venerdì 13 luglio 2007

QUEL PRIMO LANCIO


Dal Secolo d’Italia

L’8 agosto del 1918 ebbe luogo la missione che inaugurò, in Italia l’epopea dei fanti dell’aria



QUEL PRIMO LANCIO


L’epopea del paracadutismo militare o cominciò, come spesso accade nelle particolari vicende della storia degli eserciti, quasi per caso.
Il fatto d'arme è stato ricordato a1raduno a Vittorio Veneto sabato 26 settembre 1998


MASSIMILIANO MAZZANTI



NON SEMBRAVA una serata fortunata, quella del 9 agosto 1918, nelle retrovie del fronte del Piave. Una pioggia insistente. a dispetto della stagione estiva. perturbava il cielo rendendo difficile l’ipotesi di realizzare una particolarissima missione di volo.
Eppure, a dispetto delle condizioni atmosferiche, i servizi informazione dell’VIII armata vollero comunque tentare la sorte, effettuando il primo lancio di guerra della storia del paracadutismo militare italiano.
E a questo ormai leggendario episodio della fine della prima guerra mondiale, nell’ottantesimo anniversario del successo delle armi italiane che l’associazione paracadutisti d’Italia ha dedicherà il suo ventesimo raduno nazionale, che si apre oggi a Vittorio Veneto e si concluderà domani.
Il tradizionale appuntamento ‑ con la sfilata delle delegazioni provinciali dei «parà» in congedo, con la parata dei reparti
in armi della «Folgore» e con gli spettacolari aviolanci vedrà il suo momento più significativo nella giornata odierna, quando verrà scoperta una lapide in memoria dell’eroe di quel 9 agosto di ottant’anni addietro, il tenente Alessandro Tandura, nativo di Vittorio Veneto.
L’epopea del paracadutismo militare italiano cominciò, come spesso accade negli eserciti, quasi per caso. Prodotti dagli inglesi all'aviazione italiana vennero consegnati un certo numero in verità alquanto scarso, di paracadute «Calthrop», al fine di consentire ai piloti di salvarsi nell'eventualità dell'abbattimento da parte del nemico.
Lo scarso numero dei «Calthrop», però, unito alla «tradizione marinaresca» degli aviatori della prima guerra mondiale (decisi a seguire fino in fondo la sorte del mezzo a loro affidato), fece sì che dell'ipotesi di consegnarli a una squadriglia non se ne facesse nulla. E i paracadute, cosi, finirono nella disponibilità del servizio informazioni dell'VIII armata, comandata dal colonnello Dupont.
Dupont non perse tempo: coadiuvato dal maggiore Barker e dal tenente Wedwood Benn entrambi in forza al 66° Special Air Squadron del Royal Flying Corps ‑ addestrò al temerario lancio. nel campo di Villaverla, vicino a Vicenza, quattro giovani ufficiali italiani - tenenti Alessandro Tandura, Antonio Pavan, Pier Arrigo Barnaba e Ferruccio Nicoloso al fine dì farli penetrare oltre le linee nemiche per portare a termine missioni di spionaggio.
Un aereo scelto per la prima missione, quella del 9 agosto, fu un Savoia Pomilio 2, l'ufficiale appunto Alessandro Tandura. La tecnica di lancio non era certo delle più rassicuranti. Agganciato un seggiolino ribaltabile nella parte posteriore del, velivolo, questo, per mezzo di un cavo d'acciaio azionabile con una leva posta a prua dell'aereo manovrata dall’osservatore, veniva «sganciato» per permettere l’eiezione del paracadutista. Il «parà», costretto a volare coi piedi penzoloni, praticamente all'esterno dei veicolo, era «imbragato» al paracadute che, però, si trovava materialmente assicurato nella «pancia» dell'aereo, nella speciale calotta di alluminio che lo conteneva. L’altitudine programmata per il lancio fu di 2.500 metri.
Secondo i piani, il primo lancio avrebbe, dovuto portare lo speciale incursore nei prati di Sarmede, Vicino a Vittorio Veneto, ma, in realtà, quando Tandura atterrò ‑ questo ufficiale fu scelto anche In considerazione‑ della sua familiarità con la zona che avrebbe dovuto esplorare ‑ si accorse di essere nei pressi di Antano, una località ancor più vicina a Vittorio Veneto rispetto a quella programmata.
Tandura riuscì, malgrado il freddo che aveva dovuto sopportare e la pesante «botta» ricevuta a causa dell'impatto piuttosto brusco, a compiere tutte le operazioni, anche se gli occorse tutta la notte per seppellire il «Calthrop», affinché nessuno potesse stabilire come fosse giunto lì.
Gli ordini di Tandura erano chiari: travestirsi da contadino mischiarsi alla popolazione rurale di quella campagna e trasmettere ‑ per mezzo dei colombi viaggiatori che gli erano stati affidati ‑ informazioni sullo schieramento austro‑ungarico per poi rientrare nelle linee italiane dalle foci del fiume Tagliamento, (all'altezza dell'Hotel Baglioní) oppure in caso di impossibilità, attraversando il Piave tra le località di Vidor e Grave di Ciano.
Il giovane tenente andò ben oltre: aiutato dalla sorella Emma e dalla fidanzata Emma Petterle, portò a buon fine malgrado due arresti e due rocambolesche fughe che gli risparmiarono un triste epilogo da prigioniero in Serbia ‑ anche diverse azioni di sabotaggio che gli valsero la medaglia d'oro al valor militare, Inoltre, l'Esercito ritenne doveroso premiare anche il valore delle due giovani donne che aiutarono Tandura nella sua missione, decorandole di medaglia d'argento.
E i paracadutisti, oggi, non celebreranno solo la medaglia d'oro, l'eroe di guerra, ma anche e soprattutto il «padre» della loro disciplina, il «punto di partenza» di quel lungo «filo amaranto» che per ottant'anni ha significato in Italia senso dei dovere, spirito di sacrificio, combattimento e gloria: da Vittorio Veneto a El Alamein, da Anzio fino alle recenti sabbie della Somalia o alle montagne della ex‑Jugoslavia.

PIONIERI DELL'ARIA


Dal Secolo d’Italia

STORIA DEL PARACADUTISMO

L'intuizione spetta a Leonardo. L'idea fu ripresa nel'600 da Fausto Veranzio, ma non ci sono prove di un suo lancio da una torre a Venezia. Nel'700 e nel secolo scorso gli «esperimenti» diventano più frequenti Ecco la storia di uomini che non ebbero paura di collaudare un'invenzione ad alto rischio


PIONIERI DELL’ARIA
I tentativi, gli insuccessi le tecniche più ingegnose nel corso dei secoli
ALDO GIORLEO


