento giuridico della Repubblica fornisce tutti i mezzi per la composizione equa e pacifica di ogni controversia collettiva nel campo del lavoro e della produzione, lo sciopero, la serrata, l’inosservanza delle norme collettive ed economiche e delle sentenze della Magistratura del Lavoro, e in genere tutti gli altri atti di lotta sociale, sono puniti quali delitti contro l’economia nazionale.

Tra parentesi sono riportate le modifiche apportate da Mussolini di suo pugno.





*JOHN R. R. TOLKIEN, UN MAESTRO DELLA TRADIZIONE?
Autore: Fabio Calabrese


“Tradizione” e “tradizionalismo” non sono affatto la stessa cosa, non fosse altro perché il tradizionalismo è un atteggiamento moderno che non si riscontra in quelle che possiamo chiamare società o culture tradizionali.

Per capire quanto profonda sia la frattura fra questi due concetti, forse la cosa migliore da fare, è quella di esaminare in quale misura il grande mitologo della nostra epoca, John R. R. Tolkien, l'autore del Signore degli anelli, abbia frainteso la mitologia tradizionale che ha utilizzato in larga misura nelle sue opere. Tolkien è anche un esponente direi classico di quell'orientamento di pensiero che chiamiamo tradizionalista, e dunque è possibile allargare il discorso ed esplorare lo scarto che esiste fra tradizione e tradizionalismo.

Le culture tradizionali, ha osservato qualcuno, sono quelle in cui non esistono tradizionalisti; ci si potrebbe spingere più in là affermando in modo provocatorio che sono quelle dove non esistono neppure tradizioni. Quello che esiste sono consuetudini, usi, modi di pensare, valori etici e persino estetici largamente condivisi che connotano a colpo d'occhio le varie culture e sono fatti propri dalla pressoché totalità dei loro membri. Il concetto di tradizionalismo nasce precisamente nel momento in cui questa unità si rompe.

Un esempio paradigmatico in questo senso è rappresentato dallo scintoismo. Per secoli, forse per millenni la religione tradizionale giapponese non ebbe neppure un nome: era semplicemente l'insieme dei culti riservati agli dei, agli antenati, alla figura dell'imperatore, figura-ponte di origini divine fra la Terra e il Cielo. Fu solo con l'arrivo dei missionari buddisti nelle Isole Nipponiche, che si coniò il termine “shinto” per indicare la “vecchia fede”, la tradizione, l'insieme delle credenze tradizionali in opposizione alla nuova dottrina.

Il concetto di tradizione nasce nel momento in cui seguire i valori e i costumi degli antenati non è più una consuetudine spontanea semplicemente perché non si concepisce un orizzonte alternativo a essi, ma diventa una scelta consapevole.

Nella nostra epoca moderna si può, si deve, inoltre parlare di tradizionalismo nel momento in cui la scelta e il riconoscimento della tradizione alla quale si appartiene diventano problematici, quando tocca confrontarsi con tradizioni in conflitto o con idee di tradizione in contrapposizione talvolta inconciliabile.

John R. R. Tolkien era, e questa è una chiave di lettura della sua personalità e della sua opera che non può essere omessa, un cattolico, uno dei rari cattolici britannici, e chiaramente in conseguenza di ciò, un cristiano. Vale a dire che egli può bensì essere considerato portatore di un pensiero “tradizionalista”, ma non assolutamente tradizionale, poiché, a parere di chi scrive, sebbene la “tradizione cristiana” sia divenuta maggioritaria nel cosiddetto “mondo occidentale” (che comprende oltre all'Europa, e oggi in posizione dominante, le Americhe, vale a dire l'anti-tradizione incarnata se mai ve n'è stata una) essa rimane nondimeno rispetto alle nostre radici europee una “tradizione” spuria.

In uno scritto pubblicato nel 2005 sul n. 13 della rivista “Minas Tirith” della Società Tolkieniana Italiana, l'antropologo Mario Polia definiva a modo suo Cos'è la tradizione, e – sorpresa – essa a suo dire coinciderebbe esattamente con “l'insegnamento” della Chiesa cattolica, anche se, ammetteva a denti stretti:

Esiste, inoltre, un “tradizionalismo” in senso lato nel quale si riconoscono appartenenti singoli o gruppi, diversi in quanto a impostazione e tendenze, ma accomunati da un pronunciato antagonismo nei confronti del mondo moderno (...).
E’ comune alle varie tendenze del “tradizionalismo” (cultural -politico e/o spiritualista) la tensione verso il recupero di un’identità “spirituale” dai contorni in genere mal definiti, non-confessionale, caratterizzata dal sincretismo in campo religioso e, spesso, da una componente marcatamente anti-cristiana
”.

[Mario Polia: Che cos'è la tradizione, “Minas Tirith” n. 13, Società Tolkieniana Italiana, Udine 2005].

Per l'ennesima volta, a lato delle parole di Polia metterei quelle contenute nel Documento controverso per eccellenza che ho tante volte citato, la famosa intervista di Maurizio Blondet a Massimo Cacciari:

Il Cristianesimo è stato dirompente rispetto ad ogni ethos" (...). Il Cristianesimo non ha più radici in costumi tradizionali, in una polis specifica, in un ethos; non ha più nemmeno una lingua sacra (...). Il Cristianesimo si rivela essenzialmente sovversivo dell'Antichità e dei suoi valori; che esso spezza definitivamente i legami fra gli Dei e la società. L'ethos antico era una religione civile (...). Il Cristianesimo, consumando la rottura con gli dei della Città, sradica l'uomo”.

E soprattutto, con ancora più forza e convinzione, le parole di Richard Wagner:

Per quanto l'innesto sulle sue radici di una cultura che le è estranea possa avere prodotto frutti di altissima civiltà, esso è costato e continua a costare innumerevoli sofferenze all'anima dell'Europa”.

Parole che dovrebbero essere incise in bronzo su ogni muro!

Tanto per avere le idee ancora più chiare a questo proposito, cito una circostanza riferita dal giornalista Corrado Augias nel libro I segreti del Vaticano: l'Opus Dei, la potente organizzazione cattolico-affaristica raccomanda ai suoi affiliati la lettura del Signore degli anelli.

Da un certo punto di vista, la faccenda è o dovrebbe essere molto chiara: Mario Polia è un cattolico, i tolkieniani sono cattolici, John R. R. Tolkien era un cattolico; dunque si tratta di cristiani che nulla possano avere a che fare con noi.

In realtà la questione è un po' più complessa di così; rimangono quanto meno da spiegare i motivi per i quali l'articolo di bigotteria tolkieniano è riuscito a esercitare sugli ambienti umani “nostri” una fascinazione che ha dell'incredibile.

L'opera di Tolkien approdò in Italia nei primi anni '70, più o meno in coincidenza con la dipartita del suo autore da questa valle di lacrime, e la sinistra, una sinistra che allora si credeva egemone e trionfante, attuò nei suoi confronti un ostracismo e un boicottaggio feroce. Non parve vero ad alcuni dei “nostri” di aver trovato un nuovo padrinato intellettuale, soprattutto a quanti si facevano conquistare da facili slogan, che non erano consapevoli o non riuscivano ad accettare il fatto che la via che abbiamo scelto, in questa nostra epoca è necessariamente minoritaria. Fu l'epoca in cui si arrivarono a chiamare i raduni della nostra parte politica “campi hobbit” e simili.

A quell'epoca, Giuseppe Lippi, attuale direttore della mondadoriana “Urania” pubblicò sulla rivista “Aliens” delle edizioni Armenia di cui era allora redattore, un articolo il cui titolo era tutto un programma: Camerata elfo.

Per trasformare Tolkien in un maestro del pensiero “nostro”, occorreva chiudere gli occhi su di un numero impressionante di questioni, sul suo cattolicesimo ostentato (se invece che un inglese fosse stato un italiano, non ci sarebbe stata alcuna difficoltà a definirlo un clericale), la sua profonda e radicale avversione verso l'Asse, il disprezzo tutto britannico verso gli Italiani (identificati nel Signore degli anelli con gli Haradrim, gli alleati meridionali di Sauron – immaginate allora Sauron chi è, e Mordor, il suo dominio, il regno del “male assoluto” a cosa corrisponde; fra gli alleati umani di Sauron, poi, oltre ai “meridionali” Haradrim vi sono gli Esterling, abitanti di una remota terra orientale, ma davvero avete bisogno di indicazioni più chiare di queste?), l'antipatia di Tolkien per il mondo celtico inteso come cultura radicalmente europea non tributaria in alcun modo di influssi mediorientali e che i Celti odierni fanno finta di dimenticare, da parte di un animo piamente cristiano che in fondo di europeo aveva poco. E' noto che Tolkien ha negato rabbiosamente più volte che Il signore degli anelli avesse a che fare con alcunché di celtico, ispirandosi invece al finnico Kalevala.

Altro fatto su cui si doveva glissare alla grande, è che la biografia di Tolkien non ce lo fa vedere come un “maestro della tradizione” molto credibile, ci rivela piuttosto un uomo la cui personalità ha mantenuto dei marcati tratti infantili. Quando lui e la donna che poi sposò erano fidanzati, pare che il loro maggiore divertimento consistesse nel sedersi ai tavolini di un bar e lanciare zollette di zucchero contro i passanti. Non parliamo delle prodezze di Tolkien al volante; pare che la sua filosofia automobilistica consistesse in: “I pedoni, quando li punti si scansano”.

Altra circostanza che i “camerati” che hanno eletto Tolkien a maestro e guida fanno spesso finta di aver dimenticato, è che la sinistra che oggi non si sente più egemone come negli anni immediatamente successivi al '68, successivamente ha cercato in ogni modo di porre rimedio all'errore “recuperando” Tolkien con risultati invero grotteschi; si è cercato ad esempio di far credere che egli, che era nato in Sud Africa da famiglia inglese temporaneamente lì stabilita, avesse partecipato alle manifestazioni contro il regime dell'apartheid (oggi grazie alla vittoria della democrazia, provvidenzialmente sostituito dal regime del genocidio della popolazione bianca, ma di questo – ovviamente – si parla molto di meno).

Fosse stato vero, l'autore del Signore degli anelli avrebbe dimostrato davvero una precocità straordinaria, poiché quando la famiglia rientrò in Inghilterra, aveva solo due anni. Il punto non è tanto che la sinistra non abbia il senso del ridicolo, lo sapevamo già da un pezzo, ma il fatto che se si è pensato di “recuperare a sinistra” Tolkien, questi deve quanto meno presentare delle ambiguità. Forse che qualcuno ha mai cercato di imbastire un'impresa del genere su Drieu La Rochelle, Brasillac, Celine, Ezra Pound o anche Gabriele D'Annunzio?

A gettare sul tutto una luce ancora più strana, è il fatto che negli stessi anni in cui in Italia Tolkien era scoperto dai “camerati” che facevano i “campi hobbit”, Il signore degli anelli riceveva negli Stati Uniti una “lettura” decisamente di sinistra e diventava “la bibbia” degli hippy californiani.

Bisogna però essere onesti e spezzare una lancia a favore dei camerati che non sono così ingenui come forse sembrerebbe. Che Tolkien sia stato così mal accolto dalla sinistra quando la sua opera apparve in Italia, non è certo il solo motivo del fascino che subito esercitò sul fronte opposto, “nostro”. Per capirlo, basta scorrere l'introduzione di Quirino Principe alla prima edizione (Rusconi) del Signore degli anelli. Quel riferimento a “valori atemporali, eterni e quindi più presenti a noi del presente”, smuoveva leve potenti nell'animo di ciascuno di noi. C'era di che restarne affascinati; solo una più attenta lettura del romanzo, una conoscenza del resto dell'opera dello scrittore anglo-sudafricano e una robusta preparazione basata su elementi precedenti e differenti, potevano far sospettare che le cose stessero in una maniera un po' diversa, che – come dice il proverbio – non è tutto oro quello che luccica.

Penso che quello che ho da dire non sarà gradito ai tolkieniani, ma io credo che sia difficile trovare uno scrittore o un uomo qualsiasi in più profonda contraddizione con se stesso di quanto non lo fosse John R. R. Tolkien. Egli dichiarava avversione per il celtismo, eppure elementi celtici emergono in quantità dalla sua narrativa; si professava cristiano, eppure il tipo di visione del mondo e di etica che è possibile desumere dai suoi romanzi, è tutto meno che cristiano.

Del celtismo che interpretava solamente come separatismo scozzese, gallese, nord-irlandese, Tolkien aveva un'idea ristretta, e da leale suddito britannico, lo detestava, eppure tutta la sua narrazione rigurgita di elementi celtici: non sono solo le figure di elfi, nani, orchi e troll direttamente provenienti dalla mitologia celtica attraverso il folclore popolare; c'è anche la figura di Gandalf, straordinariamente simile a quella di un druido, e si pensi all'anello di Sauron, un Graal di segno capovolto, non da trovare ma da perdere o distruggere.

L'etica di Tolkien non è cristiana, è di tipo eroico, tradizionale, guerriero, indoeuropeo, che non comanda di porgere l'altra guancia ai nemici, ma di combatterli con le armi in pugno. Tuttavia l'astuzia tolkieniana consiste proprio in questo, nel presentarla costantemente mescolata con simboli e concetti cristiani, in modo da esercitare una fascinazione su chi per inclinazione naturale sarebbe portato a rifiutare il deleterio e anti-vitale spirito del cristianesimo, così ben evidenziato ad esempio da Nietzsche.

Se esaminiamo nel Signore degli anelli la figura di Gandalf, vediamo facilmente che è modellata su quella di Merlino, e assomiglia molto di più a un druido che non a un sacerdote cristiano.

Consideriamo un attimo il rapporto fra Gandalf e Aragorn, è una relazione che implica la pari dignità dell'autorità sacrale “druidica” di Gandalf con quella regale e guerriera incarnata da Aragorn. Questa concezione va contro il cristianesimo che non ammette che le altre funzioni, diverse da quella sacerdotale, possano avere una dignità e tanto meno una sacralità autonoma, ed è invece consonante con la tradizione indoeuropea e celtica. Questo diverso segno si vede bene nella parole del Merlino di Excalibur di John Boorman (diamo per scontato che Merlino è l'erede della tradizione druidica e che Boorman ha reso bene quanto meno lo spirito del personaggio) che incoraggia Artù dicendogli: “Eppure hai estratto la spada dalla roccia, io non avrei potuto farlo”.

Il potere magico-druidico ha dei limiti che la regalità sacrale può oltrepassare. Artù e Aragorn sono, come il re celtici “figli di Lugh”, portatori di una regalità sacrale che Merlino e Gandalf possono riconoscere e garantire, ma non creare attraverso una consacrazione.

In diversi precedenti articoli mi è capitato di definire Tolkien un “celta suo malgrado”, un giudizio che non vedo alcun motivo di modificare. Per quanto ciò possa dispiacere ai moderni esegeti di Tolkien di impostazione cattolica, considerando i tratti druidici della figura di Gandalf e la concezione della regalità sacrale incarnata dalla figura di Aragorn, potremmo dire che l'autore del Signore degli anelli è stato anche un pagano suo malgrado. Sicuramente questo paganesimo che emerge a dispetto dell'intenzione cosciente di Tolkien, è alla base del successo che Il signore degli anelli continua a riscontrare negli ambienti “nostri”, perché un camerata che è davvero tale è un “pagano istintivo” anche se talvolta può non esserne consapevole. Tuttavia c'è l'ambiguità complessiva del messaggio e anche quella che non saprei come definire altro che la perversità di Tolkien. Può essere che quest'uomo che detestava ferocemente l'Asse ben al di là di quello che possiamo pensare fosse l'effetto della propaganda di guerra, non si rendesse conto, non fosse mai colto dal sospetto né durante il conflitto né dopo, che proprio questo nemico odiato fosse l'ultima chance di quell'ordine tradizionale dell'Europa che mostrava di amare così tanto e che ha letterariamente incarnato nei cavalieri di Gondor e di Rohan, e che invece la coalizione tra capitalismo americano e comunismo sovietico si apprestava a stritolare?

Sulle ambiguità di Tolkien, questi signori “cattolici tradizionalisti”, i vari Mario Polia, Adolfo Morganti, Paolo Gulisano e – a sentire Augias – tutta l'Opus Dei, ci sguazzano, poiché loro stessi sono degli ossimori viventi. “Cristianesimo”, infatti, è un concetto che fa a pugni con quello di “tradizione”: “cristianesimo” è e rimane il proto-bolscevismo che ha affondato l'impero romano e ridotto le tradizioni europee (quelle vere, che conosciamo complessivamente con il nome di “paganesimo”) sull'orlo dell'estinzione. (ce l'hanno quasi fatta, ma hanno mancato l'obiettivo definitivo: dopo due millenni siamo ancora qui, e ci saremo ancora in futuro, saranno loro a sparire!).

A dire il vero, tanto per la cronaca, l'intellettuale i cui scritti sono maggiormente pubblicati sulle riviste della Società Tolkieniana Italiana, l'ideologo (o forse il cappellano) del gruppo, quello che Paolo Paron fondatore e presidente della STI ha varie volte accostato a Gandalf, non è né Morganti, né Gulisano, né Polia, bensì tale padre Guglielmo Spirito, frate francescano, e penso che già questo dica tutto.

Se tuttavia facessimo risalire agli interpreti italiani di Tolkien tutte le colpe, credo che saremmo fin troppo generosi con questo tutt'altro che limpido personaggio. Occorrerebbe essere un etnologo oltre a conoscere l'opera di Tolkien in dettaglio approfondito per cogliere in maniera sistematica tutti i travisamenti che Tolkien ha compiuto sul patrimonio mitologico e folclorico della tradizione europea, tuttavia al riguardo qualcosa si può dire.

Parliamo ad esempio di una figura del folclore europeo che è diventata centrale nella pseudo-mitologia tolkieniana, quella dell'elfo. Lo scrittore americano ma di origine scandinava Poul Anderson è stato forse l'unico ad avere il coraggio di mettere in rilievo il fatto che Tolkien l'ha del tutto travisata.

Apprendiamo che quando le navi da guerra [vichinghe] stavano per rientrare nei porti di partenza, si provvedeva a togliere le teste di drago che ornavano le prue, affinché gli elfi non si offendessero. Possiamo così vedere questi esseri quali erano inizialmente: cioè divinità.
(...)
Tolkien volle raffigurarli non solo come esseri bellissimi e sapienti, ma anche saggi, posati, rispettabili, buoni, vere incarnazioni dei migliori sentimenti nei confronti d'ogni cosa vivente (...).
[Ma] fino al IX secolo gli elfi e gli dei avevano un'indole ben diversa
”.

Poul Anderson, La spada spezzata, introduzione.

Cosa curiosa, davvero una coincidenza significativa nel senso dato da Karl Gustav Jung a questa parola: pochi giorni prima di ricevere dall'amico Steno una pressante e accorata richiesta di spendere qualche parola di chiarezza sulla persistente fascinazione che l'autore anglo-sudafricano continua a esercitare nei nostri ambienti, mi era capitato di imbattermi in questa questione per tutt'altri motivi, stavo scrivendo un articolo di tutt'altro genere per un sito affatto diverso da “Ereticamente”, un articolo sulle non frequenti tracce celtiche nella musica leggera italiana e, se non si possiede il dono della scienza infusa, quando si fanno certe cose, è sempre meglio prima documentarsi, il che può portare a fare delle scoperte interessanti.

Tra le non molte cose che esistono in questo settore, c'è da menzionare la notissima Scarborough Fair trasformata in un successo mondiale da Simon e Grafunkel, che ha avuto anche una versione italiana ad opera di Angelo Branduardi. Essa deriva da un'antica ballata scozzese, The Elfin Knight (“Il cavaliere elfo”). Ora, la cosa curiosa della versione originale è proprio il fatto che le prove impossibili imposte alla fanciulla (cucire una camicia senza usare ago e filo, lavarla in un pozzo asciutto), lei le deve superare allo scopo di evitare l'accoppiamento con il cavaliere elfo; nel folclore tradizionale gli elfi sono visti come portatori di un elemento soprannaturale che può essere sia benevolo sia ostile, ma con il quale è meglio evitare di contaminarsi.

A questo punto, mi è scattato una sorta di flash mentale: in Tolkien un simile amplesso e l'ibridazione che ne può conseguire sembrano essere qualcosa di estremamente ambito (si pensi a Beren e Luthien, Earendil e l'origine dei re numenoreani, a Elrond, Arwen e Aragorn). Da questo punto di vista, non è difficile scorgere l'analogia con uno dei più irritanti veicoli di propaganda democratica e mondialista (malamente) mascherato da serie di fantascienza televisiva e cinematografica, Star Trek di Gene Roddenberry dove umani e alieni puri sono quasi una minoranza rispetto ai mezzi-questo e mezzi-quello (mezzi vulcaniani, romulani, klingon e via dicendo), anche se noi sappiamo benissimo che il giorno che per ipotesi dovessimo venire in contatto con specie aliene, le probabilità di un incrocio fecondo fra esseri con una storia evolutiva del tutto separata sarebbero inferiori alla possibilità di un incrocio fertile fra un uomo e una carota.

Fuori di metafora, tutto ciò che cos'è se non una perorazione a favore del mescolamento razziale?

Naturalmente, Tolkien non può essere ritenuto direttamente responsabile degli ulteriori fraintendimenti, dell'ulteriore liquidazione della tradizione europea, dell'ulteriore americanizzazione che si riscontra nella versione cinematografica del Signore degli anelli operata da Peter Jackson, ma diciamo che – quanto meno – il messaggio tolkieniano è abbastanza ambiguo da permettere interpretazioni di questo genere, che mirano solo a colpire a morte quanto rimane dello spirito tradizionale europeo, il tutto naturalmente ben impacchettato dentro un'ingannevole confezione “epica” ed “eroica”.

La prima cosa che si nota, è la deformazione in senso femminista della figura di Arwen. E' un discorso che occorre ampliare, perché non rappresenta per nulla qualcosa di isolato: da un lato, sebbene Jackson sia neozelandese, nella versione cinematografica emerge la tendenza molto americana a deformare con facilità eccessiva, senza alcun rispetto per la verità, i testi letterari nelle varie trasposizioni, ma anche la pura e semplice verità storica, dall'altro la vera e propria invasione che le femministe hanno compiuto nel campo della letteratura di heroic fantasy, che ha come fil rouge l'idea che la donna conquisti la parità con l'uomo se la si suppone equivalente al maschio sul piano della pura forza muscolare, cosa che sappiamo bene che non è, da qui l'inverosimile pullulare di guerriere, di virago armate, da Jirel di Joyry a Xena, a Relic Hunter e ora anche Arwen, e le qualità specificamente femminili, dove sono andate a finire? Queste femministe credono forse di nobilitare la figura femminile trasformandola in una caricatura di maschio e inventando una presenza femminile sui campi di battaglia che obiettivamente è sempre stata del tutto assente fino a tempi molto recenti di guerra tecnologica.

Un altro elemento che si nota subito vedendo la pellicola di Jackson, è che gli hobbit hanno costumi ottocenteschi (anche se poi si trasformano, dovendo indossare mantelli, elmi, spade e corazze), mentre tutti gli altri personaggi sono abbigliati in fogge medievali. Perché questa differenza? Ovviamente, perché nell'Età di Mezzo l'America non era ancora stata scoperta. Una cosa che fortunatamente “si perde” nella versione italiana, è che gli hobbit di Jackson parlano con un accento yankee che differisce da quello britannico degli altri. Perché gli hobbit dovrebbero essere yankee? Io credo che qui il “messaggio” di Jackson amplifichi quello già presente in Tolkien, un messaggio tanto più pericoloso quanto più subliminale.

Gli hobbit per Tolkien sono i piccoli che intervengono a contrastare i Nazgul e a portare l'anello di Sauron al suo destino, quando le mani dei grandi sono impegnate altrove, sono coloro che non hanno una percezione chiara della situazione, ma agiscono seguendo il cuore e l'istinto. Per Jackson devono essere americani per lo stesso motivo per cui lo è Forrest Gump, incarnano il plain man che non comprende ma ha “buoni sentimenti”, pronto a farsi guidare, nella realtà non dagli Istari ma dagli stregoni del potere mediatico.

Un'altra “correzione” di Jackson rispetto a Tolkien è la cancellazione del personaggio di Tom Bombadil. Questa figura che Tolkien ha introdotto quasi per scherzo nel suo romanzo (ispirata a un pupazzo con cui giocavano i suoi figli) è in realtà un'importante archetipo: l'uomo a pieno contatto con la natura, contatto che non ne fa un selvaggio, un uomo ferino, ma un essere semi-divino, che è totalmente immune dall'anello di Sauron e ha il potere di sconfiggere gli Spettri dei Tumuli, una sorta di druido auto-iniziato o un rex nemorensis. Io credo che Tolkien, con le ostie sugli occhi com'era, fosse ben lontano dal comprendere il reale significato di ciò che andava trattando, ma ha evocato comunque una figura “pericolosa” che Jackson ha prontamente censurato dalla versione cinematografica e politicamente corretta, ulteriormente democratizzata del Signore degli anelli.

Di questi ulteriori fraintendimenti Tolkien non ha una responsabilità diretta, tranne per il fatto di essere l'autore di un'opera sufficientemente ambigua da consentire simili interpretazioni, ma in particolare la sua perorazione del connubio interrazziale uomini-elfi ci lascia intravedere la sostanziale continuità fra il “vecchio” cosmopolitismo mondialista cristiano e quello “nuovo” marxista e democratico, non è in nessun senso ciò che ci aspetteremmo da un maestro della tradizione.

Di Tolkien tutti quanti, anche quelli che non hanno letto nemmeno un rigo della sua opera, conoscono una frase famosa: “Le radici profonde non gelano”. Vale la pena di rifletterci un po'. Nella storia europea, appena il cristianesimo ha smesso di essere imposto con la forza, con l'inquisizione, le torture e i roghi degli eretici, è iniziato un processo di scristianizzazione, lento ma inesorabile e con ogni probabilità irreversibile. Le “radici cristiane” dell'Europa gelano; forse non sono molto profonde, forse non sono nemmeno quelle vere.

Per riprendere il discorso iniziale e la distinzione fra tradizione e tradizionalismo, io credo che il discorso di Mario Polia vada esattamente rovesciato. Ai cattolici, Tolkien compreso, forse si può riconoscere un orientamento in qualche modo tradizionalista, ma “la tradizione”, quella vera, ciò che definisce l'identità, le radici inestirpabili di un popolo, di una cultura, di un continente, è altro e altrove, le radici che stanno fuori, oltre, prima e – ne sono assolutamente convinto – DOPO il cristianesimo. Quelle radici per le quali, in riferimento alla propria storia e alla propria cultura, i Giapponesi hanno inventato il bel nome di Shinto, ma che noi, in riferimento a noi stessi possiamo chiamare con un nome inventato per scherno dai nostri nemici, ma che noi abbiamo rialzato e inalberato come la nostra bandiera: PAGANESIMO


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Studiare i metodi comunisti
Sebbene gli esempi di rivoluzioni siano molteplici, è opportuno valutare i metodi seguiti dai comunisti, i quali, dal punto di vista della spietatezza omicida finalizzata alla conquista del potere, possono darci ampi ed illuminanti esempi. Nel campo dell’omicidio singolo e di massa, nessuno al mondo ha fatto meglio dei comunisti (pare abbiano raggiunto la cifra di 100 milioni di singoli esseri umani uccisi da loro con i metodi più svariati). Contateli, non 100 milioni, troppo comodo, ma 1+1+1+1+1+1… Essendo diventati i maestri indiscussi dell’omicidio finalizzato, è dai loro metodi che bisogna trarre esempio. Citeremo così solo alcuni casi emblematici, di cui i primi due vissuti dal sottoscritto “in seconda persona” avendolo ascoltato direttamente da testimoni degni di fede. Il mio carissimo zio Allegri Audilio di Torricella del Pizzo, grande mutilato di guerra, in guerra dal 1940 (bersaglieri) al 1945 (Guardia Nazionale Repubblicana della Repubblica Sociale Italiana) e poi in carcere dal 1946 al 1950 per la sua adesione alla RSI (e nonostante questo avrebbe ancora dato la vita per la “sua” Italia, caro vecchio tenerone…), mi raccontava dettagliatamente di un ufficiale GNR (di cui purtroppo non ho registrato il nome) in carcere con lui dal 1946: i partigiani (comunisti) non riuscendo a tendergli un’imboscata per ucciderlo, andarono a casa sua e gli assassinarono moglie, figlia e cane. L’ufficiale impazzì, letteralmente e per sempre, dal dolore e venne perso per la lotta contro i partigiani. Quindi obiettivo raggiunto dai comunisti.
Il 3 maggio 1945, il signor Francesco Meneghetti di Casalmaggiore [aiutante (cioè maresciallo) della GNR] fu assassinato in piazza a Casalmaggiore a colpi di chiodi infissi nelle carni. I partigiani comunisti presero il figlioletto di Meneghetti e lo costrinsero a guardare mentre infierivano sull’agonizzante padre coi chiodi e gli orinavano addosso (il racconto ci fu fatto, in persona, dal figlio ormai cresciuto). Anche in questo caso, pur se l’omicidio sembra inutile, a guerra ormai terminata, si nota l’intenzione “educativo-didattica” comunista di mostrare che fine fanno quelli che si oppongono a loro. Il 23 luglio 1936 il comandante falangista José Moscardò difendeva dai comunisti l’Alcazar di Toledo (Spagna). Non riuscendo a conquistarne le rovine, i comunisti catturarono il figlio Luis Moscardò (16 anni) e minacciarono di ucciderlo se il padre non si fosse arreso. Al rifiuto di Moscardò i comunisti gli assassinarono il figlio. In questo caso l’obiettivo non fu raggiunto dai comunisti, ma certo con un uomo meno ferreo e pieno di fede di Moscardò avrebbero avuto qualche speranza di resa in più. Anche qui l’intenzione “educativo-didattica” comunista è evidente.
Nel 1986, ai tempi dell’Apartheid in Sudafrica, Winnie Mandela (moglie di Nelson Mandela) e altri suoi complici comunisti erano soliti mettere un collarino costituito da una camera d’aria imbevuta di benzina al collo dei poliziotti negri e poi dargli fuoco. Così uccidevano atrocemente e pubblicamente poliziotti anche innocenti, in modo che gli altri non avevano più il coraggio di diventare poliziotti e lo stato si indeboliva. (Dall’inglese: “Winnie Mandela’s reputation was damaged by her bloodthirsty rhetoric, the most noteworthy example of this being a speech she gave in Munsieville on 13 April 1986, where she endorsed the practice of necklacing (burning people alive using tyres and petrol) in the struggle to end apartheid. She said, “with our boxes of matches and our necklaces we shall liberate this country”.” “La reputazione di Winnie Mandela è stata danneggiata dalla sua retorica sanguinaria, l’esempio più notevole di questo fu un discorso tenuto in Munsieville il 13 aprile 1986, dove ha approvato la pratica del necklacing (bruciare persone vive con pneumatici e benzina) nella lotta per porre fine all’apartheid. Ha detto, “con le nostre scatole di fiammiferi e i nostri collarini libereremo questo paese”). La stessa Winnie ordinò molti omicidi, fra cui, nel 1988, il rapimento e l’uccisione del piccolo Stompie Moeketsi, di soli quattordici anni, che ebbe la gola squarciata da parte dei gorilla della stessa Signora Mandela, su suo ordine, come ebbe a confessare lo stesso esecutore materiale del delitto. Metodi atroci? Sì, ma obiettivo raggiunto dai comunisti, che demolirono l’allora stato del Sudafrica. Nota a margine: a Winnie Mandela fu poi garantita l’assoluta impunità per i suoi molteplici crimini. Quindi non è vero che “il crimine non paga”, se si conquista il potere paga, eccome!
Errore strategico delle Brigate Rosse e strategia giusta
A questo punto ci si può rendere conto di come fosse “extra comunista” (cioè fuori dalla ingloriosa ma perfettamente funzionale tradizione omicida dei comunisti) e sbagliata la strategia delle Brigate Rosse di “colpire al cuore dello Stato”. Anche se erano riuscite a uccidere Aldo Moro, non sarebbero mai riuscite a uccidere le centinaia o migliaia di persone che erano ai vertici dello Stato, perché sempre troppo protette dalle forze di polizia. La strategia giusta non è “colpire al cuore dello Stato”, ma “colpire i piedi dello Stato”, togliendogli le risorse economiche su cui si nutre a nostre spese (ad esempio con la rivolta fiscale) e/o uccidendo la base che supporta lo Stato come faceva Winnie Mandela e/o, come nell’illuminante esempio dell’ufficiale della GNR, uccidergli la famiglia. Quindi bisogna colpire i piedi dello Stato, non il cuore, perché senza il sostegno dei piedi, lo Stato non potrà che crollare, come il famoso colosso sognato da Nabucodonosor, con la testa d’oro ma i piedi d’argilla. Per farne rotolare la testa basta distruggere l’argilla dei suoi piedi.
Il criterio sbagliato di equità alla luce del “dicide et impera”
Spesso si sentono lamentele che sostengono l’iniquità di un certo provvedimento legislativo “perché non fa pagare abbastanza chi può pagare di più”, “perché non fa pagare di più i commercianti e di meno gli imprenditori”, “perché non fa pagare di più gli agricoltori e meno i pensionati” ed altre mille…, ma alla fine tutte queste categorie sono riducibili a una sola: “Iniquo perché non fa pagare di meno me e di più qualsiasi altra persona che non sia io”!
Queste affermazioni sono non solo indice di egoismo, bensì miope ed autolesionista egoismo, che divide tra loro i sudditi dei parassiti che ci spolpano e lascia i parassiti impuniti! Proseguire col dividerci gli uni contro gli altri è manifesta stupidità che fa il gioco dei parassiti. Vogliamo cadere ancora vittime del “divide et impera” così noto dai tempi antichi? Non facciamo come i capponi di Lorenzo Tramaglino, che mentre venivano portati al macello presso l’avvocato Azzeccagarbugli, invece di prendersela con chi li maltrattava, erano tutti intenti a beccarsi vicendevolmente tra loro. Tutti noi, finalmente non più capponi né sudditi, dobbiamo prima individuare con la citata logica e poi punire i criminali che ci sfruttano, non prendercela con gli altri derubati!
Il nemico di tutti è lo Stato 
Ricordiamo sempre:
- Il nemico degli operai non sono gli impiegati, ma lo stato.
- Il nemico dei commercianti non sono i pensionati, ma lo stato.
- Il nemico dei professionisti non sono i proprietari di immobili, ma lo stato.
- Il nemico degli agricoltori non sono gli industriali, ma lo stato.
- Il nemico di tutti è lo stato.
- Il nemico di tutti sono i parassiti, dal presidente della repubblica (oggi Giorgio Napolitano), al presidente del consiglio (oggi Mario Monti) e a tutti gli altri sotto di loro. Morte ai parassiti! Viva la libertà e la giustizia!
Ricordiamoci che se ci muoveremo nella direzione di applicare quanto sintetizzato nei Principi Primi: “Nessuno ha il diritto di violare l’altrui diritto di disporre del proprio corpo e dei propri beni” creeremo finalmente, e per la prima volta nella storia, una società giusta e libera! L’Italia potrà diventare uno dei fari del mondo, per libertà, giustizia, progresso, crescita, ricchezza personale e generale. E staremo tanto, ma tanto meglio, moralmente e materialmente.



Antonio CIOCI

Via Principe Tommaso, 20
Tel. 0116687719
Torino


Antonio CIOCI nato a Torino l'8 giugno 1922, volontario del Reggimento "Giovani Fascisti", ideatore e curatore del Museo Reggimentale di Ponti sul Mincio (Mantova) ha pubblicato il volume "Il Reggimento "Giovani Fascisti" nella Campagna dell'Africa settentrionale 1940-43".
Il Reggimento ha combattuto nella campagna dell'Africa settentrionale con onore e valore. L'unico reparto del Regio Esercito che indossò il fez nero.

CENNI STORICI SUL REGGIMENTO
"GlOVANI FASCISTI"

10 Giugno 1940: l'Italia, con la dichiarazione di guerra alla Francia e alla Gran Bretagna, entra nel secondo conflitto mondiale. Animati da sincero entusiasmo e desiderio di partecipazione, venticinquemila giovani, provenienti dalle filae della GIL (Gioventù ltaliana del Littorio), chiedono di essere arruolati volontari per raggiungere il fronte di combattimento. Il PNF (Partito Nazionale Fascista) stabilisce pertanto la costituzione di 25 Battaglioni GIL, militarmente istruiti, che vengono impiegati in una marcia dimostrativa di 450 km, denominata "Marcia della Giovinezza". Questa si conclude, come termine del periodo di addestramento, a Padova ove sono convenuti il Capo del Governo Benito Mussolini e le autorità militari per passare in rassegna i giovani volontari. (10 ottobre 1940).


1° Battaglione "GG.FF."

Dopo la rivista, cui partecipano rappresentanze delle organizzazioni giovanili europee, i giovani apprendono, con profonda delusione, che i loro Battaglioni vengono smobilitati. Il malcontento è tale che il gruppo accampato alla Fiera Campionaria di Padova arriva ad ammutinarsi, pur di non eseguire l'ordine. Vista la reazione dei volontari, si costituiscono tre BattagIioni Speciali che riprendono l'addestramento militare.

Il Ministero della Guerra, in data 12 Aprile 1941, decide di trasformare i Battaglioni Speciali nella 3Ol° Legione CC.NN., ma dopo una settimana, non avendo i Volontari della GIL ancora compiuto il periodo di ferma regolare, ed essendo la Milizia un apparato post militare, il Ministero della Guerra si affrettava ad emanare la disposizione n. 49840 del 18 Aprile 1941, che modificava la precedente disponendo la costituzione del "Gruppo Battaglioni GIOVANI FASCISTI" quale unità del Regio Esercito. Tuttavia è loro negata la qualifica di "volontario di guerra" e vengono arruolati come volontari ordinari, dopo il consenso firmato dei genitori. Nasce così una nuova e particolare unità dell'Esercito, totalmente composta di volontari, sia per quello che riguarda i soldati semplici che i sottufficiali e gli ufficiali.

L'uniforme è quella normale della fanteria, con la differenza che al bavero portano fiamme a due punte rosse bordate di giallo (i colori di Roma e della GIL); come berretto di fatica viene adottato il fez nero dei reparti Arditi della prima guerra mondiale. (Sarà questo il solo copricapo portato orgogliosamentecon un pizzico di spavalderiadai giovani volontari. Detto per inciso, a questo reparto non era stato consegnato l'elmetto).


2° Battaglione "GG.FF."

1129 Luglio 1941 il Gruppo Btg. GG.FF. sbarca a Tripoli (Libia) con compiti di presidio ad Homs e Misurata. Successivamente subisce trasformazioni in organici ed in armamenti e viene incorporato nel RECAM (Raggruppamento Esplorante del Corpo d'Armata di Mantova) e inviato a presidiare la zona di Bir el Gobi. Al momento di comunicare il loro impiego al Comandante del Gruppo, il Generale Gambara dice testuatmente: "...ll compito è arduo; i volontari sono al primo combattimento, sono giovani...". La battaglia di Bir el Gobi inizia il 3 Dicembre e dura sino al 7. I combattimenti sono cruenti, vengono inflitte gravi perdite all'11a Brigata Indiana e a parte della 22a Brigata Guardie, accorsa in suo aiuto. Malgrado la notevole disparità di forze, i Giovani Fascisti fanno fallire il piano inglese (che prevedeva di dividere in due lo schieramento italo-tedesco), impedendo così alle forze alleate di raggiungere El Adem.

Dopo l'aspra battaglia di Bir el Gobi il Gruppo viene aggregato alla Divisione Sabratha e prende parte ai combattimenti di Buerat.

Il 24 Maggio 1942, come riconoscimento al valore dei Giovani Fascisti, viene dato questo nome ad una Divisione corazzata.


3° Battaglione "GG.FF."

Il 22 Luglio il reparto è in parte aviotrasportato a Sima (Egitto) per completarne l'occupazione. Il 30 Agosto muta la sua denominazione in quetta di "Reggimento GIOVANI FASCISTI".

L'esito della battaglia di El Alamein costringe la costituenda Divisione al ripiegamento, per evitare di essere accerchiata. L'8 Novembre la colonna militare abbandona Sima, effettuando una sosta a Giarabub dove il presidio si aggrega alla colonna stessa. Il 18 Novembre i volontari raggiungono Agedabia, dopo aver faticosamente percorso circa 10OO km, in gran parte su piste sconosciute, sotto gli attacchi dell'aviazione avversaria, che provoca perdite umane e di mezzi; nel ripiegamento sono andati perduti gli unici due carri armati M.14 della Divisione. Il Reggimento è ritenuto ancora efficiente al 95% e quindi impiegato come retroguardia a copertura delle forze italo-tedesche.

Gennaio 1943: con l'abbandono della Libia, il Reggimento partecipa a diversi combattimenti e nel Febbraio si attesta sulla ex linea fortificata francese al Mareth (Tunisia). In questo periodo giunge dall'Italia il III° Battaglione che viene sciolto per reintegrare le perdite del I° e del II°. La battaglia del Mareth, 17-30 Marzo, vede i volontari impiegati in violenti combattimenti, rioccupando alcuni capisaldi all'arma bianca. Ma il ripiegamento della I° Armata è inevitabile. Il Reggimento si batte ancora all'Akarit Chott per poi attestarsi sull'ultima linea di resistenza a Enfidaville. Subisce perdite negli scontri della prima e delta seconda battaglia di Enfidaville, avvenute rispettivamente dal 19 al 3O Aprile e dal 9 al 13 Maggio. Nel corso di queste battaglie il Reggimento difende tenacemente, anche all'arma bianca, la quota 141 più volte perduta ma rimasta in sua mano sino alla cessazione delle ostilità.

Il 13 Maggio, per ordine superiore giunto da Roma, il Reggimento è costretto alla resa, dopo aver distrutto o bruciato armi e materiale. Le fiamme di combattimento del II° e III° Battaglione vengono interrate assieme ai documenti; quella del I° è invece suddivisa in diciassette parti e consegnata a volontari ed ufficiali affinché la ricompongano una volta rientrati in Patria (la fiamma è stata ricostruita in parte e si trova nel Museo Reggimentale). Il reparto perse la metà degli effettivi. Il sacrificio dei Giovani Fascisti è comprovato da 2 Medaglie d'oro al Y.M. e da 117 altre decorazioni.

Il Reggimento Giovani Fascisti è stato l'unico reparto del Regio Esercito Italiano ad essere totalmente composto da Volontari. È anche l'unico reparto a non aver ricevuto la "Bandiera di combattimento".


Cosa scrivevano i giornali

Forze partecipanti alla Marcia della Giovinezza
UfficialiSottufficialiVolontari
Presenti a Padova, Prato Valle57998519.345
Presenti a Boane e Monselice60632.620
Totale6391.04821.965
A sinistra:
I Giovani Fascisti sui campi della Cerenaica respingono gli attacchi dell'aviazione nemica
accanto ai loro camerati più anziani.



A destra:
nella battaglia dell'Africa settentrionale il Giovane Fascista Nicolini balza sopra un carro armato nemico
e tenta di aprirne la torretta. Cade nel compiere l'eroico gesto.



Le medaglie

1Commemorative di Vicenza
2Medaglione di Padova concesso ai Comandanti di Btg.
3Commemorativa adunata di Padova
4Marcia della Giovinezza (in argento per Ufficiali)
5Battaglione Reggio Calabria
6Marcia della Giovinezza (vermeille per Volontari)
7Battaglione Genova
8Battaglione Roma
9Medaglia concessa al passaggio da Brescia
10Medaglia donata dai fascisti Pisani
Retro delle medaglie



Le cartoline

CARTOLINE UFFICIALI
DEL "GRUPPO BTG. VOL. GG.FF."
Edizione Boeri



I calendari




Le uniformi

UNIFORMI DELLA MARCIA
DELLA GIOVINEZZA E DEI BATTAGLIONI SPECIALI
ITALIA 1940
UNIFORMI DELLA 301° LEGIONE CC.NN.
ITALIA 1941
UNIFORMI DEL GRUPPO BTG.GG.FF.
E REGGIMENTO GG.FF.
ITALIA ED AFRICA SETTENTRIONALE 1941-1943
UNIFORMI DEL GRUPPO BTG.GG.FF.
E REGGIMENTO GG.FF.
AFRICA SETTENTRIONALE 1941-1943
UNIFORMI DEL GRUPPO BTG.GG.FF.
E REGGIMENTO GG.FF.
AFRICA SETTENTRIONALE 1941-1943

Indice del
museo virtuale



Patria! un mito immortale

Quale piacevole sorpresa sentir pronunciare la parola Patria dal Presidente della Repubblica italiana. Da tanto tempo questa parola magica era stata bandita dal vocabolario; espressione da fascisti, da nostalgici illustri, parola che richiamava alla memoria anni di Gloria di cui vergognarsi! Per anni giornalisti e politici ci hanno spiegato che la Patria non era da identificarsi con i miti "fascisti" di un'Italia grande, potente e rispettata, che le parole "onore" o "gloria" mal si addicevano a paesi a vocazione umile e modesta come l'Italia, che le ambizioni di primeggiare con Nazioni come l'Inghilterra ci avevano meritatamente portato al disastro e che quindi dovevamo, con la cenere sul capo, essere contenti e grati di essere stati liberati da questi sogni di grandezza. Ancora più dovevamo gioire di gratitudine per i1 privilegio concesso di aver contribuito alla vittoria delle Potenze anglosassoni avendone in cambio l'onore di mandare i nostri soldati vestiti con la gloriosa uniforme dell'esercito britannico, con in testa la "padella" britannica e agli ordini di ufficiali britannici!

Ma ecco un lampo di orgoglio nazionale e patriottico! Meglio tardi che mai. Il vento cambia... occorre manovrare le vele per tenersi in rotta col nuovo vento! Una riflessione, tuttavia, diventa doverosa e spontanea: perché il signor Ciampi si ricorda della Patria nel 2002 e non ne ha fatto cenno nei lunghi anni trascorsi, anni in cui era autorevole esponente della Banca d'Italia, simpatizzante della sinistra e infine Capo del Governo?

Pentimenti da prossima estrema unzione? Persecuzione di notturni fantasmi? Memorie di gioventù quando lui, avanguardista in camicia nera, cantava a squarciagola gli Inni della Patria che ora vorrebbe ascoltare da giocatori di calcio il cui cuore palpita esclusivamente al suono dei miliardi e non a quello della fanfara? Chissà! Immaginiamo un Ciampi in grigioverde pensoso sulle scelte da fare all'annucio della capitolazione! In quel giorno maledetto, la parola Patria aveva pero il quo univoco significato e ciascuno cercò di attribuirgliene un altro più adatto alle proprie idee e alle proprie esigenze rinviandone la verifica alla conclusione dei giochi!

Il gesto patriottico di Ciampi sarebbe comunque un gesto nobile se tale improvviso amor di Patria non venisse accompagnato dall'ignobile tentativo di far diventare "patriottico" 1' 8 settembre, il passaggio e la accettazione della sudditanza al nemico, i servigi a lui resi fino alla collaborazione con le truppe di Tito contro la vera Patria. Obbrobriosa la pretesa di associare in questo fumoso patriottismo la cosiddetta resistenza e la politicizzazione della guerriglia partigiana dimenticando le viltà, gli orrori, le stragi, le persecuzioni e le ingiustizie da questa generati e perpretati.

La Patria, ora rievocata, fu pugnalata a morte in quei giorni presidente Ciampi! Fu tradita da coloro che, invece di "offrire il petto alle nemiche lance" come certamente Le fu insegnato sui banchi di scuola, passarono al nemico, cercarono scampo nella fuga, si nascosero nei conventi o nelle baite in montagna, attesero in rifugi più o meno tranquilli che passasse la bufera.

La Patria fu distrutta nel momento stesso in cui Le veniva tolto l'Onore! Onore parola astratta per chi non sia stato abituato a coltivarne il significato altamente morale e anch'esso univoco. L'Onore non si discute, non si baratta, non si adatta alle esigenze del momento, non si piega a interpretazioni e significati di comodo. L'Onore fu gettato nel fango quando, in modo surrettizio e menzognero, si tradì l'alleato, si tradirono i combattenti caduti su tutti i fronti e si tentò di ribaltare furbescamente una sconfitta umiliante in "alleanza" mai esistita.

Non esiste la Patria se non esiste l'Onore di un popolo e il voltafaccia dell'Italia è scritto a lettere infami nella Storia dell'Umanità. Mazzini stigmatizzava un ventilato voltafaccia italiano contro la Prussia e a favore della Francia: "un delitto che imprimerebbe una macchia incancellabile sulle nostre bandiere"! Grande figura Mazzini!

Il Presidente della repubblica ricorderà certo che gli Inni della Patria erano parte della educazione dei giovani che cominciava a quattro anni. Sicuramente Ciampi avrà imparato a cantare in coro vestito da Figlio della Lupa, insieme a "Giovinezza" e "Fuoco di Vesta" alla "Canzone del Piave" anche l'Inno di Mameli. L'Inno veniva insegnato a scuola e gli insegnanti, ancora non comunisti, spiegavano ai ragazzi attenti che quell'inno andava cantato e ascoltato stando sull'attenti e non mettendo una mano sul taschino della giacca (pensando di porla sul cuore che lì non c'è!), era stato composto da Goffredo Mameli caduto eroicamente nella difesa della Repubblica Romana. E' un Inno dove si parla della Italia che si desta dal secolare sonno di rinuncia e di assuefazione al ser­vaggio, della Vittoria schiava di Roma, ecc. Tutte considerazioni che dal dopo guerra vengono rin­negate. Come supporre che ragaz­zi educati a glorificare le "lotte di classe" possano improvvisamente sentirsi fremere di impeto patriot­tico e da ardore garibaldino? L'Italia dei giovani ha subito per troppo tempo la nefasta propagan­da comunista che negando la Patria, si è infiltrata nelle scuole, nelle università, nell'esercito, nelle magistrature dello Stato, nei gangli vitale della Nazione ribat­tezzata Paese. Tutti ricordano ancora, e Ciampi certamente lo ricorderà, la propaganda comu­nista favorevole alla cessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia, la strage dei partigia­ni che si opponevano alla subor­dinazione al II Corpus titino, la propaganda antipatriottica quan­do gli studenti manifestavano per il ritorno all'Italia della zona A e della zona B.
Propaganda che condannava il fascismo accusandolo di aver scelto una politica "megaloma­ne", di aver montato la testa ai giovani e di averli illusi prima che intervenissero i saggi "alleati" a convincerci che l'Italia poteva, al massimo, essere un Paese per turisti in viaggio di nozze! Come si può pretendere che venga cantato l'Inno quando l'Italia è ridot­ta a una Nazione inerme? Per quale motivo dovrebbe cingersi la testa dell'Elmo di Scipio? Per quali memorabili imprese belliche? O forse l'Elmo di Scipio è stato modernizzato in casco da motocicletta per assalti "antiglo­bal" alla polizia? Sono domande che non hanno risposta. La tradi­zione risorgimentale, continuata dal fascismo e dal combattenti­smo nazionalista, fu interrotta dalla capitolazione vergognosa e dalla pretesa di contrabbandare per eroiche le azioni delittuose e terroristiche. Non si può, come fu fatto, condannare a morte valorosi combattenti, strappar loro le medaglie conquistate sul campo dell'onore e regalarle a piene mani a chi si macchiò di atti terro­ristici gabellati per azioni di guer­ra! La bomba di Via Rasella, gli assassini proditorii di combattenti in divisa non sono atti gloriosi ma atti ignominiosi. Se non sarà rista­bilita la verità dei fatti e il riequi­librio dei valori, se non si resti­tuirà l'onore a chi ha combattuto con valore e con lealtà alla Patria, se non si condanneranno una volta per tutte le imboscate, le imprese e gli atti terroristici, il voltafaccia e il doppio gioco, la pretesa idiota di aver vinto una guerra solo perché si è pensato di dare una mano a perderla, se infine non saranno condannati, ormai solo moralmen­te, gli autori dei tanti eccidi e vili stragi del dopoguerra, se non si renderà omaggio ai caduti per la Patria, se non tornerà ad essere celebrata la virtù del coraggio e della Fede contro 1'op~smo e la viltà, se..., fino ad allora l'Inno della Patria non avrà alcun
valore e significato.     ‑

Signor Ciampi, nel Suo nascondi­glio abruzzese, prima di incammi­narsi sul sentiero della Majella per raggiungere la "libertà", sen­tendo il rombo del cannone, ha mai pensato agli italiani lasciati inermi in balia delle orde titine da soldati e ufficiali che, al momento della resa, non ebbero altro pen­siero che quello di abbandonare il proprio posto di combattimento per quell'ordine di "Tutti a casa", mai impartito ma da quasi tutti eseguito, che portò allo sfacelo di un esercito glorioso, all'abbando­no di terre italiane, alla ignominia e al servaggio? Armi e soldati ita­liani al servizio delle orde slave distruttrici della presenza e delle vite italiane!!
Queste considerazioni, Signor Ciampi, non cessano di tormenta­re chi, da sempre, nutre e ha nutrito nell'animo l'amore per la Patria, chi è stato educato a consi­derarla al disopra di ogni altra cosa, chi profondamente sente che l'insegnamento che ci viene dalla tradizione ha maggior valore delle affermazioni di circostanza e con­venienza.
Se davvero crede che la Patria debba tornare a vivere e ad essere amata, se l'Inno deve avere un
significato, occorre che si torni a studiare la Storia, non quella fasulla della resistenza ma quella vera degli Eroi e dei Martiri, si glorifichi il coraggio e la lealtà e non si gabelli per la scelta di libertà la collaborazione con lo straniero e la partecipazione alla sconfitta della Patria con la scusa falsa della lotta alla dittatura.
Falsità in cui lo sappia bene il Signor Ciampi, nessuno a mai creduto!     _

                                                                                La Redazione

Di Nuova Continuità ideale


CAMPO 25 REPUBBLICANI FASCISTI – YOL (INDIA)

II Campo 25 degli Ufficiali e Soldati in mani inglesi che dopo l'8 settembre 1943 si erano dichiarati non cooperatori ostili in quanto cittadini e soldati della RSI ebbe vita dal 15 gennaio 1944 all'1 dicembre 1946.

Inizierò dal 26 luglio 1943 a Yol, sotto l'Himalaia, zona sismica in attività permanente con precipitazioni monsoniche di 4 mila mm ogni anno e ambiente malarico e dove imperversa la "malattia delle colline", a lungo decorso spesso mortale. I prigionieri, da anni, vi sopravvivevano isolati e con poche notizie dalla stampa inglese per l'India, da discontinue lettere con le famiglie e dal Bollettino italiano ad onde corte per l'Estremo Oriente di Radio Coltano, captata in modo clandestino.

Quel giorno gli altoparlanti posti al margine dei Gruppo Campi annunciarono che il Gran Consiglio dei Fascismo aveva espresso un voto di sfiducia a Mussolini, messaggio ripetuto con insistenza e preceduto dalla Marcia Reale: per noi significava che gli alti gerarchi PNF, rinunciando al proprio compito istituzionale, avevano tradito i fascisti e il loro Capo.

Dolore e disorientamento si diffusero fra i 10 mila Ufficiali rinchiusi nelle 5 Ali di ciascuno dei 4 Campi (25‑26‑27‑28) isolati fra loro da doppi reticolati o da strade, con difficoltosi scambi reciproci di notizie. Si determinarono quindi 20 situazioni affini, ma non identiche, manovrate da ogni Comandante di Ala verso uno scopo determinato. Riferisco quanto avvenne nell'Ala 1 /A dei Campo 27 nella quale a seguito di uno sfortunato tentativo di fuga ero stato trasferito da qualche mese. II comandante era il Col Gloria , reduce della guerra d i Spagna, brillante oratore e fervente fascista. Aveva anche preteso di rappresentare il PNF distribuendo tessere da lui firmate come Segretario della Sezione. II mio rifiuto a questa ridicola autocarica mi aveva fatto qualificare di scarsa fede e segnare su una lista apposita dei Cap dei Carabinieri, previo obbligo di ricevere la tessera. Eravamo tutti frastornati dopo l'incredibile colpo di Stato, ma l'annuncio della continuazione della guerra e le assicurazioni dei nuovo Governo agli alleati Germanici alimentavano le nostre speranze facendo accantonare per il momento rancori e problemi. Ben presto le illusioni crollarono. Le notizie sulla stampa indiana quelle filtrate dalla Radio clandestina ci resero sospettosi, incrinando i rapporti gerarchici. I dissenzienti si riunirono in piccoli gruppi. Iniziarono gli screzi con altri gruppi con chiaro orientamento politico avverso al Fascismo. Infine la situazione bellica sfavorevole fece sorgere accese contestazioni. II Col Gloria ordinò di distribuire nelle baracche una Circolare richiamando le norme dei Codice d'Onore in caso di controversie fra Ufficiali, da firmare per presa visione. Rifiutai ritenendo insultante il semplice sospetto che lo ignorassi. Fui punito con 10 gg. di arresti semplici in baracca. Cominciavamo a vivere in un incubo, qualche grave evento era previsto, mai però così tragico come l'8 settembre. Quella notte fummo svegliati dagli Inglesi ubriachi che ci gridavano "unconditional surrender". AI mattino, dopo una notte insonne piena di angoscia, gli altoparlanti che avevamo invano tentato di far rimuovere o di sabotare, ci ossessionarono con il noto comunicato, equivoco, annunciante l'armistizio (ben diverso dall'interpretazione inglese) e la necessità di salvare il salvabile. Allora capimmo l'ignominioso progetto del Governo, il tradimento dell'alleato, l'avallo di una Monarchia che non aveva saputo ripetere l'Atto di Peschiera. Nel Campo la situazione era molto tesa. Quelli che non accettavano la sconfitta disonorevole si misero allo scoperto. II Col Gloria chiese con Circolare distribuita nelle baracche che ciascuno rinnovasse per iscritto il Giuramento al Re. Si verificarono rifiuti, intimidazioni, casi di coscienza tormentosi che portarono persino a suicidi. Dato che oltre il 10% degli Ufficiali dell'Ala si erano rifiutati di firmare, venne convocata sull' Anticampo della conta un'assemblea a ranghi completi. II Col Gloria, in burnus e berretto rigido con galloni dorati, affiancato dal Comandante Inglese, dal maltese Speranza dell'Intelligence Office e protetto da due mitragliatrici spianate sui prigionieri schierati, tenne uno di suoi accesi discorsi, questa volta sfacciatamente "voltagabbana". Ci chiese categoricamente:
"Chi è con il Re e chi è contro il Re".

Dopo la divisione mediante uscita dalle file dei "contro" gli Inglesi inviarono subito in prigione una quindicina di questi, presi a caso. Gli altri vennero consegnati in due baracce. Eravamo circa una sessantina, indicati ironicamente i ribelli dei RIF (Repubblicani Italiani Fascisti), per assonanza con i ribelli marocchini. Dovevamo anche mangiare nella baracca e recarci a gruppi ai locali docce e servizi per evitare di essere aggrediti da squadre di volontari Ufficiali e di "allievi carabinieri" che il Col Gloria aveva costituito. Intanto alcuni designati fascisti o gerarchi e i corrispondenti di guerra erano stati trasferiti d'autorità all'Ala 3 dei Campo 25. Quelli rimasti nelle due baracche comparivano in Elenchi esposti all'Albo degli Avvisi con minacce di Corte Marziale sotto il titolo: Morte ai traditori! Non poteva durare e così una mattina sul Campo della conta si giunse allo scontro diretto. I ribelli difesero duramente i loro diritti ed ottennero un accordo firmato dal Comandante dei Campo e dal Cap Buccella, il più elevato in grado fra noi, che sanciva la fine dell'isolamento, la libertà di opinione, la dispensa dal "Saluto al Re", parità di diritti nel Campo e dove possibile, separazione. Da parte nostra si assicurava il rispetto dei regolamento militare. Finalmente dietro nostre insistenze e l'inevitabile perdurare della tensione che si aggravava sempre più fu deciso dagli Inglesi il concentramento di tutti i non cooperatori in un Campo omogeneo, appunto il 25 (da cui erano stati spostati i monarchici), sotto il comando dei Gen Gambrosier. Ci ritrovammo in circa 1,500. Fra essi quasi tutti gli Ufficiali Paracadutisti dei Col M.O.VM. Tonini coi quali avevo condiviso la inesplicabile sconfitta di Agedabia, amici dei Campi precedenti, colleghi dei mio 2° Articelere, compagni d'infanzia e di studio. Respiravamo una inebriante aria di rinnovato Combattentismo, una sensazione di libertà interiore sofferta e conquistata. Fu unanimemente deciso di dar vita ad un Campo esemplare di Militari ostili. L'andazzo di rilassamento, che aveva sopraffatto la massa di sconfitti e rassegnati, fu bandita. Disciplina, uniforme, comportamento nei ranghi anche nelle estenuanti attese delle conte e delle file spesso sotto la pioggia, rappresentarono l'espressione della nostra rigorosa dignità. Pur debilitati fisicamente, riuscivamo nel nostro impegno con una compatta solidarietà. Gli Inglesi ci osservavano con curiosità, poi lentamente capirono che pretendevamo rispetto e, a dire il vero, ne presero atto; giunsero persino a togliersi il berretto quando entravano nelle nostre baracche. Intanto avevamo captato, con la Radio clandestina (ricostruita dopo che i Colonnelli avevamo consegnato le precedenti agli Inglesi dicendo che ormai non ne avevano più bisogno dati i nuovi rapporti), la formula dei Giuramento che le Unità della RSI avrebbero prestato il prossimo 9 febbraio 1944.