SALTARE con il paracadute da un aereo è un esercizio che oggi si può compiere con una certa facilità. Il sogno millenario dell'uomo, da Icaro in poi, quello di librarsi nell'aria, è diventato realizzabile con i moderni paracadute ad ala che permettono discese manovrate e atterraggi soffici. E anche un perfetto profano può sfidare la legge di gravità lanciandosi in tandem con un istruttore qualificato. Una cinquantina e passa d'anni fa non era certamente così. Poteva capitare che il paracadute si aprisse «a fiamma», e non c'era quello d'emergenza cui affidare la propria salvezza; poteva succedere di restare agganciati ai piani di coda dell'aereo, o di finire sugli alberi o, peggio, sui tralicci dell'alta tensione, senza essere in grado di effettuare manovre di «scivolamento». Tra i campioni l'audacia, lo sprezzo del pericolo avevano la meglio sulla tecnologia e l'allenamento metodico. Si faceva a gara a chi apriva più basso, e gli incidenti mortali costituivano una ricorrente tragica realtà.
Oggi i campioni di stile, di precisione, di canopy, di relative work, «lavorano» su basi scientifiche, ripassando al video le fasi registrate delle loro esibizioni. Eppure, nonostante ciò, le sensazioni che essi provano durante le discese non debbono essere molto diverse da quelle dei loro predecessori: una sorta di euforia, di pace interiore, di potenza fisica e, soprattutto, psichica che ti fa stare bene con te stesso, che ti fa pensare d'essere un tantino superiore agli «altri», a chi non sa vincere la paura dei vuoto. E questo perché il paracadutismo, prima che un fatto sportivo, è un'esigenza dello spirito; un'esigenza che risale ai primordi dell'uomo ma che vide la sua realizzazione solamente nel «secolo dei lumi».
L’intuizione, come per tante altre macchine del futuro», spetta al sommo Leonardo che, nel 1495, così descrisse il primo paracadute «virtuale» della storia: «Se un uomo ha un padiglione di panno intasato (cioè con i fori ostruiti per vernice o per colla) che sia di 12 braccia per faccia e alto 12, potrà gettarsi da ogni grande altezza senza danno di sé». E di questo paracadute a forma di piramide egli ci lasciò nel Codice Atlantico anche un disegno.
L’intuizione di Leonardo fu ripresa da Fausto Veranzio da Sebenico, filosofo e matematico, il quale ‑ ma il fatto è tutt'altro che provato ‑ nel 1615 o 1617 si sarebbe lanciato da una torre a Venezia appeso a un enorme paracadute rudimentale di forma quadrata.
Ma occorre attendere il risveglio scientifico del secolo successivo per arrivare a esperimenti positivi sui paracadute. I nomi degli sperimentatori sono tanti. Basti pensare a Sebastiano Fausti e Paolo Guidotti in Italia, o a Sebastien Lenormand, ai fratelli Montgolfier e Pierre Blanchard in Francia. Nel 1783 il chimico Lenormand progetta e costruisce un paracadute semirigido che collauda lanciando alcuni animali da una torre. Nel frattempo i Montgolfier avevano ideato e realizzato l'aerostato, capace finalmente di portare l'uomo in alto nel cielo.‑ E Joseph Montgolfier pensa subito a un paracadute costituito da due vesciche di maiale gonfiate con aria calda e collegate per mezzo di funi a una cesta di vimini. Sistema nella cesta una pecora, porta il tutto in alto con un aerostato e lo molla. Quel primordiale paracadute scende lentamente a terra: la pecora è salva. Successivamente, in collaborazione con il fratello, costruisce un altro paracadute con la calotta di carta a forma semisferica collegata alla navicella e, per aumentarne la portanza, piazza quattro vesciche di maiale e fa, collaudare lo «strumento» anziché da una pecora da un montone. E’ quindi la volta dell'aeronauta Blanchard a costruire un paracadute simile a un grosso ombrello con il manico fissato alla navicella dell'aerostato e a buttar giù, ripetutamente, il suo cane. Poi pare ‑ma non è affatto certo ‑ che, a causa di un'avaria dell’aerostato, fosse stato costretto egli stesso a salvarsi con l'ombrellone.

Trascorsero ancora un decina d'anni prima che il paracadute divenisse familiare.al grande pubblico.
Lo si dovette ai Garnerin, André, Jacques, Jean ed Elise, che si esibirono in tutta Europa suscitando entusiasmo a non finire. Il primo vero paracadutista della storia dev'essere, dunque, considerato André Jacques Garnerin, fisico ventottenne, che, dopo ripetute prove, il 22 ottobre del 1797 collaudò un paracadute di sua invenzione. La prova avvenne di fronte a una folla entusiasta radunata nel parco di Monceau. Ganierin sali in mongolfiera sino a circa 700 metri e, zac, tagliò le funi che legavano la navicella all'aerostato. Venne giù oscillando fortemente, ma indenne, salutato da un applauso frenetico. Dopo questo successo, André Jacques, con la collaborazione dei fratello Jean, apportò numerose migliorie al suo paracadute, fino a realizzare un modello simile a quelli attuali, vale a dire a costituzione floscia e, soprattutto, con un foro all'apice della calotta per farvi passare l'aria ed eliminare le oscillazioni.
La moglie di André Jacques, Jeanne, volle emulare il marito ma al primo lancio riportò uno shock tale da non voler più ritentare la prova. La nipote Elise, figlia di Jean, invece, dopo aver compiuto il suo primo salto a 16 anni, prosegui a lanciarsi insieme con il padre e con lo zio in Francia, in Belgio, in Italia (memorabile la discesa eseguita il 29 giugno 1827 a Torino alla presenza del re Carlo Felice e della corte), in Inghilterra, in Germania e in Russia, ottenendo riconoscimenti e sostanziosi premi.
L’elenco degli, appassionati del paracadutismo s'allunga. Dopo i Garnerin, anche l'inglese Hampton costruisce, nel 1839, un paracadute con il foro apicale. Due anni prima un altro inglese, Robert Cocking, s’era ucciso con un paracadute di tipo rigido a forma di cono rovesciato cui era appesa la navicella di vimini.
Un'altra donna irruppe sulla scena del paracadutismo nel 1849, madame Poitevin, che in tre anni, insieme con il marito, compì una serie di ardimentosi lanci, conquistando il record d'altezza con una discesa di 2.000 metri a Parma. Seguono altri audaci: nel 1850 il francese Godard effettua un lancio da 1.500 metri; Letour, altro francese, nel 1862 si sfracella al suolo al cospetto di centinaia di persone a Tottenham, presso Londra, non essendosi la calotta del paracadute distaccata dal suo supporto. E poi ancora Sivel (lancio riuscito da 1.700 metri), Robertson, Bourget, Sovis. Altro passo avanti nel 1887 Questa volta è un americano, il capitano Thomas Sacket Baldwin (che diverrà in seguito industriale aeronautico) ad apportare al paracadute una fondamentale innovazione: abolisce la navicella di vimini, che sino a quel momento era servita da abitacolo per il paracadutista, e costruisce una vera e propria imbracatura, simile a quelle odierne. Egli applica il paracadute, con la calotta già aperta e trattenuta da funicelle, alla cesta d'un pallone, afferra la parte terminale delle funi e si lancia nel vuoto. Con il peso, le funicelle si rompono, la calotta si distacca e, grazie all'aria che vi penetra, si gonfia e porta a terra il paracadutista. il primo lancio con questo sistema avvenne nei pressi di Rockway Beach, Baldwin finì in mare, venne ripescato e festeggiato.
Due anni dopo il paracadute comincia a interessare i militari. L’esercito tedesco invita l'aeronauta americano Leroux a compiere, presso il reparto aerostieri, prove pratiche con un paracadute derivato dal modello Baldwin. Leroux si esibisce a Schóneberg nei pressi di Berlino e il conte Schlieffen, capo di Stato Maggiore, dimostra vivo interesse. Nel frattempo i tecnici si danno da fare per migliorare il nuovo mezzo aereo. Il tedesco Herzberg cerca di utilizzare le oscillazioni della calotta per manovrare il paracadute; tentativi analoghi vengono compiuti dagli americani Leeds e Whise e in Inghilterra dal colonnello Marceroni, il quale progetta un paracadute con la calotta rovesciata che si risolve in un fallimento. Dal canto suo il corso Louis Capazza collauda un modello con la calotta reticolare, mentre il tedesco Lattemann utilizza nel lancio due paracadute. Un altro tedesco, Rose, brevetta un paracadute assai maneggevole col quale, il 27 maggio 1900, compie un lancio la prima donna paracadutista tedesca, la signorina Kate Paulus. Quando cominciano i primi esperimenti aerei, quando i fratelli Wright stupiscono il mondo con il loro breve volo a bordo dei mezzo «più pesante dell'aria», quando altri audaci, da Voisin a Bleriot, danno inizio all'era dell'aviazione, il paracadutismo trova una ragione pratica, e non più soltanto spettacolare, alla propria esistenza.
Nel 1911 si registrò un altro passo avanti nella storia del paracadutismo: il primo lancio da un aereo. Fino ad allora i lanci erano avvenuti da aerostati o da palloni frenati e per il paracadutista era quasi come gettarsi da una base di lancio fissa. Il tuffo da un apparecchio in volo era qualcosa di diverso, di più dinamico, e anche più affascinante. A compierlo per primo fu un americano, Clem Solin, che continuò poi a esibirsi in numerosi meeting aerei, finché, nel 1937, trovò la morte nel tentativo di un volo planato con ali di seta. Una sfida, quella del volo umano, che, nel tempo, fece parecchie altre vittime, come lo svizzero Bolhelm, il francese Vassard e, negli anni '60, un altro francese, il famoso «uomo‑uccello» Leo Valentin. Ultima vittima illustre sulle orme di Icaro, il campione di «skisurf» (acrobazie in caduta libera con una tavola da surf o con un paio di sci fissati ai piedi) Patrick De Gayardon, schiantatosi al suolo l'anno scorso nelle Hawaii mentre provava le sue ali da pipistrello.
Ma torniamo all'inizio dei nostro secolo. Dopo Clem Solm, altri paracadutisti si cimentarono nei lanci dall'aereo: Berry, Pegoud, Hengier, Schmetter, Glorieux, Loyal, Irving (che divenne poi uno dei più importanti costruttori di paracadute del mondo), Ors, ideatore di un ottimo paracadute collaudato nel 1914 con un lancio da 800 metri a Juvisy. «La discesa ‑ scrisse un cronista dell’epoca ‑ fu abbastanza breve. Appena la tela si apri, l'inventore si dondolò una quarantina di secondi nello spazio e si posò quindi sul suolo, come una foglia che cade dall'alto».