Con l'autorizzazione dei Detentore, il Gen Gambrosier ci fece riunire nello stesso giorno dei Camerati "in armi" iniziando la Cerimonia dall'Ala 1 /A, scendendo successivamente alla 1 /B, alla 2/A, alla 2/B ed infine alla 3 lungo lo scosceso fianco dei monte Nodrani sul quale era costruito il Campo. In ogni Ala gli Ufficiali schierati ascoltarono la lettura dei Giuramento alla RSI ed alla richiesta "Lo giurate voi?" risposero a voce altissima: "Lo giuro!", un grido che echeggiò fin nella valle ove gli Indiani avevano già avuto sentore della nostra ribellione. L'elenco firmato da ciascuno di noi fu notificato al Comando Inglese. Iniziò così la vita di questa "Repubblica Fascista dell'Himalaia", nel Punjab, come l'ha esattamente definita in un suo recente libro Leonida Fazi, un avamposto della più grande Prima Repubblica sorta in Italia. Avevamo con la nostra posizione perduto la Potenza protettrice, la Spagna, che in quel delicato momento dovette rinunciare per motivi politici. II nostro Comando fece avanzare richiesta al Governo della Turchia, ma anche questa Nazione, pur con rammarico come ho personalmente accertato nel dopo guerra, non poté accettare l'incombenza. Allora il Comando fece per iscritto noto alla Croce Rossa ed agli Inglesi che la nostra salvaguardia era assicurata dalla vita dei prigionieri Alleati in mano alle Forze dell'Asse. Era solo una formalità e non ce ne preoccupammo oltre. Infatti pure i Rappresentanti della Croce Rossa in visita ci dicevano che potevano fare "ben poco", che significa­va: niente!
Anche esteriormente quelli dei Campo 25 si distinguevano. Aveva­mo tolto le stellette e come distintivo di grado portavamo sul petto un rettangolino di cuoio nero con sopra un fascio e barrette di colore rosso. Gli Inglesi ci avevano pronosticato tre anni di prigio­nia come punizione anche se la guerra fosse finita prima e furono buoni profeti. Ci tenevamo molto attivi fisicamente ed intellettualmente; avevamo fra noi il fior fiore dei Combattentismo. Moltissimi i deco­rati al Valor Militare, fra cui le Medaglie d'Oro Burroni, Pastorino, Bastiani, Sabbatini. Avvicinandosi il 28 ottobre, che certamente avremmo commemorato con solennità, gli Inglesi in accordo con i badogliani ci sottoposero una lettera inviata dall'Alto Commissario per i prigionieri Piero Gazzera al Gen Claudio Trezzani PW a Monticelli (Arkansas‑U.S.A.). La lettera venne prima letta per 5 giorni conse­cutivi dal maltese Speranza agli Ufficiali riuniti per le 2 conte gior­naliere e quindi distribuita singolarmente perchè venisse accettata o, previa motivazione, respinta. In sostanza gli ordini dell'Alto Com­missario consistevano nel dover riconoscere lo scioglimento della M.V.S.N., la proibizione dell'uso dei "voi", l'abolizione dei saluto romano senza copricapo. Tutti rifiutarono di obbedire a tali ordini con varie motivazioni fra le quali le più usate furono: dichiaro di non accettare questi ordini perché cittadino e soldato della RSI. Dopo la consegna delle dichiarazioni firmate, gli Inglesi vollero ef­fettuare una controprova dell'imprevista unanimità con un interro­gatorio singolo riservato. All'improvviso, durante la conta del mat­tino in una tenda posta a cavallo fra il Campo e l'Anticampo ove si scioglievano le righe e dopo essere stati controllati, i prigionieri erano convocati nominativamente da due Ufficiali dell'Intelligence Office che chiedevano conferma della firma. Se qualcuno aveva cambiato idea o firmato sotto costrizione poteva in segreto firmare la sua accettazione degli ordini. La totalità respinse l'invito con grande soddisfazione dei Comandanti Inglesi delle Ali che avevano fatto scommesse in proposito con i colleghi dei Campi badogliani. Improvvisamente 61 Ufficiali furono chiamati per essere trasferiti al Campo 27/3. Alle proteste, il Comando giustificò il movimento perchè trattavasi di elementi perturbatori e con altre vaghe, fittizie accuse. Rientrarono dopo un mese avendo scontato 28 giorni di prigione perchè "portavano un distintivo di grado diverso da quello regola­mentare". Eravamo arrivati al 1945, annunciato con freddo e neve. Poi una proibizione dopo l'altra, e per primo il saluto romano: il distintivo doveva essere approvato, l'anno fascista nelle lettere, pena la distruzione, non poteva essere scritto. Anche il Gen Gambrosier venne trasferito, sostituito dal Col Miglietta. Questi, in data 6 feb­braio 1945, per qualificare definitivamente la nostra posizione di Combattenti anti‑Alleati, autorizzò a portare sul petto oltre al nastrino verde‑rosso della Guerra anche quello della Medaglia commemorativa dell'Anniversario della firma dei Patto Tripartito (azzurro sormontato ai lati dai tricolori italiani e germanici ed al centro dal bianco rosso giapponese). Intanto inesorabile si avvicinava il crollo. Giunse fra i fuochi d'artificio e salve d'artiglieria al­l'esterno e vuoto e silenzio fra noi. II Gen Gambrosier era tornato e nuovamente trasferito. Prima di lasciarci convocò tutti i compo­nenti il Campo 25 sul grande piazzale che avevamo costruito per le attività sportive, scavando la roccia a monte ed elevando una muraglia in pietra da 5 a 7 metri di altezza a valle. Un'opera ciclopica che ancora esiste e resiste. Tutti i 1500 in divisa con casco colonia­le, molti in camicia nera, con i volti che mostravano i segni dei

dolore, ma non quelli della disperazione, si disposero in ordine perfetto. II Comandante espresse brevemente i nostri comuni sen­timenti poi ordinò il minuto di raccoglimento, infine con voce ferma gridò "Saluto al Duce" e "Saluto al Führer" e noi sull'attenti rispon­demmo A NOI a entrambi i saluti con dirompente violenza. Gli In­glesi assistevano composti in silenzio e rispettarono il nostro dolo­re. Evitarono quel giorno di convocarci per la conta. Questo grido però diede il via a subdoli tentativi di smembrare la compattezza dei Campo 25. Un nuovo Comandante, il Col Marenco, cominciò col ricordarci che la guerra in Europa era orami finita e che dove­vamo essere orgogliosi di aver dimostrato fede e dignità con tanta tenace volontà. Anche ad Oriente la guerra, la nostra guerra, si stava concludendo. Nel Campo maturavano i frutti della discordia. Alcuni firmarono una accettazione degli ordini presentatici l'anno precedente. Gli Inglesi dicevano che gli elenchi dei Campo 25 era­no negli archivi di Yol, di Simla al Comando dei Gruppo Campi PW e a Roma. Però questa accettazione sarebbe stata una specie di sanatoria. II Col Marenco non ci convinceva più, Non prendendo una netta decisione, dichiarava di essere al di sopra delle parti. Dopo l'olocausto atomico in Giappone, gli Inglesi tentarono un al­tro colpo: un interrogatorio personale riservato fatto il 26 ottobre 1945 dagli Ufficiali dell'Intelligence Office per raccogliere firme di adesione. Purtroppo questa volta gli Inglesi registrarono un discreto successo. Furono 600 i "firmatari" che con spostamenti interni si trasferirono nelle Ali 2/A e 2/B ove le guardie indiane vennero so­stituite da Carabinieri. 1900 "irriducibili" saturarono le Ali 1 /A, 1 /B e 3. Per distinguerci portavamo un distintivo di ottone a foggia dei grado e il numero dell'Ala e dei Campo punzonato sopra. Tutti i ripetuti ordini inglesi furono inosservati. Usati saluti romani e cami­cie nere, data Era Fascista sempre scritta nelle lettere e naturalmente l'uso dei "voi", ostentato. II comportamento causava giorni di pri­gione, ma in genere le infrazioni erano tollerate o ignorate (*).
Nei primi mesi dei 1946 alla Camera dei Lord a Londra venne pre­sentata una interpellanza per aver spiegazione sulla notizia che in India a guerra da tempo finita, esisteva un gruppo di italiani, pri­gionieri, che non accettava la situazione e persisteva nel conside­rarsi ostile alle Potenze vincitrici. Preannunciata, arrivò poco dopo, nel marzo, una Commissione di tre Parlamentari. Gli ultimi soldati della RSI schierati sotto le pensiline delle baracche in perfetta uni­forme, a capo scoperto e in silenzio, salutarono romanamente gli impassibili visitatori. Dopo una decina di giorni da Londra vennero comunicate le nuove razioni, ridotte, per i PW in mano inglese: agli ostili 900 calorie e agli altri 2900.
Iniziò un altro monsone, il periodo delle ossessionanti piogge. Per questi uomini duri a morire come ci chiamavano, gli Inglesi pro­spettavano un trasferimento in un Campo speciale in zona desertica oltre Quetta verso il confine con l'Afganistan. Invece, improvviso, a novembre, su sollecitazione dei Governo Indiano che stava per assumere il potere iniziò il rimpatrio in due scaglioni. Con la par­tenza dell'ultimo scagliole il primo di dicembre, il Campo 25 cessò di esistere.
Ho scritto questi appunti la sera del 28 novembre 1993. Domani 29 ricorre il 47° anniversario dei mio rientro in patria. Ero infatti stato incluso nel primo scaglione per "deperimento e malaria" sebbene ripetutamente destinato per punizione all'ultima nave.

                                                                          Glauco Luchetti

(.) All'inchiesta a Roma nella Caserma Castro Pretorio, sono stato punito con 10 gg. di arresti di rigore: per avere dopo l'8 settembre 1943 aderito alla RSI e chiesto di essere trasferito in un Campo destinato ad accogliere elementi di fede fascista.


Da ACTA Dell’istituto storico della RSI


APR052012
14:26
LIBRI E CATALOGHI
Da El Alamein a Marconi. Grazie alle lettere
Un evento casuale, la riscoperta delle missive scambiate fra i genitori, la storia ritrovata: il monumento che i prigionieri di guerra italiani eressero in memoria dello scienziato
Bruno Porciani, cui si deve il progetto

Il francobollo per la “Folgore” uscirà il 23 ottobre, così da ricordare la battaglia di El Alamein. Nel frattempo, è arrivato un libro che la riprende concentrandosi su un particolare elemento. È “Da El Alamein a Marconi - Mio padre e il monumento dei pow al campo 61 di Wynols Hill” (256 pagine in bianco e nero, 15,00 euro, Sandit).
A scriverlo, Laura Porciani. È la storia del monumento a Guglielmo Marconi, costruito con materiali di recupero dai prigionieri di guerra (prisoners of war) italiani nella struttura di Wynols Hill, Coleford, quindi Regno Unito. Venne progettato dal sergente Bruno Porciani; inaugurato il 25 dicembre 1944, misurava circa 17 metri di larghezza e 18-20 di altezza.
La ricerca, spiega l'autrice, “inizia con la scoperta per caso di un «tesoro» conservato da mia madre”. Erano le lettere spedite dal marito Bruno dalla guerra e dalla prigionia, prigionia da cui tornò soltanto nel 1946 (è scomparso nel 1965). Nella vicenda, le missive assumono un ruolo particolare. “Mia madre le voleva sempre a portata di mano, quindi erano sempre in giro per casa, perché le leggeva e rileggeva ogni giorno, per questo le aveva quasi consumate, ma per me erano divenute parte dell'arredamento… mi passavano inosservate. Un giorno, caddero tutte per terra. Raccogliendole una per una mi accorsi, con sorpresa, che provavo piacere a guardarle, a toccarle. Sentii improvvisamente una specie di appartenenza a quei fogli, provai emozione e presi finalmente coscienza della loro esistenza. Fu in quel preciso momento, circa sette anni fa, che è cominciata questa storia”. Le epistole “mi fecero rivivere l'ambiente di quel periodo, dove non mancavano i problemi, le preoccupazioni, l'incertezza per il futuro… le piccole e grandi meraviglie di un nucleo familiare povero ma duraturo negli affetti”.
Leggendole, la signora si è imbattuta per la prima volta nell'opera dedicata all'inventore della radio. Per saperne di più è stata due volte sul luogo, in Inghilterra. E non è una combinazione se in quella zona lo scienziato condusse gli esperimenti dimostrativi che contribuirono a convincere le autorità britanniche di quanto la sua invenzione fosse valida. “Ho conosciuto gente che si ricordava del monumento e che mi ha raccontato fatti e storie dell'epoca, ho potuto visitare il sito dove fu costruito e ho scoperto alcuni dei resti ancora esistenti. Sono pochi ruderi, piuttosto malridotti, ma il mio desiderio sarebbe poterli recuperare e conservarli, magari allestendo un piccolo angolo-museo”. Intanto, ha cominciato a lasciarne traccia nel libro.

Il monumento, ora non più esistente, costruito dai prigionieri italiani del campo 61 di Wynols Hill, a Coleford


«FOLGORE»
STORIA DI UNA TESTATA

UN'IDEA FATTA DI CUORE


Ho superato la trentina, mi considero quindi nella maturità e desidero fare il punto della mia travagliata esistenza di... testata: consentitemi, cari lettori, un po' di spazio tutto per me: questo è necessario in quanto voi lettori vi dividete in due grandi gruppi: i vecchi (scusate, volevo dire gli anziani) ed i giovani: i primi sanno abbastanza di me e delle mie traversie, i secondi sanno solo ben poco.

E' necessario premettere che questi miei trenta anni si dividono in quattro grandi periodi: il « militare », il « silenzio », il « privato » ed infine quello attuale, ovvero « l'associativo ».

Cominciamo dal primo periodo: quello militare: 1943‑1946.

Riportiamoci alla fine del 1942: in A.S. la Divisione « Folgore » ha stupito più che gli Italiani, il nemico, cioè il mondo intiero.

Il mio fondatore il Col. Bechi Luserna, stava volando verso l'Italia con uno degli ultimi aerei riusciti a decollare, con in tasca l'ordine preciso di rientrare a qualsiasi costo per riprendere il posto di Capo di S.M. presso la nuova Divisione Paracadutisti Italiani, la «Nembo»: questo giovane ufficiale era stato l'animatore della Divisione, con i suoi scritti e le sue parole ne aveva forgiato il carattere, così come il Papà Badouin a Tarquinia, con la preziosa collaborazione di quel gruppo d'istruttori forgiati all'ombra delle bianche statue del Foro Italico, era stato l'organizzatore e ne aveva forgiato il fisico.

Proprio durante quel tempestoso volo, il giovane ufficiale che malvolentieri aveva obbedito all'ordine di rientro e al esser stato costretto ad abbandonare il suo posto nel momento più critico, andava pensando come ricordare quelle giovani vite immolatesi e si rammentò che prima di essere ufficiale, prima di essere cavaliere, prima di essere paracadutista, era uno scrittore ed un giornalista: la testata era già stata concepita, la gestazione durò pochi mesi.

La « Nembo » costituita si trova in Firenze: stesso itinerario della sorella « Folgore »: nelle casermette di Rovezzano echeggiano gli stessi canti, l'Arno sornione, vede rientrare a notte fonda gruppetti di baschi verdi, i fiorentini malignetti ed arguti rivedono per le loro vie i « cala ...mai », le ragazze fiorentine si rifanno il loro paracadutista... personale e nasco io « Folgore ».

Il primo numero vede la luce nei primi mesi del 1934, senza data precisa, in via dei Macci 17, in Firenze presso l'Industria Tipografica Fiorentina: questo numero arieggia a quotidiano con uno strano formato 55x40: strano formato che sarà dipeso dalla disponibilità di carta da utilizzare: la Direzione è Anonima, L'Ufficiale « A » della Divisione: noi leggiamo Umberto Bruzzese, paracadutista e giornalista.

In questo mio primo periodo di vita, quello « militare », ho una caratteristica tutta mia particolare: avrò cambiato una mezza dozzina di testate: ovviamente mi dimenticavo delle varie tipografie delle varie Città ove peregrinavo al seguito dei Reparti: e così il numero successivo usciva con una testata diversa e così via.

Naturalmente in questo mio primo periodo di vita, quello « militare » dal 1943 al 1946, ho avuto una vita molto saltuaria e stentata; seguivo l'Ufficio « A » della Divisione, alla mia Direzione si avvicendavano gli Ufficiali dell'Ufficio « A »: ricordo solo i nomi del primo e dell'ultimo: Umberto Bruzzese e Roberto Podestà: da Firenze a Firenze. Infatti il primo numero era nato a Firenze ed anche l'ultimo è finito a Firenze nell'ottobre del 1946.

In questo periodo militare ho avuto naturalmente una continuità particolare; dipendeva dalla disponibilità di cassa della Divisione, da quella di carta nelle varie tipografie dove venivo cullata, ma è il periodo in cui ho avuto lo spirito più giornalistico, spigliato, dovuto anche ai disegnatori che hanno collaborato ad animare le mie pagine, se ricordo bene un illustre disegnatore dell’epocta Boccasile, mi dedicava ogni volta una pagina. Sono finita come formato al 25x35, insomma una rivista vera e propria e con il colore!

Non posso dimenticare di dire che in questo mio primo periodo ho avuto una mia doppia vita: uscivo infatti nel Sud e nello stesso tempo al Nord: la cosa durò nel 1944/45: a tal proposito dirò che nella mia edizione « repubblicana » al Nord era stato designato come foglio stampa delle Forze Armate, non solo dei paracadutisti: ero insomma il « Quadrante » dell'epoca.

Il secondo periodo, quello del « silenzio », è stato il periodo più lungo e pericoloso. Dal 1946 al 1956:

dieci lunghi anni: tutti mi avevano dimenticata: tutti mi avrebbero potuto adottare a mia insaputa ed ad insaputa di tutti i paracadutisti d'Italia. Sarei potuta diventare la testata di tutti i partiti politici, di religiosi, di trafficanti, di antimilitaristi, di rivoluzionari ecc. ecc.: nella legislazione vigente infatti è detto che la testata non utilizzata per due anni può essere riscritta presso un qualsiasi tribunale da chicchessia: pensate paracadutisti d'Italia se Vi foste ritrovati un giorno in edicola « Folgore » con una di queste sorprese dentro! Che bella figura ci avreste fatto Voi e la vostra Associazione.

In questo periodo il colmo è che si stamparono giornaletti e numeri unici ma nessuna pensò di utilizzare il mio nome! A Roma l'Associazione ‑ allora era A.P.I. ‑ pubblicò per qualche tempo « L'Informatore paracadutista», la Sezione Fiorentina pubblicò « Calamai » e il « Parac »: altrove, se non vado errato, c'era « La Calotta », il C.M.P. vide nascere « Aggancia la fune », circolò anche « Il Moschettone », « Basco Verde », « Icaro » ecc. ecc.

Finalmente in Firenze un gruppo di reduci, constatato che a Roma si vegetava, pensò di celebrarenel tempio di Santa Croce tua l Caduti Paracadutisti e nell'occasio­ne uno del gruppo recatosi in quel di Prato a propagandare fra i pa­racadutisti pratesi l'idea della ce­lebrazione concluse che la celebra­zione sarebbe riuscita meglio se si fosse potuto pubblicare un nu­mero unico in tale occasione: era l'ottobre del 1955. I paracadutisti di Prato vollero sapere quanto necessitasse per dare vita all’iniziativa: il propagandista buttò una cifra: 40.000: bastarono 10 minuti ed il Bardazzi raccolse in una busta quanto richiesto e la consegnò al
propagandista, che non a caso aveva scelto Prato (la piccola Sesto San Giovanni di Firenze) per la riunone conoscendo che le possibilità economiche dei Pratesi unite ai cuori paracadutisti avrebbero fatto il miracolo: naturalmente gli oblatori chiesero « e che nome avrà codesto giornalino? », il propagandista rispose con una sala parola:« Folgore ».

Un applauso ed un «Folgore » urlato in coro, battezzarono nuovamente quella mattina la mia salvezza; era il primo passa per uscire dal rischio dell'anonimato: il propagandista reduce dalla « Folgore» d'Africa aveva naturalmente un programma lentamente matura­to durante la navigazione sul «Mon­tecuccoli » che con altri reduci l'a­veva portato nel 1954 al primo pel­legrinaggio ad El Alamein.

Di fronte a mare di croci bian­che piantate nella sabbia del de­serto s'era chiesto se si potesse fare qualcosa per ricordare alle ge­nerazioni nuove il sacrificio di quel­le migliaia e migliaia di croci che biancheggiavano a perdita d'oc­chio su quella sabbia .Sulla nave aveva poi visto distribuire ad as­sociati di altre associazioni d'ar­ma più anziani e più organiche i numeri speciali stampati per l'oc­casione: e così il silenzioso redu­ce maturò l'idea della celebrazione solenne in Santa Croce e come conseguenza l'idea di fare un nu­mero unico: tacito per rompere il silenzio e salvare la testata dal pe­ricolo che chiunque la utilizzasse: quando si era presentato agli ami­ci di Prato, aveva già preventivi per un foglio e relativa tiratura di 3.000 copie: naturalmente esuberan­ti per la mattinata della celebra­zione, ma la «resa» sarebbe stata sufficiente per mandare una deci­na di copie a tutte le Sezioni d'Ita­lia per solleticarle, alla vigilia del­l'Assemblea Annuale, a muovere qualcosa.

Convenuti a Roma in Palazzo Bar­berini per l’Assemblea Annuale, Landi di Bolzano chiese di discute­re per primo l'argomento, quello della stampa di un giornale asso­ciativo, nella scia del numero uni­co della Sezione Fiorentina: argomento votato all'unanimità ed ap­provato per direttissima: l'entusia­smo della decisione non fece ap­profondire molto bene l'aspetto e­conomico e si parlò di prenotazio­ne di copie per le sezioni: per far­la breve per il primo anno furono editi 8 numeri ma poche sezioni fe­cero onore all’impegno assunto, per cui al secondo anno fu neces­sario stornare sulla quota tessera­mento la... cospiqua cifra di Lit. 100 annue per ogni socio per desti­narle all'abbonamento di « Folgo­re »: per abbreviare i tempi in set­te anni del periodo « privato » vi­dero uscire 49 numeri di « Folgo­re »: con una uscita complessiva di circa 3.400.000 lire: pari a Lit. 100 per ogni socio iscritto (in seguito aumentata a Lit. 150 annue) con l'obbligo per « Folgore » di tirar fuori 8 numeri annuali: ebbene « Folgore » riuscì nell'impegno pre­so e per un anno intero, il 1959, riuscì incredibilmente a mandare il giornale non solo ai soci pagan­ti ma anche a tutti i nominativi allora accertati che a quell'epoca ammontavano a circa 18.000.

L'impresa condotta all'insaputa della stessa Presidenza ebbe un ri­sultato concreto; la media dei so­ci che si aggirava prima dell'espe­rimento sui circa 4.000, senza rag­giungerli, balzò a quota 8.000: nes­suno in associazione si è mai chie­sto a cosa fu dovuto un tale fe­nomeno mai più verificatosi, « Fol­gore » solo si spiegò lo strano fe­nomeno, e ne fu orgogliosa.

Ed, eccoci al periodo attuale:

quello « associativo »: dire come e perchè nel 1963 fu attuata.questa tra­sformazione è argomento partico­lare che un giorno sarà spiegato.

La caratteristica particolare di questo periodo è la dovizia di mez­zi: basti dire che allorchè la Pre­sidenza era in trattative per assor­bire la mia « testata » volle rom­pere il ghiaccio utilizzando al mio posto la testata edita allora dalla Sezione di Roma « Fune di Vinco­lo »; ebbene per un solo numero venne erogato tanto quanto a me era stato concesso spesso per un intero anno!
E' questo un discorso lungo che ci porterebbe fuori argomento con molta facilità: dunque in questo florido periodo ho attraversato dei sottoperiodi dal 1963 al 1969 il nor­male, dal 1970 al 1973 il doppio, mi sono cioè sdoppiata in due: no­tiziario mensile e rivista trimestra­le, ed ora nel 1974 ho concretizza­to questo sdoppiamento rendendo­lo permanente con l'obbligatorietà dell'abbonamento alla rivista che, lasciata « libera », si stava anemiz­zando e rischiava di finire male.
Cari lettori questa è la mia storia della quale ho voluto rendervi par­tecipi e spero di avervi interessa­ti e di avervi così legati ancor più a me; per ora e soprattutto per il futuro affido a Voi il compito di salvaguardare la mia sopravviven­za e la mia continuità.

« FOLGORE »

(alias G. Piccinni, il « propagandista dell'articolo », colui che « difese a viso aperto » la travagliata testata).

« FOLGORE», UN NOME MAGICO CHE SI È PERPETUATO NEI CUORI E NELLA TESTATA DI UN GIORNALE PER LA TENACIA E LA PASSIONE DI POCHI PARACADUTISTI, TEDOFORI DI UNA IDEA CHE AVEVANO NEL SANGUE E NELL' ANIMA, PER LA VITA !



I RAGAZZI
di ieri e di oggi

Li chiamavano così in tutta l'Armata italo‑tedesca schierata in Africa settentrionale. Anche se in realtà ce n'erano di ogni età: da Costantino Ruspoli ch'era il decano e che aveva passato la cinquantina e tanti altri che vent'anni li avevano di servizio ma non di vita.

II nome era nato ed aveva attaccato sia per lo spettacolo di giovanile gogliardia che avevano offerto al loro arrivo nel deserto quegli splendidi ragazzi, atletici ed eleganti nelle divise sportive, e sia per la forza che traspariva da quei volti puliti e dagli occhi ardenti.
Tutti li chiamavano «ragazzi» compreso Rommel nelle sue comunicazioni ufficiali, quale «Esprimo il mio vivo compiacimento ai ragazzi di questo battaglione per la bella prova fornita». Ed erano rimasti i «ragazzi» anche dopo mesi e mesi di vita in buca, smagriti, con le barbe incolte e le belle divise stinte dal sole africano. Perché erano belli anche così e bisognava vederli in battaglia, nei momenti cruciali della lotta ravvicinata.
Gli inglesi avevano imparato subito a conoscerli i «ragazzi» della Folgore sin dalle prime settimane dal loro arrivo in linea, nel luglio del '42. Durante una puntata of­fensiva, un paio di nostri batta­glioni s'era incuneato nel mezzo delle linee nemiche tenute da una Brigata neozelandese. In una pau­sa del combattimento una jeep, inalberante una bandiera bianca, s'era staccata dalle posizioni av­versarie avvicinandosi alle nostre. N'era disceso un piccolo Generale che aveva chiesto del comandante italiano.
«Siete circondati da ogni parte ed ho dieci batterie pronte ad aprire il fuoco contro di voi. Vi concedo un quarto d'ora di tempo per arrender­vi» aveva detto guardando l'orolo­gio.
«Siete di fronte a delle truppe italiane che considerano la vostra offerta come un insulto. Vi concedo cinque minuti per tornarvene da do­ve siete venuto» rispose il colonnel­lo Bechi‑Luserna guardando a sua volta l'orologio.
Poi il combattimento venne ri­preso; a sera la Brigata neozelandese era in fuga e quel tal Generale, poveretto, prigioniero.
Il campo d'azione in cui i «ragaz­zi» eccellevano era quello dell'atti­vità di pattuglia, nella «terra di nes­suno» dove gli inglesi avevano mo­strato fino ad allora preparazione e coraggio nell'attaccare gli avampo­sti, prendere prigionieri, disattivare campi minati, aprire varchi, etc. Tutto ciò divenne più difficile per il nemico quando la Folgore entrò in linea ed i «ragazzi» cominciarono ad uscire di pattuglia.
Sgusciavano via alle prime tene­bre i «ragazzi» e se ne andavano a bracconare tra le dune. Di tanto in tanto si udiva nella notte l'esplosio­ne di qualche mina o l'eco di una violenta sparatoria. I telefoni da campo dei comandi degli altri re­parti trillavano allarmati. «Che c'è?
Attaccano?». «Niente, niente ‑ si rispondeva ‑ sono le pattuglie del­la Folgore all'opera». E quelli tor­navano a dormire tranquilli sapen­do che c'erano i nostri «ragazzi» a caccia. Rientravano all'alba con il loro carniere pieno: con prigionieri, armi, automezzi. Ci fu una volta che tornarono addirittura con 1 car­ro armato pilotato, baionetta nella schiena, dallo stesso equipaggio ne­mico.
E così i «ragazzi» 'cominciarono ad entrare nella legenda.
Naturalmente la lotta era durissi­ma e cruenta, il nemico splendida­mente agguerrito ed il terreno infi­do e pericoloso. Ma se cadevano, i «ragazzi» cadevano in bellezza, con un loro stile inconfondibile: da sol­dati di razza. Da Visconti che rifiu­tava di nascondersi alle cannonate (perché diceva «un Visconti non teme il piombo dei Windsor») e cadde gridando «Viva il Re», a Macchiati che, sfracellato da una mina, chiedeva prima di morire di poter dirigere ancora il tiro dei suoi pezzi, ed Aurelio Rossi che fece suonare la «carica» dal suo trom­bettiere e poi spirò sulla sabbia ardente.
V'era in tutti una tale potenza spirituale da ridurre la guerra alla funzione di semplice cornice alla bellezza dell'episodio. L'orrore di quel fronte, le masse polverose de­gli armati, le tribolazioni della fame e della sete, lo squallore della dis­senteria, l'aridità desolante della natura svanivano nel miraggio, at­torno al corpo di un caduto, com­ponendo un lontano e sfocato sce­nario da Golgota.
Il vero, l'unico protagonista era lui: quel «ragazzo» disteso bocconi nel suo sangue ad irrorare la sabbia del deserto.
Erano tutti così i «ragazzi» della Folgore.
Il nemico ce l'aveva a morte con la Folgore, con questa stramaledet­ta Divisione che gli procurava scon­fitte e disonore in ogni scontro e, ai primi di ottobre,volle prendersi la rivincita. Apprestò una colonna di reparti scelti, i migliori combattenti dei più valorosi reggimenti inglesi, e rovesciò un uragano di ferro e di fuoco sulle esigue linee dei paraca­dutisti italiani. I «ragazzi» del pre­sidio, che avevano incassato a denti stretti quel violentissimo fuoco ae­reo e d'artiglieria, attesero ordina­tamente e senza fiatare che le quat­tro colonne d'attacco si avvicinasse­ro. Fecero di più: attesero che gli assalitori, rassicurati dal nostro si­lenzio e ritenendoci distrutti o in fuga, s'infiltrassero fra le maglie dei centri di fuoco. Poi di botto balzarono dalle buche e si avventa­rono contro. Fu tale la sorpresa e lo


sgomento per questa improvvisa resurrezione che il nemico si lasciò contrattaccare e travolgere senza riuscire a rabberciare una difesa efficiente. Dopo quattro ore di durissimi combattimenti i reggi­menti inglesi Queen's e West Kent ripiegarono malconci sulle loro posizioni lasciando nelle nostre mani un enorme numero di morti, feriti e molte centinaia di prigio­nieri.
I «ragazzi» stavano così crescen­do.
Si giunse fra combattimenti e scontri cruenti alla fine di ottobre. Il nemico, forte di una schiacciante superiorità in uomini e in mezzi, sferrò alle prime luci dell'alba del 23 una massiccia offensiva contro le nostre linee puntando diretta­mente contro i nostri paracadutisti. Contro la Folgore schierata all'ala destra del fronte italo‑germanico, in pieno deserto. Forse quella di­rettrice gli sembrava più redditizia. Forse perché aveva il dente avvele­nato con i «ragazzi». Certo è che scagliò tre Divisioni di fanteria, una Divisione corazzata, una Bri­gata d'assalto appoggiati da un nu­mero incredibile di artiglieria e di aerei contro l'esiguo fronte della Folgore.
Ma non passò.
Fallito l'attacco di sorpresa, il nemico tentò di schiacciarli col pe­so del suo enorme potenziale di fuoco.
Ma non passò ancora.
Gli inglesi gettarono ancora e an­cora truppe fresche nella battaglia, appoggiate da nuove ondate di carri armati.
Ma non passò neanche questa volta.
Le artiglierie nemiche rovesciaro­no rabbiosamente tonnellate di esplosivo e le nostre linee ribollirono di esplosioni violentissime. La sabbia era diventata dappertutto rossa per il sangue dei nostri «ra­gazzi». Caddero, morti o feriti, quasi tutti i comandanti di batta­glione, di gruppo e di compagnia: non c'era un uomo in linea che non fosse stato ferito o malconcio.
Ma il nemico non passò. Ogni volta che tentò un attacco conclusi­vo fu contrassaltato e respinto da dei «ragazzi» scatenati, urlanti a squarciagola «Folgore».
La Folgore combatté dal 23 al 30 di ottobre, di quell'ottobre di morte del 1942.
Così per sette giorni. Alla fine il nemico, esausto e scoraggiato, fu costretto a tentare, e con migliore fortuna, verso la costa dove stava­no i tedeschi.
La storia di quei «ragazzi» narre­rà alle future generazioni come, ta­gliati fuori da ogni comunicazione, isolati nel cuore del deserto, sen­z'acqua né viveri, né speranza di scampo, essi resistettero per giorni e giorni sbattendo, come uno schiaf­fo, sul volto del nemico, ad ogni nuovo attacco il loro grido «Folgo­re».
La Storia narrerà come quei «ra­gazzi» arrivarono in seimila in terra d'Africa e ritornarono in Patria in poche centinaia di sopravvissuti. Quei «ragazzi» erano cresciuti. Era­no diventati grandi.
Grandi nella Storia d'Italia.

Scoppio



Da con la FOLGORE prima e dopo EL ALMEIN
Capitolo 20°

La «Folgore» visse gli ultimi giorni di El‑Alamein in un continuo allarme.

I suoi capisaldi si erano riordinati alla meno peggio in tutta fretta dopo i giorni della devastazione.

Gino ogni sera ritornava a vedere di buca in buca i suoi ragazzi, resi ora più sicuri dalla vittoria conseguita sul nemico.

Sognavano anzi di poter riprendere l'offensiva dell'agosto, colpendo sul fianco sinistro l'avversario in movimento e quindi in crisi, per accerchiarlo in una sacca gigantesca, da cui non gli sarebbe stata concessa una via di scampo. Sognavano, naturalmente...

Gino seguiva queste illusioni dei suoi ragazzi, i sogni che accarezzavano così arditamente, convinto che, se a nord avessero mollato, come sembrava, sarebbe stata la fine per tutti.

La «Folgore» poi, schierata all'estremo sud, priva di automezzi, sarebbe stata abbandonata di conseguenza all'inesorabile destino del deserto, che non perdona.

Nei primi giorni di novembre, in piena notte, arrivò l'ordine di ripiegamento su di una linea prestabilita, all'altezza del meridiano di Fuca.

Lasciati alcuni centri di fuoco, per trarre in inganno il nemico, l'allineamento della «Folgore» nel silenzio sovrano di quell'ora tragica si mise lentamente in moto.

1 ragazzi non riuscivano a comprendere, a darsi pace e si chiedevano il perché di tale ordine assurdo; molti di loro avevano gli occhi lucidi di pianto, pensando ai compagni sepolti sotto una spanna di sabbia..., che dovevano abbandonare.

Ogni ufficiale, carta topografica alla mano e bussola, seguiva in testa al proprio reparto l'itinerario di marcia; entro la sera successiva avrebbero dovuto essere lungo i costoni di GebelCalac.

Alla prima luce dell'alba il deserto apparve come un immenso formicaio di uomini, ridotti a larve, che faticosamente arrancavano nella sabbia in direzione ovest. 1 loro occhi erano privi di luce, spenti, stanchi, resi ancora più tremendamente vuoti dall'incavo delle orbite rinsecchite e dagli zigomi sporgenti in un contorno di capelli e barba incolti, arruffati, sporchi di sudore, sangue e sabbia; quel poco di viso raggrinzito ed essiccato dal vento e dal sole, libero di peli, era coperto di mosche appic­cicaticce, fastidiose, affamate, fetide.
La guerra annienta uomini e mezzi, sconvolge terra e cielo, ma non distrugge le mosche del deserto.
Le divise, stinte dal sole, erano come gli uomini, sporche, a chiazze di sangue, qua e là bruciacchiate, forate, a brandelli.
La massa ripiegava in ordine sparso.
Era per di più formata dai ragazzini della «Pavia», abbrutiti da mesi d'Africa, atterriti e sconvolti dai giorni ultimi della batta­glia d'ottobre; piangevano, quando arrivavano in linea di rincal­zo, piangevano ora che la lasciavano!
Il sole stava già trionfando dall'orizzonte, quando i reparti giunsero ad un punto d'incontro. Fu necessario l'immediato intervento degli ufficiali, per impedire che amici e compagni di capisaldi diversi, che da mesi non si vedevano, abbandonassero la propria formazione per correre ad abbracciarsi, In testa si trovava il carrozzone del Comando‑Divisione, seguito dalle auto‑ambulanze.
Nella breve sosta Gino presentò il reparto al Comandante di Battaglione: "Un ufficiale, tre sottufficiali e venti paracadutisti; di questi metà feriti più o meno gravi".
Egualmente fecero gli altri Comandanti di Compagnia.
Tutti i reparti erano più che dimezzati. Il Maggiore riuscì a stento a frenare la commozione.
Mentre con i suoi ragazzi Gino stava riprendendo la marcia di ripiegamento, venne avvicinato di corsa dal tenente... del IV BTG., il quale in una esuberante esplosione di gioia, dopo aver­lo abbracciato, gli disse: "Come vedi, non sono ancora mor­to...!" ‑ e rise forte, isterico.
Gino lo fissò attentamente negli occhi, come volesse leggergli nell'animo, indi: "Ma credi ancora a quelle panzane?" ‑ gli chiese. "No, no, ma sai?!..." ‑ ed accompagnò quelle parole con un gesto ampio delle braccia, come per dire: ‑ non si sa mai, a volte anche le streghe azzeccano giusto.
"Dimmi piuttosto ‑ domandò Gino ‑ quanti uomini ti sono rimasti in Compagnia?"
"Non molti ‑ precisò per tutta risposta, diventando improvvisa­mente triste ‑ purtroppo i più li ho dovuti abbandonare nel deserto e, dopo qualche attimo di assorta meditazione, ho visto gli alpini a combattere sul «Tomori», aggiunse con soddisfazio­ne, ma posso assicurarti che questi ragazzi non hanno alcunché da invidiare a loro...!"
La marcia riprese lenta e pesante.
I piedi sprofondavano nella sabbia. Gli uomini sfiniti dai mesi di linea e dai giorni della battaglia, curvi sotto il peso delle armi e delle cassette‑munizioni tiravano avanti con la sola forza della volontà.
Il sudore inondava tutto il corpo e l'arsura divorava sempre più la gola: sete, sole, fame, sudore, mosche, pidocchi, stanchezza, desolazione nell'animo per l'abbandono delle postazioni, dei cari amici scomparsi, odore nauseabondo di sporcizia, fatto più acre dal sudore abbondante, disperazione, che faceva sanguina­re l'anima.
Tutto questo tremendo calvario pesava su quei ragazzi, che dovevano per obbedienza volgere le spalle ad un nemico, che avevano vinto.
In quel silenzio tragico, rotto soltanto dal monotono, cadenza­to, tonfo sordo dei piedi nella sabbia, improvvisamente si udì da lontano il rombo di una formazione di aerei.
Istintivamente i ragazzi girarono il capo nella direzione: si trat­tava di alcuni ricognitori inglesi, che perlustravano il deserto; fecero un ampio giro tutt'intorno due o tre volte, indi a tutto gas ritornarono sui loro passi.
Dopo qualche ora di marcia le colonne si attestarono, per pren­dere fiato. Invano avevano sperato di poter raggiungere indi­sturbate l'allineamento delle dune di Gebel Calac. I ragazzi reclamavano acqua. Le borracce erano vuote; sapevano però che non l'avrebbero avuta prima della sera. La marcia riprese più pesante di prima.
Non era ancora mezzogiorno che le colonne vennero improvvi­samente attaccate da carri armati e da aerei. Fu necessario siste­mare in fretta i reparti a caposaldo. Gino pensò a quelli rimasti ai centri di fuoco: saranno stati annientati, si disse.
I ragazzi si scavarono in tutta fretta, aiutandosi con il pugnale, la buca, per poter per lo meno proteggere il capo ed il petto dalle schegge delle granate in frantumi, che cadevano come grandine, tutt'intorno. I « 105» divisionali aprirono il fuoco di contro‑batteria. Gli aerei a bassissima quota spezzonavano e mitragliavano; solo qualche mitragliera da «20» tentò di ostaco­lare l'offesa aerea sui capisaldi. Così scoperti, privi di riparo, senza alcuna valida reazione antiaerea, nella condizione di non poter fermare i carri, avendo dovuto distruggere i pezzi da « 47» , per non appesantire vieppiù la marcia di ripiegamento, i reparti furono completamente in balia del nemico. In queste condizioni la sofferenza degli uomini aumentò ancor di più, fino a raggiungere la disperazione.
Al calare della sera il nemico cessò improvvisamente il tirò ed indisturbato si preparò il rituale thè. Davanti ai capisaldi della «Folgore» simultaneamente si accesero lungo tutto lo schiera­mento opposto dei fuocherelli, simili a quelli che usano accen­dere in montagna lungo i tratturi verdi i pastori, per scaldarsi nelle umide e fredde sere d'autunno. Non c'era tempo da perdere, bisognava sganciarsi al più presto, approfittando delle tenebre venienti. L'ordine fu immediato: seppellire i morti, caricare i feriti sulle auto‑ambulanze, riempire le borracce, armi e munizioni in spalla e partire.
Gino nel frattempo riuscì a spostarsi di corsa fino alle più vicine autoambulanze: vi trovò in una il veneziano, stava già meglio. C'era anche il Tenente... del IV Battaglione: era stato colpito da una scheggia ad una spalla; una brutta ferita che gli aveva lace­rato le carni e fracassato la scapola. Il capitano medico gli aveva assicurato che il polmone non era stato offeso; parlava con un fil di voce, tanto che Gino faceva fatica a seguirlo; pregò Pino di aver cura di lui e dei ragazzi.
La marcia riprese più spedita, il fresco della notte dava agli uomini vigore e speranza. Camminavano in silenzio, con il pensiero che volava indietro, vicino e lontano nel tempo e nello spazio; ai compagni caduti ieri, oggi; alle case lontane, alla madre, alla sposa, ai figli, alla ragazza, al padre, ai fratelli.
Dopo qualche ora di luce i mezzi veloci del nemico li raggiun­sero nuovamente; fu necessario predisporsi immediatamente a capisaldi a raggiera.
L'accanimento del nemico divenne più spietato del deserto.
Data la natura del terreno pietroso, fu difficile per i ragazzi scavarsi con il pugnale anche un minimo riparo. C'erano qua e là dei cespugli secchi e stecchiti, coperti di lumachine, che permisero agli uomini un certo occultamento. Mentre il grandi­nare delle granate dilaniava carni, armi, mezzi, pietra e sabbia, Gino pensò istintivamente alla Patria lontana: «4 Novembre», giorno della Vittoria della I^ Guerra Mondial... Nelle città, nei paesi, nei casolari sparsi sui monti e nelle valli si celebra oggi l'anniversario di Vittorio Veneto ‑ si disse. Rivide la bandiere, i labari, i combattenti con le medaglie sul petto, la gente, i bambini curiosi, allegri, sorridenti... davanti al monumento dei Caduti, ove si legge il bollettino della Vittoria e la banda citta­dina intona le note solenni del «Piave», squilli d'attenti, presen­tat'arm, corone d'alloro con nastri tricolori... e dopo: il banchetto, i discorsi, lo spumante, i canti della montagna..., baldoria... "E qui si muore...!" ‑ gridò, e si alzò di scatto, correndo qua e là, come cercasse con il petto un colpo in arri­vo... Era disperato, voleva morire; da giorni gli martellava nel cervello il ricordo lontano di quando bambino vide lo strazio della casa per la morte dello zio prigioniero, il ricordo delle giornate d'angoscia della zia, morta poco dopo di dolore, il ricordo della lettera di un suo compagno prigioniero, che dice­va: "Morto di patimenti, di stenti, di fame!"
Solo allora s'avvide che non sparavano più.
Si trovava vicino a un ragazzo che agonizzava gemendo; dal ventre squarciato uscivano gli intestini; chiamò, urlò... e venne­ro i porta‑feriti...; non lo vollero toccare; nel silenzio repentino gridò: "Meglio ucciderlo, finirlo!"; aveva gli occhi stralunati.
1 ragazzi sorpresi lo stavano a guardare con il capo sollevato dalla sabbia..., quando uno strano mezzo, avanzando veloce, incominciò a sventolare una bandiera bianca.
Il brank‑carr si avvicinò presto fino a raggiungere i paletti del filo spinato, che delimitava il campo di mine, poste a protezione in tutta fretta lungo i capisaldi; un ufficiale si alzò e con il megafono incominciò a gridare:
"Valorosi soldati della «Folgore», vi siete battuti da leoni; ognuno di voi è un Eroe; il Comandante Supremo, a nome di S.M. Britannica, vi concede l'onore delle armi!; siete senz'acqua, senza viveri, senza munizioni, con poche armi, isolati nel deserto, abbandonati dai vostri alleati, i tedeschi, in fuga verso Tripoli. Non avete più via di scampo, arrendetevi! S.M. Britannica vi concede l'onore delle armi! Eroici ragazzi della «Folgore» arrendetevi o vi annienteremo!"
In un attimo Gino inquadrò la situazione, indi nel silenzio generale gridò l'ordine di sparare alcune raffiche sopra il brank­car.. Questi, fatto bruscamente dietro‑front, sparì, lasciandosi dietro una scia di polvere, mentre i carri e gli « 88» riprendeva­no più violenti di prima il fuoco di annientamento.
I morti cadevano vicino ai morti, i feriti si lamentavano ed i ragazzi dovevano subire passivamente, senza poter sollevare la testa, con nell'anima l'attesa tragica di una imminente agonia.
Al tramonto, cessata la furia devastatrice degli «88» , i reparti ulteriormente dimezzati, ripresero a ripiegare verso ovest.
Era già buio, quando poterono superare l'allineamento dei dossi di Gebel Calac, oltre i quali si presentò un'interminabile piattaforma pietrosa; ricordava il Calvario del Carso. Qui i piedi non affondavano più nella sabbia e per la frescura umida della notte la marcia divenne più spedita. Alla spettrale luce della luna i ragazzi curvi e pesanti sembravano tante ombre grevi, uscite per incanto dalle tombe della valle della morte.
Gino pensava a ciò che era successo in quel giorno, alla propo­sta di resa con l'onore delle armi; pensava alla promessa di una linea prestabilita, che si doveva raggiungere, espressa nell'ulti­mo dispaccio di Rommel: "Valorosi ragazzi della «Folgore» vi ordino di ripiegare su linea prestabilita; a guerra vinta sfilerete a Berlino con le migliori truppe tedesche". Pensava ai ragazzi caduti, a quelli che stavano ancora con lui nella notte, vaganti in un deserto sconfinato, dove alle spalle incalzava un nemico veloce ed agguerrito, mentre davanti vi erano soltanto tenebre e morte...
Durante i giorni della battaglia Rommel aveva pure radiotra­smesso al Comandante della Folgore: "Generale, la prego di invitare i suoi uomini a risparmiarsi!"
"Ma allora, si diceva Gino cadenzando il passo in testa al repar­to, a che serve risparmiarsi oggi, se domani sarà la fine?; a che serve addestrare i soldati, curarli, educarli, amarli ad un certo momento come fratelli, se poi è destino che la guerra inesora­bilmente li travolga e li distrugga...? La Patria ha il suo destino e vive per questi suoi figli ‑ pensò ‑ e solo per questi, che sanno morire ‑ e fu pago di questa risposta a tutti i suoi drammatici interrogativi. Dopo un po', a mezza voce, come parlasse a se stesso aggiunse: ‑ speriamo che tutto non sia vano!"
La notte stava abbandonando sparse nel nulla le sue ombre e l'ora antelucana stava già tingendo di perla i densi vapori del deserto, quando i mezzi corazzati inglesi a tenaglia serrarono sotto, per incalzare da vicino i ragazzi, onde annientarli. L'orgoglio inglese voleva ad ogni costo e senza perdere ulterio­re tempo vendicare l'insulto del rifiuto.
Su quell'altopiano bianco e spettrale, nell'incerto crepuscolo dell'alba, iniziò cosi quella che gli inglesi chiamarono: "La battaglia di sterminio dei resti della «Folgore» nel deserto".
Quanto fu lungo i giorno, pochi «105» divisionali e qualche mitragliera da «20» riuscirono a tenere a debita distanza i pode­rosi mezzi corazzati d'assalto. 1 ragazzi, nell'impossibilità di una qualsiasi protezione, stavano il più possibile diradati ed appiattiti su quelle pietre infuocate dal sole.
"E' impossibile continuare ‑ disse Gino al nuovo comandante di battaglione, un tenente anziano, che aveva assunto il coman­do al posto del Maggiore, divenuto Comandante di Reggimen­to per la morte del Colonnello ‑ gli uomini sono sfiniti, le munizioni sono agli sgoccioli, da qualche giorno siamo senz'acqua, senza viveri; temo che, riprendendo la marcia, ben pochi riusciranno a rimettersi in piedi".
E così fu. L'ufficiale di coda della colonna di sinistra, che segui­va l'altopiano lungo la depressione, ad un certo momento, incominciò a sparare sui ragazzi, che cadevano sfiniti.
Sandro riuscì a raggiungere con uno sforzo sovrumano la testa della formazione, per avvertire Gino. Questi, senza aprire bocca, fece cenno al sottufficiale di porsi al suo posto e, messosi sul fianco della lunga colonna, attese la coda: osservava alla chiara luce lunare i ragazzi: la testa piegata sul petto, gli occhi spenti, le braccia abbandonate lungo la vita, le gambe che si piegavano ad ogni passo, i piedi che uscivano dagli stivaletti squarciati nudi e sanguinanti... si fece forza lui stesso, per non cedere.
Come giunse l'ultimo uomo, si affiancò al tenente e, dopo qualche passo, senza togliere lo sguardo dalla bianca pietraia luccicante: "Perché hai sparato?" ‑ gli chiese.
L'ufficiale non rispose.

Gino ripetè più forte la domanda e si fermò contemporanea­mente, afferrandolo stretto per un braccio e fissandolo con gli occhi sbarrati, fuori dalle orbite.
Come uscisse da un mondo tutto _ suo, fatto di paure e di incu­bi: "Perché ho sparato? ‑ chiese di rimando, senza aprire gli occhi; e quasi subito ‑ Perché non voglio che facciano una stra­ziante agonia" ‑ rispose stanco ‑ e si rimise in marcia, mentre Gino rimase immobile a guardarlo, ma dopo qualche passo incerto ‑ sembrava un vecchio cadente.
Giratosi di scatto: "Ho paura io ‑ gridò con gli occhi pazzi ‑degli avvoltoi, che mi rondano sopra e delle iene, che mi vengono ad annusare... capisci? ‑ ed ancora più forte, agitando le braccia follemente ‑ non voglio che i miei ragazzi siano divo­rati dagli sciacalli, prima ancora di morire!" Si rigirò, riprenden­do la marcia a grandi passi, per raggiungere gli uomini, che incuranti proseguivano per forza d'inerzia.
Pure Gino allungò il passo fino a raggiungerlo, indi: "Al primo alt ‑ gli ingiunse ‑ passa in testa alla colonna...; prendo io il tuo posto, anzi da questo momento chiudo io la marcia" ‑ e si affiancò, proseguendo stancamente, come tutti gli altri.

Capitolo 21 °

A mano a mano che il sole aumentava il calore, i ragazzi crollavano sempre di più... con la bocca bavosa, la lingua ingrossata imploravano: acqua... acqua! Invano Gino cercava di scuoterli, di animarli, di minacciarli; qualcuno, come si riaveva, apriva pigramente gli occhi e, vedendosi la pistola puntata, balbettava a mezza voce: "Mi spari, signor tenente..., non ce la faccio più!" e richiudeva, forse per sempre gli occhi.
Gino con l'animo straziato ed il pianto in gola lo girava a bocconi, perché il sole e gli avvoltoi non lo sfigurassero anzi­tempo.
Era tremendo per lui dover abbandonare così i suoi soldati. Prima di giungere a tanto, aveva cercato di aiutare qualcuno, sostenendolo per un braccio passato sopra le sue spalle; ma era come si trascinasse dietro un peso morto; dopo pochi metri di inutile sforzo, cadevano pesantemente l'uno sull'altro. Gli inglesi continuarono a sparare per tutto il giorno. Il comandan­te diede ordine di non attestarsi a difesa, con la speranza di poter raggiungere prima del tramonto la linea prestabilita. Solo i «105» divisionali, in coda alla colonna, di tanto in tanto si fermavano ad aprire il fuoco, per cercare di ostacolare il più possibile l'incalzante pressione dei mezzi nemici.
1 resti della «Folgore» giunsero così al calar della sera entro una conca, limitata da costoni rocciosi posti a semicerchio, con profonde caverne, che permisero sicuro riparo; si aveva l'impressione di trovarsi in un ampio anfiteatro.
Il nemico, mentre gli uomini si abbandonavano, ormai allo stremo delle forze, all'ombra delle caverne, incrociò un tiro violento di «88», come volesse definitivamente sterminarli; solo il riparo naturale poté impedire agli inglesi di raggiungere lo scopo.
Calarono intanto sul deserto le benefiche ombre notturne.
Il comandante pensò fosse giunto il momento di mettere in salvo i feriti e diede ordine alle autoambulanze di proseguire a tutta velocità verso ovest. Pino volle rimanere con i suoi ragazzi. Gli uomini reclamavano acqua; erano talmente sfatti, che non sentivano più il bisogno di cibo, solo la gola bruciava e la lingua si ingrossava per l'arsura.

"Da tre giorni, ‑ precisò il veneziano, che stava sdraiato vicino a Gino sotto il cielo stellato, ‑ manca qualsiasi collegamento­radio con il Comando di Corpo d'Armata".
Gino ascoltava in silenzio.
"Tutte le Divisioni italiane ‑ non parliamo dei tedeschi ‑ aveva­no gli automezzi, per ripiegare, in caso di sfondamento della linea; solo la «Folgore», all'estremo sud del fronte, è stata abbandonata senza mezzi a questo strano destino...".
Gino mugugnò qualcosa che Pino non riuscì ad afferrare.
"Il comando divisione ha cercato inutilmente di collegarsi via radio... siamo riusciti soltanto oggi a captare qualche comunica­to dal Cairo...; proprio questa sera parlavano di noi: "la Folgo­re" ‑ dicevano ‑ ha resistito nel deserto oltre ogni possibilità umana!"
"Ha resistito ‑ ripeté a voce alta Gino, sottolineando le parole ‑ci fanno dunque tutti morti...!" 1 suoi occhi stavano spalancati sulle stelle, ma il suo cuore, la sua anima, erano lontani... e piangeva in silenzio.
Dopo qualche ora di sosta la colonna riprese la marcia, per allontanarsi il più possibile dal nemico che riposava sicuro a breve distanza.
L'inesorabile decimazione dei giorni precedenti continuò non appena il sole incominciò a bruciare uomini e deserto. Si proce­deva sempre più lentamente.
Il nemico incalzava da vicino. I ragazzi si trascinavano avanti come ombre, incuranti persino dei colpi, che cadevano d'intor­no; solo la volontà di arrivare alla linea promessa li sorreggeva ancora... !
Il cielo improvvisamente ebbe pietà di loro: in un baleno il sole sparì dietro una nuvolaglia densa, scura, che si allargava con fulminea rapidità, abbassandosi fino a sfiorare le dune, costeg­gianti la depressione. Un furioso, gigantesco uragano di vento e di acqua si rovesciò fra lampi, tuoni e fulmini a perdita d'occhio; pareva che la notte avesse seguito il giorno, sembrava la fine del mondo. La benefica acqua cadde a catinelle, inzup­pando in pochi istanti la sabbia.
1 ragazzi felici e rianimati si abbandonavano bocconi di pozzan­ghera in pozzanghera fra bagliori e tuoni a non finire, bevendo avidamente acqua e sabbia senza interrompere la marcia. Ai piedi di una duna si era formato un fossato colmo d'acqua; i ragazzi tutt'intorno bevevano avidamente, senza curarsi di quello che stagnava sul fondo: bianche ossa e teschi umani. In ognuno rinacque in cuore una nuova speranza: il miracolo di Dio salva i resti della «Folgore» ed il loro pensiero volò alla casa lontana, ai loro cari in straziante trepidazione...
Purtroppo fu una passeggera illusione, perché con la stessa immediatezza con cui si scatenò, la bufera si dileguò ed il cielo ritornò più lucente di prima.
I mezzi nemici serrarono sotto veloci, riprendendo a martellare violenti. Contemporaneamente una divisione corazzata chiuse a tenaglia da ovest, completando l'accerchiamento.
La piana infuocata era tutta disseminata di morti e moribondi, il deserto un immenso cimitero di cadaveri senza tomba.
Il nemico cessò per incanto il fuoco, comprese d'istinto che si stava consumando un rito.
Gino presentò al Generale i reparti: ‑ "3 ufficiali, 22 paracaduti­sti fra sottufficiali e truppa". La «Folgore» aveva perso 1'80% dei suoi uomini.
Il Comandante con le lacrime agli occhi ordinò il "presentat'arm" alla bandiera, mentre le fiamme, che già aveva­no investito il mezzo divisionale, per poi distruggere i docu­menti, lambivano gemendo il tricolore, che sventolava alto sul Carrozzone‑Comando.
Immobili sull'attenti i ragazzi piangevano. Il tramonto era di fuoco.
Con la bandiera ardevano il deserto ed il cielo; con il deserto ed il cielo nel tricolore in fiamme gli spiriti dei vivi e dei morti, nudi e puri davanti a Dio ed agli uomini. Era il 6 Novembre 1942, ore sedici.
Cosi fini la «Folgore».

I murales nazisti di Leverano: "Anche questi meritano tutela" 

*SUPERFOTO DEI PIDOCCHI SUL PETTINE*




Scritto da Rassegna: La Gazzetta del Mezzogiorno
giovedì 13 novembre 2008
LEVERANO - Negli stessi anni a Santa Maria al Bagno gli ebrei incidevano, su un muro di una casina fatiscente, la speranza di un futuro migliore. A pochi chilometri di distanza, a Leverano, ritroviamo altri murales: questi, però, sono nazisti. E non c'è disperazione ma solo tanta ironia. A Leverano, del resto, c'era un campo d'atterraggio utilizzato dalle forze dell'Asse.
Leverano - In una vecchia masseria ormai abbandonata, uno spaccato della vita e della goliardia dei soldati tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Un casolare trasformato in caserma, che adesso rischia di crollare.
«Bisogna recuperare quella testimonianza prima che scompaia, divorato dall’incuria del tempo». L’appello è dell’associazione “Atlantide” che racconta la storia di quindici graffiti, eseguiti 65 anni fa dai soldati tedeschi presso la masseria Mascarana, a 6 chilometri dal mare e lungo la strada comunale Leverano-Zanzara.
Disegni - almeno alcuni - di indiscussa ironia, esorcismo ai tragici eventi della guerra, spesso accompagnati da brevi didascalie: Fallschirm jäger (caccia il paracadute), per illustrare un prete paracadutista; Ruhe sanft (dolce silenzio); Salzwasser also englisc(h) (acqua salata inglese). Il graffito più curioso, quello raffigurante un pettine percorso da pidocchi: die Kammwanderung (escursioni sul pettine).
Due facce della stessa medaglia: mentre a Santa Maria al Bagno, una nutrita colonia di ebrei scampati all’olocausto tracciava sui muri il sogno di poter raggiungere un giorno la “terra promessa”, a Leverano i loro persecutori tedeschi, si trastullavano incidendo vignette umoristiche sulle pareti del loro avamposto militare.
«Sebbene esista un rapporto diametralmente opposto tra i due murales - dice Rocchino Durante, fotografo per passione e promotore della salvaguardia dei murales - credo che i disegni nella Mascarana rappresentino una delle tracce più significative della memoria storica di Leverano relativa al secondo conflitto mondiale. Segni che in quanto tali andrebbero salvaguardati prima che un grande fico selvatico cresciuto tra le crepe di un muro non provochi il crollo dell’edificio».
La masseria Mascarana risale alla fine dell’800, ed è proprietà privata. Fu sede del locale comando tedesco durante la seconda guerra mondiale, dopo il bombardamento dell’aeropor to di Leverano avvenuto il 23 luglio del '43, che costò numerose vittime civili e militari.
«Infatti - continua Durante - la Mascarana distava solo tre chilometri dall’aeroporto, da cui decollavano e atterravano diversi caccia tedeschi ».
Durante aggiunge che nelle vicinanze della masseria sorgeva un enorme pino marittimo che per motivi di sicurezza venne abbattuto dai tedeschi in quanto era visibile dalla marina di Porto Cesareo. I più longevi ricordano anche l’intrepida azione del colonnello Messina messa in atto all’indomani del 9 settembre del '43.
Pare che travestito da contadino, l’ufficiale gironzolasse nei dintorni della masseria raccogliendo fichi. Avuta conferma della presenza nemica, il giorno dopo ritornò sul posto con alcuni reparti di fanteria e dell’aeronautica, circondò i tedeschi e li obbligò alla resa.
Giovanni Greco

14 febbraio 2010

EL ALAMEIN Quando il deserto si colorò di rosso

«Le grandi battaglie del ' 900»: nel primo dvd lo scontro che decise la campagna d' Africa nella Seconda Guerra mondiale

NINO MINOLITI Poco meno di settant' anni fa, tra il 23 ottobre il 5 novembre del 1942, il deserto egiziano intorno a El Alamein, una piccola stazione ferroviaria a un centinaio di chilometri a ovest di Alessandria, si colorò di rosso. Le dune di sabbia vennero bagnate dal sangue di migliaia di uomini, in una delle battaglie che decisero la Seconda Guerra mondiale. «Fino ad allora, non avevamo mai ottenuto una vittoria; dopo non subimmo più sconfitta», dichiarò il primo ministro Winston Churchill, il leone di Sua Maestà che ebbe il merito di tenere testa da solo a Hitler quanto tutto pareva perduto. Lì, in quello sperduto angolo dell' Africa mediterranea, per il possesso del quale, come ebbe a scrivere Erwin Rommel nel suo diario, «non si sarebbe interessato normalmente neanche il più povero degli arabi», la meglio gioventù di Italia e Germania da un lato e Regno Unito, Australia, Nuova Zelanda, India, Sud Africa, Francia libera e Grecia dall' altro si affrontò in uno scontro che non aveva domani. Se le truppe dell' Asse avessero vinto, la strada verso Alessandria, Il Cairo e, soprattutto, il Canale di Suez non avrebbe avuto più ostacoli. Voleva dire controllare tutti i traffici marittimi che arrivavano dal Medio Oriente, in particolare quello del petrolio. Se invece, come poi avvenne, a prevalere fossero stati i soldati di Montgomery, sarebbe stata la fine per gli italo-tedeschi, alle spalle dei quali stavano sbarcando gli angloamericani: e difatti alla sconfitta seguì la perdita del Nord Africa. Enigma A El Alamein è dedicato il primo dvd della collezione «Le grandi battaglie del ' 900», in edicola con la Gazzetta. Inferiori per numero e per mezzi (le truppe dell' Asse potevano contare su 116.000 uomini e di fronte ne avevano 195.000; i carri armati erano 547 contro 1029), rimasti senza rifornimenti (gli inglesi erano riusciti a decifrare i codici di Enigma, il sistema con il quale i tedeschi inviavano i messaggi segreti: così le navi dell' Asse che trasportavano carburante e armi venivano regolarmente affondate), i soldati dell' Afrika Korps e gli italiani si batterono valorosamente, ma invano. Erwin Rommel, la leggendaria «volpe del deserto», si trovava in licenza in Germania per un serio problema al fegato: rientrò precipitosamente e tre giorni dopo l' offensiva sferrata da Montgomery tentò l' attacco della disperazione: ma in due ore e mezzo, gli aerei della Royal Air Force scaricarono 80 tonnellate di bombe sulle sue truppe, in un fazzoletto di terreno di cinque chilometri per tre, e il tentativo rimase un progetto. Folgore All' una di notte del 2 novembre, gli inglesi e i loro alleati sfondarono le linee nemiche: gli italo-tedeschi erano destinati all' accerchiamento. Interi reparti vennero fatti a pezzi. Il pomeriggio del 4 novembre, Rommel ricevette un messaggio: «La Brigata Ariete non esiste più». Gli ultimi ad arrendersi furono i paracadutisti della Folgore: il destino fu crudele, uomini addestrati a lanciarsi nell' aria trovarono la morte in una depressione di sabbia, El Qattara. Di 5000 partiti dall' Italia, ne sopravvissero 304. Dando la notizia della vittoria, la radio inglese ammise la Folgore aveva resistito «oltre ogni limite delle possibilità umane». Omaggio Fu il trionfo di Sir Bernard Law Montgomery, che sarebbe stato poi protagonista anche della campagna d' Italia: le perdite dell' Asse furono di 30.543 uomini tra caduti, feriti, prigionieri e dispersi; quelle degli Alleati, 13.560. Con i resti dell' Afrika Korps, Rommel si ritirò, anziché immolarsi come avrebbe voluto Hitler. Lo aspettavano altre battaglie e il cianuro per aver cospirato contro il Führer. A El Alamein, incisa su un blocco di marmo, lasciò una dedica: «Il soldato tedesco ha stupito il mondo. Il bersagliere italiano ha stupito il soldato tedesco». I NUMERI 248 10 880 * * * La serie completa Prossimi appuntamenti la guerra in Italia e Russia Cassino e Stalingrado Il calendario delle uscite della serie «Le grandi battaglie del ' 900»: In edicola El Alamein (1942) 19/02 Monte Cassino (1944) 26/02 Stalingrado (1942-43) 05/03 Lo sbarco in Normandia (1944) 12/03 L' offensiva delle Ardenne (1944) 19/03 Arnhem (1944) 26/03 La caduta di Berlino (1945) 02/04 Battaglia di Francia (1940) 09/04 Battaglia di Inghilterra (1940-41) 16/04 Battaglia di Mosca (1941-42) 23/04 Battaglia delle Midway (1942) 30/04 Battaglia dell' Atlantico (1939-1945) 07/05 Battaglia di Guadalcanal (1942-1943) 14/05 Battaglia di Okinawa (1945) 21/05 Gallipoli (1915) 28/05 La battaglia della Somme (1916) 04/06 Cambrai (1917) 11/06 La battaglia del Kaiser (1918) 18/06 La Guerra dei Sei Giorni (1967) 25/06 Guerra del Vietnam (1962-1975) 02/07 Port Stanley (1982) - Isole Falklan 09/07 Goose Green (1982) - Isole Falklan 16/07 Prima Guerra del Golfo (1991) * * * UOMINI CONTRO I due strateghi sono entrati nella leggenda L' EROE Bernard Montgomery Sir Bernard Law Montgomery, a destra, in compagnia del primo ministro inglese Winston Churchill. Montgomery fu il vincitore di El Alamein, battaglia decisiva della Seconda Guerra mondiale IL VINTO Erwin Rommel Erwin Rommel, comandante dell' Afrika Korps. Ribattezzato per le sue qualità «la volpe del deserto», il feldmaresciallo tedesco venne sconfitto dall' inglese Montgomery a El Alamein
Minoliti Nino

Fausto BILOSLAVO
Foibe, il mio 10 febbraio ricordando il nonno morto
tratto da: Il Giornale, 9.2.2008.
"La sua unica colpa era l'italianità. E il non credere che il comunismo potesse guarire tutti i mali". Ma nella nuova Europa i tempi sembrano ormai maturi per una riconciliazione. Domani celebrazioni a Roma, Milano e in molte città all'estero
La storia è piena di crimini ma spesso i crimini non fanno storia, nel senso che strategie o ideologie dei vincitori di turno (ma spesso anche degli sconfitti) possono mandare rapidamente in archivio le peggiori atrocità dell'uomo. La tragedia istriana, con gli orrori di tanti italiani gettati nelle voragini carsiche dai comunisti jugoslavi e di tanti altri costretti a fuggire per salvarsi, è il classico esempio di una ragion di stato che ha voltato rapidamente pagina. In occasione del «Giorno del ricordo» di domani pubblichiamo un articolo di che nella tragedia istriana ha avuto coinvolti due nonni.
Mio nonno materno, Ezechiele, pur non avendo mai fatto del male a nessuno fu prelevato dalle truppe di Tito che occuparono Trieste nei famigerati «40 giorni» del 1945 e sparì nel nulla dopo essere stato deportato verso Lubiana. Mio nonno paterno, Giacomo, scampò per miracolo ad una sommaria fucilazione dei partigiani, mentre da Momiano, dove era nato e vissuto, cercava di raggiungere Trieste alla fine della seconda guerra mondiale. Pure lui non aveva mai imbracciato un fucile, ma possedeva un po' di terre ed una casa colonica. La vera «colpa» dei miei nonni, agli occhi dei «liberatori», era la loro italianità e la scarsa convinzione che il comunismo potesse risolvere i mali del mondo. I nonni non ci sono più, ma ogni anno tornano a vivere il 10 febbraio, Giorno del ricordo della tragedia dell'esodo dalle loro terre di istriani, fiumani e dalmati dopo il 1945. Questo strano articolo, in prima persona, è tratto dagli atti del seminario sull'Esodo dell'Associazione delle comunità istriane di Trieste presentato giovedì in occasione del Giorno del ricordo 2008. Domani si celebrerà in tutta Italia la tragedia dell'esodo e delle foibe.
PULIZIA ETNICA
Un aspetto devastante mi ha profondamente colpito seguendo dieci anni di guerra nell'ex Jugoslavia come giornalista: la strategia della pulizia etnica, che a fasi alterne tutti hanno tentato contro tutti. Un tragico copione che avevo già sentito raccontare dai miei nonni. In qualche maniera ho rivissuto come testimone le tragedie delle foibe e dell'esodo assistendo alle prime riesumazioni delle fosse comuni di Srebrenica. In Bosnia Erzegovina i serbi avevano massacrato e sepolto nel 1995, talvolta ancora vive, 8mila vittime musulmane. In particolare ricordo i resti di una madre e di un ragazzino, con le mani legate dietro la schiena dal filo di ferro, come gli infoibati del 1943 o del '45. In Kosovo, pochi giorni dopo l'inizio dei bombardamenti della Nato nel 1999, mi sono mescolato ad una colonna di profughi lunga chilometri, in fuga dai miliziani serbi. Fra loro anche un'anziana albanese paraplegica trascinata in carriola dai nipoti in fuga. Un altro esodo, come quello degli italiani mezzo secolo prima, mentre anni dopo, sempre in Kosovo, mi calai, assieme agli specialisti dell'Onu, in una vera e propria foiba. Sul fondo giacevano i resti dei serbi trucidati dai guerriglieri indipendentisti albanesi, prima dell'attacco della Nato.
I CRIMINI DEL PASSATO
Per cinquant'anni si è volutamente steso il velo dell'oblio sulla tragedia dell'esodo e sui crimini perpetrati contro gli italiani alla fine della seconda guerra mondiale. Si è trattato di una vera e propria «verità negata» e rimossa, che dal crollo del muro di Berlino e dalla disgregazione della Jugoslavia in poi, è venuta pian piano a galla. Come giornalista mi sono occupato dei cosiddetti «boia» titini. Una lunga lista, da Ivan Motika a Ciro Raner, fino a Mario Toffanin. L'unico ufficiale di Tito processato recentemente in Italia, per alcune uccisioni a Fiume, è stato Oskar Piskulic, che alla fine l'ha scampata per carenza di giurisdizione. Anche le notizie più scabrose venivano trattate con cautela, per usare un eufemismo, oppure completamente snobbate dalla grande stampa. Il fatto che Toffanin, massacratore dei partigiani non comunisti a Porzus, avesse una regolare pensione Inps, grazie al servizio militare in Italia, mantenuta per tutta la vita nel suo buon ritiro oltre confine, fece scandalo, ma solo sul «Giornale». Lo stesso per Raner, famigerato comandante del campo di Borovnica. Le foto dei soldati italiani sopravvissuti ai Lager titini come quello di Borovnica e ridotti a scheletri ambulanti, non a caso sono rimaste nascoste per anni. Nonostante le difficoltà, penso che i tempi siano maturi per un grande e necessario gesto di riconciliazione. I presidenti italiano, sloveno, croato e pure quello serbo devono inginocchiarsi assieme sui luoghi della memoria del Nord Est dalla Risiera di San Sabba alla foiba di Basovizza e se i nostri vicini lo desiderano anche nelcampo di concentramento fascista, per gli slavi, di Gonars. Non si tratta di mettere una pietra sopra il passato e dimenticare, ma di voltare pagina e guardare avanti per il bene delle future generazioni.
VERSO UN FUTURO EUROPEO
Bisogna dare il benvenuto nell'Europa libera ai vicini sloveni e croati ed auspico che pure i serbi e le altre nazioni dell'Est aderiscano ad un'Unione che perme non è soltanto quella dell'euro, ma anche un'idea di libertà in cui ho sempre creduto. Purtroppo sono state affrontate in maniera assolutamente insoddisfacente le ferite del passato, con gli eredi della Jugoslavia. Nessuna iniziativa veramente incisiva per ristabilire la verità negata e rimossa è stata messa in piedi. E soprattutto non si è fatta giustizia sui beni non soltanto abbandonati, ma seq u e s t r a t i agli esuli. Forse si è persa per sempre un'occasione, ma la domanda ora è: «che fare?». Il treno della storia non si ferma ed il binario dell'Europa va giustamente percorso, proprio in nome di quella libertà strappata agli esuli. Il famoso striscione «Volemo tornar», innalzato durante una manifestazione sull'esodo in piazza Unità d'Italia a Trieste non deve rimanere uno slogan vuoto. Realizziamolo, torniamo, ora che si può comprare un rudere italiano da ristrutturare o un fazzoletto di terra in prima persona. Non si tratta di una riconquista ma di una presenza, di cultura, di tradizione, di storia nel nome di una terra che fu italiana e ora è europea.
Data inserimento: 02/10/2008




si sarebbero giocate le sorti della guerra nel deserto tra l'asse e gli alleati e forse quello dell'intero conflitto.


La prima battaglia


Il generale Rommel, da poco nominato feldmaresciallo, malgrado le riserve dello Stato Maggiore italiano, assicurò di essere in grado di proseguire l'offensiva e sbaragliare definitivamente le forze inglesi.

Dall'altra parte Il Generale Auchinleck, pur reduce da cinque settimane di ininterrotte sconfitte e quindi consapevole della gravità della situazione era tuttavia deciso a resistere. Le forze a sua disposizione erano ancora sufficienti per poter difendere efficacemente Alessandria e il Delta del Nilo: a sua disposizione c'erano la maggior parte dei reparti della 50a divisione britannica, della 1a divisione sudafricana e della 2a divisione neozelandese del generale Freyberg.

Dall'Iraq era giunta la 18a Brigata indiana subito messa a difesa della posizione di Deir el Shein, mentre l'altra Brigata indiana, la 4a, aveva preso posizione ad Abu Weiss, più all'interno, ai margini della depressione di El Qattara.

Come forze corazzate, Auchinleck poteva contare sui 150 carri della 1a divisione corazzata e sugli autoblindo della 4a Brigata corazzata leggera, di recente creata.

Inoltre la RAF garantiva ancora un'eccellente copertura aerea tale da poter controllare dall'alto i movimenti del nemico.


Contro questa linea difensiva l'Armata italo-tedesca poteva opporre solo un'esigua forza corazzata formata da 35 carri tedeschi e poche decine di carri medi e leggeri delle Divisioni corazzate italiane "Ariete", "Littorio" e "Trieste" i cui reparti erano stati decimati nelle precedenti battaglie.

Malgrado la mancanza di forze adeguate Rommel era pronto a lanciare i suoi uomini all'attacco: sapeva benissimo che il tempo giocava a favore degli inglesi, e prima ancora che potessero rinforzarsi ulteriormente bisognava stanarli e distruggerli.


Data l'esigua consistenza delle forze a sua disposizione, un attacco lungo tutto il fronte difensivo nemico era da scartare per cui Rommel decise di attaccare proprio la posizione di el Alamein con i carri della 15a e della 21a Panzer Division e quelli della divisione corazzata Ariete.

Il piano di Rommel prevedeva una manovra avvolgente da nord per accerchiare il 13° Corpo d'Armata inglese.

Durante il pomeriggio del 30 giugno i reparti tedeschi si scontrarono lungo il perimetro difensivo di el Alamein con quelli della 4a Brigata Corazzata inglese costringendola a ripiegare verso Alam el Onsol: in prossimità della cresta Ruweisat gli inglesi riuscirono però a bloccare l'avanzata dei mezzi tedeschi. I reparti indiani della 18a Brigata si sacrificarono per tutto il giorno opponendo una tenace resistenza e distruggendo 18 dei 55 carri tedeschi che erano entrati in combattimento.

A bloccare definitivamente l'offensiva ci pensarono l'artiglieria e l'aviazione britannica: la prima con un potente fuoco di sbarramento mentre la Raf con attacchi a volo radente sulle colonne italo-tedesche.


Più a sud l'attacco dell'Ariete venne respinto dalla 2a divisione neozelandese: per le tre Brigate neozelandesi a ranghi completi fu facile avere ragione degli scarsi reparti della divisione italiana, ridotta a poco più di 15 mezzi corazzati, trenta pezzi di artiglieria ed un centinaio di bersaglieri.

I reparti della divisione si erano ritrovati allo scoperto nell'ampia depressione di Deep Well, ed erano stati attaccati contemporaneamente da tre lati dalle forze nemiche. Senza alcun riparo naturale non fu possibile organizzare nessuna difesa ne tantomeno fu possibile ripiegare in ordine.


La sconfitta della Divisione corazzata italiana colse di sorpresa lo stesso Rommel: "questo colpo ci arrivò del tutto inatteso, perché nei combattimenti durati lunghe settimane presso Knights Bridge l'"Ariete", sia pure sotto la protezione dell'artiglieria e dei carri tedeschi, si era battuta bene contro tutti gli assalti britannici, sebbene subisse sensibili perdite. Ora gli italiani non erano più in grado di rispondere alle enormi esigenze della situazione".


A partire dal 10 luglio ebbe inizio la prima battaglia difensiva di el Alamein, che si protrasse fino al 27 luglio.

Nella notte tra il 10 e l'11 luglio il generale Auchilenck, avuta la certezza che il grosso delle forze italo-tedesche era concentrato nel settore centro-meridionale del fronte, lanciò un attacco in quello settentrionale con la 9a divisione australiana e la 1a divisione sudafricana: l'obiettivo era la conquista delle alture di Tell el-Eisa e Tell el-Makh-Khad lungo la strada costiera.

A difesa del settore di Tell el-Eisa c'erano i reparti della divisione italiana Sabratha che vennero ben presto travolti dall'assalto degli australiani. Per chiudere la breccia vennero inviati rinforzi che riuscirono a fermare il nemico a sette chilometri dall'obiettivo e a infliggergli notevoli perdite soprattutto per quanto concerne i reparti corazzati.

Anche nel settore di Tell el-Makh-Khad l'attacco dei sudafricani venne bloccato dalla forte resistenza dei reparti italo-tedeschi.

Fallito l'offensiva britannica, Rommel tra il 12 ed il 14 luglio riorganizzò i suoi reparti tentando di ristabilire la precedente linea difensiva.
Il 15 luglio gli inglesi tornarono all'attacco nel settore dell'altura di Ruweisat questa volta al centro dello schieramento difensivo delle forze dell'Asse.
I primi ad essere investiti furono i reparti della divisione Brescia, che pur opponendo una fiera resistenza vennero ben presto travolti dall'attacco dei mezzi corazzati nemici; Rommel contrattaccò con tutte le sue forze disponibili ristabilendo la situazione a suo favore.
Un nuovo attacco nemico si verificò tra il 21 ed il 22 luglio, risolvendosi ancora una volta in un completo insuccesso per i britannici. Le forze italo-tedesche, malgrado le notevoli perdite, la mancanza di rifornimenti e la superiorità nemica in uomini e mezzi, mosse da indomito valore e spirito di sacrificio resistevano.

La seconda battaglia: Alam el-Halfa

Di fronte agli insuccessi di Auchilenck, il primo ministro inglese Churchill si vide costretto a sostituirlo: al comando dell'Ottava Armata venne designato il Generale Gott, un veterano della guerra nel deserto, mentre il comando generale del Medio Oriente fu assunto dal Generale Alexander. Il 7 agosto però Gott morì durante un volo di trasferimento in Egitto, quando l'aereo sul quale viaggiava venne abbattuto; il comando dell'Ottava Armata fu assunto così definitivamente dal Generale Bernard Law Montgomery.
Anche sul fronte italo-tedesco c'erano state delle novità: l'insieme delle truppe a disposizione di Rommel aveva assunto la denominazione di Armata corazzata italo-tedesca. Erano giunte nuove truppe: la divisione paracadutisti Folgore, la 164a divisione di fanteria tedesca, la 22a Brigata paracadutisti tedesca agli ordini del generale Ramcke e dalla Tripolitania erano giunti i reparti corazzati della divisione Littorio.
Il 28 agosto, sempre consapevole che il tempo giocava a favore del nemico, Rommel inviò ai reparti le direttive per la nuova offensiva che doveva scattare il 30 agosto: la manovra di Rommel prevedeva un avvolgimento da sud e poi una conversione a nord oltre il rilievo di Alam el-Halfa alfine di colpire il nemico sul fianco e alle spalle.
Insieme al Deutsche Afrika Korps, attaccarono il XX° Corpo Motorizzato italiano, con le Divisioni corazzate "Ariete" e "Littorio" e la Divisione motorizzata "Trieste", sul fianco sinistro della 15a e 21a Panzer division.
L'attacco iniziò nella notte tra il 30 ed il 31 agosto: i reparti corazzati tedeschi investirono il settore meridionale del fronte, con l'obiettivo di superare la zona dei campi minati, aggirare l'intero schieramento inglese e sboccare sulla costa all'altezza di El Hamman, alle spalle dell'Ottava Armata.
La 15a panzer division attacava con 70 carri PzKpfw III e IV e la 21a panzer con altri 120. Prima di mezzanotte, i reparti avanzati della 15a Panzer division vennero a contatto con le difese britanniche della fascia minata. Invece delle deboli forze previste, però i reparti tedeschi trovarono profondi campi minati e una forte resistenza nemica. Il 1° battaglione del 115° reggimento granatieri corazzato (15a Panzer division), agli ordini del Maggiore Busch, si trovò sotto un potente fuoco di sbarramento dell'artiglieria prima di dover fronteggiare un contrattacco della fanteria britannica. Urgevano subito rinforzi: l'arrivo del 2° battaglione, agli ordini del Capitano Weichsel, salvò la situazione. I granatieri tedeschi superarono di slancio lo sbarramento minato, riuscendo a stabilire una testa di ponte rendendo così possibile la creazione di un passaggio per i carri della 15a Panzer division.
Il Generale Walther Nehring, comandante dell'Afrika Korps, guidò l'assalto dei suoi uomini seguendo la 21a Panzer: insieme con lui, a bordo della sua autoblindo-comando, il Capo di Stato Maggiore, Colonnello Bayerlein. Poco dopo l'inizio dell'attacco, giunse la prima triste notizia: la morte del comandante della 21a Panzer Division, Generale Georg von Bismarck, caduto alla testa della sua unità, mentre tentava di attraversare la zona dei campi minati. I reparti italo-tedeschi continuavano a combattere di fronte ai campi minati, strenuamente difesi dal nemico mentre dall'alto, la Raf colpiva a volo radente le colonne motorizzate nemiche.
Per meglio illuminare il campo di battaglia gli aerei inglesi lanciavano bombe al magnesio che si incendiavano quando toccavano il suolo: il bagliore delle esplosioni illuminava per molto tempo l'area circostante, permettendo così ai piloti di scorgere i movimenti dei reparti nemici.
Dopo la morte di von Bismarck, il comando dell'Afrika Korps perse anche il generale Nehring, rimasto ferito nel corso di un bombardamento aereo: la guida dei reparti corazzati avanzati venne assunta dal colonello Bayerlein.
Solo poco prima dell'alba, la resistenza dei reparti britannici a difesa della zona dei campi minati nel settore meridionale iniziò a scemare: le punte corazzate del DAK penetrarono per circa 12-15 chilometri oltre la linea difensiva nemica invece dei 50 previsti.
Il piano di Rommel di penetrare profondamente verso est e di ruotare all'alba verso la costa, era dunque fallito.
Dalle memorie del colonello Bayerlein:
"Riflettemmo se interrompere la battaglia, perché gli inglesi sapevano ormai dove eravamo. Rommel parlò con me della situazione e giungemmo alla decisione di continuare l'attacco. Ma una cosa era evidente: la "grande soluzione", ossia il vasto aggiramento dell'Ottava Armata, non era più possibile, in quanto l'avversario aveva avuto il tempo sufficiente per preparare le sue contrazioni. L'avversario ci costringeva dunque alla "piccola soluzione": essa consisteva nel fatto che noi dovevamo girare verso nord assai prima di quanto progettato e, in tal modo, urtare direttamente contro il dorso dell'altura di Alam Halfa, con l'importante quota 132, che doveva essere conquistata mediante un attacco diretto".
Ad aggravare ulteriormente la situazione subentrò il mancato arrivo dei rifornimenti di carburante: le petroliere che dovevano assicurare la benzina per i mezzi corazzati delle forze italo-tedesche erano state tutte affondate o gravemente danneggiate durante il tragitto nel Mediterraneo.
Il 31 agosto, i Panzer tedeschi attaccarono l'altura di Alam Halfa, difesa nel settore centro-orientale dai reparti della 44a Divisione di fanteria britannica e della 10a divisione corazzata britannica nel settore occidentale.
Una provvidenziale tempesta di sabbia, bloccò a terra l'aviazione nemica: cogliendo al volo questa inaspettata circostanza, i panzer tedeschi attaccarono immediatamente a sud dell'altura, scontrandosi con i carri Grant della 22a Brigata corazzata inglese.
L'attacco non ebbe successo per l'ostinata resistenza nemica: nel tardo pomeriggio, i panzer tedeschi furono costretti a ripiegare verso sud, raggruppandosi nella depressione Ragil.
Per rinforzare le posizioni di Ruweisat Montgomery vi trasferì una Brigata sudafricana ed altri reparti per bloccare definitivamente la spinta offensiva nemica.
Il 1° settembre, la 15a Panzer Division, passata temporaneamente agli ordini del Colonnello Crasemann, fu lanciata contro l'altura di Alam Halfa e, dopo durissimi combattimenti riuscì ad arrivare quasi fino alla quota 132, punto strategico di vitale importanza.
Se si superava lo sbarramento nemico alla quota 132 i panzer tedeschi avrebbero avuto via libera verso il mare. Anche il nemico era consapevole dell'importanza della posizione per cui le forze tedesche vennero bombardate incessantemente dall'artiglieria e dall'aviazione. I carri dell'8° Panzerregiment della 15a divisione corazzata tedesca erano riusciti a penetrare nelle linee avversarie giungendo a soli 8 chilometri dalla costa alle spalle del fronte di El Alamein.
Ma, sulla sinistra, il 5° Panzerregiment della 21a Panzer Division era bloccato davanti alle posizioni difensive britanniche, con i carri e la fanteria motorizzata sotto il fuoco dei caccia nemici.
Dopo tre giorni di durissimi combattimenti, considerando le perdite e la mancanza di carburante, Rommel si vide costretto a sospendere l'offensiva e ad ordinare l'arretramento del fronte difensivo.
Il 4 settembre gli inglesi lanciarono l'operazione Beresford nel tentativo di eliminare il saliente che le forze italo-tedesche erano riuscite a creare durante l'ultima offensiva, nella zona di Deir Alinda, Deir el Munassib e Deir Munafid.
L'attacco inglese si arenò davanti alla forte resistenza dei reparti della divisione Folgore, che riuscirono a respingere le puntate offensive del nemico infliggendogli notevoli perdite.

COLPO DI MANO A TOBRUK

Per tentare di allegerire la pressione nemica sul fronte di El Alamein, gli inglesi tentarono tra il 13 ed il 14 settembre un attacco a sorpresa contro la piazzaforte di Tobruk: l'attacco congiunto dall'entroterra con reparti del Long Range Desert Group e dal mare con reparti di Royal Marines, appoggiati da una squadra navale si risolse in un completo insuccesso.
Le forze italiane a difesa del porto (un battaglione del Reggimento San Marco, elementi del XVIII° battaglione carabinieri, il V° battaglione libico ed una compagnia di formazione della Marina), seppero reagire prontamente e stroncarono sul nascere il velleitario tentativo nemico. Grazie anche al pronto intervento dell'Aeronautica italiana e della Luftwaffe gli inglesi subirono gravi perdite: oltre a più di cinquecento uomini dei reparti speciali gli inglesi lamentarono la perdita dell'incrociatore Coventry, dei cacciatorpediniere Sikh e Zulu e 7 motosiluranti.
Il 23 settembre, spossato dalla fatica e bisognose di un periodo di cure ma soprattutto di riposo, Rommel lasciò il comando dell'Armata corazzata italo-tedesca, sostituito dal Generale Georg Stumme, veterano del fronte dell'est.
Al mattino del 30 settembre nei pressi di Deir el Munassib, all'estremità meridionale del fronte, gli inglesi attaccarono di nuovo: a difesa di quella posizione c'erano i paracadutisti del IX° battaglione del 187° Reggimento Folgore. Dall'altre parte c'era un battaglione del Queen's Royal Regiment, appoggiato da circa 40 carri. Dopo aver pesantemente bombardato per oltre un'ora le posizioni dei parà, la fanteria nemica approfittando del fumo alzatosi dopo le esplosioni riuscì a penetrare attraverso alcuni varchi prodotti dalle artiglierie nella zona dei campi minati.
La reazione dei paracadutisti non si fece però attendere: una prima colonna inglese si ritrovò in mezzo al campo di tiro della 25a e 26a compagnia paracadutisti, mentre l'altra colonna si scontrò con la 27a compagnia ed il battaglione tedesco "Hubner".
Seguirono durissimi scontri che videro gli inglesi lamentare pesanti perdite e quindi decidersi a ripiegare per evitare l'annientamento. Negli scontri i britannici lamentarono la perdita di 200 uomini tra morti e feriti e circa 150 prigionieri.

La terza battaglia di El Alamein

Mentre le forze italo-tedesche erano sempre in attesa di ricevere adeguati rinforzi e rifornimenti, sull'altra sponda grazie agli aiuti americani non c'era di che lamentarsi.
Zio Sam aveva fatto affluire nei porti egiziani carri armati, artiglierie, automezzi, montagne di munizioni e milioni di litri di carburante.
L'aggravarsi della situazione militare sul fronte dell'est, non aveva consentito a Berlino di inviare ulteriori rinforzi in Africa settentrionale, cosi come lo Stato Maggiore italiano aveva pensato bene di inviare sul fronte russo mezzi e uomini che sarebbero stati di vitale importanza per il conseguimento del successo sul fronte africano.
Mancarono la fortuna e non il valore come si scrisse dopo, ma mancò anche nelle nostre alte gerarchie militari la volontà di vincere, quasi come se qualcuno stesse veramente già pensando ad una pace con gli alleati e pur di raggiungerla stava portando allo sfacelo le nostre forze armate.
Quindi la famosa frase potrebbe essere modificata in "Mancarono la fortuna, i mezzi e la volontà, che resero vano il valore dei nostri soldati".
Durante il periodo antecedente la fase finale della battaglia i reparti italo-tedeschi furono impegnati nel fortificare le posizioni difensive e stendere una vasta fascia di campi minati, i cosiddetti "giardini del diavolo", vaste zone di terreno zeppe di mine e trappole esplosive.

LE FORZE IN CAMPO

L'Armata Corazzata Italo-Tedesca, alla vigilia dell'ultima battaglia di El Alamein, allineava:
a nord il XXI° Corpo d'Armata (Gen. Gloria) compredente le divisioni di fanteria italiane Trento e Bologna, la 164a infanteriedivision tedesca e due battaglioni della Brigata paracadutisti Ramcke.
La presenza di reparti misti alternati, italiani e tedeschi, fu ritenuta necessaria da Rommel, alfine di bilanciare l'insufficiente armamento italiano.
A sud, il X° Corpo d'Armata (Gen. Frattini) con le divisioni di fanteria Brescia e Pavia, la divisione paracadutisti Folgore e gli altri due battaglioni della Brigata Ramke.
Dietro questa prima linea c'erano le forze corazzate mobili: a nord la 15a Panzer Division e la divisione corazzata Littorio (Gen. Bitossi), a sud la 21a Panzer Division e la divisione corazzata Ariete (Gen. Arena).
La divisione motorizzata Trieste (Gen. La Ferla) e la 90a Leichte division Tedesca erano dislocate ancora più a tergo dello schieramento, lungo la fascia costiera, per respingere un eventuale sbarco inglese.
L'intero schieramento comprendeva in totale:
104.000 uomini (circa 55.000 italiani), 751 pezzi di artiglieria, 522 pezzi anticarro, 489 carri armati (211 tedeschi, 278 italiani), poche decine di autoblindo, 675 aerei (di cui solo 150 tedeschi e 200 italiani efficienti).
L'Ottava Armata inglese schierava invece, a nord, in prima linea, il XXX° Corpo d'Armata (Gen. Leese), comprendente la 9a Divisione australiana, la 51a "Highland", la 2a neozelandese, la 1a sudafricana e la 4a indiana.
Più a sud, c'era il XIII° Corpo d'Armata (Gen. Horrocks), comprendente le divisioni di fanteria 50a e 44a, la brigata della "Francia Libera" ed un gruppo di brigata greco.
In seconda linea, a tergo del XXX° Corpo, c'era il X° Corpo d'armata (Gen. Lumsden), con le Divisioni corazzate 1a e 10a, mentre dietro al XIII° Corpo c'era il grosso della 7a Divisione corazzata.
A disposizione di Montgomery c'erano inoltre inoltre, una Brigata indiana, una Brigata corazzata, due Brigate di artiglieria contraerea e una Brigata di fanteria indiana.
In totale: 220.000 uomini, 1348 carri armati, 400 autoblindo, 939 pezzi di artiglieria, 1200 aerei da caccia e da bombardamento.
Già da queste cifre la sproporzione delle forze è alquanto evidente, se poi iniziamo a considerare anche la qualità degli armamenti la situazione delle forze dell'Asse era catastrofica.
Le formazioni corazzate inglesi disponevano di 285 carri Sherman, 246 Grant, 421 Crusader, 167 Stuart, 223 Valentine e 6 Matilda.
I 489 carri dell'Asse, comprendevano 239 carri medi e 20 carri leggeri italiani, nettamente inferiori ai carri Sherman e Grant di costruzione americana ma anche ai Crusader inglesi.
Inferiori erano anche i 30 carri leggeri tedeschi Panzerkamfwagen II, mentre i 170 PanzerKampfwagen III reggevano appena il confronto.
Gli unici carri superiori a quelli nemici erano i 38 Panzerkampfwagen IV tedeschi, alcuni dei quali montavano il cannone da 75mm.
Da parte italiana, gli unici mezzi validi erano i semoventi da 75/18, delle divisioni corazzate Ariete e Littorio.
Per quanto riguarda le armi anticarro, gli italiani disponevano del superato pezzo da 47/32 e i tedeschi dell'altrettanto inefficace 50/35.
Gli unici pezzi di rilievo erano il cannone da 88/55 tedesco, vero terrore dei carri nemici, e il cannone italiano da 90/53.
Gli inglesi erano dotati dell'ottimo pezzo da 57mm entrato in servizio proprio nell'estate del '42. L'artiglieria nemica era quantitativamente e qualitativamente nettamente superiore, considerando anche che la maggior parte dell'artiglieria italiana allineava ancora vecchi cannoni risalenti alla prima guerra mondiale.
Ai 1200 aerei della RAF Rommel poteva opporre solo 700 aerei (di cui efficienti solo 150 caccia e 180 bombardieri.

Operazione Lightfoot

L'Operazione Lightfoot messa a punto dallo Stato maggiore di Montgomery prevedeva un massiccio attacco nel settore settentrionale del fronte, con le quattro Divisioni del XXX° Corpo e le due Divisioni corazzate del X° Corpo, mentre nel settore meridionale, sarebbe stato lanciato un attacco diversivo, per mascherare la direttrice principale dell'offensiva.
Alle 20.40 del 23 ottobre 1942, l'artiglieria inglese con circa mille pezzi da campagna aprì il fuoco contro le posizioni italo-tedesche ad El Alamein: un uragano di fuoco si rovesciò sulle teste dei nostri soldati.
Inizialmente vennero colpite le posizioni dell'artiglieria poi dopo quindici minuti il fuoco fu diretto contro le posizioni difensive avanzate.
Poco dopo la fanteria nemica si mosse per aprire i varchi nei campi minati per il passaggio dei mezzi corazzati.
Ovunque si accesero furiosi combattimenti che videro impegnati per primi i battaglioni del 62° Reggimento della divisione Trento e quelli del 382° Reggimento tedesco (164a Infanteriedivision).
Nel settore nord del fronte l'attacco della 9a divisione australiana e della 51a inglese, permise una prima penetrazione dei carri della 1a e 10a divisione corazzata all'interno del dispositivo difensivo italo-tedesco. Un pronto contrattacco della Trento, da parte del III° Battaglione del 61° Reggimento, appoggiato dai cannoni del I° e III° Gruppo del 46° Reggimento, riuscì a bloccare l'offensiva nemica, lasciando i fanti e i carri nemici in balia in mezzo ai campi minati.
Al centro dello schieramento, anche l'attacco della 4a divisione indiana contro la cresta di Ruweisat venne bloccato dai fanti della divisione Bologna.
Più a sud ci pensarono i paracadutisti della Folgore a fermare la fanteria della 44a divisione inglese e i carri della 7a divisione corazzata: i parà dell'VIII° Battaglione guastatori e del VII° battaglione del 186° Reggimento, agli ordini del tenente colonello Ruspoli, grazie all'appoggio del V° Gruppo di artiglieria e di alcuni Panzer tedeschi bloccarono in mezzo ai campi minati gli inglesi.
Un altro attacco di una formazione mista comprendente inglesi e francesi quasi al confine della depressione di El Qattara cozzò contro le difese del V° battaglione del 186° Reggimento a Nagh Rala. Un contrattacco portato dai paracadutisti insieme al II° battaglione del 27° Reggimento della divisione Pavia frenò definitivamente l'offensiva nemica.
Nei cieli di El Alamein i piloti italiani del 4° e 5° stormo caccia e del 50° stormo d'assalto, a bordo dei superati Fiat CR.42, si stavano battendo valorosamente contro la superiorità aerea della RAF.
Al mattino del 24 ottobre, Montgomery non poteva dirsi certo soddisfatto circa l'andamento delle operazioni: malgrado qualche piccolo successo locale il grosso delle sue forze era ancora bloccato davanti ai campi minati antistanti lo schieramento difensivo nemico. Per incitare i suoi comandanti di divisione a fare meglio, arrivò addirittura a minacciarli di sostituzione.
Sul fronte italo-tedesco vennero lanciati una serie di contrattacchi per ristabilire la linea del fronte ed eliminare le brecce aperte in seguito all'attacco nemico.
Sul fronte meridionale il contrattacco portato dai paracadutisti della Folgore pur concludendosi positivamente costò la vita al comandante Ruspoli.
In quelle ore cadde anche il generale Stumme, stroncato da un attacco cardiaco mentre la sua vettura era finita sotto il fuoco nemico.
Bollettino n.882 del 25 ottobre 1942:
"Dopo intensa preparazione di artiglieria il nemico ha attaccato i settori settentrionali e meridionale del fronte di El Alamein con importanti forze blindate e di fanteria. L'avversario, ovunque respinto, ha subito gravi perdite soprattutto in mezzi corazzati, di cui 47 risultano finora distrutti. La battaglia continua. L'aviazione britannica, intervenuta con poderose formazioni a sostegno dell'azione terrestre, è stata efficacemente contrastata dalla caccia dell'Asse che abbatteva 16 apparecchi in fiamme; altri 4 precipitavano al suolo sotto il tiro delle batterie contraeree".

IL RITORNO DI ROMMEL

Intanto Rommel, era ancora in convalescenza in Austria: non appena gli venne comunicata telefonicamente l'inizio dell'offensiva inglese non ci pensò due volte a far subito i bagagli per il fronte africano. Alle ore 23.25 del 25 ottobre, tutti i reparti italo-tedeschi sul fronte di El Alamein ricevettero il seguente messaggio:
"Ho ripreso il comando della Panzerarmee - Rommel".
Solo nel pomeriggio del 26 ottobre, gli inglesi ripresero l'offensiva, facendola sempre precedere dal fuoco di preparazione dell'artiglieria.
A nord gli inglesi attaccarono nell'area denominata Kidney Bridge con la 9a divisione australiana e la 51a inglese: dopo alcune penetrazioni locali, l'offensiva venne bloccato dall'intervento dei reparti della 15a Panzer Division e della divisione corazzata Littorio.
Sul fronte meridionale, ancora una volta l'attacco inglese portato dalla 44a divisione inglese venne fermato nei pressi di Deir el Munassib dai paracadutisti della Folgore.
Il 27 ottobre, Rommel decise di contrattaccare nel settore settentrionale con la 90a Leichte Division, la 21a Panzer e reparti della divisione corazzata Ariete.
Il tentativo fu vanificato dal potente fuoco di sbarramento dell'artiglieria nemica e dall'intervento dei bombardieri nemici che colpirono duramente le colonne italo-tedesche.
Dal 28 ottobre si ritornò sulla difensiva: malgrado la superiorità dei mezzi a disposizione Montgomery non riusciva a creare un varco nella linea difensiva nemica.
Questa situazione di attacchi e contrattacchi durò fino alla fine di ottobre, senza alcun risultato di rilievo né da una parte né dall'altra: un logorio continuo di uomini e di mezzi che giocava come già detto più volte, a favore degli inglesi.

OPERAZIONE SUPERCHARGE

A partire dal 1 novembre Montgomery passò ai suoi comandi le ultime direttive per l'operazione Supercharge: il vecchio Monty voleva una volta per tutte travolgere le difese italo-tedesche con una massa corazzata appoggiata da tutta l'aviazione alleata disponibile.
Questa volta l'attacco decisivo doveva essere portato nel punto di congiunzione tra lo schieramento tedesco e quello italiano, con il maggiore sforzo contro i reparti italiani ritenuti più vulnerabili.
Dopo il solito bombardamento dell'aviazione e dell'artiglieria, all'alba del 2 novembre iniziò l'attacco delle fanterie e dei mezzi corazzati. Mentre la 9a divisione australiana effettuava un attacco diversivo in direzione della costa, più a sud passando attraverso un varco creato nei campi minati la 9a Brigata corazzata (2a divisione neozelandese) doveva aprire la strada alle divisioni corazzate del X° Corpo d'Armata (1a e 10a).
Quando la 9a Brigata stava per giungere nei pressi della pista Rahman, venne a contatto con le difese anticarro tedesche, perdendo ben 73 dei suoi 94 carri nei combattimenti. Tuttavia il suo sacrificio non fu vano, dal momento che le altre divisioni corazzate inglesi riuscirono a passare attraverso lo schieramento nemico e ad ingaggiare battaglia.
Il comandante del Deutsche Afrika Korps, generale Ritter von Thoma, si vide costretto a lanciare in combattimento tutti i mezzi corazzati ancora a sua disposizione, per tentare di fermate gli inglesi: i resti della 15a e 21a Panzer Division ed i reparti corazzati della Littorio e della Trieste.
Appena un centinaio di carri contro più di duecento carri nemici: i nostri valorosi carristi a bordo degli M13 e M14 poco potevano contro i potenti Grant e Sherman, ma si lanciarono comunque all'attacco, per l'onore e per la patria.
L'assalto nemico venne temporaneamente bloccato, e Rommel voleva approfittarne per effettuare un ripiegamento all'altezza di Fuka e salvare la maggior parte dei reparti italo-tedeschi. Ma il 3 novembre da Berlino e da Roma arrivò l'ordine di "mantenere a qualunque costo attuale fronte".
Nella serata del 3 novembre le divisioni italiane Littorio, Trieste ed Ariete ricevettero l'ordine di ritornare in prima linea e prendere contatto con il nemico.
Nel frattempo Montgomery proprio durante la notte tra il 3 ed il 4 novembre ordinò una manovra di aggiramento della sacca di Tell el Aqqaqir ed un attacco generale tra la costa e la depressione di Deir Abu Busat.
La 9a divisione australiana travolse i reparti della 90a Leichte division, mentre le divisioni corazzate 1a e la 10a piombarono sugli altri reparti del Deutsche Afrika Korps. La divisione corazzata Ariete si ritrovò isolata, mentre la Littorio continuava a battersi con gli ultimi 20 carri rimasti in organico.
Proprio la divisione Ariete insieme ai resti della Littorio e della 15a Panzer Division venne impiegata per coprire la ritirata alle altre forze: finalmente da Roma, valutata l'inutilità della lotta ad oltranza, era giunto l'ordine di ripiegamento.
I carristi dell'Ariete si sacrificarono fino all'ultimo quando venne inviato l'ultimo messaggio radio:
"Carri armati nemici fatta irruzione a sud dell'"Ariete"; con ciò "Ariete" accerchiata. Trovasi circa 5 chilometri nord-est Bir el-Abd. Carri "Ariete" combattono".
A proposito dei carristi italiani e della giornata del 4 novembre scrisse Rommel nelle sue memorie:
"La disperata lotta dei piccoli e scadenti carri italiani del XX° Corpo contro i pesanti carri britannici che avevano aggirato gli italiani, vide i nostri camerati battersi con straordinario calore…
I carri armati della Littorio e della Trieste venivano abbattuti uno dopo l'altro dai britannici. I cannoni anticarro da 47mm, esattamente come i nostri da 50mm, non avevano alcuna efficacia contro i carri inglesi…
La sera il XX° Corpo italiano, dopo valorosa lotta, era annientato. Con l'Ariete perdemmo i nostri più anziani camerati italiani, ai quali, bisogna riconoscerlo, avevamo sempre chiesto più di quello che erano in grado di fare con il loro cattivo armamento".
Nel settore meridionale, anche le forze del X° Corpo d'Armata italiano erano state annientate: le divisioni Brescia, Pavia e Folgore.
Quando giunse l'ordine di ripiegamento ai decimati reparti della Folgore ormai era troppo tardi: senza autocarri i paracadutisti marciarono nel deserto a piedi nudi, trascinandosi a mano le poche mitragliatrici e i cannoni rimasti. Per tre lunghissimi giorni vagarono nel deserto finchè non furono tutti catturati dal nemico. Su 5.000 effettivi dell'organico iniziale, restavano solo 300 superstiti tra ufficiali e soldati.
Il 5 novembre le forze italo-tedesche ripiegarono su Fuka, ed il 6 su Marsa Matruh; il 12 venne raggiunta la linea Tobruk-el Adem.

LE PERDITE

La battaglia di El Alamein costò all'Armata italo-tedesca 25.000 uomini, tra morti, feriti e dispersi, oltre a 30.000 prigionieri: tra questi ultimi anche 10.724 tedeschi, compreso il comandante dell'Afrika Korps, Generale von Thoma.
Da parte inglese si lamentava la perdita di 13.560 uomini, tra morti, dispersi e feriti e 600 carri armati fuori combattimento.
Vista l'enorme sproporzione di forze in uomini e mezzi all'inizio della battaglia, le perdite inglesi sono da ritenersi troppo alte.

TESTIMONIANZE DEL NEMICO

Quando si parla della battaglia di El Alamein si pensa subito a due nomi: Rommel e Folgore. La divisione paracadutisti italiana si battè valorosamente, ma anche le altre nostre divisioni si comportarono altrettanto valorosamente. Queste testimonianze rivolte in modo specifico ai combattenti della Folgore, desideriamo dedicarle a tutti i soldati italiani che sacrificarono la loro vita in terra d'Africa combattendo con mezzi inferiori un nemico dieci volte superiore.
"gli italiani si sono battuti molto bene. la divisione paracadutisti folgore ha resistito al di la' di ogni possibile speranza". (Radio Cairo, 8 Novembre 1942)
"la resistenza opposta dai resti della divisione folgore e' stata ammirevole". (Reuter Londra, 11 Novembre 1942)
"gli ultimi superstiti della folgore sono stati raccolti esanimi nel deserto. la folgore e' caduta con le armi in pugno". (B.B.C. Londra, 3 Dicembre 1942)
"dobbiamo davvero inchinarci davanti ai resti di quelli che furono i leoni della folgore". (B.B.C. Londra, Discorso del 1° Ministro Churchill, alla camera dei comuni)
Massimiliano Afiero
Bibliografia:
M. Montanari, "Le operazioni in Africa settentrionale", Ufficio Storico S.M.E.
A. Bongiovanni, "Battaglie nel deserto", Mursia editore
AA.VV., "Soldati e Battaglie della 2GM: Africa settentrionale numero 3", Hobby & Work editrice
B.P. Boschesi, "Le Armi, I protagonisti,…della guerra di Mussolini", Mondadori editore

Battaglia di El-Alamein
Data: 23 ottobre - 4 novembre 1942.
Luogo: El-Alamein (Località egiziana a 100 km da Alessandria).
Eserciti contro: Inglese e Italo-Tedesco.
Protagonisti:
Erwin Rommel (Comandante dell'Afrika Korps).
Ettore Bastico (Generale italiano).
Harold Alexander (Comandante inglese del settore mediorientale).
Bernard Law Montgomery (Generale britannico, comandante dell'Ottava armata).
La battaglia.
Il 22 giugno e il 7 agosto del 1942 sono le due date fondamentali per la storia della battaglia di El Alamein. Il pomeriggio del 22 giugno il comandante dell'Afrika Korps, generale Erwin Rommel si incontra a Gambut con il suo collega italiano generale Ettore Bastico, per discutere quali decisioni sono da prendere circa l'offensiva italo-tedesca in corso. Il giorno precedente è stata riconquistata la fortezza di Tobruk: trentacinquemila inglesi con sei generali si sono arresi. La sera stessa Rommel viene nominato feldmaresciallo. Tornando alla riunione degli alleati italo-tedeschi, viene deciso di seguire la linea di condotta di Rommel: proseguire l'offensiva e infliggere in Egitto il colpo decisivo agli inglesi, non lasciando loro il tempo di ricostituire le loro difese. Il 7 agosto dello stesso anno è l'altro giorno decisivo per le sorti di quella che sarà la battaglia di El Alamein. In conseguenza delle sconfitte subite sul fronte dell'Africa settentrionale a opera di Rommel, il primo ministro britannico Winston Churchill decide di sostituire sia il comandante del settore mediorientale, Auchinleck, sia il comandante dell'Ottava armata, Ritchie. Al posto del primo designa il generale Harold Alexander e al posto del secondo il generale W. Gott. Ma lo stesso giorno della sua nomina, Gott viene abbattuto da un caccia tedesco mentre compie un volo di ricognizione sulle postazioni del fronte libico e così il problema del comando dell'Ottava armata si ripropone con raddoppiata urgenza. Lo risolve, nonostante qualche perplessità di Churchill, il capo di Stato Maggiore britannico, sir Alan Francis Brooke, che sceglie, per il posto di Gott, Bernard Law Montgomery. Sarà la determinazione di questo generale, apprezzato ma non sopravvalutato, a dare una mentalità vincente alle rassegnate truppe inglesi dell'Africa settentrionale e, in una straordinaria vampata d'orgoglio, a rovesciare la situazione. Ai primi di luglio Rommel si è visto bloccato dai rinfrancati inglesi a El Alamein, una stazioncina ferroviaria diroccata distante cento chilometri da Alessandria, nel pieno deserto.
Ma entrambi i due schieramenti restano in stallo. Hanno necessità di consolidarsi.
Montgomery sospende gli attacchi, Rommel pure. Anzi ne approfitta per prendersi qualche giorno di licenza e vola a Berlino, lasciando il comando al generale Stumme. Alla vigilia della battaglia di El Alamein, l'Asse dispone di ottantamila uomini, di cui ventisettemila tedeschi, duecento carri armati e 345 aerei (129 tedeschi e 216 italiani). Di contro, Montgomery può schierare duecentotrentamila uomini, oltre mille carri armati e 1.000 aerei. Dunque la superiorità britannica si può calcolare almeno nella misura di uno a tre. Dal nord verso sud lo schieramento dell'Asse (italo-tedesco) era il seguente: a nord le divisioni di fanteria "Trento", "Bologna" e "Brescia". All'estremità sud, la divisione paracadutisti "Folgore", appena giunta in Africa settentrionale.
Alle spalle della "Folgore", la divisione "Pavia". In prima linea, a sostegno delle forze italiane, la 164ª divisione tedesca e la brigata paracadutisti del generale Ramcke. Le unità di manovra, tenute in seconda schiera, erano a nord la divisione corazzata "Littorio" e la 15ma Panzerdivision, e a sud la divisione corazzata "Ariete" e la 21ª Panzerdivision. Di riserva, la divisione "Trieste" e la 90ma divisione tedesca. Ecco invece lo schieramento adottato da Montgomery. A nord, il 30° Corpo d'Armata, a sud il 13° e, alle loro spalle, il reparto meglio addestrato e meglio armato, ossia il 10° Corpo d'Armata corazzato. Nel 30° Corpo figuravano le divisioni indiana, neozelandese, australiana e sudafricana; nel 13°, oltre a due divisioni inglesi, due brigate francesi e una brigata greca.
Il piano di Montgomery consiste nell'attaccare il centro del settore nord, dov'erano schierate la "Trento" e la 164ª divisione tedesca, tentando di sfondare nel tratto tenuto dagli italiani, ritenuti più deboli e peggio armati dei loro camerati germanici. Ciò fatto, aprire due corridoi nei campi minati, attraverso i quali far passare i mezzi corazzati che dovevano eliminare i panzer nemici.
I carri avrebbero protetto l'avanzata della fanteria e avrebbero spazzato via i reparti dell'Asse di prima linea. In un secondo tempo era prevista la distruzione delle truppe italo-tedesche di copertura. Infine dovevano essere eliminate le riserve. Il piano di Montgomery è una finta a sud poi attacco in forze a nord. Nei giorni precedenti nel prepararsi, aveva mascherato e mimetizzato (addirittura avvalendosi di uno sceneggiatore cinematografico - Barkas- e di un illusionista - Maskelyne-) un fortissimo concentramento a nord (86 battaglioni di fanteria 150.000 uomini, alcune migliaia di automezzi, 3.247 cannoni, migliaia di tonnellate di rifornimenti, 1.350 carri armati. 1.200 aerei) mentre ha predisposto un altro contingente di molto inferiore e disordinatamente a sud, che ha tratto in inganno Rommel prima di partire; più che convinto che gli inglesi con le forze che disponevano a sud non potevano non prima di novembre scatenare un offensiva. Assente Rommel, la battaglia comincia alle 21.40 precise del 23 ottobre 1942, in una notte di luna piena, quando i mille cannoni di Montgomery aprono il fuoco simultaneamente lungo il fronte, concentrando il tiro sulle postazioni di artiglieria sulle truppe dell'Asse. Alle 22 esatte inizia l'azione delle fanterie.
La prima fase, quella dell'urto, va dalla notte del 23 fino al 26 ottobre. La resistenza dei tedeschi e degli italiani è accanita, superiore al previsto. Tuttavia, all'alba del 24 ottobre il 30° Corpo d'armata britannico ha raggiunto gli obiettivi che gli sono stati assegnati, ma le sue fanterie sono stanche e provate e non possono contribuire ad assicurare il passaggio dei carri armati nel varco aperto nel settore nord. Stumme lasciato al comando da Rommel probabilmente fu disperato. Muore -secondo alcune fonti- di apoplessia, con un colpo di rivoltella alla tempia, secondo altri.
Rommel subito messo al corrente a Berlino, deve accorrere subito in Africa, dove giunge il 26 ottobre, trovandosi davanti una situazione gravissima. Il 27 ottobre Rommel dedica questa lettera alla moglie, convinto che sia finita: "La battaglia infuria e probabilmente sfonderemo ad onta di tutte le gravi difficoltà. Potrebbe anche darsi che naufragheremo, nel qual caso tutto il corso della guerra ne verrebbe sfavorevolmente influenzato poiché tutta l'Africa del Nord cadrebbe in mano degli inglesi. Ciò potrebbe avvenire nel corso di pochi giorni e pressoché senza battaglia. Noi facciamo tutto quanto è umanamente possibile per vincere. Purtroppo la superiorità del nemico è enorme. Che la cosa ci riesca, che io vinca o meno la battaglia è nelle mani di Dio. La vita è dura per uno sconfitto, io guardo dritto innanzi verso il mio destino poiché la mia coscienza è tranquilla.
Quanto era umanamente possibile fare io l'ho fatto, e non mi sono risparmiato personalmente. Dovessi rimanere sul campo di battaglia, desidero rendere grazie a te e al ragazzo per tutto l'amore e la tenerezza che avete voluto donarmi nella mia vita". (lettera riportata nel Diario di Rommel.
L'avanzata riprende il 28 nei corridoi, sotto il fuoco rapido e micidiale dei cannoni anticarro tedeschi. I carri armati inglesi posti fuori combattimento si contano già a decine. E' il momento culminante. Il 28 sera i carri inglesi distrutti sono circa trecento. La 1ma divisione corazzata inglese, al di là del corridoio, rischia a un certo punto di venire attaccata e respinta dalla 21ma divisione Panzer tedesca. Allora Montgomery spinge verso nord la 7ma divisione corazzata e ordina alla 9 divisione australiana di colpire anch'essa a nord. La situazione non si presenta certo brillante.
Il comandante dell'Ottava armata pensava di sfondare in un arco di tempo di una decina di ore e invece i suoi calcoli si stanno rivelando sbagliati. Il 31 ottobre Montgomery dà l'avvio a quella che definisce "l'Operazione Supercharge", ossia il colpo d'ariete. Nel frattempo Rommel studia la possibilità di ripiegare su Fuka, a ventiquattro chilometri dalle prime linee: ma capisce che la sua armata così duramente provata e quasi a secco di carburante corre il rischio di essere completamente disfatta. La sera del 2 novembre i carri armati del feldmaresciallo sono soltanto trenta. Bisognerebbe ripiegare subito, ma il 3 ottobre gli arriva un perentorio ordine di Hitler, con il quale si impone all'Afrika Korps di farsi uccidere sul posto piuttosto di indietreggiare di un metro. Così Rommel manda a tutti i reparti l'ordine di resistere a ogni costo, e rifiuta di accettare le implorazioni dei suoi generali, impegnati a dimostrargli l'assurdità di una condotta del genere.
Il ripiegamento suggerito da Rommel a Hitler non era un capriccio da codardo, Rommel abile in campo aperto, capace di rivoluzionare i piani prestabiliti nel pieno della battaglia voleva stanare gli inglesi, affrontarli a viso aperto. Una sfida insomma. Ecco cosa scrive il suo aiutante nel Diario: "...se date cinque carri armati a me e cinque a lui (Montgomery) mettendoci in una zona isolata del deserto con uguali riserve di benzina, allora vedrete chi di noi due è più bravo!".
Il 4 novembre Montgomery è in piena avanzata e ha aggirato ormai lo sbarramento anticarro italo-tedesco. Il generale tedesco von Thoma, in prima linea, si consegna agli inglesi: non si è più sentito di condividere il massacro imposto da Hitler ai suoi uomini. Alle 15.30 giunge a Rommel un messaggio: la divisione italiana "Ariete" non esiste più, si è immolata per tenere le posizioni.
Gli inglesi hanno aperto una breccia ampia venti chilometri. Alle 8 di sera, quando apprende che la brigata corazzata britannica è già arrivata alla litoranea, Erwin Rommel decide l'unica soluzione possibile: la ritirata. La ritirata sarà un altro capolavoro del feldmaresciallo, perché nonostante la sconfitta subita Montgomery non riuscirà ad accerchiarlo e a distruggere definitivamente l'Afrika Korps. Comincia qui l'odissea dei settantamila superstiti della battaglia di El Alamein: tremilaquattrocento chilometri nel deserto, invano inseguiti dal nemico fino alla Tunisia.
Quando a Rommel viene annunciato lo sbarco di un corpo di spedizione di centomila americani in Algeria e in Marocco, capisce d'essere preso tra due fuochi e di non avere, né lui né l'Afrika Korps, più alcuno scampo. Si tratta soltanto di contare i giorni che mancano alla fine. Gli aiuti sempre richiesti, Hitler li invierà in Tunisia, quando ormai era troppo tardi. L'occupazione della Tunisia influì ben poco sulle successive sorti generali del conflitto. William Shirer nella Storia del Terzo Reich scriverà: " Se il Fuhrer avesse mandato qualche mese prima soltanto un quinto di quelle truppe e di quei carri armati a Rommel, probabilmente la "volpe del deserto" in quel momento si sarebbe trovata al di là del Nilo, lo sbarco angloamericano nell'Africa del Nord non avrebbe avuto luogo e il Mediterraneo sarebbe stato irrimediabilmente perduto per gli alleati, e così sarebbe stato salvaguardato il punto vulnerabile del corpo dell'Asse". Altrettanto errore di Mussolini: se avesse mandato in Africa invece che i Russia soltanto un quinto delle truppe dell'ARMIR, in novembre avrebbe cenato al Cairo. Gli ultimi a cedere ad El Alamein furono i paracadutisti della "Folgore, abbarbicati al terreno a sud, ai margini della depressione di El Qattara. Avevano di fronte quel 13mo Corpo d'armata che, secondo la versione inglese, doveva impegnarsi soltanto per dar vita a un falso scopo, mentre in realtà dovette combattere una delle più dure e logoranti battaglie locali di sfondamento dell'intero fronte. Quelli della Folgore resistettero per tredici giorni senza cedere un metro. Erano partiti dall'Italia in cinquemila, erano rimasti, tra ufficiali e truppa, in trecentoquattro.
Alla resa, ebbero l'onore delle armi e il nome della loro divisione restò da allora leggendario.
La BBC inglese a battaglia conclusa, l'11 novembre così commentò: " I "resti della divisione Folgore hanno resistito oltre ogni limite delle possibilità umane". Così si concluse la battaglia di El Alamein, che provocò la morte di tredicimilacinquecento inglesi, di diciassettemila italiani e di novemila tedeschi. Fu una delle battaglie più decisive della seconda guerra mondiale, perché mise fine alla minaccia italo-tedesca sul Canale di Suez, consentì il dominio assoluto del Mediterraneo agli inglesi, cancellò dallo scacchiere un intero fronte e, in prospettiva, aprì la strada al secondo fronte, ossia allo sbarco in Sicilia destinato a riportare gli alleati in Europa. Ecco come David Irving, nel libro "La pista della Volpe", descrive le ultime azioni della battaglia di El Alamein che portarono Rommel a ordinare la ritirata:
"...Nella notte tra il 1° e il 2 novembre, segni certi rivelarono che Montgomery stava per sferrare la mazzata decisiva. Verso le 22, circa 200 cannoni aprirono il fuoco di sbarramento contro un settore limitato delle difese di Rommel, mentre ondate di bombardieri pesanti colpivano la stessa zona e obiettivi nelle immediate retrovie. Fu una lunga, fredda notte, durante la quale il feldmaresciallo vide il deserto continuamente illuminato a giorno dai bengala.
Il Quartier Generale dell'Afrika Korps venne colpito: tutte le comunicazioni telefoniche con esso furono interrotte, lo stesso generale Thoma restò leggermente ferito; le comunicazioni via radio erano disturbate al punto da riuscire praticamente impossibili. Alle 5 del mattino, Rommel si recò sul posto per vedere che cosa stesse accadendo. Correva voce che, all'una, massi di carri e fanteria avessero sfondato a ovest di Quota 28 su un fronte di circa un chilometro e stessero avanzando irresistibilmente attraverso i campi minati, tentando di aprire una breccia e operare uno sfondamento definitivo. Nel settore era tuttora in corso una sanguinosa battaglia, ma le fanterie italo-tedesche che vi erano schierate erano assai inferiori per numero e potenza di fuoco.
Spuntò il giorno e Rommel potè vedere i relitti di decine di carri nemici sparsi sui campi minati, ma dietro a questi centinaia di altri mezzi corazzati si stavano ammassando per irrompere nei varchi".