IN GUERRA LA PRIMA VOLTA


Dal Secolo d’Italia

STORIA DEL PARACADUTISMO

Vari tipi di “ombrelli di seta”vennero collaudati dalle opposte aviazioni, non solo come mezzo di salvataggio ma anche per il trasporto di informatori. Con la fine del conflitto il paracadutismo all’estero diventò uno, sport do moda. In Italia un geniale inventore,Alfredo Ereno, realizzò ma senza fortuna un modello Particolarmente evoluto


IN GUERRA LA PRIMA VOLTA

Nel 1918 tre ufficiali italiani si lanciarono in territorio nemico
ALDO GIORLEO


NEL 1914 scoppia la prima guerra mondiale. E’il momento dei paracadute: le opposte aviazioni si scontrano nei cieli lungo i fronti di battaglia e ciascuno dei belligeranti cerca di fornire ai propri piloti questo strumento di salvataggio.
I francesi sperimentarono dapprima un paracadute con apertura a molle, l'Hérviène, che si dimostrò poco pratico, quindi realizzarono un altro modello, il Dangy, rivelatosi anch’esso poco funzionale, e alla fine si risolsero ad adottare il paracadute inglese Calthrop, di forma tronco‑conica, che veniva fissato all’esterno del velivolo ed era collegato al corpo dei pilota mediante una lunga fune. Austriaci e tedeschi, dal canto loro, affidarono la sorte dei piloti a un paracadute, molto ben riuscito, lo Schmittner.
A partire dal 1916 tutti i piloti di questi quattro paesi ebbero in dotazione il paracadute. Il primo a usarlo fu un ufficiale germanico, il tenente Kurt Wieczorec, che il 13 marzo si lanciò da un pallone frenato nel cielo di Reims. Si trattò d'un esperimento, ma qualche mese dopo il paracadute salvò per la prima volta la vita a un pilota, il sottotenente francese Levasseur; il cui aereo si era incendiato in volo. Sempre in quell'anno, poiché il Calthrop si era dimostrato troppo ingombrante, in Francia venne sperimentato un paracadute progettato dal costruttore Bonnel Purtroppo le prove si conclusero in maniera tragica: i collaudatori Calderon e Spiess morirono a causa dell'eccessiva velocità di discesa. Tuttavia in seguito, con le modifiche apportatevi da Mortane, il Bonnet si rivelò un buon paracadute, felicemente collaudato da Juchmes, Letourner e Duclos.
Quanto agli italiani; fu soltanto nel 1917 che ebbero in consegna dagli inglesi un certo numero di Calthrop, ribattezzati Angel Guardian. Ma i nostri piloti espressero alquanto scetticismo verso l'ombrello di seta, quasi che, portandolo in volo, risultasse menomata la loro capacità di “cavalieri del cielo”. Cosicché a esserne equipaggiati furono gli osservatori dei Genio Aerostieri, i cui palloni frenati rischiavano di essere colpiti e incendiati dai velivoli nemici. Un giorno, uno di questi osservatori, il tenente Hardouin duca di Gallese, volle provare il paracadute e si buttò dal pallone che dondolava a 1.200 metri d'altezza. Quando toccò felicemente terra, ebbe una punizione per indisciplina e un encomio solenne per la dimostrazione di coraggio.
Intanto il paracadute veniva preso in considerazione non solo come mezzo di salvataggio, ma anche come mezzo di trasporto da usare nelle missioni di informatori, missioni portate a termine dai francesi Vedrines, Evrard e Tabuteau, lanciati in territorio controllato dal nemico, e dai tedeschi von Kossel e Windisch, calati dietro le linee russe. E gli italiani, in questo campo, non furono da meno. Nella tarda estate dei 1918 si palesò la necessità di appurare l'effettiva consistenza di alcuni reparti austriaci che fronteggiavano il settore della nostra VIII Armata. Vennero chiesti dei volontari e quattro ufficiali, i tenenti Alessandro Tandura. Ferruccio Nicoloso, Pier Arrigo Barnaba e Antonio Pavan, si misero a disposizione del Servizio informazioni dell'Armata, retto dal colonnello Dupont. I quattro vennero brevemente istruiti.
Il primo a essere impiegato fui, Il 9 agosto, il tenente Tandura, nativo di Vittorio Veneto. L’aereo era un bimotore da ricognizione Savoia Pomilio S.P2, nella parte posteriore del quale era stato ricavato un sedile ribaltabile per mezzo di una leva che veniva manovrata dal pilota o dall'osservatore, posti a prua del velivolo. Il paracadutista era perciò costretto a viaggiare con i piedi penzoloni nel vuoto e con la schiena rivolta alla direzione del volo, in attesa che il suo sedile venisse ribaltato ed egli iniziasse la caduta. Il paracadute, racchiuso in un involucro sistemato sotto la fusoliera e collegato per mezzo d'una fune al cinturone del paracadutista, si sarebbe aperto a causa della trazione.
Tandura, che portava con sé abiti da contadino per camuffarsi, alcune gabbiette con piccioni viaggiatori per trasmettere i messaggi un cifrario, una pistola e un pugnale, riuscì a fornire ai nostri comandi ‑ grazie anche all'aiuto della sorella e della fidanzata preziose informazioni sulla consistenza dei reparti austriaci. Catturato dagli austriaci fuggi rientrando alla fine nelle nostre linee non senza aver prima compiuto ardite azioni di sabotaggio guadagnandosi la Medaglia d'oro al Valor Militare.
Dopo Tandura, toccò a Nicoloso d'essere lanciato, la notte del23 ottobre, in vista della nostra offensiva finale; Purtroppo Nicoloso atterrò fuori della zona prevista, quella di Osoppo‑San. Daniele‑Codroipo, ragion per cui la notte successiva veniva lanciato il tenente Barnaba, il quale portò felicemente a compimento la missione. Fu anchegli decorato di Medaglia d'Oro, mentre a Nicoloso venne concesso l'ordine militare di Savoia. Quanto al quarto volontario, il tenente Pavan, egli fu trasportato al di là delle linee austriache con un aereo Voisin pilotato dal capitano Gelmetti che riuscì ad atterrare nei pressi di Salice. Piccoli aerei o idrovolanti furono in seguito impiegati per il trasporto di altri coraggiosi informatori.