DONNA RACHELE GUIDI MUSSOLINI


NUOVO FRONTYE
- Franz Maria d'Asaro -
Rachele Guidi vedova Mussolini, si fa molta fatica ad immaginare nell'Italia delle «first lady» ingioiellate e metafisiche della Prima ed anche dalla prematura Seconda Repubblica,che possa essere esistita una «presi-dentessa» così semplice e genuina come la moglie del Duce. E par di sentire la sua squillante risata di popolana romagnola, lontana da ogni mondanità salottiera, nel sentirsi appioppare quel-l'esotico e un po' ridicolo appellativo di «first lady» che, in effetti, nessuno mai osò rivolgerle.
Il suo ricordo, per chi ebbe il privilegio di conoscerla, è ancora vivissimo, e sono molti quanti possono testi-moniare della sua vita stra-ordinaria: una donna com-battiva, mai incline al compromesso, mai disposta a tacere.
Di quale tempra fosse dotatalo si era compreso sin da quando, bimbetta, si sob-barcava allegramente alla fatica di percorrere a piedi 12 chilometri, e altrettanti al ritorno, per andare a scuola da Predappio a Salto, anche nelle più rigide e piovose giornate invernali. La maestra, Rosa Maltoni, madre di Benito Mussolini, si faceva spesso aiutare dal figlio in veste di supplente.
E che gran da fare per tenere a bada quella ragazzina minuta e ribelle. A Rachele la scuola piaceva ma fu costretta a frequentare soltanto la prima e la seconda elementare. A casa mancava spesso l'indispensabile, e bisognava darsi da fare. Andò a lavorare presso un padrone tirchio e prepotente, poi fortunatamente convertitosi alla bontà in seguito ad una grazia ricevuta. Cresciuta fra gli stenti, Rachele seppe fare della povertà non soltanto un'arma preziosa per addestrarsi ad affrontare le difficoltà della vita, ma persino un valore morale da apprezzare e addirittura da esaltare.
Non aveva 15 anni e portava le treccine quando ad un ricco corteggiatore spiegò con molta semplicità perché non avrebbe mai potuto sposarlo: «Io sono una povera ragazza, voi un signore. Quando mi sposerò, il mio uomo sarà senza un quattrino, come me; dividerò con lui la mia miseria». In proposito, Denis Mack Smith, il fazioso storico inglese sempre molto duro nei confronti di Mussolini, ha dovutoammettere in uno dei suoi libri che «Rachele e Benito iniziarono la loro vita comune in un appartamento di una sola stanza dove spesso non c'era abbastanza da mangiare», Il matrimonio? Certamente importante - diceva Rachele - ma «se due vanno d'accordo, restano insieme anche se non sono costretti dalla legge o dal prete». Nei primi tempi della convivenza non voleva saperne di sposarsi. Erano momenti duri e la coppia Mussolini-Guidi viveva con molta difficoltà: un letto, un tavolo zoppo, due sedie e tre bicchieri.
Accettò di unirsi in matrimonio tradizionale soltanto nel 1925, quando ormai era madre di tre figli. Mussolini aveva dovuto faticare per persuaderla: avviate le trattative per i Patti Lateranensi non era il caso di creare imbarazzi, bisognava pertanto mettersi in regola di fronte a Dio e di fronte al Papa. Oltretutto sia Benito Rachele erano credenti. Ma al momento della cerimonia nuziale, la sposa non rinunciò ad una delle sua birbonate: fece finta per ben due volte di non sentire la fatidica domanda del celebrante; poi alla terza, con sollievo di tutti, si decise a pronunciare l'attesissimo «Sì». Anni dopo rivelò che si era divertita anche a far venire il batticuore a tanta gente.
Della vita grama degli inizi non perdette mai memoria: anzi ne ebbe persino nostalgia quando negli anni chiassosi del consenso o in quelli tragici del crollo volgeva il suo rimpianto a un tempo irripetibile. Giorni lontani in cui, per esempio, al fine di risparmiare i soldi del barbiere, aveva imparato a radere il marito. Ed era diventata così brava che spesso le accadde - nei momenti di gran fretta - di continuare a raderlo anche quando era diventato capo del governo. Una volta fu sfiorata dalla possibilità di disporre di un proprio gruzzolo di danaro, una quota della vendita del «Popolo d'Italia».La rifiutò sdegnata: «In casaMussolini sono entrata con la sola camicia e con la sola camicia desidero uscirne».
A prenderla letteralmente sul serio furono gli spietati carnefici morali che, a guerra perduta, pilotarono la vendetta antifascista anche contro di lei che dopo la tragedia del '45 si trovò nella condizione di doversi dibattere fra enormi difficoltà. Trascinata prima nel campo di concentramento di Terni e poi al confino a Forio d'Ischia, aveva da risolvere una serie di problemi gravissimi, primo fra tutti la difficile e costosa operazione chirurgica alla spina dorsale di cui aveva urgente bisogno la figlia AnnaMaria. Affrontò tutto con rara dignità e straordinaria forza morale; tutto, persino la beffarda provocazione di sentirsi chiamata a risarcire inesistenti «profitti di regime» e addirittura a pagare le tasse sulla natia casa predappiese di Benito Mussolini sequestrata dallo Sta-to. Aveva saputo tener testa al marito, figurarsi con quale temperamento sapeva reagire a quegli omuncoli, già scodinzolanti cortigiani ed ora in gara fra loro per conquistarsi la benemerita funzione di persecutori della vedova del Duce. Combattiva e testarda, poco incline ai sentimentalismi, non conobbe pru-denza di alcun genere. Ogni suo atteggiamento di protesta era però quasi sempre temperato da una sottile venatura di umorismo. Anche Mussolini aveva dovuto incassare risposte del genere: «Non sono iscritta al partito, perciò posso protestare quanto voglio». Oppure: «Tu pensa a governare l'Italia, che a governare la casa ci penso io».
In famiglia non si impressionava più di nulla «con tutti quei mattifraipiedi». Ne avee va viste e sentite di tutti i colori, persino un figlio fracassone che tempestava sul pianoforte ritmi jazz, assolutamente incomprensibile per lei abituata ai valzer lisci delle orchestrine romagnole. Le davano molto fastidio gli scalmanati, i fanatici, gli adulatori, icicisbei, i pigri e gli esibizionisti. Discreta ma vigile proteggeva a modo suo il marito che reputava eccessivamente incline all'indulgenza. Pazienza con i figli, ma non con i ministri sleali e impoltroniti. Una volta si travesti da contadina in cerca dì lavoro per andare a controllare quanto ci fosse di vero sulle diceria intorno al sospetto tenore di vita di un certo personaggio del regime.
Dotata di grande intuito esortò continuamente il marito a difendersi dalle ingenuità che a volte gli avevano fatto commettere errori di valutazione so collaboratori che non avrebbero meritato tanta fiducia. In proposito si può dire con certezza che gli avvenimenti del '43 avrebbaro avuto un altro sviluppo se la mattina in cui Vittorio Emanuele lo aveva convoca-to a Villa Savoia, Mussolini avesse dato ascolto alla moglie che lo implorava di non andare: «È una trappola», gli gridò ancora mentre la vettura si allontanava da Villa Torlonia per non tornare mai più. E fu una trappola. Che indignò persino la Regina Elena («non dovevi farlo», disse amareggiata al Re). Rachele, ancora una volta, aveva visto giusto.
Ma la prova più ardua della sua vita fu il momento - consolante e terribile - in cui le restituirono la salma del marito, al termine di una vicenda incivile, disumana. Era il 30 agosto 1957. Al cospetto di quello squallido contenitore - una cassa per saponi - Rachele esplose come una furia e mandò al diavolo i paludati e melliflui consegnatari che le chiedevano di firmare un verbale nel quale, fra l'altro, si formulavano «vivissimi rin-graziamenti al governo». E pretese, fra la costernazione di lor signori (c'era anche il questore Agnesina che il 25 luglio aveva voltato gabbana dopo essere stato beneficato da Mussolini), di controllare personahnente il contenuto della cassa. Tentarono in ogni modo di dissuaderla, ma non la spuntarono. La minaccia era perentoria: «altrimenti non firmerò quei verbali!». Dovettero piegarsi ed assistere sconvolti ad un crudele spettacolo che soltanto lei seppe affrontare e superare con stoica fermezza: «Soltanto Dio - ebbe a confidarci più tardi - me ne diede la forza».Conclusa la penosa ispezione, ammonì a voce alta e chiara: «Nessuno dovrà mai cambiare questa cassa, nemmeno quando sarà morta. Voglio che si sappia sempre, fra cento o mille anni, come è stato trattato Benito Mussolini, l'uomo della Conciliazione". Verso sera tornò al cimi-tero per sostare finalmente in solitudine accanto ai resti del marito, ma scopri con enorme sorpresa che intorno alla cassa quattro carabinieri montavano la guardia d'onore.L'iniziativa era stata del comandante la stazione di Predappio, maresciallo Messina.
Lo punirono con l'immediato trasferimento in Sicilia. Rachele mori a 89 anni, nel 1979, in piena lucidità. E nella grazia del Signore. Era credente,ma con grande pudore, senza ostentazioni. Considerava la fede un fatto estremamente privato. Una volta, alla giornalista Anita Pensotti, che ne raccolse le memoria su «Oggi», confidò che tutte le sere recitava un'Ave Maria per Claretta Petacci.

Franz Maria d'Asaro




Pag.4 SAF NUOVO FRONTE

LA PAGINA DELL'AUSILIARIA

a cura di Velia Mirri


AUSILIARIE NEL DOPOGUERRA


Dopo il ritorno alla vita civile (non certo con entu­siasmo), per quasi tutte noi si presentò un periodo dif­ficile da affrontare. Alcune furono costrette ad inter­rompere glí studi per aiu­tare la famiglia, altre - dopo le drammatiche esperienze del carcere o del campo di concentramento - dovette­ro affrontare un faticoso reinserimento nel mondo del lavoro. Nessuna ebbe vita facile, tanto più che la guerra e il dopoguerra ave­vano inciso profondamen­te sulla loro esistenza, smorzando - talvolta per sempre - la spensieratezza della gioventù. Quante avevano perduto familiari o persone care nelle "radio­se giornate" della primave­ra '45 o avevano subito ol­traggi e violenze in prima persona, ne portarono per anni e anni dolorose tracce nell'animo.

In tutte noi, c'era co­munque vivissimo il ricor­do delle camerate cadute o semplicemente "scompar­se", il che alimentava il desiderio di ritrovarci, riallacciando quei mai di­menticati vincoli di came­ratismo e di Fede cui era stata improntata - fin dal giorno dell'arruolamento -la nostra vita di "ragazze in grigioverde".

Riaffiorano i ricordi, dopo oltre mezzo secolo da quei giorni; riemergono piccole foto sbiadite a testi­moniare questi primi in­contri di giovani donne tanto diverse dalle coeta­nee.

1947. A Rosasco (Pa­via), alpini della "Monterosa" e Ausiliarie si ritro­vano in una tristissima cir­costanza. Nel locale cimi­tero viene esumata la sal­ma dell'Ausiliaria Barbara Forlani, di Castelfranco Emilia, ritrovata dopo ben due anni dai familiari di­sperati. Barbara era stata fino allora sepolta come "sconosciuta". Ebbe gli onori militari dai commi­litoni e dalle Ausiliarie che l'avevano conosciuta e sti­mata.

La data del 18 aprile, giorno di "nascita" del SAF - è sempre stata ricordata da noi Ausiliarie. Una vec­chia foto, proveniente dal­l'archivio di Nadia Sala, venne scattata il 20 aprile 1952 davanti a una chiesa di Milano dopo la messa in memoria delle Ausiliarie Cadute. Al centro, la Co­mandante Generale Piera Gatteschi; alla sua destra la Comandante Antonietta Vincenti; alla sinistra, la Vice Comandante Genera­le Cesaria Pancheri e la Comandante Lidia Votta. Con loro, altre Comandanti e Ausiliarie.

Assai difficoltoso, in quegli anni Cinquanta, or­ganizzare raduni di carat­tere ufficiale.

Qualcuna ricorda che, in occasione dell'Anno Santo 1950, la Comandan­te Luisa Verazzi - che tanto si era prodigata per le sue ragazze quando dirigeva il Comando Provinciale Saf di Rovigo - tentò di far con­venire a Roma anche le Ausiliarie dell'Italia Set­tentrionale. Oggi la cosa può far sorridere, ma a quell'epoca raggiungere la Capitale era un'impresa ardua, pecchi disponeva di mezzi assai limitati e dove­va lottare giorno per giorno per la pura sopravvi­venza. Preghiamo viva­mente camerati e Ausilia­rie che fossero in possesso di foto o documenti di que­sti lontani nostri incontri, di farcene avere copia. Ogni testimonianza della nostra vicenda storica è preziosa perché non ne vada definitivamente per­duta la memoria.










I PARACADUTISTI ALLA DIFESA DI ROMA

LA SETTIMA «DI DIO»

— di Ettore Balzini —

L’occasione mi era stata fornita da una cerimonia svoltasi a Roma nel dicembre 1991. L'Associazione Nazionale Pa­racadutisti aveva voluto dedi­care al nome di mio fratello Balzino, caduto alla difesa del­la capitale, 1'87' corso di para­cadutismo. Mi avevano invita­to, facendomi vivere una gior­nata di esaltante commozione. Nella palestra di via Eleniana, mentre l'istruttore mi presenta­va i cinquanta para giunti al termine del duro corso e im­partiva l'attenti con autentico piglio marziale, avevo risentito scandire il nostro grido di bat­taglia, «Folgore!». Poi il presi­dente Luigi Meschini aveva de­lineato la figura di mio fratello, decorato di Croce di guerra germanica di seconda classe. E Gonippo Sebastiani, nel rievo­care il legame di amicizia che lo legava a Balzino, aveva esalta­to il valore della settima Com­pagnia. Quanto a me. avevo dato il benvenuto ai ragazzi di questa bella comunità di para­cadutisti, che era stata anche la mia quando, non ancora di­ciassettenne, ero partito volon­tario in quella formazione composta di giovani che ave­vano un solo ideale, l'Italia. Volevo trasmettere qualcosa a questi ragazzi di oggi, chissà se c'ero riuscito. Erano presenti anche alcuni miei vecchi com­militoni della Compagnia, Lu­ciano Refice, Giulio Civica, ol­tre al già citato Sebastiani.

Quei para mi erano apparsi sotto le sembianza di mio fra­tello, oppure in loro avevo rivi­sto il volto dei nostri Caduti...

* * *

Sono in autostrada. È sera, sto rientrando a Firenze. C'è con me un altro mio fratello, che vuol parlare della bellissi­ma giornata, ma io mi isolo. Anche se ci sono le luci del traf­fico e tante altre macchine, so­no solo. Solo con i miei ricordi che si accavallano. Ricordi così lontani, eppure mi par di toc­carli con mano... Mi succede come da bambino, quando per gioco mettevo in funzione la macchina del tempo.

L'arruolamento - È il 20 ot­tobre 1943. Mi arruolo volon­tario nella 92' Legione CC.NN. Ho appena sedici anni e mezzo. La famiglia chiede la mia smo­bilitazione perché i miei cinque fratelli maggiori sono sotto le armi. Smobilitazione accorda­ta.

Ai primi di gennaio 1944 ri­parto. Di sera, alla stazione, mi nascondo in una carrozza ferroviaria e la mattina presto so­no a Pistoia. Sento ancora il ge­lo di quella notte interminabi­le. Mi dirigo subito al Centro di raccolta alle Casermette, un rione periferico della città. Appena arrivato, incappo in un doloroso incidente: mentre sto salendo le scale, un allievo muore dopo un lancio sul telo. Mi spira praticamente fra le braccia. Il morale scende al mi­nimo, ma riesco a reagire e. an­che se a fatica, salgo il rima­nente della scala. E fatta. Mi presento. Vengo inquadrato nei ranghi.

Passano i giorni. Una matti­na riceviamo la visita del Co­mandante. E la prima volta che lo vedo. Siamo schierati sull'at­tenti, lui ci passa in rassegna. Si sofferma davanti a me... Mi vien voglia di scappare, tutta­via rimango impietrito. Mi parla a lungo. Non ricordo esattamente le sue parole (e le mie impacciate risposte). ma il senso è chiaro. Si ricorda anche di mio fratello, che è passato di qui tempo prima. (Ecco, que­sto era il nostro Comandante Edoardo Sala, uomo dalla me­moria eccezionale, che cono­sceva per nome, uno ad uno, tutti i para del suo Reggimen­to).

I venti giorni trascorsi a Pi­stoia sono piacevolmente ca­ratterizzati dalle amicizie che s'intrecciano giorno per gior­no, dagli immancabili scherzi in camerata, dalle risate per un nonnulla, dalle confidenze tra coetanei, ma soprattutto dal comune Ideale che avevamo nel profondo del cuore e che cercavamo di trasmetterci l'un l'altro. Una comunanza di ideali che ci faceva sentire fra­telli. Quanti di loro non avrei più rivisto... Tanti, troppi vera­mente.

Mi sento orgoglioso di ap­partenere a questo reparto per­ché so che tra non molto sare­mo chiamati a combattere. (Se­duto accanto a me, mio fratello si è appisolato. Spero tanto che non si svegli, che non mi distol­ga da questo mio tuffo nel pas­sato. Pur senza distrarmi dalla guida, voglio rivivere, nei mini­mi dettagli, quei giorni indi­menticabili).

La partenza - Si lascia Pi­stoia l'8 o il 9 febbraio, in tre­no. Rivedo la mia bella stazio­ne di Santa Maria Novella e provo un leggero disappunto perché manca il tempo di fare un salto a casa dalla mamma. La mia casa è in centro, vicina alla stazione, ma dobbiamo ri­partire subito. Il mio gruppo è composto da circa trenta unità. Senza conoscere la nostra destinazione, saliamo su un al­tro convoglio. Tutto avviene nella massima segretezza, il che dà l'avvio alle più disparate congetture, compresa quella di un trasferimento all'estero... Ci sembra di vivere un momento magico, di essere coinvolti in un'avventura densa di mistero. Dopo Firenze, il viaggio è un susseguirsi di novità e di emo­zioni specie per quelli - e cc ne sono alcuni - che affrontano per la prima volta un lungo viaggio. Come in un film vedia­mo scorrere borgate, campa­gne, paesi...

Ai primi bagliori del nuovo giorno intravediamo una città che a noi sembra magica, nella mattinata gelida... E Perugia, tutta bianca di neve. Ci siamo arrivati dopo lunghi ritardi do­vuti ad allarmi aerei.

Finalmente apprendiamo qual è la nostra destinazione. È Spoleto. città di cui purtroppo sappiamo poco o nulla, solo che sorge su un colle e che biso­gna inerpicarsi per raggiungerla. Cosi ci avviamo a piedi in­contro al camion che dovrebbe caricarci. Intanto si procede tutti insieme sulla strada ghiac­ciata, ciarlando allegramente con gli amici cui ci sentiamo le­gati da un qualcosa di vera­mente profondo.

Si macina strada, finché in lontananza appare il miraggio del tanto desiderato automezzo.

Montiamo tutti e possiamo riposare le stanche membra.

Spoleto - È la mattina del 10 febbraio. Scendiamo davanti al cancello di una caserma. la «Giuseppe Garibaldi», sede dei giovani volontari paraca­dutisti. il cieli plumbeo lascia presagire altra neve che non tarderà a cadere copiosa.

Per noi Spoleto è l'impatto con la «naia», che ci si presenta subito nella cruda realtà. Sono un novellino, ma già mi vedo paracadutista col brevetto. Co­me quelli che avevo visto parti­re per la Germania e che poi si brevetteranno a Friburgo... O quei trecento che andavano al fronte di Anzio e Nettuno: ra­gazzi più grandi di me, che mi erano apparsi come guerrieri invincibili, maestosi, nelle loro divise e armamenti da guerra, con le tute di lancio, armati fi­no ai denti... Avrei voluto esse­re a] loro posto.

L'addestramento - Presto partimmo anche noi. Veniamo inquadrati nel reparto. lo ven­go assegnato al I' Battaglione, prima Compagnia. Ritiriamo le divise. Si intrecciano amici­zie nuove. Una gioia grande: giù posso riabbracciare mio fratello che fa parte del 2' Bat­taglione, Settima Compagnia. Ricordo ancora l'ansia e la preoccupazione che lo pervase­ro nel vedermi lì: era consape­vole della dura realtà del mo­mento, che di lì a poco avrei toccato con mano.

Siccome gli ufficiali italiani si trovavano in Francia per un corso di addestramento, ve­nimmo affidati alle cure di istruttori tedeschi che erano di una cattiveria inaudita (nel senso buono, s'intende). Uo­mini durissimi, veterani para­cadutisti, reduci da Narvik, da Corinto. da Creta e da El Ala­mein, con alle spalle lanci di guerra e azioni di sabotaggio. Gente pluridecorata al valore. Questi erano i nostri istrut­tori, appartenenti alla 4' Divi­sione Tedesca Paracadutisti, i famosi «Diavoli verdi». Ci fa­cevano esercitare al campo in disuso di S. Maria la Bruna, a pochi chilometri da Spoleto. Un lavoro quotidiano sfibran­te, al limite del la sopportazione umana. Due volte al giorno centinaia di esercizi ripetuti al­l'infinito: a terra, in piedi, per­corso di guerra, esercitazione alle armi. Un incubo. Dulcis in fondo, allo scioglimento delle righe c'era da percorrere, per una cinquantina di volte, il tra­gitto che separava il piazza le dalle scale, prima di poter spa­rire di sopra, nella camerata. Soltanto allora il lavoro poteva dirsi terminato.

I primi giorni, ovviamente, furono disastrosi. Ci portava­mo addosso una stanchezza ormai cronica, aggravata dalla neve che aveva formato al suolo delle vere pozzanghere in cui si doveva sguazzare..

A qualche istruttore saranno di certo fi­schiate le orecchie per gli acci­denti che gli si mandava... A di­stanza di tempo, mi sono penti­to per le invettive rivolte a que­gli istruttori teutonici; anzi, debbo loro della gratitudine perché i loro insegnamenti hanno consentito a più d'uno di salvarsi la vita.

Le divise

Una sgradevole si­tuazione venne a crearsi quan­do il maggiore Kruger, ufficia­le di collegamento, ci comuni­cò che avremmo dovuto indos­sare l'uniforme tedesca, causa carenza di vestiario. Si pose un freno al sacrosanto nostro sde­gno - che aveva messo in allar­me il comando germanico - so­lo grazie all'intervento dei parà anziani, nostri difensori. Questi, con mio fratello in testa, andarono a parlamenta­re con i tedeschi. «Se voi tede­schi, nelle nostre condizioni, foste obbligati a indossare la divisa italiana, e sotto un ves­sillo che non è il vostro, come vi comportereste?». Fu questo l'argomento decisivo. Ne seguì un silenzio totale, interminabi­le.

Il maggiore Kruger, visibil­mente commosso, avanzò ver­so di noi con la mano tesa. Avevamo vinto. Si era giunti a un compromesso.
La nostra divisa era cosi composta: tedeschi i pantaloni, le scarpe, la tuta verde mime­tizzata da lancio; italiani la giacca, il basco, il paltò. In pra­tica, predominava la divisa ita­liana, quella che si sarebbe di­stinta nella testa di ponte del fronte Anzio-Nettuno e alla di­fesa di Roma.



Ie divise -


Come non ricor­dare il conforto morale. l'inco­raggiamento e il sostegno of­fertici in quella circostanza da vecchi pani provenienti dalla Sicilia con l'allora capitano Edoardo Sala, dalla Sardegna con il maggiore Rizzatti, dai veterani di El Alamein. i cui racconti ci incantavano? Insie­me formavamo un magnifico gruppo.


Dopo qualche tempo, smal­tita la perenne stanchezza. co­minciammo a visitare la storica cittadina, di cui mi colpirono sia la caratteristica posizione sia la vetustà delle case, quan­do salivamo le scalinate per raggiungere il centro. Anche l'affettuosa simpatia degli abi­tanti nei nostri confronti mi ri­mase nel cuore. Per qualche mese restammo senza paga, e anche il vitto non era troppo abbondante... Rivedo ancora la trattoria del Pallone, con i suoi profumi che ci limitavamo a pregustare. Un autentico mi­raggio nel deserto di quella mazzetta...


Per nostra fortuna, la neve responsabile di tanta fatica si stava a poco a poco scioglien­do. Quel rigido inverno '44 lo ricorderà anche perché la neve, mista alla terra, ci sporcava le divise e noi dovevamo scrosta­re il tutto col pugnale. opera­zione che ci sottraeva una fetta del sospirato turno di riposo. Siamo ormai a marzo. Col timido fiorire di qualche albe­ro, si nota un piè gentile, direi quasi affettuoso, comporta­mento dei nostri rigidi istrutto­ri. Era accaduto che il 16 feb­braio. nel corso di una grande offensiva nemica, i paracaduti­sti si erano distinti per atti di valore in durissimi combatti­menti. tanto che in un solo giorno ebbero 75 morti e 90 fe­riti più o meno gravi, I bolletti­ni di guerra mettevano in risal­to le gesta dei para italiani, Forse in considerazione di que­sti fatti. venne in visita ai nostri reparti nientemeno che il gene­rale Student. comandante delle truppe paracadutiste tedesche. Fu per me una giornata indi­menticabile, anche perché ebbi un simpatico scambio di parole con l'alto ufficiale.


ll bombardamento - Prose­gue la corsa in autostrada ver­so Firenze... Mentre incrocio i fari delle macchine mi vengono in mente i bombardamenti pressoché quotidiani. e il ponte della ferrovia che i nemici non colpivano mai. tanto da far pensare che si trattasse di allie­vi piloti. Era comunque certo che ci avevano individuato e che cercavano di infliggerci più perdite possibile.


L'occasione gli si presentò il 18 marzo, quando alla stazione centrarono un convoglio cari­co di munizioni e di dinamite. Alcuni coraggiosi riuscirono a sganciare parte dei vagoni per dirottarli in una galleria. Se cosi non fosse stato - si disse al­lora -sarebbe scomparsa gran parte della città di Spoleto. Non posso far a meno di ricor­dare, pur in quella tragica cir­costanza, le forme di formag­gio e i barattoli di miele che vennero ritrovati. disseminati dall'esplosione, a chilometri di distanza. Per una settimana mi ingozzai di parmigiano trovato sulle colline, passando ovvia­mente dei guai...


Di quel brutto giorno, mi è rimasta anche l'impressione di un terremoto, con la terra che mi ballava sotto i piedi mentre correvo in cerca di riparo per la tremenda esplosione. I ripetuti attacchi durarono fino al tardo pomeriggio. Mentre mi butta­vo a terra. mi buscai anche una ferita al basso ventre. Quell'at­tacco provocò alcuni morti e feriti; la nostra caserma venne praticamente distrutta e resa inagibile. Se per il nemico il bombardamento aveva dato i suoi frutti, noi non ci arren­demmo e, rimboccandoci le maniche, proseguimmo l'ope­ra di addestramento.


Il reparto. compagnia per compagnia, venne dislocato in varie località. Nel frattempo ero stato assegnato alla com­pagnia di mio fratello, la Setti­ma. che si sistemò in campa­gna, sotto teli da tenda. Si be­veva l'acqua di un vicino ru­scello. ma per fortuna eravamo provvisti di pastiglie disinfet­tanti.


Mentre ancora si sta ulti­mando l'addestramento. arri­vano a rafforzare le nostre uni­tà i paracadutisti dell'ADRA (Arditi Distruttori Aeronauti­ca Repubblicana). Hanno una simpatica parlata lombarda: vengono infatti da Tradate, provincia di Varese. Notiamo con sorpresa che indossano una uniforme azzurra, diversa dalla nostra bella divisa verde. Comprendiamo che non è lontano momento di entrare in azione. Le nostre due divise saranno insieme alla difesa di Roma.


Dopo l'accampamento in ri­va al fiumicello, la mia compa­gnia - che nel frattemmo è stata posta al comando del tenente Ferretto, unitamente al s. ten. Arienti (che cadrà alla testa della Settima) - va ad acquar­tierarsi in un villino in località San Giacomo. una decina di chilometri da Spoleto. Riman­gono con noi anche alcuni istruttori tedeschi.


(continua) Due amici - Siamo ormai in primavera. Il 29 aprile è il mio compleanno: ho diciassette an­ni, e sono trascorsi quasi sette mesi dal giorno del mio arruo­lamento.


La Settima è formata tutta da giovanissimi. I miei amici del cuore sono Ferdinando Ca­muncoli e Marco Fiocchi, miei coetanei. Non li dimenticherò mai. Il primo è figlio unico del­la baronessa Camuncoli. Suo padre, Ezio, è un affermato ro­manziere e dirige «Il Giornale di Rimini». I genitori di Marco sono gli industriali Fiocchi di Lecco. Le due famiglie si cono­scono perché entrambe tra­scorrono le vacanze a Gatteo Mare sulla riviera romagnola. Appena costituita la RS1, i due ragazzi. di comune accor­do, scappano di casa per riscat­tare l'Onore della Patria. Nel­l'opera «Lettere dei Caduti del­la RS1» si può leggere quanto scriveva Ferdinando ai genito­ri. Le sue parole sono quanto di più bello si possa immagina­re: sono impregnate di incom­mensurabile amore per quella Patria che si accinge a difende­re.


Due amici. Li ricordo a Spo­leto, uniti da una fraterna ami­cizia e da un puro ideale, sem­pre allegri e solidali... Insieme erano venuti, insieme se ne an­darono il 3 giuno 1944. caden­do in combattimento, l'uno ac­canto all'altro, dopo essersi battuti eroicamente per l'Ono­re d'Italia. Per il loro valore, fu conferita a Ferdinando la me­daglia d'oro e a Marco quella d'argento. Significativo il lun­go articolo di Don Gnocchi, pubblicato dal «Corriere della Sera», in ricordo di Marco Fiocchi. Dal ritratto emerge un giovane ricco di doti umane, patriottiche e sportive (eccelle­va infatti in numerose discipli­ne). Anche Camuncoli è stato degnamente ricordato dal poe­ta cieco di guerra Carlo Borsa­ni, che ha dedicato una com­movente lirica a lui e a tutti i volontari della Settima, ragaz­zi imberbi che vanno a morire alle porte della Città Eterna... Pensieri, ricordi, immagini che si affollano alla mia mente: tutto questo mio arco di vita, che ci ha dato gioie familiari e affetti, mentre le memorie sfu­mano col passare delle stagio­ni... Ma tutto questo non può farti dimenticare un amore che ti porti dentro, perché ormai fa parte di te stesso.


Alla difesa di Roma - I ragaz­zi della «Settima». Tra poco i combattimenti per la difesa della Capitale li vedranno sfor­tunati protagonisti. Andranno incontro al nemico, per giorni e giorni. La sosta alla pineta Sac­chetti; poi, sorpassata Ariccia, fino ad Albano, avanzando in direzione sud-est sotto l'inces­sante tiro dei mortai... Alcuni


rimangono feriti. Colpito da una scheggia, muore il para Li­mana. E il primo caduto della Compagnia.


Mentre i tedeschi si ritirano, i ragazzi della Folgore si inol­trano alla ricerca del nemico. E arduo il compito loro affidato. Il tenente Ferretto spiega che si deve bloccare l'avanzata an­glo-americana almeno per due giorni. Si tratta di andare avan­ti e di sistemarsi su buone posi­zioni.


Prosegue l'avvicinamento sotto il tiro dei mortai, mentre ìn cielo gli aerei nemici la fanno da padroni. Il grano alto e ma­turo crea l'illusione di un ripa­ro, ma è ben poca cosa; solo gli anfratti servono a ripararsi, di tanto in tanto.


Man mano che si avanza, si presenta la dura realtà: si scor­ge un reparto tedesco decima­to: tutto intorno è la testimo­nianza tragica del momento decisivo. E il 2 giugno 1944. Continua l'avvicinamento alle posizioni prestabilite. Di notte, la fortunata scoperta di un ruscello che consente di la­varsi e dissetarsi (si apprenderà poi che si tratta della cosiddet­ta «Acqua Bona»). Al mattino, a pochi metri di distanza, altra «scoperta»: affiorano sul corso d'acqua i corpi senza vita di sette militari, tra tedeschi e in­glesi.


Su altre posizioni sono schierate le Compagnie del Nembo, Azzurro, Folgore, che si attestano dai Colli Albani al­la Pianura Pontina, dal litorale di Pratica di Mare alla pineta di Castelfusano, a Castel Por­ziano, Ardea, alla E 42. Si com­batte accanitamente. Per il va­lore dimostrato assieme alla Compagnia il ten. Ortelli viene decorato con Medaglia d'Oro. A Castel di Decima si ritro­vano gli ultimi della Folgore che sosterranno, prima di riti­rarsi al Nord, i combattimenti estremi. Cade da valoroso il maggiore Rizzatti, nel tentati­vo di fermare i carri armati. L'anziano comandante goriziano si slancia con impeto al­l'attacco, sventando l'accer­chiamento e consentendo al gruppo di mettersi in salvo. Viene colpito mentre va incon­tro al nemico, quasi a cercare deliberatamente la fine piutto­sto che sopportare la vergogna della resa. Sarà decorato di Medaglia d'Oro. Il suo corpo non verrà più ritrovato. Assume il comando il capi­tano Sala, che seguita il cruen­to corpo a corpo e con il suo Panzerfaust abbatte due carri armati. Riesce ancora per qualche ora a fermare il nemi­co, permettendo al gruppo di ritirarsi. Verrà decorato con la Croce di Guerra tedesca di pri­ma classe.


È il 4 giugno quando il co­mandante Sala, con i superstiti del Rgt. Folgore, si accinge a guadare il Tevere con mezzi di fortuna.


Sono loro gli ultimi difensori di Roma. Mentre le truppe al­leate entrano nella Capitale, ormai si è compiuto il destino della Settima «Di Dio» (cosi verrà ribattezzata).




I ragazzi della «Settima» - reverente ricordo di quegli eroici difensori mi ha distolto dalla mia esperienza personale. Anch'io sono uno dei giovanis­simi arruolatisi a Pistoia.


Fra poco questi volontari avranno il loro momento tanto atteso. Sono fiduciosi, forse un poco ingenui... Desiderosi di una società nuova, sognano un'Italia pulita, libera dallo straniero; temono l'onta del­l'invasione, e pensano alla fa­miglia, al ritorno a casa, fieri di contribuire alla realizzazione di un mondo migliore... È que­sto il loro stato d'animo, questi i loro pensieri mentre attorno rimbombano i colpi di mortaio e crepitano le mitragliatrici. Le tengono ben strette nelle mani, quelle armi, quasi a volerle ac­carezzare. Per loro, rappresen­tano la difesa della Patria... È l'alba del 3 giugno. Ha ini­zio il combattimento. Arriva una notizia che galvanizza tut­ti: la Sesta Compagnia ha cat­turato ottanta militari inglesi! I ragazzi si trovano in basso, al fosso dell'Acqua Bona. Si iner­picano su per un prato, in un pendio che si fa sempre più ri­pido. fino a un cocuzzolo dove si trova, ben abbarbicato, il ne­mico, che ha con sé un reparto di tedeschi fatti prigionieri. Il tenente Ferretto impartisce gli ordini alle squadre e ai plotoni.


Manca poco. È. il momento. I nostri mortai danno inizio a un breve, intenso fuoco sulla collinetta. L'ultimo pensiero alla famiglia lontana, poi il gri­do prorompente, «Folgore», che squarcia l'aria già ammor­bata dal fumo dell'artiglieria. Escono i plotoni, in questa mattina di giugno, seguiti dalle squadre. All'assalto! Si inerpi­cano per il prato, a ventaglio: brevi corse, a terra, sempre più su, verso la collinetta, mentre il fuoco nemico falcia i ragazzi che rimangono sull'erba, im­mobili.


I rimanenti pani del Folgore piombano sulla collinetta, la conquistano, catturano il re­parto inglese e liberano i tede­schi.


1 ragazzi della Settima si ac­cingono alla difesa della posi­zione, mentre i feriti vengono avviati nelle retrovie.


La posizione deve resistere sino a notte. Il gruppo si com­pone di una ventina di clemen­ti, i soli a difendere questo ulti­mo lembo della Pianura Ponti­na. Aggrappati alla terra, fron­teggiano gli inglesi, che ritor­nano in forze dopo qualche ora, appoggiati da artiglierie e carri armati.


Un ultimo combattimento, cruento e impari. Ormai lo sco­po è raggiunto. Sta arrivando la sera. Arriva la sera.


I pochi superstiti vengono presi prigionieri mentre tra­sportano i feriti.


Quella sera del 3 giugno '44 si è infranto il sogno dei ragazzi della Settima, ragazzi che cre­dettero in un Ideale.


Sul prato al fosso dell'Acqua Bona giacciono esangui nelle loro belle divise verdi, i capelli neri e biondi scomposti dal vento...


Erano volontari di tutte le regioni... Erano. Ora non lo so­no più, mentre gli angloameri­cani entrano trionfanti a Ro­ma. Dal generale Student, in un vibrante Ordine del Giorno, vengono additati come i più valorosi del Primo Corpo Pa­racadutisti.


La mia personale vicenda si intreccia e si confonde con la storia della Settima.


Come nei romanzi d'appen­dice, è necessario fare un passo indietro, per spiegare come ho vissuto quei giorni.


Il 28 maggio del '44, a causa della ferita riportata nel bom­bardamento di Spoleto, mi tro­vo in infermeria. Attorno c'è una grande agitazione di cui non conosciamo il motivo. Motivo che apparirà chiaro di lì a poche ore, quando, al mio rientro in Compagnia, trovo tutti in preparativi per la par­tenza. Apprendiamo che il fronte è stato sfondato. Ci mandano a chiamare. È im­portante anche il nostro appor­to, la nostra presenza. Si spera di ricacciare nemico e far fronte all'imminente invasio­ne.


Pur nella gravità del mo­mento, la Settima è piuttosto euforica e pronta agli scherzi. I più anziani, come fossero no­stri padri, ci riempiono di con­sigli.


Siamo pronti, con le nostre armi e lo stretto necessario. Stiamo per salire sui camion. Il tenente Ferretto mi chiede la base di passaggio dell'inferme­ria; si accorge che sono ancora fasciato e con fermezza mi or­dina di restare a terra. Mi fa co­raggio, insieme agli amici di mio fratello... Dicono che mi aspetteranno fra pochi giorni in trincea, che mi serberanno un posto vicino a loro...


In quel momento vorrei mo­rire, tanta è la delusione. Trascino mio fratello giù dal camion per poterlo abbraccia­re il più strettio possibile. E lui mi regala la sua foto in divisa di parà, con la dedica




28-5-1944 XXII E.F. Alla partenza per il fronte, al caro fratellino, camerata d'armi,in ricordò.


Balzino
Folgore - Per l'onore d'Italia




Gli automezzi stanno aspet­tando col motore acceso. Par­tono.


Li seguo con lo sguardo mentre attraversano un picco­lo passaggio a livello per im­mettersi sulla nazionale. I miei camerati cantano le nostre bel­le canzoni... Entrano nel paese di San Giacomo, scompaiono alla mia vista.


Percepisco ancora, in lonta­nanza, la canzone della Folgo­re.


Non li potrò più rivedere. Stasera, 7 dicembre 1991, so­no felice, nella penombra. di sentirmi ancora vicino a loro, Sono arrivato a Firenze.


Ecco quanto ha scritto lo storico paracadutista Nino Arena nel suo libro «Aquile senza «Parlare della 7^ è quanto mai difficile: è come par­lare del mare e del cielo nel loro vario aspetto, ora corrugato ora placido, limpido e nuvoloso; le vicende del reparto si possono benissimo identificare in queste variabili 'forme degli elementi perché tale fu la sua breve vita. Nata dal nucleo di volontari che nel travaglio dell'armistizio si erano raggruppati a Pistoia e sul Litorale Laziale, la compa­gnia cominciò a prendere forma e a delinarsi nelle sue strutture al centro addestramento di Spo­leto...


Alla sera del 3 giugno il desti­no della Settima ("Di Dio") si compiva inesorabilmente. La 7" di Ferretto si era dissolta nel crogiolo della battaglia: aveva vissuto un solo giorno! Su quel tratto di pianura i ragazzi del Folgore scrissero dal 28 maggio al 4 giugno una meravigliosa e sconosciuta pagina di storia».


FINE






Un'Ausiliaria crocerossina nel ricordo di due "NP"

(Da: "Decima! Gli Ennepi si raccontano" di Sergio Bozza, Ed. Greco & Greco, Milano, 1997.)


In quel di Contarina, a guerra appena terminata

Non mi ricordo se a Contarina, o altro paese appena al di qua del Po, il 24 aprile, durante la ritirata e appena attraversato il fiume, il comando NP aveva organizzato un punto di soccorso sanitario, gestito dal medico dottor Michele Da Campo di Venezia e dalla sua crocerossina Antonietta Dall'Oglio. In esso finirono per confluire maggiormente i civili, vittime dei bombardamenti e mitragliamenti degli aerei alleati, i cui piloti sembravano divertirsi di più contro le persone senza armi.

Quando i nostri reparti militari decisero di proseguire la ritirata, perché sul Po senza strutture difensive si era capito che la guerra era perduta e finita, l'Ausiliaria Dall'Oglio, detta "Sorella San Marco", non ritenne di abbandonare i suoi feriti e ricoverati.

Come giunsero quelli dell'Ottava Armata - e quindi non vi erano più ragioni di riconoscenza per l'opera umanitaria - i "partigiani", sorti dal nulla, dettero tante botte all'Antonietta da ridurla in fin di vita. Nessuno poi prestò cure sanitarie alle sue lesioni. Rimase cieca per tanto tempo a causa delle legnate prese sulla testa, ma non sviluppò odio per nessuno dei suoi torturatori.Li giustificava, come Cristo: "Non sapevano quel che facevano".

Francesco Maria Borgogelli

tenente degli NP


"Sorella San Marco"

Sorellina! Con i tuoi capelli neri, con i tuoi grandi occhi profondi, bianca crocerossina volontaria, tu eri per noi soltanto "Sorella San Marco". Vicina a chi era sano, a chi era malato e a chi era triste o contento. Con gli ufficiali e i soldati eri compagna pietosa con-solatrice, scherzosa, comunque semplice, modesta, esemplare.

Come donna tra noi, puoi aver forse suscitato qualche palpito non pro-prio fraterno. Ma se il palpito c'è stato fu puro, né alcuno te lo svelò mai. Né mai ricevesti uno sguardo furtivo né un gesto men che onesto.Qualcuno raccoglieva qualche fiore per te, un altro ti eleggeva segretamente nel suo cuore a Regina. Nessuno però, mai ti ha parlato di questi argomenti.Uno solo che forse più di tutti ti amava, avrebbe voluto gridartelo con tanta passione: non ne ha avuto il coraggio. Il cappella-no un giorno ti rese edotta di quell'amore; il soldato però era morto: l'amore per te era stato il suo testamento.Molti ti videro nella invernale estenuante marcia del Carso, stanca, livida dal freddo, seguire a piedi la truppa, con borraccia e ta-scapani pesanti di viveri di conforto per gli eventuali feriti dall'insidia slovena, seguire il medico del battaglione fino in prima linea, bendare, soccorrere, incurante del fischio rab-bioso dei proiettili o degli schianti delle bombe.Eri invulnerabile! Anche il dì di Pasqua nell'incantevole meriggio di primavera, tra i mandorli fioriti sul Senio, sotto una bu-fera di colpi, eri sorridente e giuliva, più raggiante che mai nell'atmosfera contrastante di deflagazioni e di morte.E a San Giuseppe di Comacchio, sotto la pergola fiorita, all'ombra delle case semidistrutte, a pochi metri ti scoppiò una granata. Ti sei gettata a terra, le schegge e il terriccio ti hanno sfiorata: fu un miracolo se rimanesti illesa. Ma il tuo cuore non fece un battito di più. Ritornasti di corsa con un fascio di glicini in mano e a noi, tremanti per te, annunciasti calmissima: "Anche oggi sono riuscita a raccogliere i fiori per i miei feriti!".

La piccola macchina sulla quale viaggiavi, fatta segno alla violenza delle mitragliatrici dei cacciabombardieri in picchiata, si ribaltò. Accovacciata nel fossato, gli aerei ancora mitragliavano, ma tu con le vesti sforacchiate da un proiettile, stordita, contusa, non hai smentito il tuo al-truismo, rivolgendoti al cappellano che aveva il femore rotto da una pallot-tola e la faccia insanguinata, e gli hai prestato le prime cure.

Già, nessuno ti ha visto nelle notti d'inverno accoccolata al letto del morente, nella terribile agonia del peritonitico, accontentarlo in ogni minimo desiderio, per tre notti calmare la sua ansia atroce, accarez-are la sua mano diaccia e la sua fronte imperlata di sudore vischioso, vincere il fetore emanato dal drenag-gio addominale; e i giorni seguivano a quelle terribili notti, continuare indefessa il tuo lavoro nell' in fermeria da campo che tenevi sempre linda.

Si sa cosa significa, lontano dagli effetti più cari, avere accanto un purissimo cuore di donna, che ti consola e ti sa ricreare, nel-la estrema sofferenza, il palpito dell'a fletto della casa lontana? Un cuore che vive con te ogni momento, dividendo con pazienza e tenerezza infinite, il tuo dolore morale, un dolce viso di donna piena di grazia e di conforto immenso che, illuminandosi di un puro sorriso, allevia le tue atro-ci sofferenze del fisico?Ti ho visto sola nella cella mortuaria dell'ospedale, in un angolo di cimitero di paese sotto un porticato semi distrutto nei pressi della linea, vicino a una chiesa, lavare, vestire, ricomporre le salme dei soldati lordati di sangue e di fango, raccolti dalla pietà dei compagni, che ritornavano da te.Avevano ancora contratta la bocca nello spasimo estremo, forse ancora si leggeva sul loro labbro l'ultima disperata invocazione a Dio o alla mamma lontana... E tu ricomponevi quei volti, detergevi le vesti, cercavi di ravviare i capelli, e quando quelle facce immote sembravano riposare in un sonno più dolce, allora li baciavi in fronte prima che li sotterrassero.Madri di quegli eroi, tutte foste presenti in quegli ultimi istanti. La sorellina era là sempre, per tutti i vostri figli, fino all'ultimo, conscia della sua grande missione e del vostro tragico dolore, effondendo in loro il vostro affetto infinito!Tu, sorellina, non fosti come tante altre donne. Non sei la spensierata ragazza vuota e vana; tu hai sempre sofferto nella tua vita, e (mando un giorno solo fosti felice di possedere un nido tutto tuo, di avere anche tu una sorte serena, nella santità di una nuova famiglia, il tragico destino che ti incombeva, ti privava dello sposo novello, caduto eroicamente nella "infida Slovenia".

Ritornata alla tua solitudine e al tuo dolore, hai voluto effondere tutto il tuo affetto nella magnifica missione della pia consola-trice dei volontari arditissimi della Patria perduta. Sorellina! Una nuova famiglia ancora ti eri formata e anche questa tragicamente si è sciolta.I sopravvissuti ti ricordano, ti amano, ti benedicono; vogliono che il tuo cuore batta d'amore e non soffra mai più. Se qualcu-no ebbe la fortuna di tornare ancora alla serenità della casa paterna, quando strinse commosso sua madre, quando finalmente poté ribaciarla, ebbe certo un sussulto: si ricordò della mammina del fronte, di te, Sorellina!Nessuno può dimenticarti, e se ricordandoti qualcuno tenta di nascondere agli altri la lacrima furtiva che gli scende dal ciglio, lo fa perché quella lacrima è una magnifica perla che egli segretamen-te vuoi serbare per te.Tante seno le lacrime e tante le perle: Sorellina! Fanne una lunga collana: è tutto il mio Battaglione che piange...

Michele Da Campo










Nel 1941, durante la campagna del Nordafrica, la 15ª divisione Panzer dell'Afrika Korps di Rommel diede una micidiale dimostrazione di forza nei combattimenti contro gli inglesi






Il 12 febbraio 1941 giunse a Castel Benito, in Libia, un solitario bombardiere Heinkel He 111.
Ai coloni italiani sembrò soltanto uno dei tanti aerei tedeschi che in quei giorni stavano facendo affluire dalla Sicilia i rifornimenti necessari per stabilire una base della Luftwaffe nei pressi di Tripoli.
Dall'apparecchio scese invece un generale tedesco, di media statura ma di modi assai energici, che era destinato a modificare radicalmente il corso della guerra nel deserto.
L'ufficiale era Erwin Rommel: aveva iniziato la sua carriera di combattente nella prima guerra mondiale, e si era particolarmente distinto durante il "blitzkrieg", la guerra lampo della Wehrmacht contro la Francia, nel maggio del 1940. Due giorni più tardi, la 5ª divisione leggera, prima unità di quello che sarebbe poi divenuto il Deutsches Afrika Korps (DAK), cominciava a sbarcare a Tripoli.
Agli inizi del 1941, lo sforzo bellico dell'Asse in Africa settentrionale era sull'orlo del tracollo. L'esercito italiano, o piuttosto ciò che ne rimaneva dopo una serie di sconfitte per opera delle forze britanniche al comando del generale Wavell, non era in grado di reggere a nuove offensive. Hitler era deciso a impedire che l'Africa settentrionale cadesse in mano inglese, perché una simile sconfitta avrebbe compromesso l'intero assetto difensivo dell'Asse nello scacchiere europeo. Tuttavia il Führer era contrario a impegnare in modo massiccio la Wehrmacht sul fronte nordafricano: e alla fine preferì inviare un contingente ridotto agli ordini di un ufficiale di grande esperienza. Rommel era pienamente consapevole che le sue truppe, spedite in una zona di operazioni ignota, che richiedeva forme di combattimento del tutto particolari, avrebbero dovuto fare i conti non solo con gli inglesi, ma anche con il deserto. Il nuovo campo di battaglia era in gran parte una distesa desolata e arida, nella quale gli uomini si trovavano a lottare con un caldo asfissiante di giorno e un freddo pungente di notte.
Scarso era il riparo offerto dalla vegetazione, salvo che nella striscia costiera o intorno alle città principali, dove i coloni italiani avevano intrapreso opere d'irrigazione. Ma nell'entroterra l'acqua era un bene prezioso. Esistevano alcune sorgenti di cui si servivano le tribù nomadi (e che in seguito avrebbero salvato dalla morte molti soldati dispersi): ma le truppe si sarebbero dovute portar dietro tutti i generi di prima necessità, con l'acqua in cima alla lista. I movimenti militari su qualsiasi scala comportavano gravi pericoli e non potevano essere decisi alla leggera. Vaste distese di sabbia soffice e cedevole potevano infatti inghiottire uomini e automezzi e persino i carri armati rischiavano facilmente di insabbiarsi. Una sola era l'arteria praticabile durante tutto l'anno: la via Balbia, che univa Tripoli alla frontiera egiziana con un percorso di 1600 km. Sulla via Balbia il traffico poteva scorrere agevolmente, come su un'autostrada europea: e Rommel era consapevole (al pari degli inglesi) che la chiave di un'eventuale offensiva consisteva appunto nel controllo di quell'arteria litoranea, che seguiva la costa del Mediterraneo e collegava i vari centri abitati della colonia italiana.

L'AZIONE CORROSIVA DELLA POLVERE E DELLA SABBIAI tedeschi non avevano esperienze recenti di guerra nel deserto, e l'Afrika Korps risultò inizialmente del tutto impreparato al compito che gli era stato assegnato.
Nei primi mesi del conflitto, i tedeschi dovettero servirsi dei rapporti dell'esercito italiano, che però il più delle volte si rivelarono poco attendibili nei dettagli e assai manchevoli dal punto di vista cartografico. Anche l'equipaggiamento fu dapprincipio inadeguato a causa di una serie di errori. Nei loro rapporti, gli italiani avevano richiamato l'attenzione dell'alleato germanico sugli inconvenienti dell'uso dei motori diesel nel deserto, ma avevano trascurato di segnalare le misure che potevano ovviare, almeno in parte, a questa difficoltà.
I tedeschi non presero quindi le misure necessarie per proteggere i motori dei loro veicoli dagli effetti corrosivi della polvere e della sabbia: e questa incuria costò loro assai cara nei primi mesi di guerra. Molti carri armati finirono fuori uso e la vita media dei motori degli autocarri risultò di appena 1000-2000 km, cioè la metà rispetto a quelli usati dagli inglesi. Solo l'adozione di filtri speciali consentì in seguito ai veicoli corazzati tedeschi di reggere il confronto con i mezzi avversari. C'era poi il problema della mimetizzazione. I primi veicoli dell'Afrika Korps erano infatti mimetizzati con vernice grigio-verde, come si usava in Europa, perché la Wehrmacht non disponeva di colori più adatti al paesaggio nordafricano. Così si dovette adottare un rimedio d'emergenza: i carri furono spruzzati d'olio e ricoperti di sabbia.
Bisognava però anche cercare di dissimulare i veicoli da fermi e le loro ombre. Agli equipaggi dei carri armati si dovette insegnare a fare uso, durante le soste, di reti coperte con gli arbusti spinosi di cui si cibano i cammelli; e la fanteria imparò a scavare strette trincee lungo le sponde dei fiumi in secca.
L'ambiente desertico costituì un grave handicap per l'equipaggiamento dell'Afrika Korps, ma servì anche a collaudare la capacità di resistenza e lo spirito di sacrificio dei soldati tedeschi. Dapprincipio, l'alto comando germanico non prese alcuna misura particolare per la vita delle truppe in zona di operazioni: ma l'esperienza dimostrò ben presto che il rancio e le misure igieniche normali non erano adatti per la sopravvivenza nel deserto. Il regime dietetico dovette quindi essere cambiato: fagioli al posto delle patate, biscotti invece del pane, e olio d'oliva al posto del burro e della margarina (che si irrancidivano per il caldo). Fatta eccezione per qualche razione di formaggio o di manzo in scatola, si cominciarono ad usare soprattutto cibi di produzione locale. Complessivamente, però, la dieta dei soldati era monotona e povera di vitamina C. Le uniformi, inizialmente, erano quelle in uso sin dalla fine del 1940: giubba attillata, calzoni alla zuava, elmetto da sole e stivali. L'esperienza evidenziò tuttavia quasi subito i difetti di quest'abbigliamento. Le giubbe erano troppo aderenti; i calzoni ostacolavano i movimenti e l'elmetto offriva una scarsa protezione dal fuoco delle armi leggere e dalle granate. Anche gli stivali erano poco adatti a una campagna nel deserto. Col tempo si capì che perché gli uomini potessero affrontare il caldo l'uniforme doveva essere leggera, ampia e comoda.
Così le divise furono sostituite o modificate per adeguarle alle esigenze individuali.
Rommel era consapevole della scarsa preparazione dell'Afrika Korps e degli inconvenienti del suo equipaggiamento, ma decise di passare ugualmente all'offensiva al più presto.
I suoi piani si basavano sul presupposto (esatto, come gli eventi avrebbero poi dimostrato) che l'ultima vittoria riportata dal generale Wavell sugli italiani il 7 febbraio avesse completamente esaurito le energie degli inglesi. Alla fine di marzo, dopo una serie di attacchi d'assaggio contro gli avamposti nemici, Rommel si sentì pronto per scatenare una grande offensiva contro le posizioni inglesi lungo la pianura costiera. Il 4 aprile fu dato l'ordine di attaccare. L'obiettivo era di riconquistare la Cirenaica. Qualche giorno più tardi dopo una serie di clamorose vittorie, l'Afrika Korps era sul punto di varcare la frontiera egiziana.

Rommel aveva costretto gli uomini di Wavell a ritirarsi per oltre 800 Km, e soltanto Tobruch, l'unico porto marittimo fra Tripoli e Alessandria, era ancora in mano alleata. Entrambi gli avversari però erano stremati dai combattimenti e temporeggiavano in attesa di rinforzi.
È su questo difficile teatro di operazioni che la 15ª divisione Panzer fu chiamata a fare il suo debutto nel deserto.
La 15ª divisione, una delle migliori unità agli ordini di Rommel, era rimasta bloccata a Napoli nelle prime settimane di aprile: ma alla fine del mese era giunto a Tripoli il suo 8° reggimento corazzato, punta di diamante dell'intero corpo.
Wavell, informato dell'arrivo del contingente nemico, affrettò la preparazione dei piani per la controffensiva, che in codice si sarebbe chiamata "Operazione Battleaxe" (Ascia di guerra).
Rinforzi furono fatti affluire in tutta fretta nel Nordafrica, e il 12 maggio approdò nel porto di Alessandria un convoglio di navi trasporto con a bordo i cosiddetti Tigrotti, cioè 238 carri armati tipo Matilda e Crusader.
Molto restava però ancora da fare prima che fossero pronti per il combattimento. I mezzi blindati dovevano infatti essere attrezzati per il combattimento nel deserto, e anche gli equipaggi dovevano abituarsi alle nuove condizioni di vita. Poche settimane sarebbero state sufficienti ma Rommel non era certo uomo d'attendere l'attacco nemico con le mani in mano.