Con la fine della guerra, di paracadutismo si parlò poco in Italia, mentre all'estero era diventato uno de gli sport di moda Francia, Inghilterra, Germania e Stati Uniti erano i paesi in cui si succedevano progetti e sperimentazioni fiorivano le novità tecniche in un clima di vasta concorrenza. S'imposero in quegli an ni sul mercato mondiale i paracadute francesi come il Tinsonnier, il Robert, il Blanquier, il Cornier, il Galhé, il Providence, Rerazur, Il Vinaj, l’Aviorex In In ghilterra il capitano Meuirs, progettò un paracadute che portava il suo nome; ma c’erano, oltre al Calth­ top, altri tipi come l'Holt, denominato Autocaduta, l'Harnaisuit, il Pak costruito su progetto cecoslovac co. In Germania furoreggiava Heinecke, seguito dal lo Schroeder, dal Muller, dal Defag dal Kostelesky, dal Robur, dallo Schmittner‑Ks, dal Koincke, mentre negli Stati Uniti si fabbricavano gli Irving, gli Jahn, gli Scott, gli Sperry, gli Smith, gli Swidik, i Martin, i Russel e lo strano Triangle Paraclitite. Esistevano in fine due ottimi paracadute, uno russo, il Kotelnikov, e un o svedese, lAaoul ThornbIad.
Nell`Italia, degli anni'20 non si fabbricavano paracadute, perché questo sport non aveva attecchito, ma l'ingegnosità nostrana non stava certo a dormire. Un ufficiale dei Genio, Usuelli, realizzò un paracadute per aerostieri molto simile all’Angel Guardian, mentre il generale Umberto Nobile, quello della sfortunata impresa del Norge al Polo, ideò un paracadute individuale per dirigibili e aerostati, un paracadute collettivo e, infine, un paracadute individuale per piloti d aeroplano. Di questi tre tipi di paracadute solo il primo fu largamente impiegato dal Genio Aerostieri. La novità consisteva nel fatto che l'aria, anziché dal foro apicale, penetrava nella calotta da una serie di fori, Il paracadute per aeroplani, che venne sperimentato positivamente con la zavorra, differiva dagli altri perché aveva una piccola calotta secondaria che, aprendosi per prima. attenuava lo strappo dell’aria, si trattava di un paracadute dorsale, con apertura automatica mediante una une di canapa lunga due metri e resistente a una trazione di 300 chili agganciata da un lato all'imbracatura del paracadutista, dall'altro alla carlinga dell'aereo. La calotta più piccola era posta a metà distanza tra quella principale e l'imbracatura del paracadutista. Le calotte erano provviste rispettivamente di quattro e otto anelli di alluminio, agganciati ai bordi che ne assicuravano l’apertura quando esse erano investite dall'aria.
Nello stesso periodo un altro italiano, Alfredo Ereno, un geniale inventore autodidatta, si dedicò allo studio di un mezzo di salvataggio aereo. Giovanissimo, Ereno aveva partecipato alla guerra prima negli alpini quindi nel Battaglione Aviatori. Smobilitato, aveva continuato a interessarsi d'aviazione e insieme con i piloti Mario D'Urso e Renato Donati aveva costituito a Roma una società avente lo scopo di “propagandare nel mondo l'arte del volo”. D'Urso e Donati dovevano esibirsi alla guida di aerei lui in discese con il paracadute. La società fu costretta a sciogliersi poco dopo a causa della tragica morte di D'Urso, precipitato con il suo aereo, ma Ereno non abbandonò l'idea di dedicarsi al paracadutismo. Anzi, dopo aver appreso come lo svedese Harry Larsen si era schiantato al suolo a Torino per la mancata apertura della velatura, decise di costruire un paracadute che offrisse la massima garanzia di sicurezza. Mise a punto una serie di progetti e, per acquisire maggiore esperienza, si recò in Germania, dove esegui vari lanci con Heinecke, proseguendo nel frattempo lo studio del suo mezzo di salvataggio. Dopo aver superato non poche difficoltà, riusci a costruire un paracadute completamente indipendente dall'aereo, cioè con custodia dorsale e apertura comandata manualmente. In più, questo paracadute (con il quale, l'8 luglio dei 1923, in un lancio a Ponte San Pietro, in provincia di Bergamo, riusci a battere il record di minima altezza: appena 87 metri) aveva due caratteristiche fondamentali: la calotta rovesciabile (come più tardi il Lisi), che permetteva di aumentare la velocità di discesa, e il fascio funicolare diviso in due gruppi collegati alle bretelle dell'imbracatura all'altezza delle spalle dei paracadutista, il che consentiva una discesa manovrata, quasi come avviene con i paracadute odierni.
Per dimostrare l’utilità del sistema di guida, Ereno, a poco più d'un mese dell'esibizione di Ponte San Pietro, si lanciò sulla cittadina di San Pellegrino dall'altezza di 300 metri e, agendo sulle bretelle, riusci a evitare la linea ad alta tensione e ad allontanarsi dal fiume Brembo e dai caseggiati per prendere terra sulla collina.
L’anno successivo Ereno perfezionò il suo paracadute e si mise alla ricerca di chi potesse sostenerlo finanziariamente. La sua ingegnosità non ebbe fortuna: dopo varie disillusioni, il coraggioso pioniere, che la stampa definiva “un giovane dall'aspetto signorile, di modi cortesissimi, elegante, quasi un po' timido, dotato di un sangue freddo da Muzio Scevola”, fini con l'arrendersi: raccolse i disegni della sua invenzione e ne fece dono al governo, ricevendone solo un ringraziamento. Nel 1948 emigrò nel Sud America, dove continuò a interessarsi di problemi aeronautici.

MASCE IL "SALVADOR"

Dal Secolo d’Italia

STORIA DEL PARACADUTISMO

Fu Prospero Freri ufficiale pilota, a ideare e costruire il paracadute italiano, che presentava un alto livello di affidabilità e che riscosse successo.in molti Paesi europei. Nel'25 vinse il concorso bandito dall'Aeronautica per la fornitura di quattrocentosessanta esemplari

NASCE IL “SALVADOR”
Un modello funzionale che era stato preceduto dall'”Aerodiscensore”

ALDO GIORLEO


QUELLO che non riuscì a Ereno, cioè di far accettare il suo paracadute alle competenti autorità aeronautiche e, soprattutto, di trovare un finanziatore, riuscì invece a Prospero Freri, un ufficiale pilota, ingegnoso e caparbio. Durante la guerra Freri aveva assistito in Albania all'atroce fine di un compagno di squadriglia, il sergente Cortese, il quale aveva preferito gettarsi nel vuoto piuttosto che perire nel rogo del suo aereo colpito dal nemico. In seguito era stato egli stesso protagonista di una brutta avventura: un Caudron, coi quale si era alzato per un volo di prova sull'aeroporto di Napoli, era precipitato per un'avaria. Il motorista era deceduto e Freri era riuscito a cavarsela pieno di fratture e contusioni, “Durante la lunga degenza – raccontò - il mio cervello fu costantemente martellato dal pensiero del paracadute che, come un'ossessione, mi perseguitava sempre”.
Freri impiegò circa quattro anni per costruire un paracadute che presentasse certezza di funzionamento. Alla fine ci riuscì, grazie anche alla collaborazione di Gennaro Maddaluno, un napoletano entusiasta ma squattrinato come lui. I due furono ideatori, disegnatori, intagliatori, impiombatori e meccanici fino ad arrivare alla realizzazione del loro paracadute che battezzarono Aerodiscensore. Era un paracadute semírigido. che non richiedeva alcun comando per la sua apertura. Contenuto in un fodero tronco‑conico, veniva attaccato alla fusoliera dell'aereo, era collegato all’imbracatura del'paracadutista da una robusta fune e si apriva mediante un congegno composto di stecche metalliche snodate. Il 23 luglio’ 22 l'Aerodiscensore ebbe il suo battesimo, con il lancio di un manichino sull'aeroporto di Napoli, al cospetto delle massime autorità locali. L’8 ottobre Freri e Maddaluno vinsero la gara internazionale indetta dal ministero della Guerra per mettere alla prova i vari tipi di paracadute esistenti. Sul campo di Centocelle si ritrovarono i migliori paracadutisti dell'epoca. C'erano i francesi Ors e Bianquier, lo svizzero Romaneschi, gli italiani Umberto Re e Alfredo Ereno, oltre a due rappresentanti del sesso debole, la francese Greby e l'americana Grey, La prova consisteva nel lanciarsi da 300 metri, cercando di prendere terra entro un cerchio del diametro di quindici metri.
Non era, per la verità un regolamento che potesse dirsi soddisfacente, perché, non essendo i paracadute di allora manovrabili, si doveva più che altro fare assegnamento sull'abilità dei pilota di portare il velivolo quasi fermo sopra i bordi dei cerchio prima di far lanciare il paracadutista. Maddaluno, portato in quota da Freri, stravinse. Toccò infatti terra a 79 metri dal bersaglio, mentre gli altri superarono abbondantemente i 100 metri. Secondo risultò Bianquier, con paracadute omonimo, che cadde a 104 metri e terzo Ereno, con paracadute Heinecke, che prese terra a 108 metri dal cerchio. Il primo premio, trentamila lire. andò a rinsanguare le finanze dei due costruttori dell’Aerodiscensore; a Bianquier e a Ereno toccarono diecimila lire ciascuno.
Dopo il successo di Centocelle e una serie di lanci propagandistici (il 16 gennaio 1923 volle provare l’Aerodiscensore l'aviatore Giuseppe Palamenghi e il 13 maggio dello stesso anno la signorina Alba Russo, prima donna paracadutista in Italia, scese con disinvoltura da 400 metri sul campo di Capodichino giunse a Freri l’invito a presentare, il paracadute a una commissione tecnica militare. Cosi, il 12 giugno 1923 egli compii il suo primo lancio dinanzi ai commissari entusiasti. Ormai cominciava a farsi strada l'idea che i piloti potessero usare il paracadute in situazioni d'emergenza, ma Freri non dormiva sugli allori: voleva costruire un paracadute di minor peso e ingombro. Per la realizzazione del nuovo paracadute non ebbe più la collaborazione di Maddaluno: tra i due erano sorte divergenze di vedute sugli scopi del loro lavoro, e così ciascuno continuò per la propria strada. A Freri si affiancò un giovane appassionato di aviazione, Giuseppe Furmanik, oriundo polacco nato in‑Svizzera nel 1903, divenuto poi cittadino italiano. I due misero a punto un paracadute, il Salvator, che ottenne un grande successo e convinse l'industriale Calabi a finanziame la produzione: nascerà quindi la Società Anonima Brevetti Aeronautici Salvator, di cui Freri e Furmanik saranno tra !,.principali azionisti. I due a turno, presentarono in quasi tutti i Paesi europei la loro invenzione, riscuotendo un mucchio di elogi ma ben poche ordinazioni. Finalmente, nel 1925, l’Aeronautica,italiana bandì un concorso per la fornitura di 460 paracadute. Vi parteciparono, oltre ai realizzatori dei Salvator, altri cinque italiani ‑Maddaluno, Turri, Venturi, Zezzi, Guglielmetti ‑, i francesi Robert, Blanquier, Ors, l’americano Irvin. Il salvator sbaragliò tutti. Mancava ancora, per cosi dire, il suggello ufficiale. Ciò avvenne il 15 novembre 1925, in una manifestazione svoltasi a Centocelle al cospetto della famiglia reale. Freri si lanciò da 400 metri e durante la discesa tirò fuori dalla taisca una fiamma tricolore e, dopo averla agitata, la fissò alle corde del paracadute. Fu un trionfo, il re volle complimentarsi con lui e con Furmanik
Sull'efficacia del nuovo paracadute non c'erano ormai più dubbi tuttavia i due soci si rendevano conto che la sistemazione dei Salvator all'esterno della, fusoliera non era delle più razionali, in caso d’emergenza, soprattutto perché poteva essere usato solo, dal pilota mentre non mancavano velivoli con più persone d’equipaggio. Bisognava realizzare un, tipo di paracadute a zaino. assicurato alle spalle di ciascun membro dell'equipaggio. Nel 1926 nacque, così il, Salvator-B, che oltre a questa fondamentale caratteristica, ne presentava un’altra: il doppio dispositivo di apertura, sia automatico, mediante fune di vincolo, sia manuale,comandato dal paracadutista per mezzo di una maniglia. La calotta, avente una superficie di 48 metri quadrati era formata da 24 fusi, ciascuno dei quali tagliato e cucito in diagonale per accrescerne l'elasficità. All'apice della calotta c'era un foro, munito di corona elastica, che ammortizzava l'apertura, mentre un cerchietto di legno, che andava: perduto dopo il lancio, facilitava l'introduzione dell'aria dopo lo sfilamento della calotta stessa dalla custodia a zaino costruitá in tela impermeabile. Alla corona elastica della calotta, inoltre, era collegato un calottino estrattore che si apriva per mezzo d'una molla e facilitava lo spiegamento della grande calotta. Il fascio funicolare, formato da 24 funi, ciascuna delle quali capace di sopportare una trazione di 130 chili, terminava con un occhiello al quale veniva agganciaio il cinturone del paracadutista corredato di una sola bretella. Il tutto pesava circa 6 chili: la velocità di discesa era di 5‑5 e mezzo metri il secondo.
Il Salvator‑B fu presentato dapprima all'estero, in Cecoslovacchia, riscuotendo un grande successo, poi Freri fu richiamato a Roma, perché l'Aeronautica militare, interessata al nuovo paracadute, esigeva una dimostrazione tecnica. Questa avvenne all’aeroporto di Montecelio, comandato dal maggiore De Bernardi. Vi assistettero il capo di S. M. dell'Aeronatica generale Piccio, il duca delle Puglie e l’asso Arturo Ferrarin. Tutto andò per il meglio e al Saivator‑B si affiancò poco dopo un modello, il Salvator‑C, costruito appositamente per gli aerei della caccia. Da quel momento, mentre Furmanik si dedicava alla produzione dei paracadute, Freri partecipava a numerose manifestazioni aeree, in Italia e all'estero, lanciandosi dalle quote più svariate per dimostrare il perfetto funzionamento del Salvator. Ormai il «paracadute italiano» viaggiava col vento in poppa.
Nel 1927 Freri ottenne due grosse soddisfazioni: i piloti furono obbligati a indossare il paracadute ed egli fu autorizzato a effettuare corsi d'istruzione tra il personale navigante. Lo aiutavano, nell'attività d'istruttore, due piloti che avevano già sperimentato il lancio, il capitano Angelo Banchieri e il maresciallo Vittorio Moretto. Tra i sistemi di lancio, prese piede in quel periodo quello «a strapparnento»: il paracadutista si disponeva sull'ala inferiore di un biplano, s'aggrappava a un montante di sostegno, apriva il paracadute e si lasciava strappare dall'aereo.
Numerosi piIoti compresi i migliori «assi», vollero cimentarsi nel salto dall'aereo. Tra i più famosi, Guido Keller ‑ quello che aveva lanciato il pitale di m... su Montecitorio ‑ e Arturo Ferrarin. lI primo, barba al vento, si buttò da 350 metri sul campo di Montecelio. La sua impressione: «Meraviglioso, semplicissimo, tutti dovrebbero provare ... » e, nel dire così, cavava da una tasca della tuta un mazzolino di fiori da offrire alla moglie del comandante De Bernardi come «unico omaggio sceso dal regno di Zefiro». Dal canto suo Ferrarin, detto il «moro di Venezia», prima dei lancio aveva avvertito l'amico Freri: «Varda che se l'ombrelo non se verze mi te copo». Ma l'ombrello si era aperto, e Ferrarin si era detto entusiasta di quel «gioco da ragazzi».
Il 6 novembre del'27 si ebbe il primo lancio simultaneo di nove paracadutisti appartenenti tutti allo stormo del maggiore Lordi, durante una grandiosa manifestazione aviatoria a Cinisello. Poiché un sottufficiale era stato colto da malore, Freri lo sostituì con il sottotenente Ferraro, offertosi volontario. Durante la discesa, lo sguardo di Freri era incollato a Ferraro, e proprio questi, maledizione, veniva giù a candela, col paracadute chiuso, Pallido in volto, Freri non riusciva a capacitarsi che cosa potesse essere accaduto; poi, di colpo, ecco la bianca calotta spalancarsi e Ferraro prendere terra prima degli altri. E l’improvvisato paracadutista si era semplicemente dimenticato di agganciare il moschettone della fune di vincolo che provoca l'apertura del paracadute. Accortosi dell'«inconveniente», si era ricordato delle affrettate raccomandazioni fattegli da Freri e aveva tirato la maniglia per l'apertura comandata. Tutto bene quel che finisce bene. Come, del resto, era finita bene allo stesso Freri, allorché, durante un lancio propagandistico a Madrid, il 17 ottobre di quell'anno, si era potuto salvare grazie alla prontezza di riflessi che gli aveva permesso di tirar fuori con le mani la calotta rimasta incastrata nel sacco‑custodia del paracadute.