NEL SILENZIO DEL DESERTO
Vista l'impossibilità di scagliare contro il nemico i suoi panzer, a causa della scarsità di rifornimenti, Rommel decise di adottare una strategia di difesa flessibile contro l'imminente offensiva britannica. A tale scopo fece trasformare la gola tortuosa del Passo di Halfaya in una vera e propria fortezza. Nei lunghi e torridi giorni di giugno, i potenti cannoni anticarro da 88, faticosamente trasportati a braccia fino alla postazione, furono interrati in modo che solo le canne lucenti, accuratamente mimetizzate, sporgessero dai parapetti delle piazzole.
Coperte in questo modo tutte le vie d'accesso al valico, si procedette a fortificare altre due postazioni nell'entroterra; la 206, che controllava la strada per Forte Capuzzo, e la 208, sulla Catena dello Hafid. Alle spalle di questo possente schieramento, Rommel dispiegò i 200 carri armati della sua divisione corazzata di punta. Gli uomini della 15ª Panzer attendevano, muti e minacciosi, dietro Forte Capuzzo, mentre ad occidente i loro commilitoni della 5ª divisione leggera, montavano la guardia a Sidi Azeiz.
All'alba del 15 giugno, nel silenzio del deserto, risuonò il ruggito dei carri armati della 4ª e 7ª brigata corazzata britannica.
Quando la fredda bruma del mattino si levò, mostrando le grandi nuvole di polvere sollevate dai carri inglesi in avanzata, gli artiglieri tedeschi cominciarono a preparare le armi.
Non apersero però subito il fuoco, lasciando che i carri proseguissero la loro corsa verso la prima linea difensiva di mine anticarro predisposta da Rommel. Pochi istanti dopo, l'attacco britannico si esauriva. I carri, insabbiati nei campi minati e incapaci sia di avanzare che di indietreggiare, costituivano adesso un bersaglio ideale per i micidiali cannoni da 88. La carneficina del Passo di Halfaya fu tale che gli inglesi ribattezzarono lo scontro con un nomignolo dal suono sinistro: "hellfire", o "fuoco d'inferno".
L'offensiva di Wavell era fallita, anche se la 4ª e la 7ª brigata erano riuscite ad avanzare sino a Forte Capuzzo e alla catena dello Hafid. In una sola, sanguinosa giornata, l'Afrika Korps aveva distrutto oltre metà dei Tigrotti inglesi. Gli aspri combattimenti erano costati a Rommel buona parte della sua fanteria e dell'artiglieria: ma il suo contingente di carri era rimasto praticamente intatto. Gli uomini della 15ª Panzer erano riposati, avevano consumato un buon pasto e avevano avuto tutto il tempo per preparare se stessi, e i loro carri, all'azione.
Non ci fu molto da aspettare. All'alba, l'8° reggimento Panzer della divisione ricevette l'ordine di liberare Forte Capuzzo con un attacco frontale.
La 5ª divisione leggera invece si diresse verso la catena dello Hafid, nel quadro di un attacco diversivo a sud.
Alle 5 del mattino, i PzKpfw II, III e IV del reggimento sembrarono destarsi con un ruggito.
I carri si misero in marcia a 24 km l'ora: toccava a loro, adesso, dar prova del valore dell'Afrika Korps, sotto una pioggia di colpi. Rommel era convinto che con un'abile combinazione di fuoco e di movimento, i suoi carri sarebbero riusciti a bloccare e distruggere le difese britanniche. Non aveva però fatto i conti con l'artiglieria controcarri inglese, che sottopose 1'8° reggimento a un fuoco infernale. Più volte i carri tedeschi tentarono lo sfondamento, ma si scontrarono con un fuoco di sbarramento insuperabile. Sei ore più tardi, 1'8° Panzer, ormai sull'orlo dell'annientamento, solo 30 carri erano riusciti a superare lo schieramento nemico, fu costretto a riconoscere la propria sconfitta.
Fu allora che Rommel diede prova del genio che gli avrebbe procurato il soprannome di "volpe del deserto". Nonostante le gravi perdite, egli sapeva che gli inglesi erano prossimi al tracollo e che sarebbe bastato un solo colpo ben assestato per rovesciare le sorti della battaglia. Ordinò qulndi, all'8° reggimento di ricongiungersi con la 5ª divisione leggera per effettuare un'avanzata travolgente nel deserto, che aggirasse gli inglesi attestati a Forte Capuzzo e sullo Hafid, e portasse soccorso alla guarnigione tedesca di Halfaya. Per tutta la notte tra il 16 e il 17 giugno, gli uomini della 15ª divisione lavorarono intorno ai loro carri, sforzandosi di riparare quelli avariati, liberando i motori dalla sabbia e pulendo le armi. Sin dal primo mattino la divisione era pronta per il combattimento: e alle 9 fu dato ordine di avanzare.
Dapprincipio la marcia dei carri non incontrò resistenza. Gli inglesi furono presi di contropiede. Parecchi mezzi corazzati della 7ª brigata si erano ritirati oltre il confine egiziano per rifornirsi di carburante, e solo pochi carri Matilda della 4ª brigata erano rimasti ad appoggiare gli uomini della 22ª brigata Guardie a Forte Capuzzo.
Di fronte all'avanzata tedesca, il comandante britannico di quell'avamposto capì immediatamente che le sue truppe rischiavano l'accerchiamento e ordinò un immediato ripiegamento, coperto dai veicoli corazzati. Mentre i Matilda si muovevano verso sud per tenere aperta la via della ritirata, i panzer della 15ª divisione premevano a nord per chiudere la trappola. Le due forze entrarono in contatto qualche ora dopo. In questa lotta disperata i carri britannici con una corazza più spessa di quella dei panzer, risultarono un temibile avversario per la 15ª divisione tedesca, priva di appoggio controcarri. I proiettili rimbalzavano sulla corazza dei carri con un assordante boato metallico. All'interno, gli equipaggi inglesi e tedeschi coperti di sudore, con la gola secca e accecati dalla polvere, sembravano ormai combattere più per la sopravvivenza che per la vittoria.
Nascosti dai solchi del terreno, o celati dalle fitte nubi di polvere, i carri rischiavano di entrare in collisione tra loro, proprio quando sarebbero state necessarie la massima sicurezza nelle manovre e la mira più precisa. La vita di ciascuno dipendeva ormai soltanto dalla capacità individuale di colpire il nemico prima di esserne colpiti. La battaglia infuriò in questo modo, con intensità sempre crescente, per oltre sei ore, dando tempo alla fanteria britannica di ritirarsi oltre il confine egiziano e ritardando l'arrivo di Rommel ad Halfaya sino alle 4 del pomeriggio.
Le perdite furono pesantissime. I Matilda pagarono assai cara la loro resistenza, e ben pochi ritornarono fra le file britanniche. La sera del 17, Rommel aveva ottenuto una vittoria decisiva e l'Operazione Battleaxe del generale Wavell era fallita. In questa prima offensiva su larga scala. l'Afrika Korps aveva perso soltanto 25 carri, mentre gli inglesi avevano lasciato sul campo 87 Tigrotti e molti altri mezzi corazzati. Il fallimento dell'Operazione Battleaxe non fu soltanto una sconfitta militare. Esso dette infatti origine anche a una leggenda circa l'invincibilità di Rommel, che finì per essere accettata non solo dalle truppe ma anche da molti ufficiali e comandanti britannici. La successiva destituzione di Wavell servì a rafforzare questo convincimento. Gli uomini della 15ª divisione Panzer furono comprensibilmente orgogliosi di essere riusciti a tornare in prima linea malgrado le gravi perdite subite. Molto probabilmente si erano anche resi conto di avere, nella "volpe del deserto", un comandante che valeva più di una divisione nemica.

STRUTTURA DELLA 15ª DIVISIONE PANZER
Il nucleo della 15ª Panzer era costituito dai due battaglioni dell'8° reggimento Panzer.
Ciascun battaglione comprendeva 3 compagnie, ognuna delle quali aveva in dotazione 20 carri armati. Da principio erano in dotazione soprattutto i PzKpfw II, che in seguito furono gradualmente sostituiti dai più potenti PzKpfw III e IV. L'appoggio dei carri armati era assicurato da un reggimento d'artiglieria, composto da 3 battaglioni, equipaggiati con cannoni da 105, 120 e 150 mm, e dalla 15ª brigata di fanteria motorizzata. I due reggimenti di quest'ultima, il 115° e il 200°, comprendevano ciascuno 3 battaglioni formati da 3 compagnie di fucilieri;
una compagnia di mitraglieri di 150 uomini con 18 mitragliatrici e 6 mortai; un plotone di genieri, e una sezione addetta alle trasmissioni. Il 33° battaglione da ricognizione motorizzato costituiva, per così dire, gli occhi e le orecchie della divisione, e comprendeva una squadra di veicoli cortizzati pesanti e 4 di veicoli leggeri. L'appoggio alla fanteria era assicurato da 3 compagnie di fanteria motorizzata e da una compagnia di artiglieri. Il 15° battaglione motociclisti forniva un ulteriore appoggio.
La 15ª divisione comprendeva infine due battaglioni trasmissioni e genieri, un battaglione d'artiglieria controcarro e uno di contraerea.

IL RUOLO DEI MEZZI CORAZZATI

Le battaglie combattute nel giugno 1941 in prossimità del confine egiziano videro il primo scontro diretto fra grandi unità corazzate dell'esercito britannico e dell'Afrika Korps. Queste azioni costituirono il banco di prova per l'impiego tattico dei carri armati, ma anche per la verifica delle diverse concezioni circa l'uso strategico dei mezzi corazzati. Nonostante il DAK avesse in dotazione un alto numero di PzKpfw II e IV, il nucleo della 15ª divisione Panzer era costituito dai PzKpfw III. Il primo modello di questo carro prodotto su vasta scala - l'Ausf F - comparve all'inizio del 1940: il suo armamento consisteva in un cannone principale da 37 mm.
Ma verso la fine dell'anno entrò in produzione l'Ausf G, equipaggiato con un cannone da 50 mm, più potente e a canna corta. Entrambe le versioni hanno combattuto nelle prime battaglie nel deserto. Il principale avversario britannico del PzKpfw III, il Matilda, era un carro d'appoggio per la fanteria, relativamente ben corazzato ma lento nelle manovre. Nel 1940, il Matilda era quasi invulnerabile rispetto alle armi controcarro dei tedeschi ma poi l'adozione da parte di questi ultimi del cannone da 88 mm pose fine alla sua fama di re del campo di battaglia. Alla fine la lentezza del Matilda e il suo armamento insufficiente lo declassarono definitivamente rispetto ai panzer tedeschi.



















"Stat Crux dum volvitur orbis"
























Il terzo incomodo – i 90 anni di Fiorenzo Magni





By Alessandro Giorgiutti




Quest’anno ricorrono i cinquant’anni dalla morte di Fausto Coppi (1919-1960), e forse qualcuno ricorderà anche i dieci anni dalla morte di Gino Bartali (1914-2000).




Per amor di anticonformismo, io festeggerò invece i novant’anni di Fiorenzo Magni (1920), il “leone delle Fiandre”.








Di Coppi non sopporto il santino laicista che ci verrà riproposto una volta di più: vittima dell’Italia ipocrita e bigotta, che ne condannò l’amore proibito con la “dama bianca”. (Gli storici di domani dovranno spiegare questo strano compiacimento di una società devastata dalla crisi della famiglia nel celebrare con fierezza il divorzio e l’adulterio.) Ma anche la retorica su Bartali, che ne ha fatto una bandiera guelfa e clericale, non mi ha mai convinto.




Meglio, allora, rifiutare il famoso dualismo. Meglio il meno dotato Magni. Meno dotato ma coraggioso, generoso, tenace. E vincente: tre Giri delle Fiandre consecutivi, dal 1949 al 1951 (di qui, il soprannome di “leone”) e tre Giri d’Italia, l’ultimo, quello del 1955, vinto a 35 anni suonati, un record che a quel che mi risulta non è stato ancora battuto.




Gli mancò il Tour de France, che avrebbe potuto vincere nel 1950. Ma pur essendo in maglia gialla fu costretto a ritirarsi su pressione di Gino Bartali, che fece abbandonare la corsa a tutti gli azzurri, per protestare contro gli spintoni con i quali i francesi accoglievano sulle strade i corridori italiani, che a Parigi avevano trionfato l’anno prima (con Coppi) e nel 1948 (con lo stesso Bartali, in quella vittoria che, secondo la leggenda, evitò all’Italia, scossa dall’attentato a Palmiro Togliatti, la guerra civile). Magni avrebbe forse realizzato un clamoroso tris, ma si piegò alle decisioni della squadra. Non gli piacque, però, che in un’intervista “Ginettaccio” dicesse di lui: “Tanto Magni era già morto. Non avrebbe vinto comunque…”




Anche per questo motivo, forse, il toscano e cattolico Magni, più che col toscano e cattolico Bartali, legò con Coppi.




Se nell’immaginario collettivo Fausto rappresentava la sinistra e Gino la Dc, Fiorenzo era il non allineato. Il terzo incomodo, e non solo in corsa. Nel 1948, vinse il suo primo Giro d’Italia sotto i fischi del pubblico. A Milano, al Vigorelli, gli tirarono le arance e gli urlarono: “fascista!” Era vero: dopo l’8 settembre aveva scelto la Repubblica Sociale. E dopo il 25 aprile non aveva abiurato…




Ma durante la guerra civile il suo migliore amico era stato il partigiano Alfredo Martini, che sarà commissario tecnico della nazionale di ciclismo tra 1975 e 1997. “Vorrei solo far capire cosa siamo stati, cosa siamo io e Martini”, racconterà più tardi Fiorenzo Magni: “allora, lui comunista e partigiano, io guardia nazionale. Lui che veniva giù dai monti e mi diceva: ‘Siete rovinati, sei matto a restare qui’. E io: ‘Vieni via dalla montagna, ci sarà una retata’”. O gran bontà de’ cavallieri antiqui…




Nel 1956, ultimo anno d’attività, Magni compie quella che forse è la sua più grande impresa: al Giro d’Italia, nonostante una clavicola e un omero fratturati, riesce a piazzarsi – pregando e stringendo i denti (e non per modo di dire…) – al secondo posto, alle spalle di Charly Gaul, uno dei migliori scalatori di sempre. Lascio la parola a lui:




“Ricordo che affidarmi alla protezione di Maria mi fu di grande conforto anche in uno dei momenti più difficili della mia carriera sportiva, quando in seguito a una brutta caduta durante il Giro del 1956, mi fratturai la clavicola sinistra. I medici mi sconsigliarono di proseguire ma io decisi di provare a continuare.




Il mio meccanico mi costruì quel marchingegno che si vede nelle foto d’epoca: la camera d’aria di un tubolare che io stringevo coi denti, non potendo fare forza sul manubrio, con la mano sinistra.




Purtroppo durante la tappa seguente caddi ancora, persi conoscenza per il dolore e mi risvegliai sull’ambulanza, appena in tempo per scendere e decidere di portare a termine la tappa, nonostante tutto.








Quello è il Giro della famigerata tappa del Bondone, caratterizzata da freddo intensissimo, neve e condizioni impossibili. Riuscii a portare a termine la tappa. Moltissimi si ritirarono, semiassiderati, compresa la maglia rosa Fornara. Arrivai terzo, e secondo in classifica generale, dietro a Charly Gaul, alla fine di quello che sarebbe stato il mio ultimo Giro d’Italia, all’età di 36 anni. Esami successivi accertarono che si era fratturato anche l’omero. In quel momento, come sempre nei momenti difficili della mia carriera e della mia intera esistenza, la preghiera mi è stata di grande sostegno e conforto.”









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Link:
Magni e Gino Bartali (intervista al Corriere della Sera, 22 gennaio 1994);
Magni e Fausto Coppi (intervista al Messaggero, 1 gennaio 2010);
Magni e la Fondazione Museo del ciclismo Madonna del Ghisallo (intervista all’Osservatore Romano, 29 novembre 2009).










sabato 1 agosto 2009











Articolo pubblicato dal famoso giornalista svizzero Gentizon su un noto settimanale elvetico nel Maggio 1945.
Paul Gentizon L'Italia ha vissuto uno dei giorni più oscuri della sua storia millenaria.Dopo una carriera folgorante, alla fine di una guerra sfortunata, il condottiero che dal 1920 era apparso come il simbolo vivente delle aspirazioni più profonde del popolo italiano, Mussolini, ha subito una atroce fine. Tuttavia l'intera sua vita non è stato che un tentativo commovente e tragico di risvegliare le vittorie romane, di rifare dell'Italia una grande potenza. Spesso, allorchè si rivolgeva alla gioventù italiana nell'intento di entusiasmarla, Mussolini amava porre la domanda:"Non è preferibile morire in un assalto piuttosto che soccombere per malattia?". Infatti egli non si augurava d'agonizzare tra due lenzuola.Egli avrebbe voluto morire sulla barricata o, meglio ancora, in una nube nel cielo della gloria.Ma le figlie dell'Ade, le Parche, padrone del destino degli uomini, gli hanno rifiutato il trattamento proporzionato alla sua vita eccezionale: una morte degna di lui. Dopo aver voluto tante volte forzare il destino per guadagnarsi il privilegio di morire da eroe, egli è caduto da martire. E' morto per la difesa del suo ideale e della sua fede politica.E' morto per l'Italia.Non è mai stato un debole nel quadro della sua azione civile, militare e patriottica.Non ha mai disperato.Sino alla fine è stato eroico e leale.Nel luglio del 1943, malgrado fosse duramente colpito dall'ingiustizia e dalla debolezza degli uomini, egli non si è mai lasciato andare.Dal giorno successivo alla sua liberazione, malgrado la situazione dolorosa e caotica, egli si è rimesso al lavoro.Ha ripreso il suo sforzo sovrumano per la salvezza e la resurrezione dell'Italia.In qualche settimana ha ricostruito un governo, un' amministrazione, rifatta la struttura di un partito, costituito la base di un nuovo esercito, raddrizzato lo stato.Ma non è dipeso da lui che la terra dei suoi padri fosse salvata.Egli donò tutte le sue forze, tutto il suo cuore al suo paese.Gli ha donato la sua vita.Lottò fino alla fine per mantenere all'Italia il diritto di riprendere nel mondo il posto d'onore e di gloria conquistato a varie riprese, nel corso dei secoli, col sacrificio e col sangue degli antenati. Egli personificò, fino all'ultimo istante, le speranze e la fortuna della Patria.La sua morte drammatica serve ancora l'ideale della sua vita. Numerosi europei, che l'hanno ammirato, hanno appreso con tristezza la sua sparizione.Molti, presi dal profondo dolore, l'hanno pianto.Oggi essi non possono fare altro che onorarlo nelle loro preghiere e testimoniare in suo favore con la fedeltà del ricordo. Per vari aspetti Mussolini era affascinante.Per anni tutti gli stranieri di rilievo che vennero a Roma non avevano altro interesse che avvicinare l'uomo che, in condizioni estremamente difficili dopo parecchi anni di anarchia e di caos, era riuscito a rimettere ordine e ritmo all'intera vita dell'Italia moderna. Lo si assediava.Erano decine, ogni giorno, le richieste di ricevimento che dovevano essere rifiutate.D'altra parte le udienze erano brevissime.E alla fine, la maggioranza di coloro che l'avvicinavano, nel corso del loro soggiorno sulle rive del Tevere, non avevano il tempo nè di comprenderlo, nè di interpretarlo.Spesso non ne riportavano che un'immagine errata.Così che una leggenda aveva finito col diffondersi: quella del dittatore massiccio, dalle spalle quadrate, il volto duro, dominatore e deciso.Non so quale giornalista gli riconobbe anche "la testa classica del tiranno".Certamente egli recava su di sè il segno della sua forza e della sua grandezza.E' per questo che egli esercitava spesso su coloro che l'avvicinavano un vero fenomeno di suggestione. L'uomo di stato, il condottiero impediva di vedere il vero Mussolini.Perchè, nel fondo, l'animava un vero impulso di umanità. Tutti coloro che ebbero la possibilità di avvicinarlo in maniera costante possono testimoniarlo. Nato in un piccolo villaggio, figlio di un fabbro, egli rimane per tutta la vita semplice e sensibile. Non era maturato in città.Non aveva niente del borghese, del raffinato.Sdegnoso di ogni ricchezza è sempre vissuto modestamente.Condotto quasi direttamente dal villaggio natale al posto che occupava, egli aveva conservata intatta non solo la sua semplicità naturale, ma la sua freschezza di impressione campagnola e primitiva.Durante la vita conservò una viva simpatia per gli umili, per i contadini e per i lavoratori.Non appena si trovava in mezzo agli operai parlava volentieri con loro. Noi lo abbiamo visto nelle paludi Pontine intrattenersi faccia a faccia con un vecchio agricoltore, sulla spalla del quale egli posava familiarmente la mano.Coloro i quali vogliono ad ogni costo raffigurarlo come un essere intrattabile, rude, duro come il granito si ingannano completamente. Nel 1932, all'epoca del suo primo viaggio a Genova, quando l'incrociatore sul quale si trovava, entrando nel golfo s'avvicinò alla città, allorchè gli equipaggi delle navi nel porto e la gente ammassata a centinaia di migliaia sulla banchina, sui tetti e le colline lo salutarono in un radioso mattino con acclamazioni trionfali, nelle sventolio delle bandiere e al suono delle campane di tutte le chiese, allora coloro che lo attorniavano videro le lacrime, una ad una, solcare lentamente le sue gote. Mussolini piangeva apertamente alla maniera antica, senza il falso pudore di voler dissimulare il suo turbamento. Ugualmente quando "Horatio"fu rappresentato al foro, i versi immortali di Corneille lo costrinsero più volte a portare la mano alle palpebre. Il potere non lo logorò per niente.Per tutta la vita egli conservò intatta la sua spontaneità emotiva. Non si possono enumerare i suoi atti di bontà.Questi comprendono anche i suoi vecchi avversari.Più volte egli fece aiutare vecchi socialisti caduti in miseria.Si contano a migliaia gli scrittori e artisti ai quali, con i più ingegnosi mezzi, egli assicurò una vita decente.La moderazione e la dignità ispirarono il più piccolo dei suoi atti. Quando fu liberato al Gran Sasso da una squadra di paracadutisti, il loro capo, Skorzeny, gli domandò cosa doveva fare degli uomini incaricati della sua custodia ed egli rispose in tutta tranquillità:" Lasciateli andare.."! Se la clemenza fosse dipesa solo da lui, nessun membro del Gran Consiglio sarebbe stato fucilato. A dispetto di una assurda diceria, egli fu sempre d'una tolleranza rara nei confronti dell'opposizione intellettuale.I suoi nemici più acerrimi devono essi stessi riconoscere la sua politica di clemenza e di generosità.Allorchè egli divenne il capo della Repubblica Sociale Italiana e dovette affrontare la "resistenza" tante volte egli perdonò ai partigiani.La storia riconoscerà la sua grandezza d'animo. "Una cosa mi pare certa: il bilancio della dittatura mussoliniana è terribilmente deficitario". Così si esprime un nostro amico in una lettera indirizzataci all'indomani della morte di Mussolini.Noi non crediamo che la storia possa ratificare questo giudizio.Per il momento non è del bilancio della dittatura mussoliniana che si tratta, ma del bilancio del colpo di stato di Badoglio. Dopo questa guerra l'Italia perderà non solamente l'Africa Orientale e la Libia, ma anche il Dodecaneso, la Dalmazia,Fiume e probabilmente l'Istria, Trieste e Gorizia sulle quali si stende già la mano jugoslava e panslava.Ma ciascuno deve riconoscere che se non si fosse verificato il colpo di stato del 25 luglio 1943, il disastro nazionale e forse anche la catastrofe dell'Asse avrebbero potuto essere risparmiati.Il popolo italiano non avrebbe evitato solamente il suo calvario attuale ma anche il disfacimento totale delle sue Forze armate, la disgregazione dello stato e soprattutto la guerra fratricida.Il disastro italiano attuale non è quindi il bilancio del fascismo.E' quello dell'antifascismo. Ma si dirà che, se l'Italia fascista non fosse entrata in guerra, tutto ciò non sarebbe accaduto." A Mussolini sarebbe stato vantaggioso non muoversi" ci scrive una penna israelita.Evidentemente l'Italia avrebbe potuto restare neutrale in questa guerra.Avrebbe potuto, come un piccolo stato, rimanere fuori della mischia.Rimanendo non belligerante avrebbe potuto avere dei grandi vantaggi finanziari e commerciali.Ma Mussolini ha giudicato che l'onore di una grande nazione non poteva coincidere con i suoi soli profitti materiali.L'Italia aveva già proclamato il suo diritto vitale, e impugnato davanti alla coscienza del mondo i suoi problemi di natalità, d'alimentazione, di espansione, di materie prime, di lavoro , di produzione.Confinarsi in una neutralità basata sul profitto avrebbe significato nient'altro che una rinuncia definitiva alle sue mete secolari. D'altronde si sa che cosa sono diventate, in questa guerra, la neutralità turca, la neutralità portoghese, la neutralità argentina.E ciascuno di noi ha inteso, da certe radio straniere, le minacce contro la Spagna di Franco, compresa anche la possibilità di una dichiarazione di guerra. Conservando la sua neutralità, con la sua posizione al centro del Mediterraneo, l'Italia sarebbe stata abbassata al rango di una piccola nazione sud-americana.Si può dunque affermare in tutta serenità che chiunque fosse stato al potere a Roma nel 1940 non avrebbe impedito all'Italia d'intervenire in un conflitto ove era in gioco la sorte dell'Europa e dal quale doveva uscire un nuovo equilibrio del mondo.La posizione storica e geografica della penisola le imponeva la lotta. O rinunciare al rango di grande potenza o rassegnarsi a divenire per sempre un paese di turismo e viaggi di nozze, o rischiare tutto, audacemente, per conquistare l'indipendenza definitiva. La guerra doveva dunque liberare l'Italia da ogni soggezione e donarle un posto degno nel mondo."Non muoversi" avrebbe voluto dire restare per secoli in condizioni di definitiva inferiorità politica, economica, sociale e morale.L'errore del fascismo è dunque quello di aver tentato di fare dell'Italia una nazione libera, grande e prospera. Mussolini ha osato...Ma cosa sarebbe diventata l'Italia se il piccolo Piemonte, nel 1848, non avesse osato sfidare il potente impero degli Asburgo?. Nessuno ha rimproverato allora Cavour d'avere "osato muoversi".Certo bisognerebbe essere sempre sicuri di vincere .Ma tutti i belligeranti, qualunque essi siano, e soprattutto quelli che dichiarano una guerra, sono "a priori" sempre sicuri di farcela. L'Italia fascista ha difeso sino alla fine la sorte delle generazioni future della penisola.Oggi la guerra è finita.Nondimeno le situazioni permangono di una smisurata grandezza.Esse possono prendere uno sviluppo imprevisto.Cosa significherà un domani per l'Inghilterra e gli Stati Uniti vincere assieme alla Russia? La fine della guerra non risolverà i problemi posti.Ne possono nascere degli altri ancora più terribili. Il bilancio del Fascismo? Dopo secoli di silenzio e di decadenza, l'Italia ha nuovamente parlato ed agito.Dopo la marcia su Roma, lungo la strada del suo destino, pietre miliari imponenti hanno segnato, durante quasi un quarto di secolo, i suoi sforzi e le sue realizzazioni.Esse hanno nome:strade, autostrade,ferrovie, canali di irrigazione, centrali elettriche, scuole, stadi, sports, aeroporti, porti, igiene sociale, ospedali, sanatori, bonifiche, industrie,commercio,espansione economica, lotta contro la malaria, battaglia del grano, Littoria, Sabaudia, Pontinia,, Guidonia, Carta del Lavoro, collaborazione di classe, corporazioni, Dopolavoro, Opera Maternità e Infanzia, Carta della Scuola, Enciclopedia, Accademia, codici mussoliniani, Patto del Laterano, Conciliazione, pacificazione della Libia, marina mercantile, marina da guerra, aeronautica, conquista dell'Abissinia. Tutto ciò che ha fatto il Fascismo è consegnato alla storia.E niente riuscirà a cancellare queste prove sorprendenti di una volontà indomabile di creatività e di ricostruzione. In politica estera, nel 1932, a Ginevra, viene esposto il progetto mussoliniano tendente all'abolizione dell'artiglieria pesante, dei carri armati, delle navi da guerra di linea, dei sottomarini, degli aerei da bombardamento.Nel 1933 una nuova proposta in favore della pace:il patto a quattro, la cui accettazione avrebbe salvato l'Europa.Qualche mese più tardi ancora un suggerimento per la tregua immediata degli armamenti.Nel 1934 l'esposizione di un nuovo sistema di pacificazione del nostro continente. Lo stesso anno, all'inaugurazione di Littoria, nel cuore delle paludi pontine redente dalle loro torbe e dalle loro febbri, la famosa dichiarazione:" Abbiamo conquistato una nuova provincia.Abbiamo dovuto combattere,ma questa guerra, la guerra pacifica, è la guerra che noi preferiamo". Nel 1935 ci sono gli accordi Franco-Italiani di Roma.Nel 1938 c'è il Gentlemen's Agreement con l'Inghilterra.Nel 1939, alla vigilia della guerra attuale su suggerimento del Duce:è Monaco, l'ultimo tentativo di evitare il conflitto.Ecco ciò che risponde la verità nuda a tutte le deformazioni degli slogans. Certamente Mussolini - noi ne abbiamo esposto le ragioni - è entrato volontariamente in guerra.Ma egli non l'ha voluta. In un documento che presto renderemo pubblico egli afferma con parole precise : " Nella primavera del 1939 - egli scrive in terza persona - il cantiere italiano era in pieno fervore e Mussolini per primo sentiva che non si doveva sfidare troppo il destino.Egli si rendeva conto che un lungo periodo di pace era assolutamente necessario all'Europa in generale e all'Italia in particolare e che la guerra, una volta scoppiata, avrebbe interrotto tutto, compromesso tutto e forse rovinato tutto.Nella sua opposizione alla guerra c'erano anche dei motivi di carattere politico e morale, come il presentimento che la sorte dell'Europa, come continente creatore di civiltà, era in gioco..No,Mussolini non ha voluto la guerra. Egli non poteva volere la guerra; egli la vedeva avvicinarsi con terribile angoscia.Egli sentiva che essa era un punto interrogativo per tutto l'avvenire della Patria".(1) Il Dio delle battaglie ha già espresso la sua sentenza suprema. Al termine di questa lotta gigantesca i popoli ricchi, ben provvisti di tutti i beni della terra, hanno sconfitto i popoli diseredati ad alto potenziale demografico.La Germania e l'Italia sono vinte.L'una e l'altra avevano chiesto per il diritto alla vita ciò che esse stimavano legittimo. Per diritto di possesso, per egoismo naturale e consacrato, le altre potenze glielo hanno rifiutato.Chi ha avuto torto, chi ha avuto ragione? Lasciamo ai posteri l'ardua sentenza. Per la penisola, l'episodio mussoliniano è terminato.La storia dirà un giorno la messe di gloria raccolta, armi alla mano, sotto il segno del fascio.Benchè abbia dovuto lottare in condizioni estremamente difficili, benchè la superiorità navale dell'Inghilterra abbia reso impossibili grandi vittorie, l' Italia mussoliniana ,prima dei suoi rovesci, ha riportato dei successi incontestabili.Le sue armate hanno condotto le proprie insegne dalle sabbie torridi della Libia fino ai ghiacci della Russia.I suoi cavalli si sono abbeverati nelle acque del Guadalquivir, del Dnieper e anche delle sorgenti del Nilo.La sua bandiera è sventolata sull'Atlantico fino presso la Manica.Dopo un'epica corsa lungo le rive africane, i suoi battaglioni sono giunti fino alle porte di Alessandria e, per la prima volta dall'antichità, la terra dei Faraoni ha rivisto le insegne di Roma. Allora, nel mondo intero, la causa italiana e fascista non mancava certo di incensatori.Ma è bastato un solo cambio di vento a favore dei vincitori perchè immediatamente i codardi e i pusillanimi trasportassero nel campo avverso il loro miserabile incenso.Ed è proprio nell'Italia stessa che il fenomeno ha preso l'aspetto più rivoltante. Anche la stessa vittoria dell'altra guerra era stata minacciata, dal 1919 al 1922, da un gruppo di disfattisti , sabotatori e rinunciatari (2).Questa volta il marcio ha preso un carattere nazionale.L' Italia ha mollato più per lo smarrimento dei suoi figli che per le virtù guerriere dei suoi nemici; è stata vinta da se stessa, per il suo stesso disfattismo. L'italiano ha dei difetti terribili.A fianco delle più belle qualità, l'intelligenza rapida e acuta, il coraggio personale, una propensione naturale lo spinge verso lo scetticismo, il dubbio, il minimo sforzo. Egli è facilmente prodigo di belle rassicurazioni, ma troppo spesso manca il legame tra la parola,il pensiero e l'azione.E' facilmente fazioso.Lo domina il suo interesse personale. Non ha il culto dell'obbedienza civica.Di più, allevato al seno dell'universalismo cattolico, è rimasto sprovvisto per secoli di un vero spirito militare e completamente indifferente alla gloria del suo paese.La verità è che, sia per il sub-strato mentale del suo popolo,sia per la sua storia, "...l'Italia non ha mai potuto diventare una nazione come le altre" (3). Tuttavia la guerra italiana avrebbe conservato sino alla fine il suo normale atteggiamento se il voltafaccia del Re e dello Stato Maggiore non avesse agito come fermento di demenza e di decomposizione.Persa la sua coesione, stravolta la sua coscienza, il paese, nella sua gran maggioranza, si abbandonò al lassismo, all'indifferenza, all'incomprensione.Egli perse il controllo dei suoi nervi. Dimenticò che quello che era in gioco oggi non era solamente una dottrina politica o un sistema sociale, oppure un obiettivo di lusso, ma l'eredità degli avi, l'avvenire della razza, la terra per i figli, il pane quotidiano, la dignità, l'onore, la libertà, l'indipendenza nazionale.E' per questo che il futuro rivolgerà probabilmente un vero e proprio atto di accusa contro i responsabili.Le generazioni a venire li scomunicheranno per aver portato deliberatamente il paese alla soglia della disfatta e per avere loro interdetto, forse per secoli, il ritorno degno e libero sul campo della propria storia. Ma se c'è un nome che , in tutto questo dramma, resterà puro e immacolato, sarà quello di Mussolini. In tutte le circostanze e nell'avversità più atroce il Duce è rimasto di una fermezza incoccussa.Egli non ha commesso alcuna mancanza .Fino davanti alla morte è rimasto fedele al suo onore: non ha capitolato. E' per questo che, senza parlare dei sui fedeli, gli stessi avversari - se hanno conservato nel cuore la nozione dell'umana nobilità - non possono che inchinarsi davanti alla sua tomba in rispetto e ammirazione.In Szivvera, soprattutto, la sua morte deve risuonare dolorosamente nel cuore di tutti coloro che si ricordano quanto quest'uomo amasse il nostro paese, al punto che più volte la sua voce si è levata in nostro favore e nelle ore di angoscia egli si è posto fraternamente al nostro fianco. Nel momento del successo e della gloria le nostre autorità l'hanno nominato "dottore honoris causa" dell'Università di Losanna, e gli è stato offerto, durante una solenne manifestazione, una copia del busto di Marco Aurelio rinvenuto in terra d'Avenches.Una pubblicazione ufficiale, il Dizionario Biografico della Svizzera, lo cita pure, a fianco di Roman Rolland, tra gli stranieri che hanno onorato il nostro paese.Possiamo dunque anche noi, in quest'ora dolorosa, senza alcuna riserva, indirizzare un pensiero commosso al ricordo di questo grande uomo di pensiero e di azione.Egli ha orribilmente sofferto.E' stato tradito dai suoi.Gli stessi, che l'avevano esaltato e che marciavano all'ombra della sua gloria, l'hanno venduto per trenta denari. Tra milioni e milioni di suoi compatrioti, ai quali aveva reso l'orgoglio di essere italiani, neanche uno solo si è trovato là, nell'ora suprema, per coprirlo piamente col sudario e chiudergli gli occhi.E' sorte dei grandi uomini di essere crocifissi, pugnalati, gettati sulle isole deserte.Egli fu tra i più grandi. Dominò dall'alto tutti coloro che lo circondavano. Egli fu più grande dell'Italia e ha tentato di sollevarla al di sopra di se stessa, di alzarla al livello dei più grandi imperi.Ma nè i polmoni nè il cuore dei suoi compatrioti furono abbastanza solidi.La debolezza dell'Italia ha paralizzato la forza e lo slancio del suo condottiero. Se avesse vinto questa guerra , sarebbe stato consacrato genio universale e divino e la sua patria, malgrado le sue numerose ferite, avrebbe ritrovato non solamente la sua piena integrità territoriale e il suo impero, ma l'alone di gloria che l'ha circondata nell'antichità. Vinto, egli è destinato allo spregio e le radio del mondo intero lo proclamano anticristo, Lucifero, o Cesare da Carnevale. Come Napoleone alla sua morte.Ma il tempo rimette ogni cosa al suo giusto posto.La storia non potrà vilipendere la sua memoria e gli renderà giustizia.Il suo sangue non sarà sparso invano. Più di ogni altro è quello dei martiri che feconda la vita dei popoli.In vita, Mussolini aveva già la sua leggenda; essa ingrandirà.Mai, dopo il rinascimento, l'Italia ha palpitato tanto di vitalità quanto durante il grande periodo del Duce. Nelle istituzioni, nei codici mussoliniani c'era ancora il fremito di un mondo nuovo.Poi, dalle Alpi al Nilo, dalla Spagna al Volga il sangue ardente dei soldati italiani inondò questa terra..Nell'aria brillava un sole di gloria.Ebbene,qualunque cosa avvenga, questo passato non morirà.Il fermento che egli ha riversato non solamente nelle vene italiane, ma nelle arterie del mondo, continuerà a ribollire. Ai popoli in agitazione egli ha indicato una delle strade della salvezza.La disfatta fa retrocedere nel cammino percorso.Altri, più tardi, riprenderanno questa grande via maestra, la via Appia della Storia. Innumerevoli frutti sorgeranno dalla sua esperienza, dalla sua fede, dal suo martirio. Un giorno Mussolini diverrà immagine e idea. Egli ha conosciuto il trionfo e ha conosciuto l'avversità.Ha raggiunto la fama.Continuerà a vivere negli spiriti.Gli si domanderanno esempi, lezioni, una dottrina.Il prestigio del suo nome resterà intatto. Rimarrà uno dei più grandi artefici della trasformazione dell'Europa e del mondo.Egli apparirà nei secoli futuri come una delle forze rivoluzionarie più efficaci della storia. tratto da "NuovoFronte" n° 151 febbraio 1995 Note: (1) Il bilancio del Fascismo? Ecco le dichiarazioni che M.W. Churchill ha fatto alla stampa italiana nel gennaio del 1927, durante un viaggio a Roma. " Il vostro movimento ha reso un servizio al mondo intero.Sembra che ciò che caratterizza tutte le rivoluzioni sia una progressione costante verso la sinistra, una sorta di slittamento inevitabile verso l'abisso.L' Italia ha dimostrato che esiste un mezzo per combattere le forze sovversive che possono ingannare le masse popolari e che queste, ben condotte, possono apprezzare il valore di una società civilizzata e difendere l'onore e la stabilità.



E' l'Italia che ci ha dato l'antidoto necessario contro il veleno rosso.("La decomposizione dell'Europa liberale" pag. 178 M. Bertrand de Jouvenel). (2) Ci sarebbe da scrivere una pagina di alto interesse storico che proverebbe che i disfattisti italiani del 1915 - allora germanofili - sono stati i germanofobi del 1940-1945 (3) la frase è di Renan



NUOVO FRONTE N. 151 Febbraio N 195 (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)



http://www.italia-rsi.org/miscellanea/gentizonmussolini.htm#mortedimussolini

Cultura - Ivrea - 28/07/2009



Francesca Brizzolara porta in scena i personaggi di nonno Carlo






di Federico Bona




Originale appuntamento domani sera, mercoledì 29, per il cartellone di Ivrea Estate: “Le teste di Pallino” è uno spettacolo teatrale di Francesca Brizzolara, che ne è anche interprete, che vede portare in scena i personaggi creati dalla fantasia del nonno Carlo Brizzolara, brillante scrittore.Le “Teste di Pallino” sono i burattini che Carlo Brizzolara (paracadutista nella Folgore ad El Alamein, 1911-1986) si è portato dietro dal campo di concentramento di Geneifa in Egitto, dove fu internato per quattro anni come prigioniero di guerra durante la seconda guerra mondiale.I burattini ideati da Carlo cominciarono la loro vita di personaggi grazie alle storie fornite da un certo Capitan Pallino, avventuriero e combattente prodigioso, compagno di Carlo in quel rettangolo di filo spinato; questi attori di cartapesta sono ancora “vivi” e dopo anni negli scatoloni sono stati riportati alla luce dalla nipote dell’autore, Francesca, che attraverso la loro storia ha cominciato una ricerca molto personale sulla figura del nonno-scrittore-burattinaio.La dolcezza del ricordo della affezionata nipote Francesca si intreccia con l’arida crudeltà del campo di prigionia e con l’umanità viva e vera che riemerge dai ricordi di chi ha vissuto e condiviso quella tremenda esperienza. I burattini testimoniano lo spirito di sopravvivenza che spinge l’uomo, attraverso la sua creatività, a salvaguardare la propria dignità anche nelle situazioni più difficili. Di fronte a un utilizzo così necessario del linguaggio teatrale, nasce la riflessione sul ruolo contemporaneo dell’artista. Nel lavoro si intrecciano tre piani: quello della storia della vicenda guerra/prigionia, con l’ideazione del teatro di burattini nel campo di concentramento a El Alamein; quello dei ricordi legati alla figura del Carlo Brizzolara-nonno, nutriti da lettere e materiale privato della famiglia, che inderogabilmente scorre parallelamente alla vita dell’attrice; e quello dei testi tratti dall’opera che ha lasciato l’autore: le commedie per burattini, molte delle quali ideate nel periodo della prigionia, raccolte nel libro “La minghina bastonata” e nei racconti tratti da “La vita è sport”.Lo spettacolo, per la sua originale formula, prevede un pubblico ridotto: potranno assistervi solo 40 spettatori, quindi è consigliabile la prenotazione, presso la biglietteria o telefonando al numero 0125.48516.




L'8 settembre, la pacificazione e la parificazione





sabato 09 maggio 2009
di GIORGIO PRINZI
La pacificazione e la parificazione tra «i combattenti che aderirono alla Repubblica Sociale Italiana, non ammettendo l'ineluttabilità della sconfitta, né accettando il mutamento di fronte» e i «combattenti che si schierarono a fianco degli Anglo-Americani e loro cobelligeranti» è già avvenuta con un documento firmato dalle parti il 13 giugno 1993 a Mignano Montelungo alla presenza dell'allora Sindaco Giacomo De Luca, primo firmatario quale garante.
Nel citato documento, da cui sono state tratte le citazioni, si parla espressamente di "pacificazione e parificazione", si afferma che «il tragico e complicato svolgersi degli avvenimenti a causa dell'8 settembre, resi più confusi ed inspiegabili dalle informazioni contrastanti, dette luogo a comportamenti differenti» e che «gli uni e gli altri, con la coscienza di ritenersi rappresentanti dell'intera nazione, nel rispetto delle Convenzioni internazionali e con il riconoscimento di tutte le potenze belligeranti, intesero, con il loro sacrificio, battersi per ricostruire l'unità dello Stato e della Patria Italia, liberata da tutti gli occupanti stranieri».
Fatte queste considerazioni, di comune accordo hanno deciso «dopo avere reso omaggio qui a Montelungo ai Caduti dei due Eserciti, cessato ogni rancore e deposta ogni ostilità tra i combattenti delle due parti, di promuovere in campo nazionale ogni possibile azione di pacificazione e parificazione», pertanto inviano «questo messaggio di pace e giustizia al Capo dello Stato, ai Presidenti del Senato e della Camera dei Deputati e al Presidente del Consiglio dei ministri, affinché la loro volontà di pacificazione e di parificazione sia fatta propria dalla Nazione tutta».
In quell'occasione e in altre similari iniziative è sempre mancata l'adesione della componente partigiana di ispirazione totalitaria che non ha mai smesso di sognare l'instaurazione di uno Stato di tipo sovietico è ha, di conseguenza, visto nella sconfitta solo una tappa nel conseguimento del proprio fine ultimo, al quale si frapponeva e per i "nostalgici" si frappone ancora l'attuale, sia pure perfettibile, democrazia liberale.
Si dirà, quelli dell'Esercito del Sud erano "badogliani". È semmai vero il contrario. Il Governo di Brindisi venne riconosciuto dall'ex Unione Sovietica con un accordo che prefigurava la collocazione dell'Italia nella sua sfera di influenza. Ercole Ercoli, alias Palmiro Togliatti, ebbe il lasciapassare per il suo rientro in Italia proprio a seguito di questo accordo e del probabile illudersi della monarchia e del governo da essa ispirato di potere perpetuare l'istituzione con l'appoggio di un nuovo totalitarismo, quello comunista in luogo del precedente fascista.
Il primo Raggruppamento Motorizzato, quello che combatté a Montelungo, era inviso al governo di Brindisi e allo speculare e concorrente "controgoverno" del Comitato dei Partiti antifascisti, poi divenuto Comitato di Liberazione Nazionale. Il cosiddetto "Piano E" venne fatto fallire dall'intervento dell'ingegnere Antonio Ambra, allora volontario del Raggruppamento Motorizzato e tra i firmatari del documento del 1993, che benché ferito e ricoverato in ospedale venne dimesso e portato a Bari a bordo di un gippone statunitense proprio per contrastarne la messa in atto.
Non gli fu consentito di entrare al Teatro Piccinni, dove si svolgeva una riunione che secondo i disegni comunisti avrebbe dovuto trasformarsi in assemblea costituente e nominare Palmiro Togliatti, che proprio per questo non vi partecipava, primo presidente del nuovo regime repubblicano; Ambra si recò a denunziare la cosa ad una concomitante riunione di area cattolica e liberale che si svolgeva al Teatro Petruzzelli. Tornato al Piccinni ebbe un violento scontro verbale con i partecipanti che uscivano e venne selvaggiamente aggredito.
Ebbe un formale processo al rientro al reparto dal momento che si era reso protagonista degli eventi in uniforme, ma venne scagionato da ogni addebito in quanto aveva agito per l'onore del Reparto e dei suoi commilitoni.
I togliattiani gli promisero che gliela avrebbero fatta pagare. Mentre era impegnato in prima linea come capo della pattuglia osservazione e comunicazione venne a sapere della sua incriminazione, tra l'altro formalizzata a distanza di quattro mesi dal presunto evento, per diserzione in quanto si era arruolato volontario nel Raggruppamento Motorizzato pur essendo effettivo a un battaglione universitario di allievi ufficiali, chiamati per punizione alla armi per avere nel dicembre del 1940 manifestato, a Roma sotto la guida di Ambra, contro la politica del regime fascista e l'entrata in guerra a fianco dei tedeschi.
Per evitare di doverlo consegnare a quelle che formalmente erano comunque le superiori autorità, il Comando del Raggruppamento mise Ambra in licenza straordinaria per sei mesi, consentendogli di trovare asilo presso la Divisione statunitense Texas di cui godeva stima e fiducia, presso la quale continuerà a combattere per tutto il resto della guerra.
Non fu un caso isolato, perché il battaglione universitario di allievi ufficiali "Marostica" venne in massa processato per ammutinamento in quanto aveva collettivamente protestato contro lo scioglimento del Primo Raggruppamento Motorizzato. I suoi membri vennero rinchiusi nella fortezza di Sant'Elmo, a Napoli, e liberati dopo prese di posizioni politiche inspirate dallo stesso Ambra a guerra finita da tempo.
Perché mi sono soffermato su queste vicende? Perché artefici della pacificazione e parificazione tra gli opposti schieramenti non sono stati affatto personaggi coinvolti loro malgrado, ma convinti assertori di una scelta di campo. Dall'altra parte a Montelungo, a fianco ai tedeschi, combattevano italiani in uniforme tedesca. Ogni anno, prima del ricordo dei caduti del rifondato Esercito italiano, il Presidente dell'Associazione Nazionale dei Combattenti della Guerra di Liberazione inquadrati nei Reparti Regolari delle Forze Armate, il generale e senatore Luigi Poli, si ferma, sempre accompagnato dall'ingegner Ambra, a deporre un mazzo di fiori alla stele che ricorda Rino Cozzarini emblematica Medaglia d'Oro della Repubblica Sociale, caduto eroicamente e alla testa di un battaglione italiano in uniforme tedesca. Tra i firmatari del documento del 1993, Giovanni Belli uno dei reduci del battaglione.
La difesa di una visione settaria della Resistenza vista come lotta ancora incompiuta per edificare il comunismo non è accettabile. Il 25 Aprile, che auspichiamo diventi presto Festa della Libertà, deve significare anche il riconvergere sulla nuova entità statuale di tutte indistintamente le componenti nazionali. Rifiutare la pacificazione, che non può essere discriminante, significa purtroppo non avere mai rinunziato al "Piano E" ed alla instaurazione di un "opposto" totalitarismo in Italia. Perseverare nelle eredità del triangolo della morte, della volante rossa, delle varie sigle rivoluzionarie terroristiche che hanno insanguinato l'Italia sino agli anni più recenti è inconciliabile con un disegno pacificatorio, che significa chiudere per sempre con il passato.
Possibile che Dario Franceschini e altri esponenti di spicco di una sinistra che vorrebbe porsi in discontinuità con il disegno totalitario di tipo stalinista togliattano non si rendano conto che il mantenere antichi steccati e accentuare le divisioni significa non volere la pacificazione, la riunificazione degli opposti schieramenti, quindi perpetuare le divisioni e lo scontro in prospettiva della vittoria finale della visione totalitaria comunista?
Peggio, questo vuole dire anche porre le premesse per la potenziale ripresa di attività terroristiche favorite dal perpetuarsi del clima di guerra civile.
DOCUMENTI










Martedì 21 Aprile 2009 09:34
di Filippo Giannini

.Questo stralcio di articolo è del giornale sloveno “Večer”. Ecco la traduzione:.****

I lettori più fedeli e più attenti ricorderanno che in merito alle dichiarazioni del Presidente Napolitano proposi un articolo nel quale ricordavo una esperienza del volontario Mario Sorrentino, combattente nella GNR. Per coloro che non ricordano, o non ne sono a conoscenza, lo ripresenterò al termine di queste mie note. Nel mio precedente articolo dal titolo “Verità di comodo dei soliti noti”, terminai impegnandomi di tornare sull’argomento, perché c’è tanto, ma tanto da dire. Ed ora mantengo l’impegno. Lenin disse (asserzione poi raccolta da Antonio Gramsci): . Tralasciamo la stupidità dell’assunto; osserviamo però, che quanto detto dal Presidente Napolitano è nuovo fango gettato sul popolo italiano: perché in quel periodo tutto il popolo italiano era fascista, né faceva eccezione l’attuale Presidente Napolitano in quanto iscritto ai GUF (Gruppi Universitari Fascisti); poi passò negli alti ranghi del comunismo di Togliatti. Ma questo è un altro discorso. Ed ora vediamo “quanto dolore il fascismo ha provocato nel popolo sloveno”. Prima di iniziare sarà bene ricordare, per coloro che non lo sanno, cos’è una “foiba”. Ė una cavità del terreno a forma di imbuto, tipica delle regioni carsiche dell’Istria e di alcune aree del Friuli. Sul finire della guerra, dal 1943 sino al 1947, gli slavi gettavano, in queste cavità, soprattutto italiani, uomini, donne e bambini, in moltissimi casi ancora vivi, di qualsiasi colore politico. Questa criminale operazione avvenne anche con l’aiuto di partigiani comunisti italiani. Nel dopoguerra il delitto per foiba fu accantonato dall’Italia nata dalla Resistenza sino ad alcuni anni fa. Quando l’opinione pubblica cominciò ad interessarsi dell’argomento, ovviamente i comunisti si trovarono in imbarazzo e dovettero inventare qualcosa per giustificare quegli orrendi misfatti. Quale migliore occasione per scaricare sui fascisti le colpe di quel che avvenne e, ripeto, grazie anche ai discepoli del comunismo staliniano?***** Che i seguaci di Lenin affondino le loro radici nelle “verità rivoluzionarie” del giacobino sovietico Lenin e dei suoi seguaci e che sparino menzogne contro chi non dispone di alcuna arma per confutarle, è una realtà. Ecco, quindi, che la gramsciana “verità rivoluzionaria” rimane tale nella sua stupidità; perché se il comunismo è morto (ma sarà poi così?), i comunisti sono vivi e attivi. Per dimostrare quanto siano lontane dalla verità le affermazioni del Presidente Napolitano, è necessario fare un breve, anche se incompleto, excursus storico. Da secoli nell’ex Jugoslavia convivevano 14 etnie e numerose minoranze, ognuna delle quali, da sempre scossa da quattro contrastanti religioni. Ogni etnia e minoranza, costantemente in conflitto con le altre, ha generato bagni di sangue che hanno caratterizzato la storia di quell’area balcanica. Lo stesso è avvenuto anche durante l’occupazione della Jugoslavia da parte dell’Asse dal 1941 al 1945 (e oltre). Nora Beloff (“Storia Illustrata”, n° 350) dopo aver attestato che la lotta partigiana di Tito , aggiunge: . Questo è tanto vero che nel maggio 1941 Tito ordinò una serie di azioni non contro le forze italo-tedesche, ma contro i cetnici e i croati ùstascia. E, ancora una volta ad un massacro ne fece seguito un altro. Fu, come ha scritto Nora Beloff, . Se alla fine del conflitto le popolazioni di quelle terre lamentarono la perdita di oltre 2.200.000 persone, cioè circa un ottavo del popolo, ciò si deve non alla persecuzione degli occupanti, ma alle feroci lotte tribali. . Altri, invece, i bosniaci del Primo corpo partigiano, con una direttiva emessa nel 1943, autorizzavano i massacri delle popolazioni civili delle altre etnie, ammonendo: . Continua l’articolista: . Come dimostrerò in un mio prossimo volume, le truppe italiane (sì, signor Presidente, anche e soprattutto quelle in Camicia nera) furono impegnate principalmente a interporsi fra le varie etnie intente a massacrarsi fra loro: come accadde a Livno dove furono uccisi 112 cittadini, a Glivna 650. A Knin vennero impiccati tutti i quarantasette rabbini e gli ebrei superstiti della zona vennero posti in salvo, su ordine di Mussolini, che li fece trasferire in Calabria. Gli abitanti dei villaggi chiedevano la protezione delle nostre truppe. A Knin e dintorni i cittadini presentarono una petizione, corredata da 100 mila firme, con la quale chiedevano l’annessione della loro cittadina all’Italia e la cittadinanza italiana. Molti giovani si arruolarono nel Regio Esercito e la maggior parte di loro, circa un migliaio, dopo l’8 settembre 1943, per difendere le loro genti, continuarono la lotta antipartigiana nelle file della RSI. E’ bene sapere che, a seguito dell’attività partigiana in danno delle nostre truppe, si ebbero numerosi casi di uccisioni di nostri militari. Le Convenzioni Internazionali di guerra, allora vigenti, ci concedevano la rivalsa della rappresaglia. Questa fu solo raramente messa in atto, ma su sollecitazioni del nostro Comando Militare e in base ad un bando di Mussolini, fu istituito un Tribunale Speciale militare che esaminò i casi di 1.866 denunziati (quasi tutti passibili, per le citate Convenzioni, di essere passati immediatamente per le armi): 941 per detenzione di armi semplici o connesse a omicidi e rapine; 538 per insurrezione armata, attentati o terrorismo; 387 per banda armata o assistenza a banda armata. Ebbene, 719 furono prosciolti; 270 assolti in giudizio; 159 condannati con la condizionale e 518 a pene detentive. Le sentenze capitali furono 58, ma soltanto 47 eseguite. Il 7 giugno 1941 Mussolini nominò Giuseppe Bastianini Governatore della Dalmazia con l’ordine di . Ma Bastianini dovette fare i conti con i partigiani, il terrorismo e gli ùstascia. E ora vediamo i “danni arrecati dal fascismo anche” in quelle terre. Da un articolo di Antonio Pitamitz (“Storia Illustrata”, n° 346) riporto un primo rapporto di Bastianini che chiarisce quali fossero i rapporti iniziali con la popolazione locale. Bastianini scrive: . Il Governatore aggiunge: . Pitamitz scrive che ad avvicinare di più la popolazione croata agli italiani contribuì, per tragico paradosso, la lotta armata e terroristica dei comunisti, con la quale, secondo la logica del terrorismo, forse si voleva fare il vuoto intorno a loro. Bastianini decise di affrontare il problema cercando di unire gli interessi dei dalmati-croati a quelli dell’Italia con “un’opera di civiltà”. Volle farlo attraverso una azione di “pace e di penetrazione pacifica verso coloro che gli italiani consideravano, a torto o a ragione, fratelli”. Invito il Presidente Napolitano a contestare quanto scrisse in “Oltre la disfatta” Carlo Bozzi, che fu Segretario generale del Governatore della Dalmazia: gionario. E passo alla documentazione. Tra il 1941 e il 1943, mentre in Italia la situazione alimentare era più che seria (chi scrive queste note, anche se bambino, lo ricorda bene: si viveva con una razione di 100/150 grammi di pane al giorno), decine di migliaia di quintali di generi alimentari vennero inviati a quelle popolazioni anch’esse stremate dalla fame. Nel territorio sotto controllo delle nostre truppe mancava un’organizzazione sanitaria statale, come quella esistente in Italia, e le scuole quasi non c’erano. Perciò nelle tre province furono istituite 27 condotte mediche, che vennero affidate a ufficiali medici combattenti. Per l’assistenza alle future madri vennero dall’Italia numerose ostetriche, volontarie o comandate. Furono organizzati un autotreno e una motobarca sanitari per raggiungere i centri più piccoli e periferici e le isole. Nel bilancio dei primi dieci mesi di Governatorato, contenuto nel rapporto dell’aprile 1942 – il testo era bilingue italiano e croato – Bastianini ha ricordato che in un mese gli specialisti dell’autotreno avevano compiuto 4.862 visite, e quelli della motobarca 2.405. Ma i “danni compiuti dal fascismo” non si fermano a questi dati. All’”Opera Nazionale Combattenti” era stata affidata, ricorda ancora Bastianini, la bonifica di 76.000 ettari dei territori di Laurana e Bocagnazzo-Nona (in croato: Bokahjac-Nin), ed erano stati distribuiti 1.200 ettari a 1.050 contadini. “I danni” continuarono con l’avvio di una riforma agraria che, alla data del rapporto, registrava 22.000 domande di contadini per accedere ai benefici di legge previsti. Particolarmente notevole in quei dieci mesi era stato lo sforzo compiuto dal Governatore nel settore della scuola. Vennero impiegati 531 maestri italiani e 550 croati. Oltre a ciò, per sfatare l’altra “verità rivoluzionaria” circa l’italianizzazione forzata, si deve ricordare che nel 1941, 52 giovani italiani e 211 croati erano andati a studiare nelle università italiane, usufruendo di borse di studio. A tante “atrocità commesse dai fascisti italiani” come rispondevano i civilissimi comunisti? Lo scrive Pitamitz: . Da qualche tempo si è cominciato a parlare delle “foibe”, una ignominia tutta “rossa”, come ignominia è cercare giustificazioni. E quella ricordata dal Presidente Napolitano è una “giustificazione” tendente ad ammorbidire la responsabilità dell’assassinio di 20-30.000 italiani di quelle terre. Dal dopoguerra, come ho sopra scritto, per decenni, se ne era persa la memoria, poi nel teatrino della politica italiana si è affacciato quello spettro che, se non riportato nella bara, avrebbe potuto dar fastidio a coloro che detengono il potere di questo sventurato Paese. Gli esecutori materiali di quei misfatti erano comunisti slavi e comunisti italiani, era quindi necessario trovare una nuova “verità rivoluzionaria”. E non si tardò molto a trovarla. D’altra parte non è questa una Repubblica antifascista? Non è forse vero che i fascisti non hanno accesso né a emittenti radio o televisive, né a un editore importante o a giornali di ampia diffusione? In altre parole, essi non dispongono di alcun mezzo per contestare le accuse che da oltre settant’anni quotidianamente vengono su loro scaricate. Se tutto ciò è vero, il gioco è fatto: le “foibe”? colpa dei fascisti che durante l’ultimo conflitto misero in atto dissennate rappresaglie, ingiustificate fucilazioni di inermi cittadini, incendi, ecc. ecc.. Per onorare la memoria di tanti poveri martiri, tornerò sull’argomento.Mario Sorrentino, combattente in Russia, dopo l’8 settembre 1943 non ebbe alcuna esitazione: si arruolò nelle file della Repubblica Sociale Italiana. Dalle pagine del suo “Diario” riporto alcuni brani nella certezza che Lui stesso li avrebbe fatti conoscere volentieri al Presidente Napolitano: <(…) La notte passò lenta e all’alba uscimmo tra i binari in attesa del nostro treno che si stava formando. Qualche cosa di strano colpì la nostra attenzione fino ad assorbirla completamente. La sera prima un lungo convoglio di vagoni merci era stato portato sulla linea. Tutte le carrozze erano chiuse, sigillate. Un rumore oscuro partiva da esse, tale che noi credemmo si trattasse di trasporti di bestiame. Uscendo insonnoliti, al mattini vedemmo il treno ancora lì, e incuriositi ci avvicinammo. Era scortato da ùstascia, quei terribili soldati croati eredi di tutta la crudele anima balcanica. Le finestrelle in alto erano sbarrate, e graticciate di fil di ferro. Erano una trentina di vagoni, gremiti di serbi deportati dai croati. Quelli che potevano se ne stavano arrampicati alle sbarre delle finestrelle e leccavano su di esse l’umidita’ della notte. Si tenevano sù a forza di braccia e la loro gola lasciava vedere i tendini tesi che sembravano spezzarsi da un momento all’altro. I loro occhi esprimevano lo spasimo. Dall’interno giungeva sino a noi, nel fetore opprimente della promiscuità, l’eco selvaggio della sofferenza e della miseria. Accenti lamentosi di bimbi, grida isteriche di donne, voci rauche di uomini resi folli dalla paura e dal tormento. Inferno dantesco lasciato indovinare dalle pareti dei vagoni, sorde e mute. “Cavalli 8, uomini 40”. In tutte le lingue del mondo, su tutti i vagoni merce. E su quelli, centinaia di infelici a brancicare nello sterco e nel buio. L’odore della carne ammassata e sudante faceva torcer la testa e stimolava i conati del vomito. Ho visto una volta un autocarro di pecore traversare, puzzando, una via della mia città. Erano ingabbiate e in ordine e avevano il loro strame, compiansi quelle bestie. E quelli erano uomini. Di quell’umana specie di cui, da secoli, si proclama la dignità e la libertà. Ed altri uomini li avevano rinchiusi lì dentro. Gli uni si chiamavano serbi, gli altri croati, e nessuno più “uomo”. Lo sgomento e lo sdegno erano nei nostri cuori. Avevamo vent’anni e andavamo a combattere perché fosse resa giustizia al popolo italiano. Stavamo attoniti dinanzi al vagone. Qualcuno di quei disgraziati ci scorse, lesse nei nostri occhi, riconobbe la nostra uniforme e la pietà che non aveva dai fratelli, la chiese a noi, ai nemici. Una voce lamentosa, disse in un rantolo: “Bono taliano, VODE’”. Gli italiani hanno dipinta sul volto la loro bontà o dabbennaggine. Tutto il mondo, quando non ci opprime o deruba, quando ha bisogno di noi, dice: “Bono, taliano”. Quella voce aveva un accento di bestia. Quella parola “acqua” incendiò il vagone, e subito, lungo tutto il convoglio, fu un solo tremendo coro, una allucinante richiesta: “Vodè’ vodè”, “Acqua, acqua”. Non bevevano, in luglio, da tre giorni. Fui colto da una sete irresistibile, che mi arse la lingua, mi fece secca la pelle e mi annebbiò lo sguardo. “Bono taliano, vodè’, vodè”. E questi “boni”, stupidi italiani, che son sempre tali con gli altri e mai con sé stessi, questi “boni taliani” che eravamo noi sedici, venimmo alle mani con la scorta, la sopraffacemmo e demmo a quei Cristi sulla Croce, quasi tutti ebrei, non aceto, ma acqua. Lavorammo come invasati un’ora e più. Li vedemmo bere e bere. Vedemmo i figli strappare l’acqua da sotto la bocca dei padri, vedemmo una mamma che serbava un pò d’acqua nel portasapone per il suo bambino. Demmo acqua e poi acqua, coi secchi e con le boracce. Loro si attaccavano al collo avidi, ed era più la perduta che la bevuta. Continuammo finché fu necessario, portando acqua, bestemmiando la nostra pietà e la crudeltà degli ùstascia, finché tutti ebbero bevuto, finché vedemmo i loro occhi, a poco a poco, farsi chiari, tornare umani, le loro facce distendersi. Qualcuno vomitava e vomitava acqua. Mentre il nostro treno si avvicinava, uno di noi, il romano Donati, che più degli altri aveva lavorato e imprecato, prese, prima di allontanarsi, la sua razione di viveri a secco e la getttò su di un vagone. Tutti facemmo così, e rimanemmo digiuni, mentre sui vagoni si contendevano, a morsi e pugni, le nostre gallette. Povero Donati, chi Ti ammazzò, un anno dopo, se non gli stessi, o i figli o i fratelli degli stessi, cui tu avevi dato la tua galletta? Ti uccisero …”Porco taliano”>.