TRAGEDIA A MONTECELIO

Dal Secolo d'Italia


STORIA DEL PARACADUTISMO

Il 27 aprile 1928 perse la vita in un lancio il capo del Genio Aeronautico e Freri dovette darsi animo e corposo all’azione di proselitismo per far riacquistare fiducia nel suo paracadute. Nel 1941 la geniale invenzione di Lisi. Le temerarie esibizioni di Ivo Viscardi, interrotte a causa di un incidente


TRAGEDIA A MONTECELIO
La morte del generale Guidoni rischiò di interrompere la marcia trionfale del Salvador
ALDO GIORLEO

La marcia trionfale del Salvator rischiò di essere interrotta dal luttuoso incidente capitato al generale Alessandro Guidoni 48 anni, tecnico di grande valore, inventore, insieme con Crocco, della bomba aerea radiocomandata. Guidoni, che era a capo del Genio Aeronautico e conosceva Freri da tempo, volle provare, pur non avendo una preparazione specifica, il lancio col paracadute, in quanto non era convinto del perfetto funzionamento dell’apertura comandata. Ciò è provato da una lettera che il generale lasciò al suo diretto collaboratore, colonnello Amedeo Fiore: «Ho qualche dubbio sul funzionamento di alcuni organi del paracadute Freri, e in particolare del sistema di tranciamento. Perciò ho deciso di provarlo io stesso, domattina. Nel caso di esito sfavorevole, ritengo che si dovrebbe portare il comando dell'apertura più verso il centro, oppure sostituirlo con un anello da tirarsi con la destra, come nel tipo Irving. Nel complesso, il paracadute è buono, ma il suo prezzo, per la nuova serie di mille, dovrebbe essere ridotto a lire 7000».
La sciagura avvenne la mattina dei 27 aprile de l928 sull'aeroporto di Montecelio. Non ci furono testimoni, all'infuori di Freri che era alla guida dell’aereo, un R. 22. Sembra impossibile che un tecnico come Guidoni si sia lasciato prendere dalla precipitazione; eppure ‑ secondo la relazione di Freri ~ il generale, uscito dalla carlinga a 1.200 metri di quota su invito dello stesso Freri a prepararsi per il lancio, “si mise a fare delle mosse come per comandare l'apertura del paracadute”. “Ridussi ancora il motore ‑ continua la relazione ‑ e gli urlai, facendo pure cenno con la mano, di attendere, di avere calma. Il generale non mi guardava: sembrava mal ‑ sopportare il vento che l'investiva completamente e mi parve che volesse, o desiderasse, aprire il paracadute. Con forza e chiaramente, urlai a più riprese di attendere e con la mano sinistra ripetei i segnali caratteristici di non avere fretta, di aver calma. Ebbi l’impressione d'essere compreso; provai un vero sollievo, perché non solo non eravamo sulla verticale del campo ove doveva avvenire il lancio, ma eravamo addirittura ancora fuori dell'aeroporto di circa due chilometri e sopra un terreno che sapevo essere pieno d'ostacoli. Mi tranquillizzai e pensai: fra poco farò il segnale convenuto e il generale si lascerà scivolare via, poi il paracadute, con la sua immancabile precisione e sicurezza, sistemerà il resto”.
Ma non fu affatto cosi. Quando l'aereo stava per giungere sulla verticale dei campo, Freri si voltò a guardare il generale e “come un baleno, vidi che egli impulsivamente comandava l'apertura del paracadute senza gettarsi. Vidi il paracadute‑pilota schizzare a destra della fusoliera e la fuoruscita della calotta presa dal vento. Istintivamente, per evitare che il paracadute investisse i piani di coda o il timone di direzione, picchiai fortemente l'aeroplano e gridai al generale di buttarsi. Fu un attimo. Egli si gettò all’indietro dando una grande spinta all'aeroplano ... “. Lasciando in quel modo l'aereo, Guidoni compì una serie di ruzzoloni all'indietro, e una caduta di quel genere può provocare, specie a chi è al primo lancio, perdita d’orientamento obnubilamento dei sensi, per cui è istintivo aggrapparsi a qualcosa. Sforttuna volle che Il generale afferrasse disperatamente le funi di sospensione, che si sfilavano dalla custodia passandogli sotto il braccio. In tali modo la calotta non riunisci ad aprirsi “fece fiamma”come si dice in gergo, e Guidoni si sfracellò al suolo. Alla sua memoria fu conferita la medaglia d'oro al valore aeronautico e Mussolini volle che Montecelio prendesse il nome di Guidonia.
La sciagura si abbatté sul capo di Freri come una mazzata. Autorizzato dal ministero, si mise in giro per l'Italia per spiegare che s’era trattato d'una fatalità ma i piloti erano restii, non volevano più sentir parlare dì paracadute. Finché, il 18 giugno 1928, il maggiore pilota Francesco Cutrì, che era a bordo di un A. 120 investito dalle fiamme, si salvò gettandosi col paracadute; il suo secondo, sergente Carlo Garavaglia, che aveva tentato di riportare il velivolo a terra perse la vita. Il salvataggio di Cutrì riportò il Salvator sulla cresta dell'onda. Da quel giorno, numerosi altri piloti si salvarono grazie al paracadute. Tra di essi, Mario De Bernardi, il «calligrafo dei cielo», il cui aereo, l'8 maggio del 1930, era venuto a collisione con un altro velivolo.
Freri, costituita la nuova società Aerostatica Avorio, si ridiede anima e corpo all’azione di proselitisimo che trovo tereno fertile nelle giornate dell’ala. Intanto, aveva messo a punto. con l’ingegner Avorio, il Salvator.D. con unica calotta di 46 metri quadrati a deformazione elastica e perciò resistentissima; velocità di discesa. circa 6metri il secondo; duplice apertura: automatica e comandata.
1’8 giugno 1930 si svolse all’aeroporto di Centocelle la prima Giornata dell’ala (la seconda ebbe luogo il 27 maggio del, 32) alla presenza del re, di Mussolini, di autorità poltitiche e militari e d'una gran folla. Piatto forte della manifestazione, il lancio di sedici paracadutisti da due Ca. 73. Uno dei sedici era un giovane spoletino, motorista dell’Aeronautica sul punto di congedarsi. Si chiamava Ivo Viscardi, ed era destinato a far parlare di sé nel mondo del paracadutismo. Ingaggiato da Freri per recarsi all’estero a continuare il giro di divulgazione del Salvator, egli fece una serie di lanci in Germania, Belgio, Francia, Turchia, Romania e Lettonia. Al ritorno in Italia. continuò a esibirsi per conto dell’Aero Club, spesso in coppia con paracadutisti stranieri. In breve diede inizio a una tradizione di virtuosismo paracadutistico, compiendo tra l'altro un esercizio assolutamente temerario che consisteva nel lanciarsi con due paracadute, nell'aprirne uno, quindi nell’abbandonarlo per percorrere un altro tratto in caduta libera, aprendo alla fine il secondo paracadute a pochi metri dal suolo. Nel 1935, durante la campagna etiopica, l'audace spoletino, che aveva trovato anche il tempo per prendere il brevetto di pilota, fu ingaggiato da una grossa ditta milanese che stava costruendo un tronco dell'autostrada Assab‑Addis Abeba: trasportava con un Caproni viveri e medicinali. Nel 1937, tornato in patria, riprese l'attività lancistica.
Si avvicinava, intanto, la seconda guerra mondiale e Viscardi veniva richiamato in servizio e assegnato all’aeroporto di Guidonia. Qui un giorno ricevette una lettera di un autonoleggiatore di Spoleto un,certo Lisi, il quale annunciava di aver inventato qualcosa in fatto di paracadute.che valeva la pena di provare: un dispositivo che permetteva di regolare la velocità in qualsiasi momento della discesa, aprendo e chiudendo la calotta. “Capirà ‑ diceva la lettera ‑ che un conto è venir giù con Il paracadute aperto, quindi in balìa del vento, e per di più soggetti al tiro nemico; un altro conto è poter ridurre la calotta, aumentare la velocità di discesa e, soprattutto, poter dirigere il paracadute molto meglio di quanto sia possibile fare con i tipi a calotta fissa. Ora chiedo se lei è disposto a provarlo? Viscardi non era certo tipo da tirarsi indietro, e accettò con entusiasmo. I due trovarono un finanziatore nella persona dei banchiere Ugo Natali e, ottenuta l'autorizzazione delle autorità militari, cominciarono le prove con i manichini al Centro sperimentale di Guidonia. Poi il 21 novembre del 1941 ‑ l'Italia era in guerra da oltre un anno ‑ Viscardi collaudò di persona il paracadute. Risultato ottimo, il Lisi, con la calotta rovesciata a tulipano, permetteva una discesa non più alla mercè delle condizioni atmosferiche, ed era manovrabile al punto di raggiungere la zona d'atterraggio prestabilita.
Dopo altri riusciti lanci fu deciso che le prescritte dieci prove ufficiali d'omologazione dovessero svolgersi a Tarquinia (dove, dopo anni di polemiche, era sorta la scuola militare di paracadutismo) e Viscardi, ottenuta una licenza illimitata dall’Aeronautica, si mise a disposizione del Reparto studi ed esperienze della scuola. Le prove d'omologazione ebbero inizio nel gennaio 1942. A una di esse, svoltasi con un tempo pessimo, assistette Mussolini, capitato in visita alla scuola. Fattosi portare a mille metri d'altezza con un Ro.1, Viscardi si lanciò e, nonostante il vento furioso, apri e chiuse tre volte il paracadute. Mussolini lo guardava venir giù e teneva il labbro inferiore serrato tra i denti. Poi volle conoscere l'audace paracadutista, gli batté una mano sulla spalla e l'invitò ad andare a Palazzo Venezia. Al posto di Viscardi ci andò un dirigente della ditta costruttrice e in tale occasione fu deciso che il nuovo paracadute si sarebbe chiamato «Aprile».
Proseguivano intanto i lanci d'omologazione e tutto sembrava andar bene, quando al penultimo lancio, il 21 marzo dei 1942, avvenne un incidente gravissimo che costrinse Viscardi a cessare l'attività paracadutistica dopo 185 discese. Buttatosi da duemila metri, doveva cercare di atterrare al centro di un telone. Venne giù lentamente per qualche centinaio di metri e, con movimenti delle braccia e delle gambe, si diresse verso il telone; quando fu sopra di esso tirò l'apposita fune e la calotta si rovesciò facendo aumentare la velocità a 80 chilometri l'ora. A circa 150 metri dal suolo, allentò la fune per provocare la riapertura totale del paracadute, ma il dispositivo non funzionò, la calotta restò a tulipano ed egli piombò giù come un sasso. Credevano di trovarlo morto, invece lo raccolsero che respirava. Fu ingessato dal collo ai piedi, stette mesi e mesi con un busto di ferro, poi passò alle grucce, poi al bastone, infine fece a meno anche di quello, pur rimanendo minorato al piede destro. La sua indomita volontà gli permise di tornare a volare. Riportò altre ferite in un atterraggio fuori campo presso Latina, poi si iscrisse a un corso di volo a vela. il 16 luglio del'53, a Dobbiaco, durante una prova di traino a doppio comando, per un errore di manovra dell'istruttore l'aliante precipitò, l'istruttore perse la vita, Viscardi riuscì a cavarsela ancora una volta, riportando una serie di fratture.
Il paracadute Lisi, ripudiati) nel dopoguerra il nome di «Aprile», migliorato nel funzionamento, venne usato di tanto in tanto da paracadutisti sia militari sia civili, finché l'avvento dei paracadute con fenditure e poi di quelli ad ala non lo rese anacronistico