Dal Giornale.it n. 93 del 2009-04-18 pagina 0






Giano Accame
, la morte dello scrittore che abiurò il fascismo ma restò convinto che senza memoria non c’è futuro. Fu il primo a far conoscere in Italia scrittori come Junger, Celine, Dos Passos. Fu sempre a disagio in un Paese troppo amato ma che non seppe ricambiarlo

Fra i ragazzi che ancora fecero a tempo a partecipare alla Seconda guerra mondiale dalla parte sbagliata, Giano Accame fu uno dei primi a dare intellettualmente il suo addio al fascismo, e però per tutta la sua vita gli rimase l’amara consapevolezza che un Paese che non ha orgoglio del proprio passato, rispetto del proprio presente e fede nel proprio avvenire è un Paese miserabile.
Così, il quindicenne che si era arruolato nella X Mas negli ultimi giorni del ’45, divenne il trentenne che negli anni Sessanta ipotizzò con Randolfo Pacciardi, eroe antifranchista della guerra di Spagna, una Nuova repubblica in stile gollista, il quarantenne che all’indomani del ’68, favorevole alla contestazione studentesca anti-sistema, ruppe con il settimanale per cui scriveva, Il Borghese, che in essa vedeva solo i capelloni e la sovversione, il cinquantenne che teorizzò intorno al Psi di Bettino Craxi l’idea di un socialismo tricolore che recuperasse il meglio appunto della lotta sociale e dell’idea nazionale, non più in contrasto, ma in accordo, l’attuazione di quel Risorgimento che era stato élitario e non di popolo e che il Novecento delle masse e dei partiti totalitari non era riuscito a portare a reale compimento.Figlio di un ufficiale di marina, sposato con la figlia di uno dei grandi eroi della prima guerra mondiale, il mutilato e medaglia d’oro Carlo Delcroix, Accame fu per quasi tutta la sua vita un italiano che si ritrovava esule in una patria che era la sua, ma che faceva di tutto per tenerlo a distanza. Come spesso accade alle persone che hanno un carattere, delle idee e dei princìpi, rimase a lungo ai margini della nuova Italia intellettuale che era nata dalla rovina del fascismo e della sconfitta, ma si vide tenuto in sospetto e in dispetto da tutto quel mondo di destra reducistico che di quella rovina e di quella sconfitta aveva fatto la propria ragion d’essere. Così, quando nel 1961 inventò come segretario generale del Centro di vita italiana il Primo incontro romano della Cultura e cominciò a portare da noi Ernst Jünger e Gabriel Marcel, James Burham e John Dos Passos, Vintila Horia e Thomas Molnar, Odisseo Elitis e Michel Déon, a sinistra fecero finta di niente o diedero l’allarme per quella lista di «reazionari» e a destra li si derubricò al rango di carneadi, di signor nessuno, insomma. Elitis, a cui toccò il compito di chiudere una delle sezioni degli incontri, anni dopo avrà il Premio Nobel, Déon, che ne presiedette un altro, divenne Accademico di Francia e quanto agli altri nomi, parlano da sé.
Questa apertura internazionale, non confliggeva con la disperata ricerca di un orgoglio nazionale. Accame era, sotto questo aspetto, un degno erede di Mario Missiroli, il Missiroli che nel primo Novecento aveva introdotto Sorel in Italia, cercato di spiegare la laicità dello Stato a papa Pio X e a papa Benedetto XV, il fascismo a Mussolini e il socialismo a Turati, il Missiroli convinto che la grandezza e la dannazione dell’Italia stessero nel pensare più in grande di quello che la sua taglia di «nazione media», per non dire «piccola», le poteva consentire... C’era troppa storia, troppa arte, troppa intelligenza, troppa ambizione per una semplice penisola a forma di stivale... Così, nuovamente, era attraverso una dimensione culturale, uno scambio fecondo di idee, che si poteva ridare all’Italia quella primazia che la impotenza politica le negava. Ancora negli anni Sessanta, quando il nome di Céline giace da noi dimenticato, l’unico italiano chiamato a parlarne nei prestigiosi Cahiers de l’Herne, a fianco di firme come Henry Miller e Leo Spitzer, André Gide e Jack Kerouac, Paul Morand e Marcel Aymé, è Giano Accame.
Giornalista economico, prima al Fiorino, poi a Italia oggi, la conoscenza delle leggi dell’economia non si tramutò mai in lui in feticcio liberista, in adorazione del libero mercato. Glielo impediva la profonda conoscenza di Pound e dei grandi eretici del capitalismo come Ferdinando Ritter, ma ancora più una vena poetica e solidaristica che vedeva nell’economico non un corpo separato, ma una delle funzioni di ogni retta società umana, al servizio della politica e non forza a sé. Tutto, alla fine, rientrava in quella dimensione di grandezza nazionale, che faceva di lui, per il tipo di letture fatte, di educazione ricevuta, un classico uomo del Novecento, faustiano nel suo uso della scienza e della tecnica, europeo nel suo riconoscersi debitore di un pensiero e di una cultura.
Proprio perché a disagio in un Paese troppo amato e dal quale non ha avuto quello che il suo ingegno avrebbe meritato, Accame ha attraversato il cinquantennio postbellico con la dignità di quella frase di Guglielmo il Taciturno: «Non occorre riuscire per perseverare, né sperare per intraprendere». Alto, robusto, elegante, aveva dell’esistenza una concezione per molti versi spartana. «Se penso al mio luogo ideale per scrivere, è una cuccetta di bordo, una tenda militare» mi disse una volta. Stava in una bellissima casa sul Lungotevere, ma come se stesse accampato.
La caduta del Muro di Berlino, la fine del comunismo, Tangentopoli e il crollo della prima Repubblica, il dibattito sulle riforme istituzionali e sulla modernizzazione del Parlamento confermarono la bontà delle intuizioni di un tempo e lo misero con naturalezza al centro del dibattito politico e culturale, suggeritore di una destra che per la prima volta aveva un ruolo in partita, interlocutore di una sinistra che non riusciva più a interpretare le esigenze del Paese. Antiche ruggini e sospetti si sciolsero, un diverso clima si instaurò. Fu direttore del Secolo d’Italia, collaboratore principe delle pagine culturali del Giornale negli anni caldi della discesa in campo di Berlusconi, evitò saggiamente candidature alla Camera e al Senato, guardò alla nascita di Alleanza nazionale e alla svolta di Fiuggi con realismo, unico modo trovato per uscire dal Novecento delle ideologie e delle contrapposizioni. Non essendosi mai sentito un reduce, avendo regolato i propri conti intellettuali e personali molto tempo prima, non lo interessava la sterile polemica sulla fedeltà o no a un patrimonio ideale, né aveva bisogno di costruirsi una verginità di immagine. Criticò l’eccesso di enfasi, le abiure maldestre e le abiure in malafede, ma era consapevole che la fine delle ideologie imponeva nuovi schieramenti, alleanze, prospettive.
Con lui se ne va un italiano che non fu mai né arci né anti, atteggiamenti che facevano a pugni con la sua sobrietà di ligure. Per tutta la vita ha cercato di essere fedele a quella immagine di ragazzo quindicenne che, nel giorno della sconfitta, resta dalla parte di chi ha perduto. È morto in armonia con sé stesso.
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Giovanna Canzano on 13 Aprile, 2009 Canzano 1- Candidato all’Oscar nel 2007, nel 2008 fu presentato al Festival di Torino dalla casa di distribuzione Movimento Film la quale annunciò che ne sarebbero state stampate 60 copie e che sarebbero state distribuite in Italia a fine gennaio 2009. Aprile 2009, quante persone hanno visto il film Katyn dell'ottantatreenne regista Andrzej Wajda? LEMBO. Il film, non solo è circolato pochissimo in italia, ma non è stato neanche pubblicizzato. A vederlo sono stati in pochissimi. Purtroppo, abbiamo creato una gioventù di aspiranti calciatori e veline che apprezzano solo i film di “Natale” di Boldi e De Sica. La mia generazione, che ha contribito a formare questa “bella giovantù”, evidentemente non è migliore della stessa.


Canzano 2- Wajda ha girato il film per ricordare il padre, un ufficiale polacco che morì a Katyn, ammazzato insieme ad altri 22.000 suoi commilitoni? LEMBO - Wajda ha girato il film per ricordare la tragedia di un popolo, il dramma del suo popolo. I russi, avendo vinto la guerra, non solo hanno oppresso i polacchi, ma gli hanno anche scritto i libri di storia. Un'oppressione culturale, prima che politica. D'altro canto, la dominazione è sempre prima culturale.Il fatto strano, è che i polacchi potevano considerarsi tra i vincitori della seconda guerra mondiale. Furono abbandonati al proprio destino, dagli americani e dagli inglesi. Forse, sarebbe meglio dire che furono praticamente venduti dagli angloamericani alla Russia comunista.

Canzano 3- Alcuni giornali hanno scritto che in Russia si siano esercitate pesanti intimidazioni verso chi aveva intenzione di proiettare la pellicola in qualche sala, e che in altri Paesi europei le cose non siano andate molto meglio. Ma allora non è solo la storia del padre Wajda?

LEMBO – Non è solo la storia del padre di Wajda. Ripeto, è la storia di un intero popolo. I russi per anni hanno oppresso i polacchi, così come hanno sfruttato i rumeni. Se la Romania non fosse finita nell'orbita sovietica, oggi sarebbe forse una delle nazioni europee più ricche. Non dimentichiamo che gli unici giacimenti petroliferi europei, di una certa importanza, sono in Romania, a Ploesti. Canzano 4- Agli inizi del 1943, nella foresta di Katyn, nella zona di Kosigory, furono rinvenute delle fosse comuni. In queste fosse erano seppelliti, su dodici strati, migliaia di uomini i quali presentavano tutti un foro di proiettile alla nuca. Particolare di non poco conto, fino alla caduta del comunismo fu fatto credere a tutti noi che ad ammazzarli erano stati i nazisti. Oggi? LEMBO - In realtà, che ad ammazzarli fossero stati i russi fu chiaro immediatamente. Ma per raccontare i fatti bisogna fare qualche passo indietro.Il 14 agosto 1941 il generale Wladyslaw Sikorski, capo del Governo polacco in esilio a Londra, facendo finta di dimenticare l’aggressione russa di due anni prima, firmò un trattato russo polacco con il quale i Russi si impegnavano a formare, con i prigionieri di guerra polacchi da loro detenuti, un’armata polacca.Era avvenuto che i tedeschi, da “compagni di merende” e sodali predatori, si erano trasformati in nemici per i russi. A questo punto, i polacchi ritornavano buoni nella lotta contro le Divisioni di Hitler. L’armata in formazione con i polacchi prigionieri di Stalin sarebbe stata comandata dal generale Wladyslaw Anders e doveva essere formata da 250.000 polacchi comandati da 12.000 ufficiali. Firmato l’accordo, ci si accorse che i conti non tornavano. Di 12.000 ufficiali polacchi, detenuti nei campi di concentramento di Starobielsk (presso Kharkov), Kozielsk (presso Smolensk) e ad Ostasckovo (presso Kalinin) non c’era alcuna traccia. Qualche autore, invece, riferisce di 8.000 ufficiali e 7.000 sottufficiali mancanti all’appello. I russi, dapprima reticenti, incominciarono a dare spiegazioni poco credibili sulla sorte di quegli uomini, affermando che tutti gli ufficiali polacchi erano stati liberati. Ma se erano stati liberati, allora dovevano essere in Polonia o almeno da qualche altra parte, mentre invece di quelle migliaia di uomini non c’era proprio più traccia.

Canzano 5– Quando si iniziò a capire cosa era successo?

LEMBO - Due anni dopo, l'arcano incominciò trovare chiarimento. Agli inizi del 1943, nella foresta di Katyn, nella zona di Kosigory, furono rinvenute delle fosse comuni. In queste fosse erano seppelliti, su dodici strati, migliaia di uomini i quali presentavano tutti un foro di proiettile alla nuca.Le migliaia di cadaveri non furono di difficile identificazione. Le divise ancora integre e i documenti personali rinvenuti, permisero facilmente di dedurre che quegli uomini, ordinatamente sepolti a Katyn, erano le migliaia di ufficiali polacchi scomparsi.Questi ultimi, detenuti nel campo di prigionia di Kozielsk, nel marzo del ‘40 erano stati trasferiti a Smolensk e poi a Kosigory dove, nella foresta di Katyn, erano stati abbattuti come bestie dai russi.

Canzano 6- Chi trovò i corpi?

LEMBO - Il rinvenimento dei corpi fu ufficialmente fatto da giornalisti norvegesi che, condotti sul posto dai contadini del luogo, avevano poi girato la notizia ai loro giornali in Patria. Il 13 aprile ’43, la radio tedesca diede l’annuncio del crimine russo a tutto il mondo. Passarono appena due giorni e, il giorno 15 seguente, Radio Mosca rilanciò il comunicato, imputando però la colpa del massacro ai tedeschi. Secondo Radio Mosca i polacchi erano stati massacrati dai tedeschi ed ora la propaganda menzognera di Goebbels stava tentando di addossare a loro le colpe. I russi, inizialmente, arrivarono a sostenere addirittura che forse si trattava di fosse preistoriche che i tedeschi tentavano di impiegare per una colossale macchinazione nei loro confronti. Di fronte a tali dichiarazioni contrastanti, l’opinione pubblica mondiale, come è logico che fosse, si divise. Era quindi indispensabile stabilire la verità dei fatti e alla Croce Rossa a Ginevra giunse l’istanza di aprire un’inchiesta. La richiesta fu avanzata non solo dai tedeschi, ma anche dal Governo polacco in esilio a Londra.Agli accertamenti da parte di un ente sovrannazionale come la Croce Rossa, si opposero i russi adducendo il pretesto che la foresta di Katyn, anche se al momento era in zona occupata dai tedeschi, faceva parte del territorio russo. Contemporaneamente, i russi interruppero i rapporti con il governo polacco a Londra, denunciando un accordo tedesco-polacco. Secondo Molotov e Viscinsky, i polacchi in esilio si erano ispirati “a sentimenti germanofili“, tradendo così la Russia loro alleata.

Canzano 7– Cosa fece la croce rossa polacca?

LEMBO - Il Governo di Wladyslaw Sikorski si dimostrò convinto della colpevolezza di Stalin e il 19 aprile 1943 la Croce rossa polacca comunicò ufficialmente che la strage degli ufficiali era avvenuta tra l’aprile e il maggio 1940, periodo nel quale la zona di Katyn era sotto occupazione russa. Se la croce rossa polacca ventilava solo di chi fossero le responsabilità, il 19 aprile ’43, il giornale polacco Kurger Polski, edito a Buenos Aires, affermava: “Gli ufficiali polacchi massacrati a Katyn sono stati massacrati per ordine di Stalin. Dobbiamo ritenere esatte le notizie pubblicate sul massacro tanto più che il Governo sovietico non ha provato il contrario e che esso non ha informato dove si trovano il generale Smorawinski e le migliaia di altri ufficiali dei quali si sono perse le tracce”.Churchill intervenne energicamente nei confronti del generale Sikorski per indurlo a dimenticare la questione al fine di non turbare l’alleanza con i russi. Ma l’intervento del premier britannico servì a ben poco in quanto non era facile, sebbene in nome della ragion di Stato, passare sopra all’esecuzione di migliaia di ufficiali polacchi. Pertanto, Sikorski continuò ad insistere presso la Croce Rossa internazionale per l’istituzione di una commissione di indagine. Il generale polacco, purtroppo, ad un certo punto non poté più continuare nella sua azione tesa alla ricerca della verità perché, il 4 luglio del ’43, morì in uno strano incidente aereo su Gibilterra.La Croce Rossa ginevrina non istituì mai la commissione di indagine, adducendo la motivazione che questa, tenendo conto dell’opposizione dei russi, non era stata richiesta da tutti i belligeranti.

Canzano 8– E i tedeschi?

LEMBO - I tedeschi, inizialmente condussero sul posto ufficiali polacchi che identificarono i loro commilitoni assassinati, poi ovviarono al diniego della Croce Rossa affidando il responso ad una commissione internazionale composta da anatomopatologi, tutti esperti di medicina legale, di provenienza bulgara, italiana, belga, danese, finlandese, francese, ungherese, rumena, olandese, jugoslava, cecoslovacca e svizzera. Tale commissione iniziò i lavori il 28 aprile ’43, procedendo all’analisi a campione dei corpi. In totale, furono esaminati 982 cadaveri che vennero sottoposti, alcuni ad autopsia, altri al solo esame necroscopico.Il lavoro dei periti fu agevolato dal fatto che la natura sabbiosa dei luoghi aveva preservato gli indumenti dal rapido disfacimento e quasi mummificato i corpi. I risultati furono resi pubblici il 3 maggio e il lavoro dei periti concludeva che le vittime, tutte uccise con una pallottola alla nuca di calibro inferiore agli 8 mm, erano state presumibilmente assassinate nei mesi di marzo aprile del 1940. Ad avvalorare la tesi che le esecuzioni fossero avvenute in una stagione fredda dell’anno, contribuiva il fatto che i cadaveri indossavano uniformi invernali e che su di questi non erano state trovate larve di insetti. Inoltre, tutti i documenti trovati indosso ai cadaveri, come lettere, giornali ecc. erano antecedenti al marzo aprile 1940.Infine, quegli uomini sepolti a Katyn avevano tutti i polsi legati con corde di fabbricazione sovietica ed il nodo usato era quello che, di norma, veniva insegnato alla Ghepeù (la Polizia segreta sovietica, poi denominata NKWD) ed alcuni di loro portavano segni di colpi di baionetta quadrangolare del tipo sovietico. Insomma, dalle risultanze della commissione internazionale tutto lasciava credere che ad aver compiuto il massacro fossero stati i russi, nel periodo in cui la zona di Katyn era sotto il loro controllo. A sfavore dei tedeschi deponeva il solo calibro delle pallottole usate nel massacro. I proiettili impiegati, di tipo 7,65, erano indiscutibilmente tedeschi, ma una grande quantità di tali munizioni era stata venduta nell’anteguerra ai Paesi Baltici e alla Polonia. Inoltre, pistole 7,65 di tipo Geco erano state cedute dai tedeschi alla Russia in seguito al trattato di Rapallo. E’ da evidenziare che, nell’agosto del ’41, i tedeschi erano venuti in possesso di enormi depositi di armi russe e se avessero voluto far ricadere la colpa della strage sui russi avrebbero usato quelle armi e non pistole di produzione nazionale. Se quanto detto non bastasse, a dichiarare la colpevolezza dei russi nella strage, basterebbe raccontare quanto il prof. Palmieri, illustre professore di medicina legale facente parte della commissione internazionale di indagine, di ritorno da Katyn avrebbe poi raccontato. I contadini del posto ricordavano come, nell’aprile maggio del 1940, fossero giunti alla stazione di Gniazdov treni carichi di ufficiali polacchi i quali erano stati poi avviati verso la foresta di Katyn.Insomma, già negli anni della guerra fu evidente che il genocidio – perchè di genocidio si tratta – era stato perpetrato dai russi e non dai tedeschi.

Canzano 9- La seconda guerra mondiale ebbe veramente inizio il I settembre 1939, data in cui i tedeschi diedero avvio all’invasione della Polonia?

LEMBO – No, la seconda guerra mondiale ebbe inizio qualche giorno prima. I “sacri testi” scolastici, con incredibile sistematicità, dimenticano di riferire che il precedente 23 agosto il Ministro degli Esteri sovietico Vyacheslav Molotov e il Ministro degli Esteri tedesco Joachim Von Ribbentrop avevano firmato quello che pubblicamente era stato contrabbandato come un “trattato di non aggressione”. L’accordo russo tedesco, in realtà, prevedeva un protocollo segreto ai danni della Polonia, della quale i due Stati firmatari ne concordavano l’invasione e la spartizione.L’accordo predatorio ai danni dei polacchi avrebbe avuto completa attuazione, il successivo 17 settembre quando, all’invasione tedesca, sarebbe seguito da est l’attacco Russo. Canzano 10- Perchè i testi scolastici, dimenticano di riferire del “trattato di non aggressione” firmato da Vyacheslav Molotov e Joachim Von Ribbentrop ?

LEMBO – Quello dell’attacco russo alla Polonia è una piccola, carognesca, dimenticanza dei trattati di storia che appoggia e avalla però una grande menzogna. Purtroppo, non è la sola falsità ad essere raccontata dagli storici ufficiali su quel periodo. Si aggiunge, invece, a tutta una serie di inesattezze e vere e proprie fandonie che inducono, chi abbia almeno un accenno di buon senso, a nutrire il legittimo dubbio che alla verità dei fatti sia stata sostituita una versione di comodo ben più vicina alla leggenda che alla storia. Canzano 11- Katyn sarebbe ritornata a galla anche nel corso del processo di Norimberga quando il generale Rudenko, titolare dell’accusa da parte sovietica, avrebbe chiesto di imputare ai capi nazisti anche “l’uccisione avvenuta nel settembre 1941, di dodicimila ufficiali polacchi prigionieri di guerra nella foresta di Katyn, nei pressi di Smolensk”?

LEMBO – Si, è vero, la mattanza di Katyn venne poi ripresa da Rudenko nel corso del processo di Norimberga. Però, poi, l’accusa russa fu stranamente dimenticata e nessun riferimento alle migliaia di ufficiali polacchi assassinati a Katyn si sarebbe poi trovato nel lungo dispositivo della sentenza del processo. Nel dopoguerra si riparlò della faccenda e, il 13 febbraio 1948, il Dagens Nyheter di Stoccolma pubblicò un documento che indicava chiaramente come il NKWD, ovvero la polizia segreta russa, avesse organizzato la strage. Il Dagens Nyheter narrava dell’indagine fatta dall’avvocato Reman Martini di Cracovia e di come quest’ultimo fosse riuscito ad indicare anche i nomi degli uomini dell’NKWD responsabili della carneficina.

Canzano 12- Soltanto il 12 aprile 1990 la verità sarebbe venuta fuori. Gorbacev, in nome della politica di apertura della politica russa, nel 1990 avrebbe finalmente ammesso la piena responsabilità sovietica nell’eccidio di Katyn. Perché così tardi? Chi si voleva nascondere o proteggere? E perché ancora oggi boicottando il film si vuole nascondere ancora la verità? LEMBO - La menzogna russa sarebbe stata veramente dura a morire. Infatti la verità sarebbe venuta fuori solo grazie a Gorbacev che, nel 1990, ammise finalmente la piena responsabilità sovietica nell’eccidio di Katyn. Il vero problema non è “Perché così tardi? Chi si voleva nascondere o proteggere? “Bisogna, invece, rispondere alla domanda: perché i russi lo fecero?

Canzano 13- Perchè?

LEMBO – Alcune fonti riferiscono, addirittura, di 22.000 polacchi trucidati a Katyn, ma il vero enigma da risolvere non è quanti furono i polacchi assassinati. Bisogna, invece, rispondere alla domanda: perché i russi lo fecero? La risposta accettabile può essere una sola: Stalin, eliminando gli ufficiali di quell’esercito, tentò di annullare la parte pensante della società polacca. Un mostruoso tentativo di trasformare quella nazione in un corpo acefalo, un popolo di schiavi da asservire alle esigenze russe. Altro che libertà in nome del comunismo. A Katyn, La Polizia di Sicurezza russa esperì il tentativo di annullare un popolo, privandolo, in un colpo solo, dell’intellighenzia. Il crimine russo fu peggiore di un tentativo di genocidio. Il genocidio è la carneficina ai danni di un popolo al fine di eliminarlo dalla faccia della terra. A Katyn, invece, si volle preservare il popolo polacco, ma solo per trasformarlo in una nazione di schiavi perché priva della parte dirigente. BIOGRAFIA Daniele Lembo, nato a Minori (SA) nel 1961.Laureato in Scienze dell’Amministrazione, è iscritto all’Ordine dei Giornalisti del Lazio. Studioso di storia del Novecento, si è occupato, in particolar modo, della partecipazione italiana al secondo conflitto mondiale e ha prodotto varie cronache sull’argomento. Suoi articoli sono apparsi sui seguenti periodici e quotidiani:

Storia del XX Secolo( C.D.L. EDIZIONI); Storia del Novecento (ED. MARO); Storia e Dossier (ED. GIUNTI); Storia Verità (ED. SETTIMO SIGILLO); Eserciti nella Storia (DELTA EDIZIONI); Storia & Battaglie (ED. LUPO); Aerei nella storia(DELTA EDIZIONI); Cockpit (DELTA EDIZIONI); Ali Tricolori (DELTA EDIZIONI); Aeronautica; Area; Rinascita; Ostia Oggi. Inoltre, ha pubblicato i seguenti saggi:· Taranto…fate saltare quel ponte - I Nuotatori Paracadutisti della Regia Marina( C.D.L. EDIZIONI – Pavia- 1999 );· I Fantasmi di Nettunia – I reparti della R.S.I. sul fronte di Anzio – Nettuno (ED. Settimo Sigillo – Roma - 2000);· Il lungo volo della Regia - La storia Regia Aeronautica (DELTA EDIZIONI- PARMA- 2001 );· I Servizi Segreti di Salò – Servizi Segreti e Servizi Speciali nella Repubblica Sociale Italiana (EDIZIONI MARO – Copiano PV -2001) ;· La carne contro l’acciaio – Il Regio Esercito alla vigilia dell’entrata in guerra (EDIZIONI MARO – Copiano PV – 2003);· La resistenza Fascista – fascisti e agenti speciali dietro le linee –La Rete Pignatelli e la resistenza fascista nell’Italia invasa dagli angloamericani (EDIZIONI MARO – Copiano PV – 2004);· I sommergibili tascabili della Regia Marina (EDIZIONI MARO – Copiano PV – 2005).· La guerra nel dopoguerra in Italia – Le operazioni di Stay Behind della Decima Flottiglia Mas in guerra e nel dopoguerra (EDIZIONI MARO – Copiano PV – 2007);· Fascisti dopo la Liberazione – Storia del fascismo e dei fascisti in Italia nel dopoguerra -1946-1956 (EDIZIONI MARO – Copiano PV – 2008)· I Demoni Rossi – Storia dei mezzi corazzati italiani nella seconda guerra mondiale(EDIZIONI MARO – Copiano PV – 2008); · I Servizi Segreti nella Repubblica Sociale Italiana (EDIZIONI MARO – Copiano PV – 2009); Monografie: · L’osservazione della Regia – L’osservazione aerea della Regia Aeronautica(DELTA EDIZIONI- PARMA- 2001 ); · Le portaerei del Duce- navi portaidrovolanti e portaerei della Regia Marina (EDIZIONI MARO – Copiano PV – 2004);· I reparti di Arditi Italiani – 1940 -43(MARVIA Edizioni 2004);· X° Mas (West Ward Edizioni Parma- 2007 );· Il Fiat B.R.20 (West Ward Edizioni Parma- 2008);· Anzio – I giorni dello sbarco (West Ward Edizioni Parma- 2008 );· L’Armata italiana in Russia (West Ward Edizioni Parma- 2008 );· La regia Aeronautica in Guerra (West Ward Edizioni Parma- 2008 );· I paracadutisti italiani nella seconda G.M. (West Ward Edizioni Parma- 2008 ); Romanzi Il prigioniero di Wanda – romanzo storico (ED. MARO – Copiano PV – 2002);


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Btg. San Marco






diventare fuciliere di marina




































Dal Secolo d’Italia Giovedì 2 gennaio 2003 “VITE SPERICOLATE”











Angelo Bastiani, «Lawrence d'Etiopia»


Anche l'Italia ha avuto una figura affascinante al pari del «collega>> d'oltre Manica, sebbene di epoca, più recente. Per il suo valore, per quella sua mobilità di «folletto spregiudicato e intelligente», diventò una leggenda durante la seconda guerra mondiale
LUIGI ROMERSAANCHE l'Italia ha avuto il suo leggendario «Lawrence», non d’Arabia ma d'Etiopia. Il nostro, Angelo Ba­stiani, d'epoca più recente di quello britannico, non ha scritto, come l'in­glese, un libro del peso storico de «I sette pilastri della saggezza» e neppure il resoconto di un'av­ventura del tipo «La rivolta del deserto», ma per il suo valore, che lo caricò di medaglie, compre­sa una d'oro, e per quella sua mobilità di « follet­to spregiudicato e intelligente», diventata leg­genda durante la seconda guerra mondiale, cer­tamente non sfigura accanto al Lawrence d'oltre Manica, rimasto un mito nella mentalità degli abitanti della Penisola Arabica, beduini o superbi sceicchi che siano, protagonista di una storia che risale alla prima guerra mondiale.
Se il valore e l'iniziativa militare dei due «Lawrence» furono più o meno pari nonostante la diversità dei tempi in cui vissero e operarono, divergono decisamente gli inizi e le conclusioni delle rispettive leggende. II primo, l'inglese, debuttò, infatti, come militare di grado elevato e come agente di spicco dell'«Intelligence service» del suo Paese, finendo, deluso, retrocesso dal destino a sergente della Raf sotto il nome di nessuna fosforescenza di John Hume Ross e vittima di un banale incidente motociclistico, mentre il nostro, Angelo Bastiani, si costruì il suo mito giorno dopo giorno, mediante atti di valore. che dal grado iniziale di sergente lo portarono a quello altissimo di Generale di Corpo d’Armata.
Chi fu in realtà Angelo Bastiani, che riuscì a im­medesimarsi nella mentalità degli etiopi fino al punto di venir considerato protagonista di una storia che sta a cavallo fra il Western e la guerra pura e che, sotto certi aspetti, per circostanze, per­sonaggi e sistemi, richiama anche il ricordo delle Bande di ventura?
Epoca, come ho detto, l'ultima guerra, con un preambolo di combattimenti, talmente avventu­rosi dà sembrare inverosimili, che si svolsero fra il 1937 e il 1940, quando l'Etiopia, nonostante la conquista e la proclamazione dell'Impero, in cer­te zone dell'interno era una pentola in continua ebollizione.
Gli abissini diedero a Bastiani vari nomi, sug­geriti dalla loro fantasia piuttosto infantile, sollecitata, comunque, dall'esaltazione di tutto ciò che riguarda la guerra e il coraggio personale; «Diavolo zoppo», per via di una ferita che lo co­strinse a lungo a zoppicare; «Bianco di Tarna­scia», un sito dove il suo valore di soldato lasciò esterrefatti gli indigeni; «Leone del Semien», ec­cetera.
Di Angelo Bastiani, amico indimenticabile, conservo una fotografia dove sta seduto su un masso insieme con due etiopi, in atteggiamento da «bravo». Ha stivaloni di cuoio, un fazzoletto verde annodato intorno al collo, la barbetta a pappafico, l'occhio furbo; un tipo abituato a fare la guerra per conto suo. S'ammalò d’Africa da ra­gazzo, leggendo le storie del Duca degli Abruzzi e di Graziani, che da sempre considerò maestri e tipi da imitare. S'arruolò nelle truppe coloniali e sbarcò a Bengasi nel 1933. La prima impres­sione dell'Africa fu un orizzonte di fuoco e tante palme; aveva 19 anni, l'età adatta per affrontare con entusiasmo qualsiasi avventura Era attratto dal deserto, dalle oasi, dalle carovane, dal silenzio, dal­le notti all'addiaccio, dai fuochi di bivacco, dalle fanta­sie degli indigeni, dalle imboscate, dalle piogge torren­ziali e dalle fucilate. «A quell'epoca ‑ mi raccontò un giorno ‑ non avevo gradi di sorta. Alla vigilia del con­flitto etiopico i battaglioni indigeni lasciarono la Libia e fecero ritorno in Eritrea. Riuscii a seguirli. Prima a Massaua, poi all'Asmara, dopo a Nai Edaga, un villag­gio vicino ad Adi Ugri, dove c'erano gli Ascari della di­visione di colore». Fece una pausa e mi domandò: « È stato in Africa?».
«Ci sono stato ‑ riposi ‑ Un po' dappertutto...».
«Allora mi capisce, senza tante spiegazioni. A me fa rabbia chi dice che il mal d’Africa è una fola. Io sono ammalato dappertutto e non guarisco mai...».
«Tornerebbe in Africa?» ‑ gli domandai. E lui: «Subi­to, come sto...». Tirò un lungo sospiro. Riprese: «Alla fine della guerra d’Abissinia ero caporale, dopo venni promosso sergente. Ero a Dessiè, stupenda, in una con­ca di montagne, circondata da tutti i lati da colline. La guerra ufficiale era finita, ma c'erano ancora pasticci provocati da gruppi di ribelli. Rubavano, incendiavano e ammazzavano... In certi posti la guerriglia non finì mai, nel Semien, per esempio, e nel Mens. Un giorno fummo informati che a quattro giorni di marcia c'era un gruppo di ribelli che s'accingevano ad attaccare l'a­bitato. Ci fu rapporto al Ghebì. Alla testa dei ribelli c'e­ra il degiac Mangåscià, cugino del Negus. Fu deciso di mandare un ufficiale a parlamentare e a me diedero l'incarico di accompagnarlo. In me si rafforzava l'idea che avevo avuto da sempre, formare la «banda». Ne parlai diverse volte, ma non fui mai ascoltato. Final­mente, un bel giorno venni convocato e mi fu chiesto se mi sentivo di arruolare «una banda» e di comandar­la Potevo rispondere forse di no? Mi diedero finalmente carta bianca per arruolare 160 uomini...».
Cominciò gli arruolamenti e fece sapere che «il capo Bastiani» arruolava uomini per il governo. I primi che si presentarono furono tipi spinti soltanto dal desiderio di razzia Gli si leggeva negli occhi che erano occhi di ladri. Le condizioni erano: cinque lire al giorno, un piat­to di fave, un fucile e un sacchetto di munizioni. Segno distintivo della «banda», un turbante verde. La prima uscita fu un fiasco. Molti spari, molti urli, gran fumo, ma degli sciftà non ne fu preso uno. Dopo qualche tempo cominciarono i combattimenti sul serio. Chi dava del fi­lo da torcere agli uomini di Bastiani era sempre il de­giac Mangascià, una specie di fantasma Gli uomini dal turbante verde si muovevano con al seguito le donne che funzionavano da salmeria, Croce Rossa e servizio informazioni. Soltanto una volta si ammutinarono, fe­cero cioè «abiet». Erano stanchi di camminare, non c'e­rano stati combattimenti, e pertanto niente razzie. Per di più era l'epoca delle grandi piogge. «Li affrontai con cattiveria ‑ mi raccontò Bastiani ‑ Dissi che non vole­vo "sciarmutte" con me, voltai la schiena e mi avviai senza guardarli. Mi seguirono uno dopo l'altro. Quel giorno si combattè, furono meravigliosi!».
Dopo il trasferimento nella zona del Mens, in una specie di ambiente lunare, arido e arso, avvennero scon­tri con i ribelli più di spicco di quell'epoca. Abebè Are­gai, Auraris, Ficremariam e Damteu, che era una bel­va. Lo chiamavano infatti la «iena del Mens». Per af­frontarlo, la Banda prese posizione fra le rovine di un villaggio appena incendiato. Data la consistenza del ne­mico, Bastiani domandò l'intervento di un aereo; gli fu risposto che non ce ne erano disponibili. Damteu si presentò a cavallo sul bordo di un ciglione con alle spalle un mare di teste e di cocchi e, naturalmente, di fucili. Attaccarono a sparare anche con le mitragliatri­ci. Dopo due attacchi, la valle si riempì di morti. Era uscito il sole e l'aria puzzava di marcio. Dietro i solda­ti del Ras c'erano i «Bal Bitar», quelli cioè armati di cla­va con il compito di finire i feriti. Ci vollero quattro gior­ni per metterli in fuga. La «Banda» ebbe 98 morti e 77 feriti gravi; quattrocento ribelli rimasero sul campo. A Bastiani cominciarono ad arrivare le prime medaglie. Ad una ad una vennero espugnate tutte le basi dei ban­diti più noti. Venne la seconda guerra mondiale. I ribelli venivano riforniti dagli inglesi dalla frontiera del Sudan. A quella di Bastiani, denominato il «Corsaro Verde», si unì una seconda banda, comandata da un certo tenen­te Busso, battezzate dai suoi «il Corsaro rosso». Contro il ribelle Asafau Boggalè che si era proclamato «signo­re del Livò», Busso rimase mortalmente ferito alla go­la. Con lui caddero molti altri, compreso un fedelissi­mo, Aielè Ibrahim, che, prima di morire, raccomandò a Bastiani il proprio figlio e, con un filo di voce, gli disse «benedetta, benedetta Italia!».
Rincorrendo il capo Iggigù, il «Corsaro Verde» rima­se ferito per la seconda volta alla gamba.
«Quella stessa sera ‑ mi raccontò Bastiani ‑ mentre mi trasportavano in barella, uno dei miei mi mostrò la "trombetta" di guerra che avevano sottratto a Iggigù e disse che l'avrebbe suonata ogni giorno, così sarei gua­rito. Mancavo ormai dall'Italia da otto anni. Cammina­vo con le stampelle. Mi offrirono una licenza, la rifiu­tai. In testa avevo un piano di cui parlai con il Duca d’Aosta, il Vicerè. Volevo fingere una ribellione, buttarmi alla macchia con i miei uomini e fare una spe­cie di guerra di corsa nell'interno, molestando gli inglesi dappertutto. Ebbi molte promesse ma nulla di fatto...».
Il nostro «Lawrence» si sistemò nel fortino di Tarnascià. In quel settore, spadroneggiava il de­giac Negasc Norchenè, che aveva il suo Q. G. in cima all’Amba Cineferà, in un villaggio accanto a un monastero. Di notte, gli uomini di Bastiani s'arrampicarono come scimmie, e dopo quattro ore di lotta selvaggia conquistarono la vetta del­l'Amba. La guerra in Etiopia era ormai una fac­cenda disperata. Si lottava con spasimo a Cheren. Negasc, spalleggiato dagli inglesi, lanciava pro­clami insolenti. Definiva gli italiani «pesci alla fi­ne» e insisteva perché i suoi non si lasciassero scappare Bastiani, il «bianco di Tarnascià». Come risposta a quegli ingiuriosi proclami, Bastiani si mise a scorrazzare nel Semien per dimostrargli che non era né «pesce», né «ubriaco». Da Gondar arrivò l'ordine di ripiegare. II 2 aprile del 1941, dopo aver protetto lo sgombero della residenza del presidio di Socotà, Bastiani si installò nel for­tino di Zerimà; solo. in una zona infestata di ri­belli e di sciftà che bivaccavano attorno al forte come avvoltoi. Sempre presenti dove c'era puzzo di morte. Attaccato, dopo una giornata di attese e nervi scoperti, all'offerta di rinforzi dalla loca­lità di Dobivar, Bastiani rispose con un rifiuto e annunciò che avrebbe tentato a qualunque costo l'uscita.
«Gli abissini e i sudanesi ‑ mi raccontò ‑ fa­cevano fantasia intorno al forte e invitavano i miei uomini ad abbandonarmi. Non avevamo più acqua né viveri. Il fiume e una sorgente era­no controllati dal nemico. A ogni costo bisogna­va rompere il cerchio. Radunai i capi. Erano lo­gori, laceri, feriti. Piuttosto ombre che esseri vi­venti. Domandai se volevano morire come topi. Risposero di no. Dissi che si poteva morire come leoni. Capirono. Dissi che, anche se morivo io, do­vevano continuare a combattere e ad andare avanti. Furono d'accordo. Ci muovemmo all'al­ba, con l'impegno di raccoglierci al fiume. Co­minciò la carneficina. Al terzo assalto, spezzam­mo l'assedio. Più di una volta dovemmo aprirci la strada all'arma bianca. Raggiungemmo Debi­var per miracolo, in pochi, zuppi di sangue, ve­stiti di cenci. Il giorno dopo, successe un fatto in­credibile. Preceduti da stracci bianchi, alcuni abis­sini ci riportarono i feriti. Dissero che il capo, de­giac Mocrià, aveva dato ordine di restituirli per­ché si erano battuti come leoni e perciò merita­vano salva la vita...».
Dopo i fatti di Zerimà, Bastiani venne pro­mosso Sottotenente sul campo. La proposta partì dal generale Nasi e venne convalidata dal Duca d’Aosta, che già si trovava sull’Amba Alagi. l’ultima resistenza fu a Uolkefit. «Nel caposaldo ‑ rac­contò ‑ facemmo la chiesa e il cimitero. Relega­to sulla cima del monte, mi sembrava di essere già in prigionia. Ero abituato a muovermi. La vi­ta della "Banda" era il movimento, l'attacco, la sorpresa. La notte del 26 aprile 1941 organizzai un colpo di mano su Debivar, dov'erano piazzate le artiglierie inglesi. Scendemmo in duecento. Entrammo nell'accampamento nemico dopo aver tagliato i reticolati. Purtroppo una sentinella nemica riuscì a dare l'allarme. Mancò pertanto la sorpresa e tutto andò in fumo. Dal 10 maggio, il colonnello britannico Rin­grose cominciò a mandarci intimazioni di resa. Ne mandò undici. Rispondemmo sempre con le armi. De­cidemmo finalmente un'azione di forza. Un attacco al campo avversario, costituito da palestinesi, indiani, scozzesi e abissini. A bombe a mano riuscii ad aprirmi un varco e giungere alle spalle di Ras Aileu Burù, che prima si era sottomesso all'Italia e poi, per 30 mila tal­leri, aveva tradito. Anche il Colonnello Ringrose, quel­la notte si salvò per miracolo. Catturammo un canno­ne e molte armi leggere. La Banda celebrò la cattura del Ras con una fantasia indemoniata. Per qualche tempo il nemico allentò la morsa, soltanto l'artiglieria inglese non dava tregua. Finirono i viveri, ci riducemmo a man­giare l'erba. Ma non intendevamo arrenderci. Dagli ae­rei cadevano bombe e volantini che ci avvertivano che il Negus era tornato ad Addis Abeba».
Domandai a Bastiani come fino all'ultimo si compor­tarono gli uomini della Banda
«Furono magnifici ‑ rispose ‑ Non uno disertò. Con­tinuammo a fare colpi di mano per catturare qualcosa da mettere sotto i denti. Il mio proposito era di rag­giungere Gondar per combattere ancora e poi gettarmi nella boscaglia. II 24 settembre, consumato l'ultimo sac­co di farina, agli ordini del colonnello Gonella andam­mo nuovamente all'assalto. Il giorno 27, cinque mesi do­po che il Negus era rientrato ad Addis Abeba, ammai­nammo la bandiera. Centosettantacinque giorni di re­sistenza. Battuti, ma dalla fame...».

Domenica 8 Febbraio, 2009
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Fausto BILOSLAVO















Foibe, il mio 10 febbraio ricordando il nonno morto

tratto da: Il Giornale, 9.2.2008.












"La sua unica colpa era l’italianità".











E il non credere che il comunismo potesse guarire tutti i mali". Ma nella nuova Europa i tempi sembrano ormai maturi per una riconciliazione. Domani celebrazioni a Roma, Milano e in molte città all'estero La storia è piena di crimini ma spesso i crimini non fanno storia, nel senso che strategie o ideologie dei vincitori di turno (ma spesso anche degli sconfitti) possono mandare rapidamente in archivio le peggiori atrocità dell’uomo. La tragedia istriana, con gli orrori di tanti italiani gettati nelle voragini carsiche dai comunisti jugoslavi e di tanti altri costretti a fuggire per salvarsi, è il classico esempio di una ragion di stato che ha voltato rapidamente pagina. In occasione del «Giorno del ricordo» di domani pubblichiamo un articolo di che nella tragedia istriana ha avuto coinvolti due nonni.Mio nonno materno, Ezechiele, pur non avendo mai fatto del male a nessuno fu prelevato dalle truppe di Tito che occuparono Trieste nei famigerati «40 giorni» del 1945 e sparì nel nulla dopo essere stato deportato verso Lubiana. Mio nonno paterno, Giacomo, scampò per miracolo ad una sommaria fucilazione dei partigiani, mentre da Momiano, dove era nato e vissuto, cercava di raggiungere Trieste alla fine della seconda guerra mondiale. Pure lui non aveva mai imbracciato un fucile, ma possedeva un po’ di terre ed una casa colonica. La vera «colpa» dei miei nonni, agli occhi dei «liberatori», era la loro italianità e la scarsa convinzione che il comunismo potesse risolvere i mali del mondo. I nonni non ci sono più, ma ogni anno tornano a vivere il 10 febbraio, Giorno del ricordo della tragedia dell’esodo dalle loro terre di istriani, fiumani e dalmati dopo il 1945. Questo strano articolo, in prima persona, è tratto dagli atti del seminario sull’Esodo dell’Associazione delle comunità istriane di Trieste presentato giovedì in occasione del Giorno del ricordo 2008. Domani si celebrerà in tutta Italia la tragedia dell’esodo e delle foibe.PULIZIA ETNICAUn aspetto devastante mi ha profondamente colpito seguendo dieci anni di guerra nell’ex Jugoslavia come giornalista: la strategia della pulizia etnica, che a fasi alterne tutti hanno tentato contro tutti. Un tragico copione che avevo già sentito raccontare dai miei nonni. In qualche maniera ho rivissuto come testimone le tragedie delle foibe e dell’esodo assistendo alle prime riesumazioni delle fosse comuni di Srebrenica. In Bosnia Erzegovina i serbi avevano massacrato e sepolto nel 1995, talvolta ancora vive, 8mila vittime musulmane. In particolare ricordo i resti di una madre e di un ragazzino, con le mani legate dietro la schiena dal filo di ferro, come gli infoibati del 1943 o del ’45. In Kosovo, pochi giorni dopo l’inizio dei bombardamenti della Nato nel 1999, mi sono mescolato ad una colonna di profughi lunga chilometri, in fuga dai miliziani serbi. Fra loro anche un’anziana albanese paraplegica trascinata in carriola dai nipoti in fuga. Un altro esodo, come quello degli italiani mezzo secolo prima, mentre anni dopo, sempre in Kosovo, mi calai, assieme agli specialisti dell’Onu, in una vera e propria foiba. Sul fondo giacevano i resti dei serbi trucidati dai guerriglieri indipendentisti albanesi, prima dell’attacco della Nato.I CRIMINI DEL PASSATOPer cinquant’anni si è volutamente steso il velo dell’oblio sulla tragedia dell’esodo e sui crimini perpetrati contro gli italiani alla fine della seconda guerra mondiale. Si è trattato di una vera e propria «verità negata» e rimossa, che dal crollo del muro di Berlino e dalla disgregazione della Jugoslavia in poi, è venuta pian piano a galla. Come giornalista mi sono occupato dei cosiddetti «boia» titini. Una lunga lista, da Ivan Motika a Ciro Raner, fino a Mario Toffanin. L’unico ufficiale di Tito processato recentemente in Italia, per alcune uccisioni a Fiume, è stato Oskar Piskulic, che alla fine l’ha scampata per carenza di giurisdizione. Anche le notizie più scabrose venivano trattate con cautela, per usare un eufemismo, oppure completamente snobbate dalla grande stampa. Il fatto che Toffanin, massacratore dei partigiani non comunisti a Porzus, avesse una regolare pensione Inps, grazie al servizio militare in Italia, mantenuta per tutta la vita nel suo buon ritiro oltre confine, fece scandalo, ma solo sul «Giornale». Lo stesso per Raner, famigerato comandante del campo di Borovnica. Le foto dei soldati italiani sopravvissuti ai Lager titini come quello di Borovnica e ridotti a scheletri ambulanti, non a caso sono rimaste nascoste per anni. Nonostante le difficoltà, penso che i tempi siano maturi per un grande e necessario gesto di riconciliazione. I presidenti italiano, sloveno, croato e pure quello serbo devono inginocchiarsi assieme sui luoghi della memoria del Nord Est dalla Risiera di San Sabba alla foiba di Basovizza e se i nostri vicini lo desiderano anche nelcampo di concentramento fascista, per gli slavi, di Gonars. Non si tratta di mettere una pietra sopra il passato e dimenticare, ma di voltare pagina e guardare avanti per il bene delle future generazioni.VERSO UN FUTURO EUROPEOBisogna dare il benvenuto nell’Europa libera ai vicini sloveni e croati ed auspico che pure i serbi e le altre nazioni dell’Est aderiscano ad un’Unione che perme non è soltanto quella dell’euro, ma anche un’idea di libertà in cui ho sempre creduto. Purtroppo sono state affrontate in maniera assolutamente insoddisfacente le ferite del passato, con gli eredi della Jugoslavia. Nessuna iniziativa veramente incisiva per ristabilire la verità negata e rimossa è stata messa in piedi. E soprattutto non si è fatta giustizia sui beni non soltanto abbandonati, ma seq u e s t r a t i agli esuli. Forse si è persa per sempre un’occasione, ma la domanda ora è: «che fare?». Il treno della storia non si ferma ed il binario dell’Europa va giustamente percorso, proprio in nome di quella libertà strappata agli esuli. Il famoso striscione «Volemo tornar», innalzato durante una manifestazione sull’esodo in piazza Unità d’Italia a Trieste non deve rimanere uno slogan vuoto. Realizziamolo, torniamo, ora che si può comprare un rudere italiano da ristrutturare o un fazzoletto di terra in prima persona. Non si tratta di una riconquista ma di una presenza, di cultura, di tradizione, di storia nel nome di una terra che fu italiana e ora è europea.
Data inserimento:
08/10/2008
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La rotta di scampo e la cattura degli inglesi

Categoria : Storia



Rinascita_ Daniele Lembo: Il regime fascista, perseguendo un principio di ordine formale, oltre che sostanziale, aveva dettato norme per ogni aspetto della vita civile. Una di queste disposizioni prevedeva che, nei locali pubblici, i bollettini di guerra si ascoltassero stando in piedi. All’inizio della seconda decade di febbraio 1941, chi ebbe la ventura di ascoltare il bollettino di guerra nr. 252, diramato dall’E.I.A.R. il 14 Febbraio 1941, apprese che: “Nella notte dal 10 all’11, il nemico ha lanciato nella regione calabro – lucana nuclei di paracadutisti armati di mitragliatrici, bombe a mano ed esplosivi, col compito di arrecare interruzioni e danni alle nostre comunicazioni e alle opere idriche della regione. Grazie al pronto intervento del nostro servizio di vigilanza, tutti i paracadutisti nemici sono stati catturati, prima che avessero modo di arrecare i gravi danni che si erano proposti. Durante la cattura si è svolto uno scontro, in seguito al quale sono caduti una guardia giurata ed un cittadino.”Il bollettino, a metà strada tra la notizia militare e la propaganda di guerra, non diceva, come al solito, tutta la verità, almeno per quanto riguarda i risultati conseguiti dai sabotatori.Nella notte tra il 10 e l’11 febbraio, effettivamente, era stato attaccato e sabotato, da un gruppo di commandos del S.A.S. Special Air Services, l’acquedotto pugliese, che, come è noto, preleva le acque del fiume Sele dall’Appenino lucano e le indirizza alla volta della Puglia. L’Acquedotto è un’opera titanica che, ripartendosi in vari tronchi, rifornisce ben 260 comuni delle province pugliesi.Il sabotaggio era avvenuto prendendo di mira un ponte sul fiume Tragino, un modesto affluente dell’Ofanto. Il viadotto, ubicato al confine tra la provincia di Avellino e la Basilicata, a sud del comune di Calitri e a nord di quello di Pescopagano, faceva parte del sistema idrico di canalizzazione delle acque del Sele in quanto, pur avendo la parte superiore carrabile, ospitava all’interno un canale scatolare, capace di una portata di 5 metri cubi al secondo.
L’ADDESTRAMENTOALL’AZIONE In Inghilterra, la proposta di effettuare il sabotaggio era stata avanzata da una ditta britannica che, verso la fine degli anni venti, aveva partecipato alla realizzazione di alcune opere idrauliche in Italia. La ditta, conoscendo bene i manufatti in questione, aveva prima proposto e poi addirittura caldeggiato l’azione. Fu così che, all’inizio del 1941, un gruppo di commandos della X Troop1 (XI Battaglione dello Special Air Services) iniziò una dura attività di addestramento. Destinati all’azione erano 36 uomini, di cui 29 militari di truppa e 7 ufficiali, al comando del maggiore paracadutista Trevor A Pritchard. Presero però parte all’addestramento 39 commandos, in quanto furono addestrati, come riserve, anche un altro ufficiale e altri due graduati di truppa.Nessuno degli uomini del S.A.S. conosceva il vero obiettivo dell’azione, ma il fatto che ci si addestrasse a sabotare i piloni di un ponte, utilizzando peraltro una copia in legno del viadotto da attaccare, e che ben tre dei componenti il gruppo di sabotaggio fossero in grado di parlare correttamente l’italiano, lasciava presagire quale fosse l’obiettivo e, chiaramente, quale fosse la sua ubicazione.A parlare l’italiano, oltre ad un capitano della Royal Air Force, vi erano Nicol Nastri e Fortunato Picchi. Gli ultimi due erano entrambi di origini italiane, ma mentre il Nastri era cittadino inglese ed in forza al S.A.S., il Picchi, invece era un suddito italiano. Nato a Carmignano (FI) nel 1986 era emigrato nel 1929 in Inghilterra. Dopo il giugno 1940, il Picchi era stato prima imprigionato e poi liberato dal campo di concentramento e restituito al proprio lavoro di cameriere in quanto, da antifascista dichiarato, aveva svolto attività di propaganda tra gli italiani contro il regime. Al Picchi non era bastato svolgere una semplice attività di propaganda, ma aveva chiesto, benché fosse avanti nell’età, di essere arruolato nell’esercito Britannico, venendo accontentato. Per la particolare missione alla quale si avviavano, sia per il Nastri che il per il Picchi sarebbero state fornite identità e documenti di copertura. Il Picchi, dal momento dell’arruolamento in poi, si sarebbe chiamato Pierre Dupont, mentre a Nicol Nastri sarebbe stata assegnato il nome di Nicol Tristan (anagramma di Nastri). Ma mentre per il Tristan, cittadino inglese, la precauzione era inutile, per il Picchi, italiano a tutti gli effetti, era indispensabile in quanto, in caso di cattura sarebbe stato fucilato come traditore.
OPERAZIONE“COLOSSUS” All’inizio di febbraio ’41 i commandos erano ormai pronti e il 4 febbraio 1941 ebbe avvio l’Operazione “Colossus”.Dall’inghilterra decollarono, alla volta di Malta, otto bimotori da bombardamento A.W. Whitley e un idrovolante Short Sunderland con a bordo il gruppo destinato all’azione di sabotaggio. A Malta i velivoli giunsero il giorno dopo2 e solo sull’isola i commandos appresero quale era il vero obiettivo della missione per la quale si erano addestrati.Tra le ore 17,40 e le 18,00 del 10 febbraio, sei degli otto bombardieri Whitley decollarono da Malta. I sei Whitley, nella versione MKV, erano dotati della botola ventrale per il lancio di paracadutisti, ed erano destinati a trasportare i 36 commandos divisi in sei squadre. I decolli avvennero con regolare puntualità, con l’esclusione del Whitley, designato con la lettera “J”, che decollò con circa 17 minuti di ritardo, a causa di un malore occorso ad uno dei paracadutisti. Questo banale ritardo, come andremo a vedere, avrebbe poi rischiato di causare il fallimento della missione. Gli altri due Whitley, nella versione da bombardamento, furono invece impiegati in un’azione diversiva venendo inviati a bombardare la città di Foggia, mentre l’idrovolante Sunderland non prese parte alla fase operativa della missione, essendo stato impiegato solo per trasportare a Malta il materiale logistico.I velivoli partiti in orario effettuarono il lancio delle cinque pattuglie a quote bassissime. La prima sezione a prendere terra, in un paesaggio completamente innevato delle montagne dell’Irpinia, fu quella al comando del tenente Deane –Drummond che, lanciatasi intorno alle ore 21.42, atterrò nella zona prevista ma non senza problemi. La bassa quota di lancio fu causa, infatti, di numerose distorsioni e ferimenti tra il personale. Dopo quella del tenente Deane –Drummond, nei 35 minuti successivi, presero terra le altre quattro squadre, per un totale di 29 uomini. Mancava all’appello la sesta squadra la cui partenza era avvenuta in ritardo. […]Minare il viadotto non era un lavoro facile. Il ponte, in cemento armato, era lungo 95 metri e si reggeva su tre pilastri la cui altezza variava dai 4 agli 8 metri. Ai sabotatori, alla partenza, era stato detto che si sarebbero trovati di fronte ad un manufatto in mattoni ed è chiaro che demolire un pilone in cemento armato presentava ostacoli molto maggiori della demolizione di una pila in mattoni.Mancando il capitano Daly, fu il sottotenente del Genio Peterson a sostituirlo nella posa degli esplosivi. La logica avrebbe voluto che fosse minato il pilastro centrale, ma questo aveva la fondazione nel greto del torrente, cosa che rendeva difficile l’operazione. Pertanto, fu deciso di minare il pilastro occidentale e, mentre alcuni commandos furono disposti di guardia, Peterson e gli undici genieri presenti, passarono a minare l’opera.Contestualmente al ponte/acquedotto sul Tragino, fu minato anche un piccolo ponte sul fiume Ginestra, un affluente del Tragino, sul quale scorreva un binario che era servito, anni addietro, per la costruzione dell’acquedotto. Distruggere anche questo secondo ponte avrebbe poi rallentato eventuali lavori di ripristino del ponte obiettivo principale. A mezzanotte e trenta, i genieri inglesi fecero brillare le cariche, interrompendo una campata del ponte e poco dopo saltò anche il ponte sul fiume Ginestra.Il bollettino di guerra, poi avrebbe riferito, come detto, che i “i paracadutisti nemici sono stati catturati, prima che avessero modo di arrecare i gravi danni che si erano proposti”. In realtà, come visto, il sabotatori avevano raggiunto il proprio scopo. L’unico fastidio ai commandos era stato arrecato dall’arrivo di un ignaro ferroviere in bicicletta che stava recandosi a prendere servizio. Catturato, l’omino era stato messo nel mucchio con gli altri italiani prigionieriNel frattempo, con circa un’ora e mezzo di ritardo, era atterrata molto distante dal ponte, anche la pattuglia del capitano Daly.In fase di avvicinamento all’obiettivo, Daly udì chiaramente il fragore dell’esplosione. Era evidente che l’azione era riuscita e non restava allora che tentare la via del ritorno attraverso una “rotta di scampo” che, seppur di difficile attuazione, era stata comunque programmata. Chi aveva progettato il sabotaggio aveva previsto che il sommergibile inglese Triumph, dalla quinta alla ottava notte successiva a quella dell’azione, emergesse a nord di Paestum, nelle acque prospicienti la foce del fiume Sele.La zona del sabotaggio distava dal punto di incontro con il sottomarino circa 60 km. in linea d’aria, 60 km che, sul terreno, diventavano più di cento. In considerazione del fatto che quei cento km. erano da farsi a piedi, di notte, tra boschi e montagne e sottraendosi alla caccia che nel frattempo si sarebbe scatenata, è evidente che la via di fuga per i commandos era più teorica che reale ed aveva solamente una valenza psicologica per dare al personale il supporto morale della convinzione di non essere delle vittime destinate al sacrificio.Dopo l’esplosione, quindi il capitano Daly e i suoi decisero di avviarsi verso la costa Tirrenica, ma non sarebbero andati lontano, in quanto poco dopo furono catturati da una pattuglia del Regio Esercito.Gli altri commandos, portato a termine il loro compito, si divisero in tre squadre, due da 11 ed una da 7 uomini, rispettivamente al comando del magg. Pritchard, del capitano Lea e del tenente Jowett. Sul luogo del sabotaggio venne lasciato solo un caporale che, a causa di una ferita riportata in atterraggio, non era in grado di marciare. Quest’ultimo avrebbe sorvegliato i civili italiani, impedendo che dessero l’allarme. Intorno alle ore 1,00 dell’11 febbraio i tre gruppi si avviarono tra i monti, tentando anche loro di raggiungere la costa di Paestum.Purtroppo per loro, il caporale lasciato di guardia ai civili non riuscì ad impedire la fuga all’unico militare italiano presente sul posto che, inforcata una bicicletta, diede l’allarme scatenando la caccia al paracadutista.Il gruppo di Pritchard fu catturato quasi subito, in prossimità del comune di Teora, mentre i gruppi al comando del capitano Lea e del tenente Jowett vennero presi nella valle del Sele, nei pressi di Laviano e Calabritto.I primi due gruppi si arresero ai militari senza sparare, anche perché, per essere più spediti nella marcia, avevano distrutto tutte le armi lunghe, portando al seguito un solo fucile mitragliatore per pattuglia, le pistole e due bombe a mano per uomo. In queste condizioni, una volta circondati, qualsiasi tentativo di resistenza sarebbe stato inutile. La pattuglia al comando di Jowett, invece, circondata da pochi Carabinieri e alcuni contadini, fece fuoco uccidendo due civili. Jowett e i suoi, poi, una volta catturati, furono salvati dalla folla inferocita che stava per passare ad una esecuzione sommaria, solo dal provvidenziale intervento di una pattuglia di militari dell’Esercito.
L’INTERROGATORIO DEI PRIGIONIERIE LA FUCILAZIONEDI PICCHI Tra il successivo giorno 13 e il 14, tutti i commandos furono concentrati presso la stazione ferroviaria di Calitri e di qui trasferiti, a mezzo treno, a Napoli ove, nel carcere di Poggioreale, ebbero la sorpresa di trovare il caporale lasciato a far da guardia ai civili.I commandos sarebbero stati poi trasferiti al campo per prigionieri di guerra nr. 78 ubicato a Sulmona dove furono interrogati dal maggiore Bechi di Luserna, appositamente inviato dal colonnello Baudoin, comandante della scuola Paracadutisti di Tarquinia, per acquisire il maggior numero di informazioni possibili sull’operazione. Gli inglesi furono interrogati anche dai tedeschi. A Sulmona arrivarono il tenente Von Muller, dello Stato Maggiore del generale Student, e il tenente Lungguth della scuola di paracadutismo di Stendal. I due tedeschi, non si accontentarono solo di interrogare i prigionieri ma, con tipica meticolosità tedesca, si recarono sul luogo del sabotaggio per scattare fotografie e interrogare i contadini che, a qualsiasi titolo, avevano avuto un ruolo nella vicenda. […]A scoprire la vera identità del picchi fu il capitano dei Carabinieri Agostino Piscitelli, del Servizio Informativo dell’Aero-nautica. Piscitelli, avuto il sentore che dietro il nome di Dupont si celasse un italiano, tenne a lungo sotto pressione il Picchi finché questi non si decise a rivelare la sua vera identità.Nel corso del processo che ne seguì, il Picchi tentò in tutti i modi di discolparsi affermando, tra l’altro, che era venuto a sapere che la prevista azione di sabotaggio era diretta contro l’Italia solo alla vigilia dell’operazione e che nel corso della stessa, alla quale aveva partecipato solo come interprete, aveva limitato la propria “attività alla protezione degli altri soldati che collocavano le mine”. Inoltre, si era “intromesso affinché non venisse fatto alcun male ai civili che lì per lì venivano catturati dai britannici”.Non gli valse a nulla, come pure non servi a nulla il suo ottimo stato di servizio durante la guerra mondiale precedente, nel corso della quale aveva combattuto sul fronte macedone “con fedeltà ed onore”, come si poteva leggere nel suo congedo, datato dicembre 1919.Il 5 aprile il Tribunale Speciale ne decretò la condanna a morte, non riconoscendogli alcuna circostanza attenuante. Fu fucilato a Forte Bravetta (Roma), alle ore 7 del 6 aprile quando, come riferito dal verbale redatto: “Collocato il Picchi di fronte al reparto in armi… è stato quindi posto a sedere dinanzi al reparto con la schiena rivolta al reparto stesso e subito dopo, con le modalità richieste dal regolamento, alle ore 7 (ora legale) è avvenuta la esecuzione”. Un estratto della sentenza fu stampato su grandi manifesti e affisso in tutti i comuni del regno.