E NACQUE LA FOLGORE


Dal Secolo d’Italia

STORIA DEL PARACADUTISMO

Nel centro di addestramento. della cittadina etrusca fondato nel'40, il colonnello Giuseppe Baudoin de Giliette preparò un'intera generazione di eroici paracadutisti. Nel’42 fu realizzato un nuovo tipo di “ombrello di seta” e nel'43 sorse un’altra scuola a Viterbo. Il primo lancio del
Gigantesco Erminio Spalla


E NACQUE LA FOLGORE
A Tarquinia si formarono i paracadutisti che si coprirono di gloria a El Alamein
ALDO GIORLEO


CON l'approssimarsi della seconda guerra mondiale andò sempre più sviluppandosi il paracadutismo militare. Le nazioni che per prime intuirono le possibilità d’impiego, in una guerra moderna, delle truppe aeroportate furono la Russia, la Germania e l’Italia. Gli Alleati solo in un secondo tempo presero in considerazione la possibilità di costituire reparti di paracadutisti e di soldati trasportati con alianti, anche se poi lo fecero in grande stile fino ad avere, sul finire dei conflitti, un’Armata aviotrasportata.
I russi sin dagli anni '30 diedero inizio alla sperimentazione di questo tipo di reparti da essi definiti “di destinazione speciale”, e nel 1935, alle manovre nella zona, di Kiev, lasciarono di stucco gli addetti militari delle nazioni europee, i quali assistettero al lancio simultaneo di 1.200 paracadutisti che, una volta giunti al suolo, approntarono in breve tempo un campo d'atterraggio sul quale si posarono stormi da trasporto che scaricarono altri 2.500 uomini con mezzi corazzati, semoventi, veicoli e attrezzature del genio.
Nonostante, però, queste favorevoli premesse, le poche operazioni di lanci massicci (come quella di Wiazma a fine gennaio del '42 e quella per il passaggio dei Dnieper nel settembre dei '43) si risolsero in un disastro a causa soprattutto dell'insufficiente numero di aerei da trasporto e delle loro manchevolezze tecniche.
A loro volta i tedeschi, che stupirono il mondo con le operazioni condotte dalla 7^ Flieger Division in Danimarca, Norvegia, Olanda e Belgio (famosa la conquista del complesso fortificato di Eben Emael, nella Maginot, portata a termine da 80 paracadutisti scesi con gli alianti), subiremo un vero e proprio salasso nell'azione di Creta (3.250 caduti e 1.600 feriti soltanto tra i paracadutisti), tanto che da allora le forze aeroportate non furono più impiegate in forma così massiccia.
E l'Italia? Noi, come al solito, ci eravamo distinti nell'impostazione dei problemi connessi all'aggiramento verticale, come in termine tecnico venivano definite le operazioni d'aviolancio, ma quanto alla loro soluzione pratica stavamo perdendo tempo. Da anni si trascinava la querelle tra Esercito e Aeronautica, con l'aggiunta della Milizia per la Sicurezza Nazionale, su a chi spettasse organizzare e gestire l'addestramento dei reparti di paracadutisti, finché un decreto legge del 22 febbraio del'37 stabilì categoricamente: “Fanno parte della Regia Aeronautica le Scuole di paracadutismo”.
Ma di scuole per paracadutisti non ne venne istituita neppure una. A rompere gli indugi fu, nel marzo dell'anno successivo, Italo Balbo, allora governatore della Libia, il quale promosse la costituzione d'una scuola di paracadutismo all'aeroporto di Castel Benito (Tripoli). L’obiettivo era di forma re un battaglione di “fanti dell'aria” libici affidandone il comando a uno dei più esperti e valorosi ufficiali coloniali, il tenente colonnello Goffredo Tonini, medaglia d'oro. Si lavorava su un terreno vergine, bisognava continuamente inventare, l'ad­destramento era reso difficile anche dall'innata diffidenza delle truppe di colore per le “macchine volanti”. Freri andò in Libia e si diede ad addestrare all'uso del paracadute Salvator D.37 gli ufficiali destinati a diventare istruttori dei libici. Tutto fu fatto io rapidamente e gli ascari, una volta presa confidenza con gli aerei e i paracadute, divennero eccellenti atleti.
Purtroppo. le prime prove, compiute con apparecchi da bombardamento S.81, inadatti alle operazioni di lancio, comportarono un sanguinoso pedaggio: ci furono 15 morti e 72 feriti. Comunque si continuò, costituendo un secondo battaglione, fin quando, il 23 maggio 1938, tutto il reggimento venne lanciato nella piana di Bir Ganem: un risultato straordinario. Qualche tempo dopo il reggimento veniva di nuovo contratto alla forza di un battaglione, ma nel contempo a Barce veniva costituito un battaglione di paracadutisti nazionali, al comando dei maggiore Arturo Calascibetta. Questa volta si pose maggiore cura alla parte tecnica: furono impiegati aerei più efficienti, gli SM. 75 dell’Ala Littoria opportunamente modificati, mentre il Salvator D. 37 fu sostituito dal D. 39 e dal D. 40 che avevano calotte di maggiori dimensioni e consentivano minori velocità di discesa.
Intanto, nella primavera del'40, era sorta anche in Italia, e precisamente a Tarquinia, una scuola militare di paracadutismo. L’uomo di Tarquinia era il colonnello pilota paracadutista Giuseppe Baudoin de Giliette, che divenne il padre spirituale di tutti i paracadutisti italiani. Nella cittadina etrusca accorsero giovani da ogni specialità delle Forze Armate, sicché la selezione poté essere rigorosissima il 60 per cento dei volontari fu scartato, e co1oro che rimasero erano veramente ragazzi di prim’ordine.
Le difficoltà, secondo il costume, italico, furono enormi; a Tarquinia c’erano solo un modesto campo d'aviazione, una manica a vento e alcune baracche. Baudoin non si perse d'animo e, con l'aiuto di validi collaboratori riusci a riattare e am­pliare, il campo, a far sorgere.come per incanto alloggiamenti magazzini e solide baracche. Dalla piazza d’armi di Villa Glori a Roma, fu fatta sparire una torre metallica di circa 60 metri usata dai vigili del.fuoco del Genio Militare, che venne rimontata alla chetichella sul campo di Tarquinia Il vecchio paracadute Salvator riservava però un'amara sorpresa al comandante e ai suoi ragazzi: in due giorni si ebbero quattro morti, l'impressione negli alti comandi fu enorme, si ordinò la sospensione dei lanci in attesa dei risultato dell'inchiesta Il fatto è che il Salvator era un paracadute, studiato originariamente per il salvataggio degli aviatori che richiedeva una perfetta manutenzione e un accurato ripiegamento, cose, queste sovente impedite dal.gran numero dei lanci d'addestramento di truppe paracadutiste.