UNO STRANO EPILOGO Il successo dell’azione di sabotaggio fu un fatto effimero in quanto, dopo pochi giorni, il ponte venne riattato e il flusso dell’acqua riprese come di norma. Il risultato maggiore riguardò, invece, quella che viene detta guerra psicologica. L’azione dei commandos fu tale da diffondere la psicosi del paracadutista sabotatore, inducendo l’Alto Comando ad impiegare un rilevante numero di uomini in servizio antiparacadutisti. Inoltre, dal punto di vista propagandistico, la stampa inglese batté a lungo la grancassa amplificando la notizia e il risultato bellico oltre misura.La vicenda ebbe uno strano epilogo che vide protagonista il capitano dei carabinieri Agostino Piscitelli.L’ufficiale, dopo l’Armistizio, non aderì alla Repubblica Sociale, rifiutandosi di arruolarsi nella Guardia Nazionale Repubblicana. Preferì, invece, passare al servizio civile, impiegandosi come ispettore nell’Azienda Annonaria di Roma.Ebbene, un pomeriggio del ’44, mentre il Piscitelli discuteva con alcuni colleghi dell’avanzata del fronte, per meglio illustrare gli eventi bellici, trasse di tasca un fazzoletto di seta sul quale era impressa la carta geografica d’Italia. La strana mappa non mancò di suscitare l’interesse dei suoi interlocutori e fu così che l’ex ufficiale dell’Arma ne rivelò la provenienza. Il fazzoletto di seta, assieme ad una bussola miniaturizzata, era tra le dotazioni del Picchi al momento dell’arresto e Piscitelli narrò di come avesse smascherato il connazionale messosi al servizio del nemico, avviandolo alla fucilazione.Sarebbero passati alcuni mesi e, dopo l’entrata degli Angloamericani nella Capitale, un collega del Piscitelli, lo avrebbe denunciato al comitato per le epurazioni, narrando, non certo con parole lusinghiere, dell’azione dell’ufficiale dell’Arma nei confronti del Picchi.In seguito alla denuncia, relativa peraltro ad un’attività fatta nell’adempimento del proprio dovere, l’uomo passò dei brutti momenti e, per sua fortuna, fu salvato dall’Arma che evidenziò come il suo comportamento fosse “circoscritto a quello istituzionale dell’A-rma; ogni altra versione dell’avvenimento è arbitraria e resa per ignobili fini reconditi”.Alla fine, la Corte d’Assise Straordinaria di Roma archiviò la denuncia, ma il solo fatto che la vicenda fosse stata giudicata da una C.A.S., è sufficiente a far rendere conto al lettore, con quale patema il Piscitelli affrontò il giudizio. In quel periodo non era difficile essere condannato a morte da una C.A.S.. e tutto, solo per aver fatto in modo egregio il proprio dovere.
3 Troop : si tratta di un reparto di commandos della forza equivalente a quella di una compagnia
4 (secondo altre fonti la partenza avverrebbe il giorno sette e l’arrivo il giorno successivo)
BIBLOGRAFIAL’Aeronautica italiana nella II G.M. – vol II – G. Santoro, edizioni Esse;La regia Aeronautica 1939/43 – L’anno della Speranza 1942, N. Arena ,S.M.A. Ufficio Storico;Para’ Storia e Battaglie dei paracadutisti di tutto il mondo, E. Sala, N. Arena, Edizioni F.P.E Milano;La Guerra Moderna – E. Luttwak, S.L. Koehl, Rizzoli;Storia Militare, Luglio 1996
SITI INTERNETCONSIGLIATIUn antifascista pratese per lungo tempo dimenticatoFormato file: PDF/Adobe Acrobat - Versione HTMLVita e morte di un “traditore”: Fortunato Picchi … poi arrivati al torrente Tragino mina-. no il viadotto, tuttavia il ponte-cana- …www.anpi.it/patria_2007/003/33-36_GORI.pdf - Pagine simili
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FASCIO E MARTELLO

VIAGGIO PER LE CITTA' DEL DUCE
DI ANTONIO PENNACCHI


I ROBINSON / LETTURE
Laterza Editori
C) 2008, Gius. Laterza & FigliPrima edizione 2008


Una prima versione di questo libro era stata pubblicata nel 2003 dall'Editore Asefi di Milano con il titolo Viaggio per le città del Duce, mentre i singoli saggi erano già usciti su Limes a partire dal 1999.
La presente edizione è il risultato di una complessiva riscrittura e ampliamento dell'opera da parte dell'autore.
Antonio Pennacchi



FASCIO E MARTELLO
VIAGGIO
PER LE CITTÀ DEL DUCE
°Editori Laterza

Proprietà letteraria riservata
Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari
Finito di stampare nel luglio 2008 SEDIT - Bari (Italy)
per conto della
Gius. Laterza & Figli Spa
ISBN 978-88-420-8720-5
È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia,
anche ad uso interno o didattico.
Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l'autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l'acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza.
Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.
a Mario Scotti, a Gianfranco Monti, a Enzo Siciliano
Questo libro è anche un po' — anzi parecchio — di Ivana Busatto, che oltre che fotografo è stata il vero ufficiale navigatore di questo viaggio. E non solo di questo, essendo pure mia moglie.

Un particolare ringraziamento va alla redazione di Limes e a: Marian­na Aquino, Fabio Armillotta di Foggia, Giovanni Armillotta di Pisa, Agostino Attanasio, Renata Baizini, Maurizio Barbirati, Laura Canali, Carlo Fabrizio Carli, Mario Cassetti, Gianfranco Compagno, Daniela Dapit, Bruno Di Marco, Alessandro Gilioli, Maria Lena La China, Lu­ciano Lanna, Graziano Lanzidei, Massimiliano Lanzidei, Lorenzo Ma­gnarelli, Giuseppe Mancini, Giorgio Muratore, Margherita Paolini, Lorenzo Pavolini, Gianfranco Piemontese, Maria Rosa Protasi, Mar­cello Trabucco, Tullio Varano e Anonima Scrittori.


VI


INDICE
Presentazione aggratis di Lucio Caracciolo Premessa dell'autore
1. La koinè dell'eucalyptus
2. Il campanile di Aprilia
3. Carbonia hag
4. Segezia (ma anche e di nuovo Aprilia, Pomezia, Fertilia, Borgo Appio e Borgo Domitio)
5. Da Segezia a Borgo Mezzanone
6. Borgo Cervaro e Borgo Giardinetto
7. I rurali di Littoria
8. Guidonia e Incoronata: masseria e massoneria 9. Arsia (ma anche Pozzo Littorio e Torviscosa) ix XIII 3 10 28 57 101 111 125 156 175 VII
10. I Borghi dell'Agro Pontino.
Dalla bonifica fasciocomunista alle città nuove 201
11. Da Borgo Riena a Borgo Recalmigi.

Il fascismo come dittatura del proletariato 243
12. Che cos'è una città di fondazione.
Quante e quali sono - e quali sono - le Città del Duce 276
13 Inventario delle nuove fondazioni in Italia a cavallo degli anni Trenta 287
Note 299
Referenze iconografiche 331
Indice dei nomi e dei luoghi 333
Storia del testo 341


PRESENTAZIONE AGGRATIS
di Lucio Caracciolo

1. Avevo in classe mia una compagna un po' camerata. All'epo­ca — primissimi anni Settanta — l'esimio liceo T. Tasso di Roma di fascisti ne contava pochini, anche se poi qualcuno ha fatto carrie­ra. Non da fascista, non si usa più. Io e i miei compagni di scuola molto compagni, la compagna un po' camerata la snobbavamo as­sai. Anche perché non ci sembrava così carina com'è diventata do­po. E quando proprio dovevamo litigarci, lei non si lasciava cor­rompere dai nostri argomenti molto compagni. Alla fine, per stan­chezza: «Vabbè, il Duce qui e là avrà pure sbagliato e la guerra l'abbiamo persa — mancò la fortuna non il valore. Ma volete met­tere la bonifica della pianura pontina?».
La pianura pontina? C'ero passato in mezzo decine di volte, sfrecciando con mamma papà e fratellino verso le vacanze di For­mia e ritorno. Ma che stavo attraversando le malariche lande re­dente dal genio del Duce no, non ci pensavo proprio. Allora chie­si a papà, che di mestiere faceva lo storico e mi considerava uno sporco revisionista perché stavo con quei «pompieri» della Fgci (lo pensava pure mamma, anzi di più, però lei lo diceva invece di mugugnare). E papà concesse: «Be', la tua compagna camerata in fondo non ha torto» — non disse, ci giurerei, «ha ragione», sareb­be stato troppo per lui. Ora passo un po' meno da quelle parti, ma quando capita penso alla mia compagna camerata e soprattutto al mio papà, che gli dev'essere costata assai quell'ammissione. For­se perché non sapeva che l'aveva già fatta Pertini — vedi seguente
saggio pennacchiano sulla bonifica «fasciocomunista» — o forse proprio perché lo sapeva.
Ci sono due altre ragioni per cui dobbiamo render grazie al Duce per la bonifica delle paludi pontine. La prima è che dopo non l'avrebbe fatta nessuno. Sicché adesso dovremmo ammirare il Cav. dietro la scrivania di ciliegio a spiegarci perché e percome il precedente regime comunista l'avesse trascurata e adesso ci pen­sa lui a risolvere il problema. Altro che passante di Mestre o pon­te sullo Stretto. La Bonifica forzitaliota, quella sì che avrebbe fat­to storia patria.
La seconda è Pennacchi. No bonifica, no Pennacchi. Perché se non nasceva a Latina (Littoria) e non decideva di piantarci le ra­dici, Pennacchi sarebbe (forse) stato un veneto del Veneto. Uno studioso revisionista di Caporetto, chissà. Delle città del Duce non gliene sarebbe importato nulla e questo libro non l'avrebbe scritto. Una catastrofe epistemologica.
Mi spiace che papà non abbia fatto a tempo a leggere queste pagine, penso gli sarebbero piaciute. Così come sono sicuro che la mia compagna camerata, se mai le terrà in mano, scoprirà con gioia di aver avuto mille volte ragione — sulla bonifica «fascioco­munista», il resto è a parte.

2. Su un punto invece papà, e pure mamma, non hanno mai mollato. A loro Latina faceva schifo. La trovavano insulsa. Sicché la sosta per la bibita sul percorso Roma-Formia o Formia-Roma si faceva preferibilmente a Terracina. Entrare a Latina gli faceva senso. Così come non gli piaceva l'Eur e il Foro Italico e tutta l'ar­chitettura di età fascista — che invece a me è sempre piaciuta mol­tissimo, anche quella che fa schifo davvero. Peggio: nel profondo del mio cuore compagno e revisionista, pensavo che in fondo il Duce non doveva poi essere così malvagio, se aveva provveduto a innalzare l'Obelisco proprio lì in faccia allo Stadio. E la Palla, cen­to passi più avanti. I due riferimenti geocalcistici centrali della mia vita. Hic maneant optime.
L'avrai capito, caro lettore: di questo libro non posso che dire bene. Primo perché sennò Pennacchi mi mena. E io a botte le ho sempre prese. Secondo perché l'ho pubblicato a puntate sulla no­stra rivista Limes e intendo pubblicarne i seguiti (le città del Du­ce sembrano infinite — lui ne ha contate 147, dice, e se occorre ne inventerà qualcuna, visto che gli articoli glieli paghiamo e pure be­ne). Terzo perché a me Pennacchi piace davvero. Come scrittore, per carità. Tutta colpa di Palude', che l'autore dice che non è il suo romanzo preferito però se non è il mio poco ci manca. Quar­to perché Pennacchi ha dissepolto una pletora di «città» di cui avevamo perso la memoria, che non sapevamo come si chiamas­sero (vedi Littoria) e che non capivamo. Oppure ci era stato det­to che facevano schifo e dunque schifo dovevano fare — il che già me le rendeva simpatiche. E alcuni assicuravano che portassero pure sfiga. Ma io a quella cosa lì mica ciò mai creduto.
Altra caratteristica dell'autore è di essere un gran rompiscato­le. Nel senso che se non te le scassa sta male. Per fortuna tende a romperle alle persone giuste, non solo a Limes e agli amici. Agli accademici, per esempio. Quelli che sono pagati con i nostri sol­di anche per studiare le città del Duce, per spiegarle ai loro stu­denti e invece non gliene frega niente — delle città e in specie de­gli studenti. O che si ricopiano ben benino l'un l'altro e quando hai letto uno hai letto tutti. Pennacchi essendo fra l'altro un filo­logo e un archeologo — un genio rinascimentale, dunque — ha sca­vato le fonti per stabilire verità nuove e definitive in dottrina. A cominciare dal fatto che Remo era laziale. E pertanto ha fatto la fine che meritava. Il mio preside — quello del T. Tasso d'antan — avrebbe concluso: «Il rigore e l'acribia dello scienziato si sposano in Pennacchi con la vena lirica del purissimo uomo di lettere».

3. Domanda: ma al Duce Le città del Duce di Antonio Pennac­chi sarebbe piaciuto? Già qualcuna delle sue urbi non gli piaceva troppo. Forse gli mancava Pennacchi che gliela spiegasse. Però a Littoria col Duce continuano a parlarci. Quando lui scende, fan­tasmatico, dalla Guzzi su cui notturno solca il suo capolavoro pontino, su e giù, giù e su tra Appia e Fettuccia. Dicono sia spes­so di cattivo umore — niente da fare, i sindaci di Littoria gli pizzi­cano l'ulcera. Ma se gli chiedi di Pennacchi, s'accende: «Final­mente uno che m'ha capito! Se nasceva prima lo mettevo al Min­culpop, con l'interim dei Lavori Pubblici! Davo un calcio nel se­dere a Gentile e gli facevo rifare la Treccani dall'A alla Z!».I Cfr. A. PENNACCHI, Palude. Storia d'amore, di spettri e di trapianti, Don­zelli, Roma 1995.

XI


Per sua sfortuna, e a sommo scapito della cultura e della vita pubblica nazionale, Pennacchi non è diventato ministro. E a oc­chio e croce non lo diventerà — almeno in democrazia. Nel frat­tempo, anche per colpa di Limes, ha perso il predicato. Fino a un paio d'anni fa si firmava «Scrittore e operaio Fulgorcavi di Lati­na» (sì, Latina, non Littoria — il fedifrago, ma pare che il Duce non legga lo specimen degli autori e così non se n'è accorto). Oggi: «Scrittore». Punto e basta. Definitivo. Una bella fregatura. Per­ché ora che non ha null'altro da fare, continuerà a scoprire città del Duce a rotta di collo — sicuro anche in Australia. E siccome non si butta niente, fra tre anni vorrà pubblicare Le città del Du­ce, torno II — editore avvertito, mezzo salvato. Eppoí vai col tango, un serial come nemmeno Guerre stellari. Quanto a me, solenne­mente dichiaro a futura memoria che questa è la prima e ultima prefazione che gli faccio.
A meno che il Duce, quando si stuferà di ingarellarsi in moto dalle parti di Borgo Grappa e si ributterà in politica, non lo met­ta davvero al Minculpop. Allora il ministro Antonio Pennacchi renderà obbligatorio nei licei lo studio dell'opera omnia dello scrittore Antonio Pennacchi, al posto di quello sfígato di Manzo­ni. E imporrà all'Unesco di dichiarare le città del Duce patrimo­nio dell'umanità, con tanto di cerimonia di inaugurazione della correlativa mostra. Per il cui catalogo — compilato per direttissi­ma per mano dell'Ecc.mo Signor Ministro — mi offro fin d'ora di compilare l'introduzione. Aggratis pure quella.
(L. Caracciolo, 2003-2008)


PREMESSA DELL'AUTORE
Io nasco narratore. Storico mi ci sono dovuto fare perché non c'e­ra nessun altro. Solo per questo. Il mio vero mestiere è quindi quello di scrivere romanzi e racconti. Letteratura. Finzione. Arte, diciamo così. E così avevo cominciato pure questo viaggio. L'idea — a dire il vero — non era stata nemmeno mia. La colpa è tutta di Lucio Caracciolo che gli era piaciuto Palude. Aveva detto: «Facci dei raccontini per ogni città che ha costruito Mussolini» — era il 1998 e lui pure, all'inizio, credeva fossero ín tutto una decina — «te li paghiamo». E allora ho cominciato. Ma pure controvoglia. E so­lo perché me li pagavano. Ed erano pezzi così: letterari, solo let­terari. Tanto che il primo in assoluto — «Sabaudia» — neanche l'ho potuto inserire in questa raccolta, per tutti i colpi di inventio che m'erano venuti'. Ma poi un pezzo ha tirato l'altro, e una città al­tre dieci. Ho dovuto studiare, documentarmi. E più mi docu­mentavo, più m'accorgevo che gli altri — gli storici di professione, ivi compresi quelli dell'urbanistica o dell'architettura — ci aveva­no messo tutti più inventio di me. «Ah fresca», ho detto a un cer­to punto, «qua s'è ribaltato il mondo», e m'è toccato cambiare re­gistro: la storia vera la stavo a fare io, quelli fino adesso avevano raccontato Cappuccetto rosso. Ma a te pare che uno storico di professione possa continuare a dire per quarant'anni che il Duce
' Cfr. A. PENNACCHI, «Sabaudia», in Limes 1/1998; ora anche in Id., Shaw 150. Storie di fabbrica e dintorni, Mondadori, Milano 2006.




XIII


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ha fatto 12 città, senza accorgersi invece che ne ha fatte almeno 147, tra grandi e piccole? Dice: «Ma che vuoi che sia, è una que­stione di numeri». Sì, ma a te non pare che a numeri diversi deb­ba corrispondere diversa interpretazione? Tí pare proprio la stes­sa cosa? Dice: «Vabbe', ma abbiamo costruito tanto pure noi nel dopoguerra». Che ragionamenti. Sono buoni tutti, quando hai fatto i soldi e ti sei ritrovato la strada spianata. Ma quando le han­no fatte loro non c'era una lira e tutte le pianure del nostro Paese — soprattutto nel Centro-Sud — erano completamente abbando­nate da secoli. Erano almeno sette od ottocento anni che la gente s'era ritirata tutta sopra i monti; prima per la difesa dalle invasio­ni, poi per i latifondi e la malaria2. La pianura italiana era un de­serto, «un deserto paludoso-malarico» dicono i geografi. E quelli — tra gli anni Venti e i Quaranta — sono andati a riconquistarlo, con 147 nuove fondazioni. Hanno ripopolato la pianura. E tutto quel­lo che hai fatto tu dopo — ivi compresi purtroppo i disastri, poi di­ce la democrazia — lo hai fatto solo perché quelli t'avevano trac­ciato il solco.
Dice: «Vabbe', ma tu allora vuoi rivedere il giudizio?». Io non voglio rivedere niente, io voglio solo che per poter ragionare di storia lo si debba fare in maniera corretta, senza raccontarsi le fes­serie. Anzi, a dire il vero, ío il mio giudizio l'ho rivisto. E più di qualche volta. Man mano che facevo il viaggio. Andavo in una città, scavavo e ne trovavo altre dieci. Come fai a non rivedere i giudizi? A un certo punto m'ero pure stufato — «Qua non si fini­sce più», avevo detto a mia moglie — e ci eravamo fermati a 130 (ma se continui a scavare, sai quante ancora ne trovi? È l'ira di Dio. Quello era matto, aveva il mal della pietra). È stato un vero e proprio viaggio — un viaggio a tappe — in cui uno parte e chissà che s'aspetta; poi arriva, vede, gira e si rende conto che le cose stanno in un'altra maniera. Parti in un modo e arrivi in un altro.
2 Cfr. E. SERENI, Storia del paesaggio agrario italiano (1961); Laterza, Bari 1962; ma cfr. anche: Id., Il Mezzogiorno all'opposizione. Dal taccuino di un Mi­nistro in congedo, Torino 1948; Id., Terra nuova e buoi rossi — e altri saggi per una storia dell'agricoltura europea, Torino 1982. Per lo specifico pontino cfr. R. ALMAGIA, «La regione pontina nei suoi aspetti geografici» in AA.VV., La boni­fica delle paludi Pontine, Roma 1935; A. BIANCHINI, Storia e Poleografia della re­gione pontina nell'antichità, Roma 1939.

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Per questo alcuni saggi li ho lasciati sostanzialmente com'era­no su Limes — pure con qualche ripetizione o discordanza — pro­prio per non toccare e mantenere riconoscibili i cambiamenti dei punti di vista e delle prospettive. C'è un salto quindi tra i primi te­sti più letterari — fino a «Carbonia» non avevamo inizialmente in­serito neanche le note bibliografiche — e quelli più storiografici. Ma tant'è, un viaggio è un viaggio e all'unità stilistica del libro ho anteposto quella d'ogni tappa — la sua autonomia — poiché ho cre­duto potesse testimoniare meglio il processo di avvicinamento per gradi.
Chiunque scriva qualcosa però — come chiunque viaggi — è in qual­che modo debitore di tutti coloro che lo hanno preceduto. Gli han­no aperto i sentieri. In particolare, i miei debiti sono soprattutto verso i libri di Riccardo Mariani3 e di Lucia Nuti e Roberta Marti­nelli4, senza i quali — pur con tutte le tare che è abbastanza facile vo­lergli trovare trent'anni dopo — il mio non avrebbe neanche avuto la strumentazione di base per poter essere concepito.
Pure il titolo non è tutta farina del mio sacco. C'era già una co­pertina di Italia settimanale intitolata «Fascio e m artello»5, ma c'e­ra soprattutto Stanis Ruinas che aveva pubblicato un libro, Viaggio per le città di Mussolini', nel 1939. Come non riprenderlo?
Stanis Ruinas era forte. Era sardo. Il suo nome vero era Gio­vanni Antonio De Rosas, Stanis Ruinas è uno pseudonimo. Era un fascista, ma fascista di sinistra, che non vuol dire antifascista, ben­sì più fascista degli altri. Così si fa tutta la Rsi e si beve il suo cali­ce fino alla sconfitta. Ma dopo la guerra nemmeno gli basta. Con­tinua a battagliare. Da fascista. Solo che secondo lui il vero posto dei fascisti — quelli che hanno creduto davvero ai valori della Re­pubblica sociale — è a sinistra, al fianco stretto di socialisti e co­munisti. Fa pure un giornale, Il Pensiero Nazionale, che ancora nel 1977 continua ad attaccare senza tregua il Msi: «State a destra, siete traditori, il nostro posto è coi comunisti»
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Cfr. R. MARIANI, Fascismo e «città nuove», Milano 1976.
4 L. NOTI, R. MARTINELLI, Le città di Strapaese. La politica di «fondazione» nel ventennio, Milano 1981.
5 L'Italia settimanale, II, 6, 10 febbraio 1993.
6 S. RUINAS, Viaggio per le città di Mussolini, Milano 1939.



XVIII



Quasi quasi, per lui, gli antifascisti veri stavano nel Msi. Era un «fascista rosso»', e per lui era quello il fascismo autentico: fronte unito coi comuni­sti. Dice: «Ma era matto». Ma sarai matto tu. Arriva alla fine e ne riparliamo.
La prima versione di questo libro — che raccoglieva i saggi appar­si su Limes dal 1999 — era uscita nel luglio 2003 come Viaggio per le città del Duce, per i tipi della Terziaria-Asefi di Milano del com­pianto Gianfranco Monti, che molto si era dedicato, e con affet­to, a questo lavoro. Gli sia lieve la terra, come diceva Brera, e ri­posi in pace.
Questa edizione riprende solo in parte quel testo. Diversi pa­ragrafi o capitoli sono stati interamente riscritti; altri, come l'In­ventario dei siti o città fondate, aggiornati con le nuove acquisi­zioni; altri ancora — i più caduchi — eliminati. Certo la storia resta quella, ma è un altro libro. Pure Manzoni il suo lo ha fatto tre vol­te e ci ha messo vent'anni. All'inizio si chiamava Fermo e Lucia, poi lo ha riscritto come Gli sposi promessi e infine I promessi spo­si. Anche lì si tratterebbe sempre della stessa storia, ma sono tre libri diversi. Assai diversi.
Io l'unica cosa che non ho toccato — si può dire — è l'apparato di note e bibliografia, e non per pigrizia filologica o mero scrupolo di chi dica: «Io quei testi li ho scritti allora e quella era allora la bi­bliografia», che pure avrebbe comunque un senso. Non è peraltro che dal 2003 non sia uscito nient'altro sull'argomento. Anzi. Sege­zia nel 2000 — quando apparve la prima volta su Limes8 — non la co­nosceva nessuno. Adesso ne scrivono tutti quanti — senza magari ci­tare la fonte — e tutti quanti scrivono monografie e miscellanee su Petrucci o le città del Duce. Il problema però è che tutto quello che
7 Cfr. P. BUCHIGNANI, Fascisti rossi. Da Salò al Pci, la storia sconosciuta di una migrazione politica. 1943-53, Milano 1998. Sulla questione cfr. anche: L.L.
RIMBOTTI, Il fascismo di sinistra. Da piazza San Sepolcro al congresso di Verona, Roma 1989; G. ACCAME, Il fascismo immenso e rosso, Roma 1990; G. PARLATO, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, Bologna 2000; Id., Fascisti sen­za Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia. 1943-1948, Bologna 2006; L. LANKA, F. Rossi, Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Firenze 2003.
8 Cfr. Limes, 2/2000, 3/2001.












XIX










è uscito — a parte pochissime eccezioni, inserite ovviamente in te­sto o bibliografia — non sembra avere apportato alcunché di nuo­vo, quando non ha piuttosto aggiunto confusioni o errori, spesso marchiani, nella stessa identificazione e censimento dei siti di «nuova fondazione». Per gli eventuali dettagli — quando pure ne­cessari — si rimanda ai saggi usciti nel frattempo su Limes tra 2003 e 20089, e che faranno parte davvero, se Dio ci darà salute e buona grazia, di un nuovo Viaggio per le città del Duce-2.
(A. Pennacchi, 2003-2008)
9 Cfr. su tutti: A. PENNACCHI, «La crisi del cinema, le città nuove e i falsi sto­rici», in Limes 3/2006, pp. 307-319.












FASCIO E MARTELLO
VIAGGIO PER LE CITTÀ DEL DUCE










E' il libro che manca nella tua ibreria































Il Giornale.it
n. 4 del 2009-01-04





Il veterano della marcia su Roma a 103 anni ha battuto i comunisti











di Stefano LorenzettoStamattina l’ospite della camera Orione, la numero 116, ha sonnecchiato fino alle 8 e adesso non si dà pace: «Proprio non capisco che cosa mi sia successo. Da una vita mi sveglio alle 5 in punto. Sa, voglio essere il primo ad andare in bagno, così sono sicuro di non trovarci nessuno». La casa di riposo Molina di Varese non è certo una caserma, ma sono 103 anni, quasi 104, che il comandante Bruttomesso, da buon fascista della prima ora, ci tiene a farsi trovare pronto, non meno del suo idolo: «Sorge il sole, canta il gallo, Mussolini monta a cavallo».Alle 9.30 s’è già sbarbato e vestito da solo. Scatta in piedi dalla poltrona senza bisogno che nessuno gli porga il braccio. Per precauzione lo obbligano a camminare con due stampelle, ma si vede benissimo che potrebbe trasformarle da un momento all’altro in armi bianche. Camerata Vasco, presente! Sempre. Primo ad arrivare al comizio del Duce a Udine, «fra andata e ritorno 120 chilometri in bici sui sassi». Primo a fondare, a 18 anni, una sezione del fascio nel suo paese natale, Annone Veneto, «insieme col conte Nico Frattina, che era figlio del medico condotto». Primo universitario a partire da Firenze, dove studiava ingegneria, per la marcia su Roma, «28 ottobre 1922, ecco qua l’attestato di partecipazione firmato da Mussolini e dai quadrumviri Italo Balbo, Emilio De Bono, Cesare Maria De Vecchi e Michele Bianchi», e dunque ultimo fra i viventi («se ce n’è un altro si faccia avanti, avrò piacere di conoscerlo») a poter vantare d’aver partecipato in diretta all’inizio dell’era fascista. Primo ad arrivare ogni 28 aprile a Giulino di Mezzegra per la messa di suffragio e il saluto romano davanti al cancello di Villa Belmonte, dove nel 1945 il Duce fu giustiziato con l’amante Claretta Petacci (o meglio, secondo gli storiografi di destra, venne inscenata dai partigiani la fucilazione dei loro cadaveri), «fino a dieci anni fa ci arrivavo da solo con la mia Golf 1600, purtroppo dopo una marcia a piedi di 18 chilometri non ho più visto la strada, un buco nella retina, mi hanno ritirato la patente».Ma soprattutto primo, a memoria d’uomo, ad aver accettato alla sua veneranda età di candidarsi alle elezioni. Domenica scorsa s’è presentato con la Fiamma tricolore al Comune di Tradate e ha ottenuto 5 preferenze, 7 in meno del capolista Fernando Corrias, «ma con la soddisfazione d’essere arrivato all’1,93% dei voti, contro l’1,60 dei Comunisti italiani».Vasco Bruttomesso, sergente degli alpini passato dalla Milizia volontaria per la sicurezza nazionale alla Repubblica sociale italiana, non ha marciato solo su Roma. Ha scalato il monte Bianco col suo amico Evaristo Croux, la guida valdostana che nel 1897 portò il Duca degli Abruzzi sulla vetta del Sant’Elia, in Alaska, e nel 1931 espugnò l’Upsala, il più esteso ghiacciaio della Patagonia. Fino a 97 anni ha corso la Prenimega, maratona di 43 chilometri fra le province di Varese e Como, «29 ne ho fatte, ma dopo che Beniamino Andreatta, allora ministro della Difesa, vietò la presenza dei militari, che venivano con le bande e le bandiere, quella gara non mi ha più scaldato il cuore». In compenso nel 2003 avrebbe voluto festeggiare il secolo di vita partecipando come sempre alla Stramilano, «purtroppo tre giorni prima del 6 aprile sono caduto e mi sono rotto il femore, peccato, avevo già pagato l’iscrizione».Adesso al massimo può marciare sul refettorio, dove le premurose infermiere apparecchiano un tavolo tutto per lui. Fino a sette mesi fa condivideva la mensa con la moglie Roberta, «aveva 18 anni meno di me, dormiva nella camera di fronte alla mia, è morta il 5 novembre, un tumore del sangue». I figli di 62, 61 e 58 anni, due maschi e una femmina sposata col giudice Paolo Aliquò Mazzei, vengono a trovarlo regolarmente. Da un ventennio, periodo fatale, ha trovato un fedelissimo attendente volontario in Vincenzo Biotti, figlio di un ufficiale della XVI brigata nera Dante Gervasini, un tecnico petrolifero in pensione che ha lavorato per l’Agip in tutti i Paesi arabi, dall’Algeria all’Iran, ed è diventato per Bruttomesso un quarto figlio. Chi gliel’ha fatto fare di candidarsi alla sua età?«La fede nell’ideale. Una certa esperienza amministrativa ce l’ho. A partire dal 1953 sono stato commissario prefettizio e poi per tre mandati sindaco di Carbonate. La prima strada asfaltata per la gente che andava a prendere il treno a Locate Varesino l’ho fatta io. La rete fognaria pure. Il municipio e le scuole anche».Oggi le darebbero del cementificatore.«Alla quarta elezione la Dc, nella quale mi presentavo come indipendente, è venuta a chiedermi se potevo rinunciare a un po’ di preferenze. Ho detto di sì per generosità. Lì ho sbagliato, perché se ne sono subito approfittati per mandarmi a casa. Peccato. Ero in trattativa con l’ingegner Guidali delle Ferrovie Nord per far fermare il treno anche a Carbonate. Le spese della stazione sarebbero state a carico del Comune. Un bell’impegno, perché quelli erano tempi di tassa famiglia, soldi non ne avevamo».E dove sarebbe andato a trovarli?«Mi ero rivolto a un ministro delle Finanze di Como, un liberale. “Io le faccio avere i mutui”, mi disse, “ma lei deve gonfiare un po’ i bilanci”. Mi dispiace, gli risposi, queste cose non le ho mai fatte e mai le farò».Quanto guadagnava come sindaco?«Neppure un caffè. Anzi, ci ho rimesso».In che senso?«L’imprenditore edile che aveva costruito le scuole insistette perché fossi padrino di battesimo del figlio. Potevo andare a mani vuote? Mi toccò comprare catenina e medaglietta d’oro. Eccolo il mio guadagno. Poverino, ci teneva tanto alla presenza del sindaco. Anni dopo si suicidò buttandosi da un palazzo».Oggi gli amministratori comunali sono stipendiati.«Non me ne parli. Io convocavo Giunta e Consiglio ogni quattro mesi. Questi qui si riuniscono tutti i sabati. Per forza, ogni volta pigliano il gettone di presenza da noi cittadini».L’avrei vista meglio nel Msi, mezzo secolo fa.«Gliel’ho già detto: ero indipendente. Infatti quando la Dc mi pose l’aut aut, o prendi la tessera o non ti candidiamo più, mollai la politica. Ma poi, scusi, Andreotti, Fanfani, Moro che cosa crede che fossero? Andreotti scriveva per la Rivista del Lavoro, pubblicazione di propaganda fascista. Fanfani, che firmò il manifesto della razza, insegnava economia corporativa alla Cattolica di Milano. Tutti fascisti fino all’8 settembre. Il 9 settembre tutti antifascisti. Persi un fratello per colpa del voltafaccia».Come si chiamava?«Celso. Era capitano d’artiglieria. Nel 1943 si trovava in Slovenia. All’annuncio dell’armistizio il comandante dell’XI Corpo d’armata diede l’ordine di consegnare le armi ai partigiani di Tito. Arrivarono i tedeschi, trovarono gli ufficiali disarmati. Contarono: uno ogni dieci. Alla fine per terra restarono 29 fucilati, fra cui mio fratello. Però la colpa non fu dei tedeschi. Fu dei voltagabbana. A cominciare dal generale, che nel frattempo era tornato a Roma in aereo. Immagini il dolore di mio padre. Scrisse una lettera e fece il giro dei giornali. “Lei ha ragione”, gli dicevano i direttori, “ma non possiamo pubblicarla”».E lei che cosa fece l’8 settembre?«Avevo combattuto come volontario sul fronte greco-albanese, in Croazia e in Dalmazia col comandante Aldo Resega. Prima che fosse firmato l’armistizio stavo per rientrare in Italia. Ci tennero in quarantena alle Grotte di Postumia perché infuriava il tifo petecchiale. Arrivati col treno a Sasso Marconi, il battaglione fu sciolto. È stato il dispiacere più grande della mia vita».Come mai era partito volontario?«Ero amico d’infanzia di Resega. Fu lui a farmi entrare nella Rsi. Il 13 settembre divenne federale di Milano. A novembre ci furono parecchi attentati partigiani. Il comando tedesco stava per ordinare una rappresaglia: dieci civili fucilati per ogni soldato morto. Resega riuscì a fermarla. Il Pci clandestino lo condannò a morte proprio perché impediva la guerra civile. Fu ucciso a tradimento da un commando gappista la mattina del 18 dicembre 1943 mentre usciva disarmato dalla sua abitazione di via Bronzetti per andare a prendere il tram. Ai funerali i cecchini partigiani cominciarono a sparare dalle finestre sul corteo che seguiva il feretro. Ci fu un fuggi fuggi generale. L’unico che mise mano alla rivoltella e rispose al fuoco fui io».Della marcia su Roma che cosa ricorda?«Che partii da Firenze senza neppure indossare la camicia nera. Dopo Orte il treno venne fermato in mezzo alla campagna dai ferrovieri. Quelli sono sempre stati rossi, è noto. Proseguimmo a piedi. Se il re avesse firmato lo stato d’assedio, sarebbe stato un massacro».E il ritorno?«Su un autocarro, un Fiat 18 BL della Disperata di Alessandro Pavolini».Mussolini ha fatto qualcosa di sbagliato?«Di sbagliato... A dir la verità...». (Ci pensa). «So che è stato una persona onesta, e questa è la cosa più importante. Ha fatto le bonifiche, ha dato le case al popolo, ha costruito Sabaudia, Littoria, il ponte che collega Venezia alla terraferma. Qualcosa avrà sbagliato... Non so».Ha fatto le leggi razziali.«Le ha subite. Per non irritare Hitler, che detestava. Ma il Duce non era per niente d’accordo. E io neppure. Avevo una fidanzatina ebrea che abitava a Milano, al numero 10 di via Mac Mahon. Era già maestra a 15 anni. Si figuri se non l’avrei salvata». (Si commuove).Ha perseguitato gli oppositori.«Bugie e strabugie. Tutta una montatura. Li mandava in vacanza al sole, sulle isole. Mica come Stalin che li spediva a morire di fame e di freddo in Siberia o gli sparava un colpo alla testa. Aiutò economicamente la famiglia di Anteo Zamboni, l’attentatore linciato dalla folla nel 1926 a Bologna. Un atto barbarico, come ebbe a definirlo il Duce. E anche quell’altra là...».Violet Gibson?«Bravo. Espulsa dall’Italia e rimandata in Irlanda. Per espresso desiderio di Mussolini non scontò neppure un giorno di galera. E sì che lo aveva ferito di striscio al naso con una pistolettata». Antonio Gramsci ne fece parecchia, di galera.«Però, quando s’ammalò, il Duce lo fece scarcerare e poté essere ricoverato alla clinica Quisisana di Roma».Lei è cattolico?«Sì, certo».Pio XI, pochi giorni prima di morire d’infarto, aveva steso un documento in cui condannava il fascismo.«Questo me lo dice lei. So che quando c’era il Papa re, nello Stato pontificio i ladri li impiccavano».Perché Dio avrebbe dovuto stramaledire gli inglesi?«Comandavano mezzo mondo: India, Australia, Gibilterra, il Canale di Suez... Avevano in mano tutto loro».E l’impero coloniale dell’Italia fascista? «Ma gli inglesi andavano solo per prendere, non per dare, come facevamo noi».Preferisce i musulmani o gli ebrei?«Gli ebrei. Gli islamici ci ricattano col petrolio. In Italia li coccoliamo. Andreotti è sempre stato in affari con gli sceicchi, da ministro dell’Industria permise la costruzione della moschea di Roma. Vergogna!».Ma non fu Mussolini a donare le colonne in marmo di Carrara per la moschea di Al Aqsa a Gerusalemme e a ricevere la Spada dell’Islam a Tripoli?«Appunto. In Libia, non in Italia. Era amico dei musulmani, ma fuori dai nostri confini».Che cosa pensa dei politici di oggi?«Fanno pietà. Destra, sinistra, centro... Non ce n’è uno che valga. Che cosa sono tutte queste liste?».Quello che detesta di più?«Fausto Bertinotti. Da sindacalista voleva le 35 ore settimanali. Ho diretto il cotonificio Tosi. Avevo sotto di me 500 operai, purtroppo. So di che parlo. Mai fatto un giorno di ferie. Dicevano che ero cattivo. Invece ero solo severo. Finché ci sono stato io, niente commissione interna, si lavorava anche quando gli altri scioperavano. Ero un po’ fascista».Come mai non milita in Alleanza nazionale?«In principio Gianfranco Fini parlava di Mussolini come dello statista più grande del secolo. Andava a Gorizia, s’aggrappava alla rete sul confine sloveno e gridava: “Di là è Italia!”. Mi piaceva. Poi è andato in Israele a dire che il fascismo è stato il male assoluto. Ma che ne sa lui? È nato nel 1952. Come fa a sparlare del fascismo se non l’ha neppure visto?».In che cosa credevano i giovani degli Anni 20?«Nell’amor patrio. Mio padre, farmacista come mio nonno, perse tutto nella guerra del ’15-’18. Fu l’ultimo ad attraversare con moglie e sette figli il ponte sul Piave poco prima che saltasse in aria. Di là non restò in piedi neanche la scala di casa. Io, ragazzino, andavo a raccogliere la lana con la quale mia madre faceva le calze per i nostri soldati in trincea».Dei giovani d’oggi che cosa pensa?«Hanno in mente soltanto i soldi, vogliono farli in fretta e senza lavorare. Anche qui dentro, sa? Se un’impresa vince l’appalto per un’opera che si potrebbe ultimare in un anno, stia pur certo che ce ne mette tre o quattro».Ha mai tradito sua moglie?«Non potevo farne a meno».E glielo diceva?«Glielo dicevano gli altri. Io negavo».Come passa le sue giornate?«Male. Non ho nessuno con cui parlare».Pare che la scienza riuscirà presto a farci arrivare a 120 anni. Una fregatura o una fortuna?«Spero solo che non sia vero».È stanco di vivere?«Un pochino sì. Il dolore nel vedere che i propri cari perdono la salute è la peggiore delle malattie».Pensa spesso al dopo?«No, mai. Tanto comanda quello che sta su». (Punta l’indice verso l’alto). «Il padrone di casa è sempre uno solo. Dipende tutto da lui».Che cosa vorrebbe che scrivessero sulla sua tomba?«Fedele fino alla morte».(378. Continua)stefano.lorenzetto@ilgiornale.it
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LA GIL DI NETTUNA
Ritrovato a Roma un prezioso reperto dell’Era Fascista











Il Prof. Alberto Sulpizi di Nettuno, noto ricercatore e fine conoscitore delle tradizioni nettunesi, ha ritrovato nella Capitale un prezioso oggetto: il fregio metallico che contrassegnava la sede della Gioventù Italiana del Littorio di Nettunia Centro.
Il fregio era affisso sul portone del Palazzo baronale in Piazza Guglielmo Marconi, nel borgo.
Nel 1937, l’allora Commissario Prefettizio Aurelio Leoni aveva demolito i caseggiati siti tra il suddetto palazzo e la Collegiata dei Santi Giovanni Battista ed Evangelista, ricavandone un’ampia piazza.
Proprio quell’anno, l’Opera Nazionale Balilla prendeva il nome di Gioventù Italiana del Littorio.
Quando si decise di trovare più funzionali spazi per l’educazione dei giovani nettunesi, la scelta cadde proprio sul prestigioso Palazzo baronale.
La sede della GIL era all’ultimo piano dell’edificio, mentre all’entrata venne costruito un piccolo sacrario dedicato ai Martiri Fascisti.
Nei magazzini sottostanti, invece, furono sistemate le varie attrezzature della premilitare.
Il nome della piazza fu adottato nel 1939, per omaggiare il grande scienziato Guglielmo Marconi, membro del Gran Consiglio del Fascismo.
Centinaia furono i giovani nettunesi assistiti ed educati nelle strutture dell’ONB e della GIL poi.
L’organizzazione delle Colonie marine e montane di questa istituzione rimangono un primato rimasto imbattuto.
Tutto si concluse con la caduta del Fascismo, il 25 luglio 1943. Il giorno seguente, un gruppo di esagitati vilipese i simboli del Regime ed “assaltò” la Casa del Fascio e la sede della GIL, ormai deserte.
Bastò l’intervento di due Carabinieri Reali per riportare un minimo di ordine.
Durante i vari atti di vandalismo, andò perduto il fregio metallico della GIL, strappato – nel vero senso della parola – dal grande portone e gettato a mare.
Nessuno avrebbe mai ritrovato quel simbolo.
Invece, nell’estate 2005, un sommozzatore – esperto di archeologia – trovò qualcosa di strano tra la sabbia dei fondali, nell’acque antistanti allo stabilimento balneare “Vittoria”: era il simbolo della GIL di Nettunia, aveva attaccato ancora un pezzo di portone…
Dopo un accurato restauro, venne venduto all’antiquario Angelo Curati di Roma. E’ qui, in Via delle Terme di Diocleziano, che il Prof. Sulpizi è riuscito ad “intercettare” il prezioso reperto dell’Era Fascista.
Grazie alla professionalità di questo ricercatore nettunese, tra i più intelligenti amanti delle cultura che Nettuno abbia mai avuto, il fregio della GIL è potuto tornare alla “sua” Nettuno.
E’ un frammento di storia restituito ai Nettunesi e, soprattutto, alle generazioni future, perché sappiamo amare la Storia patria e da essa imparare per crescere.
Grazie Alberto.

Pietro Cappellari
Ricercatore Fondazione della RSI – Istituto Storico




















Da il Giornale.it
n. 293 del 2008-12-07 pagina 6










L’uccisione del notaio dà il via alla guerra civile










di Redazione










Filippo Marana, tra i fondatori del Fascio di Recco, fu trucidato nella sua villa di Megli, il 5 luglio 1944. I responsabili non furono mai individuati. L’inchiesta riaperta negli anni ’70 per iniziativa del giudice Sossi










Secondo il Gimelli - storiografo della Resistenza in Liguria - si trattò di un'azione dei GAP, fonti locali attribuiscono l'omicidio Marana ad un gruppetto di individui effettivamente gravitanti nell'ambito della Resistenza e questa seconda ipotesi appare la più verosimile.Di fatto, il vecchio notaio Filippo Marana venne rinvenuto cadavere nella sua villa di Megli, sulle alture di Recco, verso le ore 18 del 5 luglio 1944: colpito violentemente al cranio da corpo contundente ed attinto da due colpi di pistola automatica. Ultimo di una antichissima famiglia di notai in Recco, Marana era stato sindaco della città durante la prima guerra mondiale e si distinse sempre per generosità d'animo e per le iniziative benefiche verso i combattenti ed i loro congiunti. Stile e signorilità contribuirono a farne un personaggio, estroverso e, di profonda cultura classica, fu un perfetto dannunziano come ancor oggi testimoniano le citazioni del Vate scolpite sui marmi sparsi nel parco della villa dove visse.Fu tra i fondatori del fascio di Recco - il terzo d'Italia - e, verso il tramonto del regime, se ne allontanò per pura scelta critica e di contestazione. Infine, per la coerenza che lo distinse in tutte le sue vicende di vita, si sentì di dover comunque aderire alla Repubblica Sociale Italiana pur senza entusiamo e così partecipandovi passivamente.La sua eliminazione va letta in quest'ultima sua scelta e fu uno dei più odiosi delitti perpetrati nei confronti degli avversari: secondo il Pisanò, l'omicidio di Marana segnerà l'inizio della guerra civile nel levante ligure.Ovviamente è rimasto delitto insoluto e, come da collaudato copione, chi sapeva o aveva visto non si trovò nell'immediatezza del fatto né si recuperò più quando, agli inizi degli anni settanta, il caso venne riaperto dall'allora Sostituto Procuratore della Repubblica dottor Mario Sossi. Il moventeAssunto che la vittima era un buon obiettivo politico, che era benestante, che - pur benvoluta - esprimeva pubblicamente il suo disprezzo per alcuni malandrini locali, in merito all'omicio possono desumersi i seguenti moventi: a) delitto «politico».b) crimine commesso da ladri colti sul fatto.c) vendetta di alcuni recchelini oggetto di severa pubblica condanna verbale da parte della vittima a seguito di comportamenti disonesti.Nella vicenda Marana va aggiunta anche l'ipotesi di due bersaglieri, disertori del vicino presidio, che per mezzo del delitto avrebbero accreditato il loro transito all'altra parte: quest'ultima ipotesi, anche se verosimile, appare assai confusa e contrasterebbe nettamente le risultanze del citato Gimelli.Semmai, e questa è la versione più accettabile, il Marana potrebbe essere stato eliminato dai due soldati disertori accompagnatisi però ad un gruppetto di partigiani di indiscutibile colore. Ed una eventuale presenza di soldati sarebbe provata dal rinvenimento sulla scena del crimine di un paio di scarponi sfondati di foggia militare (abbandonati rotti e sostituiti con le scarpe civili sfilate direttamente dai piedi del cadavere).Rimane tuttavia impensabile come non possano essere mai usciti i nomi dei due militari poiché, pur nella confusione di quei momenti, avrebbe dovuto esistere un generico organigramma sulla dislocazione e composizione numerica ed anagrafica dei reparti in zona e comunque non avrebbe dovuto rivelarsi così difficoltoso individuare i nominativi di eventuali disertori.Tale mancanza verrebbe tuttavia giustificata dalla grave disorganizzazione e confusione del momento che non permise alcun efficace accertamento. Né, successivamente, il caso venne mai più considerato con la conseguente perdita di ogni documento utile (la sua riapertura negli anni '70 fu estremamente intempestiva per il raggiungimento di qualsiasi scopo investigativo).L'ipotesi dell'omicidio premeditato è la privilegiata, ovvero un delitto organizzato dagli altri nei confronti di una nota figura di «fascista buono»: il colpire i buoni fu metodo successivamente molto utilizzato con la finalità di suscitare le sistematiche generiche rappresaglie dell'ala interventista ed intransigente della RSI, azioni che in breve avrebbero provocato l'indebolimento del consenso popolare e anzi la pubblica avversione.Gli assassini, per quanto il risultato di un'indagine effettuata dal Centro Ricerca Criminalistica di Genova, potrebbero essere arrivati da Capreno (frazione di Sori) ed uniti ad almeno due soggetti di Corticella (Testana): i condizionali sono di obbligo stando l'impossibilità di raggiungere la certezza di prova causa una perseverante omertà di chi già ci ha già confidato troppo e comunque facendolo in modo defilato. I delinquenti non sarebbero più in vita e se ancora qualcuno avesse resistito alla vecchiaia, nulla avrebbe più da temere poiché quei reati sono stati annullati dall'intervento delle successive sanatorie.La scena del crimineMarana, quasi ottantenne, venne rinvenuto circa due ore dopo l'aggressione, steso bocconi in una pozza di sangue in fondo all'ingresso di casa ed accanto alla scala a chiocciola che portava ai piani superiori. Gli aggressori si trovavano in attesa, già all'interno dell'abitazione. Marana proveniva da un vicino rifugio di fortuna contro gli effetti dei bombardamenti aerei ed il cadavere verrà ritrovato dalla domestica (anch'essa ospite del rifugio) insospettita per non aver visto il notaio far ritorno. Egli portava sempre con sé uno sten (pistola mitragliatrice a canna corta, arma trovata su di un tavolo accanto al cadavere) che nulla gli sarebbe servito poiché aggredito da più persone e senza possibilità di difesa.Nulla vieta di pensare comunque ad un estremo tentativo di sottrarsi messo in atto dalla vittima. Una minima colluttazione potrebbe essere desunta dall'iniziale evento traumatico (colpo alla testa) non causato dal fatto di aver urtato contro spigoli o in seguito alla caduta sul pavimento. Il cadavere presentava due fori da proiettili di rivoltella sparati da vicino: uno sotto lo zigomo destro ed uno nel collo. Assenza di rigor mortis e presenza di calore corporeo riportano ad una fascia temporale breve tra l'atto ed il rinvenimento (ciò da ricognizione esterna eseguita dal dottor De Barbieri, medico condotto di Recco, che rilasciava il certificato di morte). Non seguì alcuna perizia autoptica né alcuno dei presenti ha mai esaminato l'eventuale ritenzione dei proiettili o l'eventuale presenza di fori d'uscita. Sta di fatto che ad un recente sopralluogo nella villa non é sfuggito che il soffitto della stanza vicino al punto del delitto presenta ancora traccia di due colpi che sono riconducibili a proiettile di rivoltella (il soffitto, artisticamente lavorato, non è mai stato toccato da alcuno dei successivi proprietari della villa). Nella scena del crimine i mobili apparivano a posto, inesistenti segni decisi di lotta, nessun oggetto (molti ve ne erano di valore) trafugato, a parte l'orologio d'oro della vittima. Unica presenza interessante: il paio di scarponi rotti di tipo militare ed una «pezza da piedi» che i militari usavano al posto delle calze. Comunque, sia la presenza degli scarponi sfondati, l'esclusivo furto dell'orologio avendo tralasciato altri costosi beni in evidenza (compreso del denaro rinvenuto anche nei vestiti di Marana) inducono alla conclusione di una esecuzione con tentativo di parziale alterazione della scena del crimine (attività depistante).La riapertura del casoSu pressione di diversi concittadini, il caso Marana fu riaperto nel 1971. Se ne occupò l'allora Sostituto Procuratore della Repubblica dottor Mario Sossi che si avvalse dell'équipe medico - legale composta dal professor Athos La Cavera e dal dottor Sergio Bistarini. Vennero rintracciate le autorità che, al momento, erano presenti e si occuparono alla vicenda. Si convocarono cittadini di Recco che si riteneva in qualcosa avessero potuto aiutare ma neanche la legge del tempo consegnò all'indagine migliori risultati.Si trovarono invece difficoltà ad individuare l'effettivo luogo di sepoltura del Marana che, tumulato subito in una tomba provvisoria del cimitero di Megli, dovette essere poi traslocato nelle mura al di fuori del camposanto e senza alcuna utile indicazione. Solo con l'aiuto del becchino dell'epoca si poté individuare il posto dell'ultima sepoltura. Dall'esame dei resti, reperiti ben conservati, altro non si ebbe che la conferma dei fori da proiettili né la salma, di per sé, non avrebbe potuto presentare alcun altro elemento utile all'investigazione.Un sincero ringraziamento al Sig. Vincenzo Carbone, attuale proprietario della Torre dei Marana in Megli per l'ospitalità ricevuta e la disponibilità offerta agli operatori dal Centro Ricerca Criminalistica di Genova che hanno curato il presente lavoro.*Presidente CentroRicerca Criminalistica Genova
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Da il Giornale.it
n. 292 del 2008-12-06 pagina 10










Viaggio senza ritorno di 39 repubblichini giustiziati a Cadibona










di Redazione
Nel maggio del 1945 l’eccidio per mano dei partigiani. La ricostruzione di Nicolick
Sessantatré anni dopo la Liberazione ancora molti sono i tabù sui fatti e misfatti avvenuti all'ombra del 25 aprile. E quando qualcuno prova a parlarne, non mancano le polemiche. Dopo il famoso caso Pansa, suscitato a seguito della pubblicazione de «Il sangue dei Vinti», ha fatto scalpore a Savona la pubblicazione di «Trentanove biglietti di sola andata», un libro che va rivangare la cronaca di una strage avvenuta a Cadibona nel maggio 1945, di cui tutti sanno poco nulla e di cui nessuno ha molta voglia di parlare. A tirare fuori i faldoni di scartoffie dagli archivi e le cronache cittadine dei quotidiani dell'epoca è il lavoro paziente di Roberto Nicolick, ex consigliere di centrodestra in Provincia di Savona, autore del libro edito dalla savonese «L. Editrice».Il viaggio nella storia ci riporta indietro a pochi giorni dal crollo del regime. I biglietti di sola andata di cui parla Nicolick sono quelli di trentanove repubblichini del Savonese, intercettati dai partigiani di una brigata di Alessandria e accompagnati in un viaggio senza ritorno, concluso sul ciglio di una strada provinciale dell'entroterra ligure da un'arbitraria sentenza di morte.«Nella scrittura dei manuali di storia - racconta Nicolick - finisce inevitabilmente che si creino zone di luce e coni d'ombra». Alcune storie vengono così raccontate e altre restano per anni nel dimenticatoio, nelle caverne del ricordo di qualche superstite, ormai sempre più raro. Finché qualcuno non decide di spolverare quegli accadimenti e raccontare così quello che il processo della storia ha liquidato con minore attenzione. «Ma niente a che vedere con il revisionismo storico - precisa -, nessuno vuole mettere in discussione quanto studiosi ben più qualificati di me hanno tramandato nelle loro ricerche. Il mio intento è semplicemente quello di raccontare una storia dimenticata, ma che parte da fatti realmente accaduti, atti processuali scritti nero su bianco, cronache dei quotidiani, testimonianze orali autentiche». Una storia che si può dire quasi inedita. Esiste solo qualche accenno nel libro di Gianpaolo Pansa e qualche altro piccolo riferimento nel testo «La stagione del sangue» di Massimo Numa.Siamo nel maggio del 1945, dicevamo, quando i partigiani di una brigata di Alessandria fermano una sessantina di repubblichini. «Depredati e arrestati - racconta l'autore - attendono che un autobus da Savona li venga a prendere. Le donne subiscono uno stupro collettivo, mentre gli uomini vengono trasportati alla caserma di Altare, in provincia di Savona, dove subiscono un pestaggio». I prigionieri vengono fatti scendere dal soprannominato «autobus della morte», si racconta nel libro, e vengono caricati su di un camion che li condurrà verso la loro ultima destinazione. Al km 142 della strada provinciale che da Savona porta ad Altare, infatti, vengono tutti uccisi a colpi di mitra, seppelliti in una fossa comune e coperti di calce viva. «A distanza di tutti questi anni - continua - di alcune salme non si conosce l'identità. Oggi riposano nel cimitero delle croci bianche di Cadibona, località dell'entroterra, dove sono seppelliti partigiani e repubblichini». Degli autori dell'eccidio, così come delle vittime, si conoscono nomi e cognomi. «Ho scelto però di pubblicare per intero solo i nominativi delle vittime - spiega - mentre dei partigiani che hanno compiuto la strage ho preferito indicare soltanto le iniziali, per evitare che i figli oggi in vita debbano subire i riflessi di colpe che non sono loro». Per Roberto Nicolick questo è il primo esperimento letterario, ma gli è già costato qualche minaccia. Nuovi spunti sono in cantiere per altri libri simili: «Desidero suscitare una riflessione - conclude - e rompere il tabù che da sempre copre gli anni della Resistenza». Perché - come recita la dedica del libro - «i morti non devono avere bandiere, devono avere rispetto».© SOCIETÀ EUROPEA DI EDIZIONI SPA - Via G. Negri 4 - 20123 Milano
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Accadde domani, 15 novembre 1891: nasce Erwin Rommeldi Giacomo Bonessa

Il 15 novembre 1891 nasce a Heidenheim, cittadina tedesca del Württemberg a circa 50 chilometri da Ulm, Erwin Johannes Eugen Rimmel. Il padre Erwin senior è professore di matematica, la madre Melene von Luz è figlia del presidente del Württemberg. La futura “Volpe del deserto” è un bambino docile e molto attaccato alla madre ma d’ingegno precoce. A 14 anni, con l’aiuto di un amico, costruisce un aliante e sogna di diventare ingegnere per lavorare sui dirigibili Zeppelin. A 19 anni, però, seguendo i voleri del padre, si arruola nel 124° Reggimento di fanteria come ufficiale cadetto. E’ l’inizio di una carriera straordinaria che lo porterà a essere uno dei generali più geniali e ammirati della storia. La Prima guerra mondiale lo vede impegnato sui fronti francesi, italiano e rumeno con il corpo d’elite degli Alpen Korps. Colleziona tre ferite e tre medaglie, compresa la più prestigiosa, “Pour le merite” che si merita durante la battaglia di Longarone. Con un audace colpo di mano fa 9mila prigionieri e un bottino impressionante.
IN CATTEDRA. Nel primo dopoguerra Rimmel è comandante di reggimento e istruttore alla Scuola di fanteria di Dresda, all’Accademia di guerra di Potsdam e nel 1938, ormai colonnello, viene messo a capo dell’Accademia di guerra di Wiener Neustadt. Poco tempo dopo passa però al comando del battaglione di protezione personale di Adolf Hitler. E il 22 1939, a pochi giorni dall’invasione della Polonia, è promosso generale di divisione.
LA “VOLPE DEL DESERTO”. Nel 1940 partecipa all’invasione della Francia a capo della 7° Panzerdivision. L’abilità nel comando gli vale la nomina, decisa da Hitler in persona, di comandante delle truppe tedesche in Africa. Ed è alla guida dell’Afrika Korps che Rommel consolida la sua fama di condottiero brillante e spregiudicato. Le sue avanzate lo portano a sbaragliare le truppe inglesi, conquistare Tobruk, entrare in Egitto fino a El Alamein. Intorno a questa piccola stazione ferroviaria, a cento chilometri dal Cairo, verranno combattute due grandi battaglie, entrambe vinte dagli inglesi, preponderanti per uomini e mezzi. Dei nostri soldati Rommel dirà: "Il soldato tedesco ha stupito il mondo, il bersagliere italiano ha stupito il soldato tedesco”. Promosso feldmaresciallo, affronta anche il corpo di spedizione americano in Tunisia nella celebre battaglia al passo di Kasserine. Poi si ammala e torna in patria, restando a lungo inattivo.
L’INVASIONE. Il 10 luglio 1943 Rommel ottenne il comando del Gruppo d’armate B, responsabile della difesa della costa francese contro una possibile invasione alleata. I suoi piani, pur contrastati da von Runstedt e da Hitler, diedero buoni frutti, ostacolando l’invasione. Il 18 luglio l’auto su cui viaggiava venne mitragliata da un aereo britannico e Rommel rimase gravemente ferito alla testa.
L’ATTENTATO. Il 20 luglio 1944 sfuggì a un attentato ordito da alti generali dell’esercito e la sua vendetta si scatenò anche contro Rommel, sospettato di essere fra i congiurati. Il Fuhrer lo mise di fronte all’alternativa: un disonorevole processo pubblico o il suicidio con il cianuro. Rommel scelse il cianuro. Morì il 14 ottobre 1944 e venne seppellito con un grande funerale di Stato


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Via dedicata ai partigiani killer

di Emanuele Conti

La loro vittima? Non la merita Contessa massacrata con i tre figli nel ’45. A Lugo di Romagna non le intitolano una strada: «Forse simpatizzava per la Rsi»

Ravenna Piatto e nebbioso. L’orizzonte politico della Bassa Romagna riflette la morfologia di questa terra affogata nelle brume, dove spazio e tempo restano sospesi. A Lugo di Romagna l’orologio della storia si è fermato. E l’amministrazione si limita a controllare il bendaggio dell’illustre mummia, la Resistenza. Quella che - comunque la si chiami - non si processa.L’antico dogma è stato ribadito il 16 ottobre scorso quando il consiglio comunale, a maggioranza di centrosinistra, ha rigettato la proposta di intitolare una strada alla contessa Beatrice Manzoni, massacrata con i tre figli e la domestica da un commando di partigiani comunisti il 7 luglio 1945. L’occasione era storica: fare un primo passo verso quella pacificazione che nel ravennate tarda ad arrivare. Ancora oggi da queste parti non sono poche le famiglie che serbano rancore per vicende di oltre 60 anni fa. I superstiti e i loro discendenti non mancano di ricordare le tragedie passate e ad ogni ricorrenza si rinnovano il dolore e un odio malcelato. «Compagni, non sbagliate più!», esortava il quotidiano locale La Voce di Romagna alla vigilia del voto del 16. Ma il gesto di riconciliazione non è arrivato. Anzi.Il Consiglio comunale di Lugo non solo ha negato l’omaggio alla contessa, ma ha provato perfino a infangare la memoria di una donna definita nell’ordine del giorno presentato da Forza Italia «di carità, di benevolenze e di fede adulta e responsabile». I consiglieri azzurri, su sollecitazione del mondo cattolico, credevano che i tempi fossero maturi per ricordare degnamente la contessa, presidentessa internazionale della conferenza femminile di San Vincenzo de’ Paoli, morta gridando ai propri carnefici «Io vi perdono».Invece ben altri sentimenti hanno guidato la discussione tenutasi nella quattrocentesca rocca estense sede del Comune di Lugo: nel dibattito è venuto fuori di tutto. Che i Manzoni, proprietari terrieri molto in vista, vessavano i contadini e che la contessa Beatrice era iscritta alla Repubblica Sociale Italiana. Prove? Solo qualche vago indizio. Chiacchiere di paese più che altro. Calpestando una sentenza passata in giudicato - emanata nel 1954 dalla Corte d’assise d’appello di Ancona -, Pd e sinistra radicale hanno celebrato un processo popolare. Alle vittime, naturalmente. Sui 13 partigiani comunisti condannati prima all’ergastolo, poi a 19 anni e infine beneficiati dell’indulto, neanche un fiato.Il vicesindaco, l’ex margheritino Fausto Cavina, si è trovato un po’ a disagio ma poi ha sentenziato: «Non possiamo buttare via la Resistenza». Difatti, a proposito dei responsabili, ha avuto la delicatezza di evitare il termine partigiani: «Sono stati dei banditi, delle schegge impazzite». Con una decisione pilatesca il sindaco Raffaele Cortesi ha creduto di togliersi dall’imbarazzo assicurando un «tavolo di confronto aperto a tutti» per intraprendere «un percorso di riconciliazione». E per farlo non ha trovato di meglio da fare che affidare ulteriori indagini sul caso ai custodi dell’ortodossia, l’istituto storico della Resistenza. Il quale, per bocca del direttore provinciale Giuseppe Masetti, quasi ha anticipato l’ennesima sentenza: «Dai primi elementi della nostra ricerca emerge un legame stretto di collaborazionismo della famiglia e della contessa con i tedeschi occupanti». E dunque, niente strada e tanto disonore.In realtà, della vicenda dei conti Manzoni si sa già molto. L’eccidio è piuttosto noto anche al di fuori della Romagna. Anche Giampaolo Pansa nel «Sangue dei vinti» riporta il massacro dell’estate del ’45 quando la contessa Beatrice Manzoni Ansidei, 64 anni, fu rapita dalla villa di famiglia, la Frascata, assieme ai figli Giacomo, 41 anni, Luigi, 38 e Reginaldo, 36. La fedele domestica Francesca Anconelli , 51 anni, condivise la loro stessa sorte. Il gruppo di partigiani autore del blitz portò gli ostaggi a Villa Pianta, nelle campagne tra il Santerno e il Reno. Lì avvenne il massacro. Fu ucciso perfino il setter dei conti, temendo che potesse far ritrovare i loro corpi, sepolti tra i filari di viti. Non mancò neanche una macabra iniziazione: il colpo di grazia al conte Luigi fu fatto tirare a un quattordicenne. Meno fortunato fu Reginaldo, sepolto vivo dopo essere stato bastonato a lungo. Un’orchestrina suonava in un casolare vicino, a coprire le urla dei disgraziati.I corpi furono scoperti solo tre anni più tardi grazie alla tenacia dei carabinieri, più forti del clima di omertà e dei continui tentativi di depistaggio - «I conti? Sono emigrati in America», si diceva - provenienti perfino dalla questura di Ravenna, dove infiltrati comunisti si facevano capire a suon di minacce dai funzionari dello Stato.Eppure la Corte d’assise d’appello di Ancona tratteggiava un disegno criminoso complesso, preparato a lungo, un’esecuzione «freddamente organizzata»: un delitto commesso per odio di classe contro i detestati «padroni» in attesa della rivoluzione. E per i giudici della Corte di assise di primo grado di Macerata gli imputati tennero «un contegno abominevole, coprendo di veleno e di fango i vivi e i morti». Non basta. Così come non conta neppure il grossolano tentativo di autocalunnia architettato dal Pci per tirare fuori dai guai i 13 sotto processo: dalla Cecoslovacchia sette partigiani si autoaccusarono degli omicidi fornendone una descrizione dettagliata per evitare «un irreparabile atto di ingiustizia». Le toghe non abboccarono e i 13 imputati originari furono tutti condannati. Certo, il vero colpo da maestro del collegio di difesa fu ottenere l’indulto per tutti a causa del «movente politico». Cosicché, di gattabuia, gli assassini dei conti Manzoni ne fecero veramente poca. Nell’estate del ’54 erano già liberi.Tutto questo non basta e soprattutto non conta. L’istituto storico della Resistenza adesso è chiamato ancora a fare luce sull’episodio, deve accertare se la contessa era iscritta alla Rsi; come se quella tessera potesse giustificare la strage o, quantomeno, il bando dalla toponomastica sinceramente democratica di Lugo.Eppure per Silvio Pasi, in arte comandante Elic, 28 anni fa non ci furono tante storie. Ebbe la sua brava strada a Conselice, con tanto di taglio del nastro e banda cittadina. Pasi fu ritenuto dai giudici marchigiani la mente dell’eccidio di Villa Pianta. Non partecipò in prima persona ma in quanto capo partigiano della Bassa Romagna, secondo la Corte, non poteva non sapere. Era, insomma, il mandante. Ma nel 1980 si preferì ricordarlo come capo della Cgil di Faenza nell’immediato dopoguerra. Oggi da Lugo fanno sapere che era «un bandito». Chissà se toglieranno la targa.C’è poi un altro «bandito» a cui sono stati tributati onori postumi. Si chiama Ettore Martini ed è stato uno degli esecutori materiali del delitto dei Manzoni. Quando morì, il comune di Cervia lo ricordò ufficialmente. Martini, condannato anche per altri reati commessi durante la guerra civile, ai tempi del processo riparò in Unione sovietica per rimpatriare solo dopo la concessione dell’indulto. Fu eletto consigliere comunale a Cervia e negli ultimi anni di vita veniva mandato nelle scuole a raccontare quanto era stata bella ed eroica la Resistenza in Romagna. Roberto Zoffoli, sindaco della cittadina di vacanza preferita dai vip, lo ha pianto assieme agli altri amministratori.Era il giugno del 2006, un giorno qualsiasi smarrito nelle nebbie del tempo.



Da Acta Gennaio – Marzo 2003


NOSTRI ARDITI PARACADUTISTI

di Marco Di GiovanniI reparti paracadutisti che avevano seguito le unità tedesche in occasione dell'8 settembre, avrebbero costituito il nucleo di partenza per la formazione, in parte spontanea e comunque inizialmente indipendente da qualsiasi apporto delle competenti autorità repubblicane, di unità poste alle dirette dipendenze dei comandanti tedeschi al fronte sud.
II Raggruppamento Rizzatti, rientrato nella penisola alla fine di settembre, era stato trasferito a sud di Roma, nella zona di Maccarese, dopo avere raccolto singoli militari e nuclei di paracadutisti sbandati. Ad esso vennero aggregati i nuclei provenienti dalla Calabria, agli ordini del capitano Sala, e delle scuole laziali, guidati dal capitano D'Abbundio.
Centri di reclutamento del personale, brevettato o meno che fosse, vennero stabiliti a Roma e Firenze, con Pistoia e Padova come depositi provvisori. A Spoleto venne istituito un centro di costituzione ove i reparti sarebbero stati riorganizzati e addestrati da istruttori tedeschi, per essere poi inquadrati da ufficiali dell'XI Fliegerkorps che incorporava quelle unità italiane nella sua 4' divisione paracadutisti. Fra la fine del 1943 ed i primi mesi del 1944, sulla base di vari apporti di personale si venne così formando presso quel centro addestramento una unità organica, destinata ad assumere, in una fase immediatamente successiva, la denominazione "Reggimento Italiano Paracadutisti presso l'XI Fliegerkorps". Nei primi mesi del 1944, un nucleo, forse una compagnia di formazione, del reparto venne addirittura inviato per un corso di paracadutismo alla Scuola tedesca di Friburgo. Una decisione che tendeva, da un lato, alla formazione di base del personale destinato ad azioni dietro le linee alleate, da un altro punto di vista rivestiva carattere simbolico, venendo a costituire una garanzia di continuità, seppure soltanto formale, alla tradizione del corpo. Stimolo per i volontari in afflusso, garanzia di una funzione militare e cemento di coesione per l'organismo in formazione. Segnale della serietà delle intenzioni di impegno mostrate dai tedeschi, ed anche della scarsa fiducia di fondo nei confronti della preparazione dei quadri italiani, fu l'invio in Francia di alcuni ufficiali paracadutisti, fra i quali lo stesso maggiore Rizzatti, per un corso di perfezionamento.
Una prima occasione di impiego per i reparti in formazione a Spoleto fu costituita dai tentativi controffensivi sviluppati dai tedeschi contro la testa di ponte alleata ad Anzio. In tale occasione, a partire dal 12 febbraio, venne chiamato ad operare un nucleo di circa 300 uomini, il battaglione "Nembo", composto in parte da reduci dalla Sardegna ed in parte da personale reclutato nei mesi precedenti.
Tra il 16 e il 20 febbraio il reparto partecipò ai combattimenti subendo forti perdite che imposero assai presto il suo ritiro in posizione arretrata per riorganizzazione. Ad Ardea esso assunse la denominazione celebrativa "compagnia Nettunia‑Nembo", e sarebbe stato rinforzato da complementi, non di rado assai giovani e privi di preparazione militare, provenienti direttamente dal centro di reclutamento costituito a Roma.
Parallelamente agli sviluppi che abbiamo delineato, anche l'Aeronautica repubblicana aveva intrapreso, autonomamente, la costituzione di reparti paracadutisti. L'afflusso di un gruppo di istruttori delle scuole regie di Tarquinia e Viterbo ai bandi del mese di ottobre, consentì la creazione del nucleo di una nuova scuola di specialità, insediata nel corso di novembre a Tradate, presso Varese, con attrezzature raccolte nel Lazio ed appoggiata per il settore di volo ai vicini aeroporti di Venegono e Lonate Pozzolo. Presso il nuovo organismo‑scuola, denominato inizialmente Centro Istruzione Paracadutisti, al comando del capitano Luigi De Santis, si procedette dunque alla costituzione di un "Raggruppamento Arditi Paracadutisti dell'Aeronautica" posto al comando del Colonnello Dalmas e formato da personale già brevettato o raccolto presso un centro di reclutamento a Milano. Nata probabilmente allo scopo di valorizzare una delle poche risorse disponibili per sviluppare un contributo bellico per il quale scarseggiavano altri mezzi specifici per l'arma, la Scuola poté assumere una funzione effettiva (seppur assai limitata) per il complesso dei reparti paracadutisti della Repubblica Sociale solo a partire dalla primavera del 1944 e con aerei concessi per l'occasione dai tedeschi, quando anche il reparto dell'Aeronautica, in corso di faticosa costituzione, venne destinato all'inserimento nel reggimento che l'XI Fliegerkorps stava formando a Spoleto.
A questi intenti rispose anche l'impulso di razionalizzazione che, relativamente ai mezzi disponibili, toccò la specialità, la cui appartenenza passò all'Aeronautica repubblicana, da cui dipendevano Scuola e attrezzature e, verosimilmente, l'aliquota più numerosa del personale in addestramento. Scelta che, ricalcando il modello tedesco, tendeva a confermare, almeno sul piano dell'immagine esterna, la plausibilità di un ruolo militare e di un'identità di grande tradizione per quei reparti, il cui mito si rivelava ancora capace di raccogliere e canalizzare le sempre più rare spinte favorevoli alla repubblica ed al suo impegno militare a fianco dell'antico alleato.
Un mito che trova immediata conferma nella frequente presenza di reparti qualificati come "paracadutisti" fra quelli che popolavano il confuso quadro delle forze armate della repubblica fascista, e che vengono qui ricordati solo per orientamento del lettore. Sin dal novembre del 1943 la Guardia Nazionale Repubblicana aveva costituito nei pressi di Brescia un reparto "paracadutisti", denominato anch'esso inizialmente "Fulgor" e composto solo in minima parte di paracadutisti brevettati, in parte "attirati" da altre unità in costituzione. Il reparto avrebbe operato, sin dalla tarda primavera del 1944, solo in operazioni antipartigiane anche se, in funzione essenzialmente simbolica. Una aliquota di esso effettuò un breve addestramento lancistico presso la Scuola di Tradate nel luglio del 1944.
Un altro accenno in merito alla nebulosa di questi reparti va fatto a proposito del reparto N.P. (nuotatori paracadutisti) inquadrato nella "Decima Mas" e che aveva trovato inizialmente le sue basi in un piccolo nucleo del battaglione specializzato costituito dalla regia marina in vista delle operazioni in Mediterraneo. In realtà esso costituì essenzialmente una unità di fanteria, impegnata in azioni antipartigiane culminate nelle operazioni del dicembre 1944 nei pressi di Gorizia, e condivise identità e destino della "Decima", che pure risultano in gran parte affini, quando non coincidenti, con quelle dei reparti al centro della nostra attenzione. Solo un nucleo del battaglione mantenne una relativa specificità d'arma, operando per singoli elementi con funzioni informative o di sabotaggio dietro le linee alleate. Un'attività interessante più per i legami che rivela con piccoli ed isolati gruppi di neofascisti al sud che per i riferimenti di fondo dei suoi protagonisti, in genere non incardinati ad una identità di carattere collettivo e di corpo.
L'impegno bellico dei paracadutisti italiani al fronte sud, ed in generale contro gli alleati, si sarebbe esaurito nel corso del breve cielo di operazioni interno a Roma, che vide impegnati gli uomini del reggimento "Folgore" a copertura dell'arretramento generale del fronte. Anche in questa occasione i reparti, l'entità dei quali può essere stimata intorno alle 1.000 unità, avrebbero operato separatamente, impegnati per tamponare le falle più larghe dello schieramento difensivo senza assolvere ad alcune funzione organica. Suddivisi tra Cisterna, Castel di Decima e Pratica di Mare i reparti avrebbero subito dal 27 al 4 giugno perdite pesanti, cui si aggiunse un'altissima quota di dispersi e prigionieri, tale da decurtarne pesantemente la consistenza. Raccolti e riordinati a Firenze, i resti dell'unità sarebbero rientrati a Tradate, in vista della costituzione di un nuovo reggimento. II bilancio delle perdite dei paracadutisti nel corso di quel ciclo operativo avrebbe trovato una enfasi particolare nella relazione stessa dal generale Tessari al momento della sua sostituzione quale sottosegretario all'Aeronautica, nell'agosto del 1944, che enfatizzava il ruolo di punta attribuito a quei reparti nel contributo bellico dell'arma. I dati che ne emergevano risultano comunque interessanti.
Sui 946 uomini del reggimento impiegati in linea, si segnalavano "40 caduti accertati", "458 non rientrati", "54 feriti". Per quanto riguardava invece il battaglione "Nembo" nel complesso della sua partecipazione alle operazioni, dal settembre del 1943 al giugno del 1944, sui 495 uomini portati in linea si erano avuti "73 caduti", "251 non rientrati", "148 feriti". Un bilancio pesante nel suo complesso, e che indica nella sua struttura l'obiettiva situazione di caos in cui quei reparti vennero a trovarsi soprattutto nelle operazioni finali, con una frantumazione che avrebbe favorito numerosi cedimenti, testimoniati dalla rilevante quantità dei dispersi.
Fra i caduti era anche il maggiore Rizzatti, cui è stata concessa una medaglia d'oro alla memoria. In effetti, nel corso di una cerimonia svoltasi nel mese di luglio presso la Scuola di Tradate, ai reparti vennero concesse numerosissime decorazioni, una vera pioggia di medaglie pari a circa il 20% della forza in linea, che segnala l'eccezionale enfasi istituzionale per quello che si era rilevato come uno dei rarissimi contributi reali alla guerra contro gli alleati. Tale circostanza, che si intrecciava al solido mito combattentistico che circondava la specialità e il nome della "Folgore", avrebbe favorito il consolidarsi di una tradizione interna destinata a tradursi in cupa epopea, tramandata nel dopoguerra, con autocompiaciuta enfasi sui dati della morte e del sangue, attraverso i canali tutti interni quanto solidi e duraturi della memoria dei reduci, e soprattutto degli apologeti, della repubblica fascista.
(*) da I PARACADUTISTI ITALIANI, Capitolo settimo.
In oltre 300 pagine Marco Di Giovanni analizza, da antifascista, le gesta del Corpo di élite più famoso delle nostre Forze Armate.
Il Capitolo settimo (pagine 291‑317), dal quale ACTA trae i brani meno faziosi, così inizia "Esula dagli intenti di questo studio una ricognizione puntuale delle vicende organizzative ed operative che riguardano le unità dei paracadutisti italiani costituiti e comunque operanti sotto le insegne della RSI".


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Inviato: Ven Set 26, 2008 12:38 pm Oggetto:
Don F. Bonifacio, infoibato in odio alle fede, diventa Beato


INFOIBATO IN ODIO ALLA FEDE, BEATO BENEDETTO XVI FIRMA IL DECRETO
“Con grande gioia annuncio alla Chiesa Cattolica che è in Trieste, alle Chiese Sorelle di Capodistria e di parendo e Pola ed alle altre Chiese e Comunità cristiane presenti a Trieste che il Santo Padre Benedetto XVI in data 3 luglio 2008 ha riconosciuto il martirio del Venerabile Servo di Dio Don Francesco Bonifacio, ucciso in odium fidei l’11 settembre 1946 …. Trieste, 3 luglio 2008 + Eugenio Ravignani, Vescovo di Trieste”. Questo l’annuncio seguito a quello della Sala Stampa della Santa Sede, rivolto alle tre diocesi istriane e all’Orbe Cattolico. Gli Esuli giuliani, istriani e dalmati sono in fermento per la grande celebrazione e proclamazione del Beato Francesco Bonifacio, organizzata per il sabato 4 ottobre 2008 a Trieste, alla Basilica Cattedrale di San Giusto. Un processo che era sempre stato seguito con attenzione dal Vescovo di Trieste. Già nel 1998 S.E.Rev.ma Mons. Eugenio Ravignani ricordava il Rev. Don Francesco Bonifacio come un uomo, un sacerdote che “non sarebbe stato fermato nemmeno dalle intimidazioni che, negli anni bui della persecuzione religiosa in Istria, lo raggiungevano”. Sotto l’occupazione dei partigiani comunisti titini l’Istria, la Venezia Giulia e la Dalmazia subirono un inenarrabile terrore. Messe a tacere tutte le persone scomode, lontane per idea e formazione dall’ideologia marxista-leninista. Ogni giorno fucilazioni lungo le strade, sequestri e sparizioni, stupri, rapine, violenze d’ogni genere. Sotto tiro dei carnefici titini soprattutto la Chiesa e gli italiani, non soltanto “fascisti” o presunti tali. “Come passano i giorni ? Tra delusioni e paure”, scrive Don Francesco nel febbraio 1946. Ma non fuggi, non abbandonò il gregge, il suo popolo, non rinunziò al sacro ministero, all’ufficio di ministro di Cristo, non indietreggiò di fronte alle minacce. Furono tagliate le funi delle campane e la sua chiesetta fu imbrattata di scritte oltraggiose della Religione di Cristo. Era in pericolo grave ma volle restare coi suoi fedeli. Al tramonto dell’11 settembre 1946, all’età di 34 anni, tornando a casa dopo un giro di confessioni a Grisignana, fu fermato da due partigiani comunisti “guardie popolari”. Un contadino che era nei campi si avvicinò ai carnefici e chiese loro di lasciar andare il suo curato, ma fu allontanato e minacciato di morte. Don Francesco Bonifacio fu spogliato e deriso, proprio come Cristo. Accecati dall’odio omicida , lo colpirono con pugni e calci. Il sacerdote si accasciò continuando a pregare. I carnefici tentarono di zittirlo colpendolo a sassate in faccia, ma il parroco pregava ancora. Lo finirono a colpi di pietra e gettarono il suo corpo nella foiba di Martines, a 180 metri di profondità. “Incontrare un fiore in una giornata gelida, mentre le raffiche di vento ululano sinistre, penetrano nelle case e spazzano le campagne, accende nell’anima la certezza che la terra non è un deserto senza speranza. Don Francesco Bonifacio, nella stagione violenta della guerra e del dopoguerra, fu tale fiore, dai colori tenui, ma splendido. Poi la tempesta lo divelse”. Così l’Arcivescovo Antonio Santin ricordava il Beato. La causa di Beatificazione iniziò nel 1957 su iniziativa dell’Arcivescovo istriano Antonio Santin. Sua Santità Pio XII morì l’anno successivo. Seguirono anni di silenziosi imbarazzi attorno ai crimini comunisti titini: sia a Roma coi governi democristiani dell’apertura a sinistra - per due generazioni i nostri giovani sapevano e sanno ancora poco o punto del genocidio delle foibe … - che in Vaticano, con l’ost-politik montiniana. Sua Santità Benedetto XVI ha riconosciuto finalmente, dopo mezzo secolo, “il martirio in odio alla Fede” di Don Bonifacio, il giovane ordinato sacerdote a 24 anni nella Cattedrale di San Giusto e trucidato dieci anni dopo, da curato in Istria, di Villa Giadrossi, tra Buie e Grisignana. In questi villaggi rustici portava il verbo cristiano e riuniva i giovani nell’apostolato. La Chiesa Cattolica, Trieste, l’Istria, la Venezia Giulia e Dalmazia, la storia si vedono dunque riconoscere il primo Beato martire per la Fede, assassinato e precipitato nelle foibe. Al suo nome si aggiungerà, con modi e tempi che la comunità cristiana dell’Istria e tutti gli Esuli attendono, quello del Servo di Dio Don Miro Bulesic, vicerettore del Seminario di Pisino, ucciso il 24 agosto 1947 dai miliziani titini, con una coltellata alla gola, nella canonica di Lanischi. Anche per Don Miro fu “martirio in odio alla Fede”.
Fernando Crociani Baglioni



8 Settembre 1944 : Un triste ricordo
“…Mi trovavo il di che compivo 19 anni, il 14 agosto 1944, con quattro patrioti della la Brigata 'Osoppo" di base ad Attimis a presidiare una postazione con mitragliatrice sui colli di Savorgnano al Torre.
Una mattina scorgemmo una numerosa colonna di nostri avversari che attraversava il Torre all'altezza di Zompitta. Quando ritenemmo fosse a tiro, aprimmo il fuoco con la mitragliatrice, ma questa si inceppava continuamente (era russa a nastro, preda bellica) per cui il tiro non fu efficace. Apprendemmo che la colonna raggiunto Povoletto si insediò nell'edificio della scuola e dintorni. Un paio di settimane più tardi questo presidio fu attaccato da formazioni osovane e garibaldine (allora alleate) e dopo alcune ore di sparatorie a seguito di un paio di colpi di bazooka centrati attraverso le finestre gli avversari si arresero e fatti prigionieri. Si contarono circa 200 fra carabinieri e guardie di finanza, una decina di Militi della Polizia Stradale ed alcuni appartenenti alle Brigate Nere; altri di questi ultimi riuscirono a fuggire nascondendosi fra le canne di mais ed evitarono la cattura.
Fu confermato che i prigionieri furono suddivisi fra le formazioni che avevano partecipato all'attacco. Parte dei carabinieri e guardie di finanza passarono nelle nostre file; anzi fra gli osovani trucidati da Giacca e compagni al Bosco Romagno di Spessa c'erano alcuni di essi, presi a Porzus; dei Militi della Stradale non sono a conoscenza della loro fine: ricordo le loro meravigliose Guzzi color celeste scuro che in seguito furono assegnate ai porta ordini. Dei militi delle Brigate Nere catturati, tre furono presi in consegna dalla "Osoppo".
Ai primi di settembre 1944 in seguito ad una recrudescenza di febbre e dolori reumatici fui costretto ad abbandonare la postazione sui colli di Savorgnano e rientrare al battaglione. Passai per Forame dove era l'infermeria della la Brigata ed ivi uno dei nostri in camice bianco che fungeva da sanitario, portava gli occhiali, non molto alto, biondo, mi diede come terapia mezzo tubetto di aspirina. Più tardi seppi che era lo studente in medicina Franco Celledoni di Faedis, che catturato il 7 febbraio 1945 a Porzus fu anch'egli trucidato assieme agli altri osovani al Bosco Romagno di Spessa da garibaldini di Giacca.
Ero presente nel giugno 1945 sul luogo quando ci fu l'esumazione dei morti; accanto a me era il sacerdote don Celledoni, fratello, che tramite la camicia lo riconobbe per un lembo di tela che si era portato appresso.
Ricevute le compresse di aspirina mi recai presso una famiglia che avevo conosciuto precedentemente, nel Borgo Salandri di Forame.
Questi mi offlirono un letto e colme tazze di latte bollente con miele. Forte dei miei 19 anni, dopo un paio di giorni stavo già meglio, sfebbrato e pronto a riprendere l'attività.
Era una mattina di sole domenica 8 settembre, Festa della Madonna, suonavano le campane e dall'abitazione raggiunsi una fontana che si trovava in una piazzetta di fronte alla casa, per la pulizia personale e radermi, quando vidi venirmi incontro quattro giovani che io ritenni fossero dei nostri di cui uno solo era armato di mitra. Avevano sete e bevvero alla fontana. Allora mi accorsi che tre di loro, i non armati indossavano dei maglioni neri a girocollo e pantaloni grigioverdi con il rabbuffo alla caviglia. Mi sembrò strano il loro abbigliamento e chiesi al patriota armato chi fossero. Mi risposero: " Brigate Nere, li porto alla fucilazione nel Cimitero perché vogliono rimanere fascisti". Compresi che erano i prigionieri catturati a Povoletto. Li osservai meglio e notai che il più anziano dei tre di circa 35‑40 anni già lo conoscevo. Mi confermò che era dì Cividale, già commesso nel negozio di ferramenta Orter, nell'angolo nord‑ovest di Piazza del Duomo; conosceva mio padre ma non si ricordava di me che andavo spesso in ferramenta ad acquistare chiodi od altra merce. Portava un cognome di origine slava come Juretig che non ricordo con precisione. E secondo prigioniero era un ragazzo alto, magro con pizzo biondo, sui diciotto anni circa, studente al Liceo di Udine e si chiamava Luigi Sciacca. E terzo, il più giovane, sembrava un ragazzino, di quindici anni, pure lui studente di Udine e si chiamava Aldo Celano. Mentre si dissetavano alla fonte dopo avermi raccontato questi dati, aggiunsero che erano disposti a morire per le loro idee per l'Italia fascista e per il Duce. Cercai di convincerli ad abiurare alla loro fede politica; che non valeva la pena dì morire per un regime che aveva portato l'Italia alla rovina, alla perdita della libertà, all'occupazione straniera; la guerra stava per terminare con la loro sconfitta, ma soprattutto che avrebbero potuto salvare la vita.
A nulla valsero i miei tentativi di convincerli, mentre sulle loro labbra appariva un sorriso di schemo. E patriota armato che li accompagnava sollecitò la prosecuzione del percorso sull'irto viottolo che portava al Cimitero di Forame, distante 200‑300 metri in linea d'aria sopra la fontana. Si incamminarono sulla salita in colonna, mentre l'uomo con il mitra stava in coda. Avevo compreso il motivo del rumore di badili che proveniva dall'alto, dal Cimitero.
Ebbi un pensiero terribile. Senza dubbio anch'io se mi fossi trovato prigioniero in simili condizioni mi sarei comportato come loro; nel frattempo finii di lavarmi. Non li segui verso il Cirmitero; dopo un po' sentii un grido che mi sembrò di interpretarlo come Viva l'Italia, Viva il Duce, soffocato dalle raffiche dei mitra..."
Firmato : Patriota della "Osoppo" Dino Comelli ‑ 10.2.1995
Caterina Brizzon.
... Caterina Brizzon, giovane ausiliaria, una ragazza di 17 anni prima fu portata in una casa disa­bitata e qui violentata da un gruppo di partigiani che dopo l'uccisero, sembra a colpi di piccone e badile..." (nda : per altri dopo la violenza con un colpo alla nuca)
(Testimonianza raccolta dall'avv. G. Bellinetti, lettera del 12.11.91)

Le uccisioni di cosacchi.
E. B. e S. C. nel '44 hanno ucciso una coppia di cosacchi, la donna in stato di gravidanza in località Avilla di Buia. Sempre S. C. nello stesso periodo ha ucciso un cosacco sul torrente Ledra in località Casasola per derubarlo di una vecchia bici e 100 lire. In località Avilla nell'ottobre 1944 L. B. e D. 0. hanno assassinato due cosacchi che stavano falciando dell'erba in un campo per derubarli di due cavalli, poi li hanno spogliati e gettati nella roggia che distava circa 200 metri...
(Testimonianza resa all'autore, 1991)

L'uccisione delle Ausiliarie RSI Baroni e Brizzon.

E 31.10.44 la volontaria, giovanissima ausiliaria della RSI Caterina Brizzon fu uccisa da partigiani con un colpo alla nuca. Enorme fu l'impressione a Udine. Dopo qualche giorno si seppe che il corpo era stato individuato e partì per il recupero della salma l'ausiliaria Angela Baroni con un autista. Arrivati al Cimitero di Buia, presero il corpo della Brizzon e dopo averlo ricoperto con un telo lo caricarono sul sedile posteriore dell'auto. La Baroni si sedette accanto all'autista mentre un gruppetto di partigiani si avvicinò ed uno di loro gli strappò la borsetta, forse alla ricerca di denaro. Trovò la foto di un giovane in uniforme repubblicana ‑ Chi è? ‑chiese ‑ è mio figlio rispose la Baroni ‑ non appena finita la risposta una scarica di mitra la uccise. L:autista riuscì a partire e ad arrivare a Udine. Solo per la saggezza dei comandi di Udine non vi fu una dura rappresaglia, anche perché ci fu un'unanime biasimo, anche da parte antifascista, sull'azione compiuta su una donna che attendeva ad una pia opera di sepoltura.

Le Brigate Azzurre.
" ... Erano formate da spagnoli che avevano combattuto contro i russi sul fronte orientale. Verso la fine della guerra furono poi concentrati in Austria ed in parte spostati in Italia "contro i fuorilegge". Un reparto fu insediato a Colloredo.

1 partigiani ne uccisero uno a Buia il 14.3.45, poi sepolto nel Cimitero della Madonna con il nome Josè Janeiro Novo da S. Vincente de Negradas (Lugo)..."
(Rif : Pietro Menis, Tempo di Cosacchi, Ed. Buttazzoni, S. Daniele 1949)

LETTERA APERTA ALL’ASSESSORE DOTT.SSA ALESSANDRA TIBALDI
Gentile Dottoressa,
come Voi sarete senz’altro al corrente, nelle scorse settimane, l’Italia dell’8 settembre 1943 e del 25 aprile 1945 si è di nuovo “infiammata” per le dichiarazioni politicaly incorrect degli attuali Sindaco di Roma e Ministro della Difesa.
Vista la situazione che perdura in Italia sin dalla mia tenera infanzia, non era assolutamente mia intenzione mischiarmi in questo genere di polemiche.
Siccome, però, Voi avete sentito il dovere di esprimerVi, in nome e per conto dell’attuale Sindaco di Roma e del Ministro della Difesa (in seguito all’invito che l’Ausiliaria della Decima MAS Raffaella Duelli aveva rivolto a questi ultimi), mi vedo anch’io costretto a scendere in campo. In particolare, per prendere le difese di chi, purtroppo, essendo morto, non è più in grado di difendersi. Oppure, la Vostra celebre “Guerra di liberazione” l’avete fatta da soli, senza nessuno sull’altro fronte?
Essendo un assiduo frequentatore del Campo della Memoria, considerandomi un uomo libero e ritenendomi personalmente offeso per le Vostre dichiarazioni, mi sono deciso a risponderVi con una lettera aperta, in modo che tutti possano giudicare il significato ed il senso delle Vostre parole.
L’articolo in cui erano riportate le Vostre dichiarazioni, si apriva con un Vostro invito al Sindaco di Roma e al Ministro della Difesa a non visitare il Campo della Memoria.
Chi era colei che si rivolgeva al Sindaco di Roma e al Ministro della Difesa, per quel tipo di “invito”? Da quale pulpito veniva la “predica” e, soprattutto, da quale poltrona “democratica” venivano espressi certi “consigli”?
Quando ho letto il Vostro nome – scusatemi l’ignoranza – mi sono chiesto: e chi è Alessandra Tibaldi?
Continuando a leggere l’articolo, la mia curiosità veniva soddisfatta: la Tibaldi è, nientepopodimenoché… l’Assessore al lavoro, alle pari opportunità e alle politiche giovanili della Regione Lazio.
Ma che strano! Pensavo che un Assessore a cotante difficili ed impegnative problematiche si occupasse esclusivamente di lavoro, di pari opportunità, di politiche giovanili. Invece, no: dissertava liberamente su quello che un Sindaco ed un Ministro della Repubblica – secondo il suo soggettivo ed arbitrario punto di vista – dovevano o non dovevano fare.
Si sa, in “democrazia”, ognuno fa quello che gli pare… (anche se questo caso di figura – secondo Aristotele – è piuttosto l’anarchia!) e, quindi, tali parole non dovevano più di tanto suscitare o provocare la mia meraviglia, né tanto meno la mia reazione.
Se il Vostro problema personale, che Vi angoscia così tanto, al punto da dover emettere un accorato e lancinante comunicato stampa, era quello dell’eventuale visita del Sindaco di Roma o del Ministro della Difesa al Campo della Memoria, non dovrebbe preoccuparVi più di tanto. Come avrete senz’altro letto, le immediate e fulminati reazioni del Presidente della Camera erano già state sufficienti, di sé per sé, a rimettere immediatamente in riga i due estemporanei e momentaneamente sediziosi aspiranti “colonnelli”.
Parliamoci chiaro, gentile Assessore. Il Campo della Memoria è un cimitero di guerra italiano. E’ gestito dal Ministero della Difesa, in applicazione della Legge 204 del 9 Gennaio 1951, che attribuisce al Commissariato per le Onoranze ai Caduti in Guerra, il compito di raccogliere e sistemare le salme degli appartenenti alle Forze Armate della RSI.
Voi potete essere d’accordo o meno con quanto sopra ma, credetemi, intessere una polemica politica su un fatto della Storia, è davvero fuori luogo. Oppure, “qualcuno” Vi chiesto di farlo?
Voi affermate che il riconoscimento del Campo della Memoria, come cimitero di guerra, “è una vergogna senza fine, che offende la coscienza civile e democratica del popolo italiano”.
Tali parole, agli occhi di qualsiasi Italiano, degno di questo nome, suonano come un’offesa gratuita verso quei caduti. Qualcosa che non si può far allegramente passare, senza fare delle opportune precisazioni.
Ripeto, repetita iuvant… Voi potete pure considerare l’applicazione di una legge italiana “una vergogna” o quant’altro ma, nessuno, in nessun caso, Vi autorizza a pontificare sulla “coscienza civile e democratica”.
Ignorando, infatti, chi foste, mi sono permesso di verificare la Vostra appartenenza politica. E, come avevo immaginato, ho potuto constatare che siete una dirigente del Partito della Rifondazione Comunista.
Senza essere scortese. Non Vi sembra che parlare di “coscienza civile e democratica”, dal vostro “pulpito”, sia, quanto meno, una contraddizione in termini?
Per convincersene, è sufficiente rileggere la storia del Comunismo e quella della nostra Patria.
Vedete, affermare che Anzio e Nettuno – anzi, storicamente si dovrebbe parlare di Nettunia –vennero “martoriate dalla guerra più sanguinosa che la storia ricordi (io, avrei messo una virgola…), prodotta dall’orrore dei regimi nazista e fascista”, è una semplice operazione di propaganda menzognera!
A parte il fatto che quella Guerra, per noi Italiani (non alleati dell’URSS!), fu “la lotta dei popoli poveri e numerosi di braccia contro gli affamatori che detenevano (e continuano a detenere) ferocemente il monopolio di tutte le ricchezze di tutto l’oro della Terra”… Ed a parte ugualmente il fatto che la Vostra parte politica scelse proprio quel “campo”… Non Vi sembra fuori luogo – con tutti gli scheletri che albergano nei Vostri “armadi” – parlare di orrori?
Nettunia, in particolare, caro il nostro Assessore al femminile (che dovrebbe ristudiarsi la Storia prima di pretendere insegnarla), venne massacrata, per il semplice motivo che i Vostri “liberatori” anglo-americani avevano scelto, tra le altre, queste specifiche contrade, per effettuare uno dei loro sbarchi d’invasione.
Furono loro – i Vostri “Alleati”… – e non “altri”…, a portare l’orrore e la distruzione nelle nostre città.
Il fatto che vi furono più nettuniani uccisi dagli Alleati che dai Tedeschi, forse, dovrebbe farVi capire tante cose. Ma, forse, sono troppo ottimista.
Del resto, in passato, a conferma del Vostro consueto modo di fare e d’agire, ragazzi mossi da sicura “coscienza civile e democratica” hanno più volte profanato il Campo della Memoria, insozzando lapidi e sepolcri con le tristemente celebri stelle rosse a cinque punte e le classici falci e martello, simbolo di regimi – questi sì! – i più orribili che la storia ricordi.
Ora, ditemi: essere antifascista e antinazionalsocialista – in quanto, quei regimi sarebbero stati “regimi dell’orrore” – e, allo stesso tempo, continuare a sfilare all’ombra delle bandiere rosse, non Vi sembra un po’ incongruo ed incoerente? In tutti i casi, è qualcosa che sfugge al mio senso razionale del giudizio!
Parlatemi, allora, se proprio ci tenete a riempirVi la bocca per auto-referenziarVi, del Vostro Comunismo, della Vostra “Resistenza”, invece di bollare come “ignominia” la visita che periodicamente fanno le Istituzioni del nostro Paese ad un cimitero di guerra italiano.
Capisco che per una Comunista, “le religioni siano l’oppio dei popoli” – con tutto quel che ne è conseguito nei regimi del Socialismo reale – ma pensare che un gesto di pietà umana o cristiana nei confronti di un caduto per la Patria, sia una “ignominia”, credetemi, non mi sembra davvero un modo coerente, per poi tentare di auto-definirsi umanitaristi.
Con i miei più cordiali saluti.

Nettuno, lì 21 settembre 2008


Dott. Pietro Cappellari
Ricercatore Fondazione della RSI – Istituto Storico
Da GIOVINEZZA

QUANTI RIMPIANTI !
Era il 5-nov-07 anno LXXXV, ed esattamente un anno prima prendevo con­tatto con una realtà che avevo da sempre amato, ma alla quale non mi ero mai avvicina­to in modo palese ed inequivo­cabile.
L' impatto iniziale era stato sconfortante.
La prima verità carpita, anche perché solo sussurrata con dignità, intorno ai morti assas­sinati nelle foibe, o fraire, di Moncucco Torinese.
Il primo "presente" urlato, pri­ma ancora che con la voce con il cuore, di fronte a quel cenotafio che accoglie tanta memoria e pochi resti indistinti di qualcuno, che spero abbia trovato la pace cullato dal suo eterno ideale, in terre profana­te da chi commise tali ignobili barbarie.I primi veri camerati appena conosciuti ed apprez­zati per la loro preclara re­sponsabilità di eredi, con la quale si confrontano di fronte a queste crudeltà, subite e sop­portate per tanto, troppo tem­po.Da quel giorno è stato un susseguirsi incessante e co­stante della ricerca della verità ma quella vera, non quella rac­contata pro domo sua da chi ha provocato, diretto ed oscu­rato queste tragedie. Questa verità, l'ho trovata, non solo sui libri, magari di parte, o nelle testimonianze di chi per ostina­zione biologica è riuscito a so­pravvivere ai barbari di rosso vestiti, ma nei sepolcreti sparsi in tutto il territorio della marto­riata Repubblica Sociale.
Questa verità mi racconta della ingannevole attività di chi volle sopprimere anche la più pic­cola ma significativa traccia di italica civiltà del ventennio, tra le innumerevoli realizzate dalla per­vicacia di un grande Uomo che amò questa nostra madre Patria, come nessun altro dopo di lui fe­ce. Poi, dopo averlo ucciso, vili­peso e diffamato a futura memo­ria, raccolsero i frutti della Sua opera millantandone la paternità. Questa verità mi suggerisce che, osservando l'Italia oggi così ric­ca, così liberale, così democrati­ca, così plutocratica, così orgo­gliosamente antifascista, io pro­prio non posso non rimpiangere l'Italia di ieri.
E sarebbe persino troppo facile fare della sterile retorica su que­sto argomento.
Ma non credo sia retorica ricor­dare le fondamenta dello Stato Sociale gettate durante quel periodo, delle quali è influenzata ancora dopo quasi un secolo l'at­tuale legislazione.
Non credo sia retorica ricordare la Scuola, riformata da quel filo­sofo proditoriamente assassinato perché ritenuto troppo pericoloso per la sua fama e la sua indiscuti­bile influenza.
Non credo sia retorica oggi ricor­dare il Lavoro, dal Corporativi­smo alla Legge sulla Socializzazione, tanto avversata e combat­tuta proprio da quei comunisti che si sentivano superati e de­moliti nei loro principi ideologici. Non credo sia retorica oggi ricor­dare l'incisiva e capillare attività svolta per renderci autarchici e non asserviti a quelle belliciste superpotenze che dopo averci "liberato" bombardandoci, hanno creato i presupposti per renderci schiavi delle loro globalizzanti economie.
Non credo sia retorica oggi ricor­dare l'enorme opera di bonifica del territorio e la fondazione di nuove città, alle quali i "liberatori" seppero, appropriandosene, solo cambiar nome.
Non credo sia retorica oggi ricor­dare che l'unico governo italiano che combatté veramente la ma‑
fia,dimostrando in tal modo di non avere collusioni con essa, fu quello del ventennio.
Non credo sia retorica oggi ricor­dare la famiglia, il rispetto per gli anziani, l'onore di sentirsi Italiani, l'ordine pubblico, le attività sporti­ve, le colonie per i ragazzi, l'amo­re per le frontiere considerate sacre ed inviolabili.
No cari camerati, questa non è retorica. Questa è storia.
Questa è la storia che noi rim­piangiamo e che i politici post-fascismo, già allora così multico­lori ma così uguali nella loro po­chezza, hanno, con una sorta di damnatio memoriae, stravolto, mistificato e tramandato a loro uso e consumo.
Per i camerati sono ricorsi alle foibe e alle mattanze, per l'italica civiltà all'oscurantismo ed al boicottaggio storico culturale.
Tutto ciò che hanno occultato e falsificato era la gloria, tutto ciò che hanno costruito è degradazione e corruzione morale.
Sic transit gloria mundi !!Gianni


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Da L'ALPIN DE TRIESTE





IL BATTESIMO DEL FUOCO
Distaccamento di Vollaria, 31 maggio 1944.

Sveglia alle 5,30 e ordine di comandare una pattuglia per portare a Tolmino un alpino che ha quasi 40° di febbre. Faccio attaccare il mulo alla carretta e caricare l'ammalato su una coperta e un po' di paglia. Controllo la pattuglia: totale 11 uomini, compreso l'ammalato e il sottoscritto. Il cielo è sereno, ma la solita nebbiolina dell'Isonzo si allarga e distende un velo di foschia sulla vallata.
Dopo l'attraversamento della passerella pro­cediamo assumendo le opportune misure di sicurezza: due uomini di punta distaccati in testa; a trenta metri seguo io e alle mie spalle, ben distanziati, l'alpino con il mitragliatore e il porta munizioni. Viene poi la car­retta con l'ammalato e il conducente. Per ultimi, e più staccati, i rimanenti quattro alpini in retroguardia.Dopo un chilometro il mulo si ferma.
Il conducente strepita. Urla, bestemmia, tira, spinge; ma il mulo non ne vuol sapere di riprendere la marcia. Blocco la pattuglia e mi avvicino alla bestia per controllare se c'è qualcosa che non va: tutto regolare. bastatura e ferratura. Il conducente confer­ma: "...Eh sé, al è testart!" e, dopo essersi ispirato con una serie di moccoli, rifila un calcio nel ventre all'animale che subito si rimette a camminare.
Nel frattempo, senza che me ne rendessi conto, l'alpino portamunizioni è passato dietro alla carretta e sulla stessa E ha deposto la cassetta delle munizioni per il mitragliatore.
Riprendiamo la marcia e, dopo aver percorso una cinquantina di metri, una raffica di mitragliatrice squarcia l'aria sibilandoci attorno. Sparano da destra e noi ci buttiamo nel fosso mentre il mulo cade colpito e l'ammalato, semi svenuto, scivola a terra.
Il tiro si fa più intenso. Sono diverse le armi che sgranano raffiche su raffiche: le palle fischiano rimbalzando sulla strada e sui sassi che ci riparano. Gli alpini rispondono con calma. E' il primo combat­timento della nostra vita.Dopo qualche istante l'alpino addetto al mi­tragliatore mi grida che è senza munizioni e mi ren­do conto che la cassetta è rimasta sulla carretta dove l'aveva sistemata il porta munizioni. Bisogna andarre a prenderla! In questo momento non ragiono, non vedo né la morte né il pericolo. Vedo e penso solo alla cassetta che rappresenta la nostra unica speranza. Frattanto il nemico ci grida: "Italiani arrendetevi! Vigliacchi! Vi bruciamo vivi!" e, sentendo or­mai tacere il nostro mitragliatore, riprendono con un fuoco indemoniato. A un alpino che, intimorito dalla minacciosa ingiunzione e dal fuoco infernale dell'av­versario, mi propone di arrenderci, spiano il mitra e rispondo: "Non dirlo una seconda volta!" Umiliato riprende il suo posto e si rimette a sparare. Mi butto fuori e, strisciando come un serpen­te, mi dirigo verso la carretta. Le pallottole mi rim­balzano attorno, alzo il busto, allungo il braccio e af­ferro la cinghia che penzola. Scaravento la cassetta al tiratore; con un balzo aggiungo il fosso, dal quale il nostro mitragliatore riprende a sparare. Una gragnola di bombe a mano ci scoppia a pochi metri di distanza. Ordino "Baionetta!". Il nostro mitragliatore continua a sgranare il suo rosario. "Alpini! Avanti!" Lanciamo le nostre bombe a mano; come molle balziamo in piedi e con le armi spianate ci buttiamo all'assalto. Il nemico, preso in contropiede, ripiega e si dilegua nel bosco.I miei alpini sono tutti indenni, hanno gli oc­chi fiammeggianti e il cuore in tumulto. Noi ci sistemiamo a difesa sui tre lati di un quadrato avendo alle spalle l'Isonzo.
Chiamati dalla violenta sparatoria, dopo un'ora accorrono rinforzi dal nostro caposaldo di Vol laria e dal campo trincerato di Tolmino. Si riparte immediatamente all'inseguimento, mentre le nostre armi di accompagnamen­to martellano tutta la dorsale.
Del nemico non troviamo che le umide tracce insanguinate. Verremo poi a sa­pere che l'avversario ha avuto un morto e diversi feriti. Io frattanto ho perduto mol­to sangue per la ferita alla fronte e sven­go. Quando riprendo i sensi mi ritrovo di fronte il signor Colonnello Comandante, il Maggiore, il Comandante di Compagnia e il Maresciallo Agosti. Il Colonnello mi stende la mano e mi nomina sergente sul campo per merito di guerra.Guardo in giro e vedi i miei alpini che stanno fumando e raccontandosela. Vedo a bordo del fosso il mulo morto. Povera be­stia: lui il pericolo l'aveva fiutato, ... aveva ragione.
Gli strappo qualche pelo della criniera e lo ripongo nel portafoglio per ricordo.‑

(da "Penne Nere sul confine orientale" di Carlo Cucuz)L’11 reparto distaccato a Vollaria faceva parte del Battaglione Isonzo del Reggimento Alpini Tagliamento. (ndr)






Archivio Basco Grigioverde

Storia locale - Cannoni al Debouchè
Nel 1941/1942 per fronteggiare i crescenti bombardamenti aerei della RAF inglese, vennero installate tutto attorno a Torino una serie di batterie antiaeree affidandone il funzionamento alla Milizia fascista inquadrata nella DICAT (Difesa Anti Aerea Territoriale). La cintura a sud di Torino era presidiata dalla 1 Divisione, con batterie alla Barauda, La Loggia, Vernea, Piobesi, Candiolo, Stupinigi, Drosso. (Nella foto il cielo di Torino illuminato dai proiettili traccianti della contraerea).
A Stupinigi venne installata la 602° Batteria “L. Giuliani” (inquadrata nel XVIII Gruppo) composta da 4 cannoni antiaerei sistemati su piazzole di cemento. La batteria si trovava nei campi tra le cascine del Mauriziano e strada Debouchè. Erano quattro cannoni serviti da una cinquantina di militi. Alcune baracche di legno ad uso dormitorio, magazzino, cucina ecc. costituivano l’insediamento militare.
Dopo il 25 luglio 1943, essendo stata sciolta la MVSN ed incorporata nel Regio Esercito, molti militi (cioè le camice nere) lasciarono il servizio e se ne tornarono a casa. E quindi anche parecchi addetti al funzionamento delle batterie antiaeree lasciarono il proprio reparto. Al loro posto i Comandi dell’Esercito Italiano richiamarono in servizio in fretta e furia, coloro che avevano già prestato servizio in artiglieria della classe del 1914. Tale richiamo venne eseguito col criterio (dovuto all’estrema urgenza), di prendere coloro che abitavano nella zona d’insediamento delle batterie. E quindi per le batterie antiaeree di Stupinigi (ma anche per quelle della Vernea) vennero richiamati ex artiglieri di Nichelino,Vinovo, Candiolo, piovesi e Orbassano. Questi soldati (trentenni, sposati e padri di famiglia) giunsero al reparto la prima settimana di agosto. Qui trovarono alcuni sottoufficiali ed un paio di sottotenenti che avevano l’incarico di insegnare ad usare i cannoni antiaerei a quegli anziani soldati.
Dal vivo e genuino ricordo di P.G., nato a Vinovo nel 1914, viene fuori un interessante spaccato di quello che era il clima di quel luglio-agosto 1943.
“Noi della classe del 1914 che avevamo già fatto il servizio militare in artiglieria venimmo richiamati alla fine del luglio 1943. Io ed altri tre di Vinovo, ci trovammo dunque il 9 agosto a Stupinigi. Ci arrivammo in bicicletta un po’ perché si diceva fosse una cosa breve e poi così vicini a casa pensavamo di fare delle scappate in famiglia appena possibile. Infatti tale servizio militare durò esattamente 30 giorni, perché il giorno 9 settembre ce ne tornammo a casa. La situazione che trovai era ormai povera di mezzi e disorganizzata: non c’erano neanche le divise complete. Mancavano le scarpe militari e tenemmo le nostre per tutto il tempo. Mancando anche indumenti militari come calzoni e camice, parecchi soldati usavano quelli portati da casa. La giornata passava quasi tutta in inerzia. Si faceva un poco di istruzione, ma sparammo solo qualche colpo, perché si doveva risparmiare le munizioni, e per il resto si aspettava la sera, o per andare a casa o per frequentare le osterie di Stupinigi e Borgaretto. Ricordo che c’erano due di Candiolo, anche loro richiamati, che erano abili cacciatori. Si infilavano nei boschi e prendevano fagiani o lepri che poi rivendevano ai cucinieri militari ed al barbiere di Vinovo.
La notizia dell’armistizio si sparse tra la truppa la sera dell’8 settembre. Naturalmente chi era in giro la sentì dove si trovava e la riportò alla batteria al ritorno. Il giorno successivo 9 settembre il capitano comandante che arrivava da Torino (ed era un ex centurione della Milizia), ci radunò davanti alle baracche e ci fece un breve discorsetto sulla fine della guerra. Dopodichè ci lasciò liberi di andarcene a casa. Così prendemmo le biciclette e nel primo pomeriggio eravamo già ognuno alle proprie case con grande gioia dei famigliari. Poi verso sera mi venne in mente di andare a vedere a Stupinigi cosa succedeva alla batteria antiaerea e se era rimasto ancora qualcuno. Mi accompagnò un mio amico anche egli curioso come me.
Come giungemmo alla “Stalassa” (un vecchio riparo per animali che si trovava poco dopo via Debouchè di fronte ai primi boschi) già vedevamo varie persone andare e venire cariche di materiale militare. La gente del posto e delle cascine vicine stava saccheggiando le baracche che fino al giorno prima ci avevano ospitato”.
Nell’inverno 1943/44, al posto di quegli anziani e stanchi richiamati del Regio Esercito Italiano, le batterie contraeree vennero fatte funzionare dai tedeschi e da soldati dell’Esercito della RSI, fino a qualche mese prima della fine della guerra nell’aprile 1945.
Gervasio Cambiano