Toccò al Reparto studi ed esperienze della scuola mettere a punto un nuovo paracadute, l’IF. 41/SP (Imbracatura Fanteria mod. 1941 ‑ Scuola Paracadutisti), molto simile al paracadute RZ. 36 usato dai paracadutisti tedeschi che diede ottimi risultati. Esso aveva l'imbracatura costituita da due bretelle e due cosciali; una calotta di 56 metri quadrati, divisa in venti settori diagonali, ciascuno dei quali a sua volta diviso in cinque zone per aumentarne la resistenza; un fascio funicolare composto di venti funi di canapa capaci ognuna di resistere a una trazione di 130P chili; una fune di vincolo avente una resistenza di 750 chili. La calotta, anziché essere estratta mediante, il pilotino come nel Salvator, era costretta a sfilarsi dalla custodia in seguito alla tensione della fune di vincolo. determinata.dal peso dei paracadutista. La velocità di discesa era di 5 metri e mezzo al secondo. Con questo nuovo paracadute s'impose una diversa tecnica di lancio: non più a perpendicolo con la mano destra sulla maniglia dell'apertura di sicurezza, ma “ad angelo”, proiettandosi, fuori della fusoliera con braccia e gambe, aperte, il corpo arcuato e il Capo eretto.
Tarquinia prese a viaggiare e pieno ritmo, rigurgitava di giovani gagliardi ed entusiasti, destinati a formare quella divisione “Folgore” che, alcuni mesi dopo, si copri di gloria a El Alamein.
Su tutti e su tutto presiedeva, Baudoin, che, nella sua severità era sempre pronto a prendere le difese dei suoi ragazzi. Come fece quella volta che venne chiamato a rapporto da Mussolini perché alcuni ufficiali paracadutisti in permesso a Roma, ingaggiata in un caffè sotto I portici dell'Esedra una discussione un po' vivace con un gruppo di giovanotti eleganti - a quel tempo si chiamavano gagà ‑ curiosi di sapere chi fossero quei soldati un po' “strani”, avevano a loro volta chiesto agli elegantoni come mai non fossero sotto le armi e alla risposta ironica avevano tagliato loro le cravatte. Venuto a conoscenza dei fatto in quanto tra i danneggiati c’era il figlio di un importante generale, il Duce aveva ritenuto opportuno intervenire. Ma si senti rispondere da Baudoin: “Se il ventiquattrenne signorino, figlio del signor generale che avete nominato, anziché bighellonare in giro, indossasse la divisa da paracadutista, nessuno gli taglierebbe la cravatta. E vi dirò di più, Duce: secondo informazioni in mio possesso, non solo la cravatta fu tagliata al signorino in questione, ma all’orché egli disse in tono minaccioso di essere figlio d'una eccellenza, i paracadutisti gli tagliarono anche il biondo ciuffo che vezzosamente adornava la sua fronte. E mi meraviglia che i miei uomini non l'abbiano preso a ceffoni, il che vi dimostra quanto longanimi siano i paracadutisti verso questi figli di papà, i quali, anziché spassarsela nei caffè, come evidentemente si permette loro di fare, avrebbero il dovere di vendere cara la porca pellaccia su un qualsiasi campo di battaglia”. Nessuno aveva mai parlato con tanta franchezza e crudezza al Duce, l'allusione a chi permetteva gli imboscamenti era fin troppo palese, c'era da aspettarsi chissà quale reazione.
Invece Mussolini, colpito da un linguaggio così appassionato e sincero, si limitò a dire: “Capisco, mi rendo conto... Non bisogna però drammatizzare; è necessario spianare, non inasprire, molte situazioni ... “. E, ovviamente, di sanzioni per i paracadutisti non si parlò neppure.
Nel novembre del '42, proprio nei giorni in cui si compiva nel deserto egiziano l'epopea della “Folgore, giunse a Baudoin l'ordine di lasciare Tarquinia e assumere il comando delle forze aeree della Corsica. Agli inizi del '43, a Tarquinia, ormai sovraffollata, si affiancava la nuova scuola di Viterbo, dove furono addestrati parte dei paracadutisti, della divisione “Nembo” e alcuni battaglioni di una costituenda terza divisione, la “Ciclone”, nonché un secondo battaglione Adra (Arditi distruttori dell’Aeronautica), una sorta di commandos italiani come i loro omologhi dell'Esercito (X Reggimento Arditi) e della Marina (Nuotatori Paracadutisti del Battaglione San Marco).
A Viterbo si brevettò, tra gli altri, un parà fuori del comune, il gigantesco Erminio Spalla, ex‑campione europeo di pugilato, categoria pesi massimi, arruolatosi volontario tra gli arditi del cielo, sull'esempio del famoso pugile tedesco Max Schmeling, che aveva partecipato al lancio di guerra su Creta. Il primo lancio di Spalla fu un avvenimento. Data la sua mole, bisognò ricorrere a un paracadute usato per i carichi da 200 chili. L’aereo, per maggiore precauzione, si alzò sino a duemila metri e il buon Erminio si proiettò senza alcuna esitazione fuori della carlinga. Stette ad aspettare a occhi chiusi lo strappo d'apertura, poi prese a dondolare nell'azzurro guardandosi attorno pieno di meraviglia e avvertendo dentro di sé un gran senso di pace. Stava tanto bene in aria che non s'accorse d'essere arrivato a terra e non pensò a fare la capovolta. Al comandante della scuola che gli si faceva incontro, gridò: “Mi scusi, signor colonnello, ho dimenticato la capriola, ma se vuole gliene faccio subito una ... “. E il comandante: “Non importa, non importa Bravo Spalla, la farai la prossima vo1ta…”.

MANCO' LA FORTUNA

Dal Secolo d’Italia

STORIA DEL PARACADUTISMO

Gli «arditi del cielo» addestrati a Tarquinia per l'impresa di Malta furono “bruciati”nel crogiolo della africana senza potersi lanciare sul nemico. La conquista, di Cefalonia. La scuola di Viterbo e quella di Tradate (Rsi). La difficile ripresa nel dopoguerra.


“MANCO’LA FORTUNA”
I parà italiani si coprirono di gloria combattendo come fanti
ALDO GIORLEO

SFORTUNATO destino quello dei paracadutisti usciti dalle scuole diTarquinia e di Viterbo. Essi non poterono mai lanciarsi dall'alto sul nemico, e furono in gran parte “bruciati” nel crogiolo della guerra africana. Così come era avvenuto nel 1941 per i «fanti dell’aria» libici e per lo splendido I Battaglione Carabinieri Paracadutisti immolatisi all'Uadi Bakur, a Derna e lungo la Balbia, anche la “Folgore”, accuratamente preparata per l’impresa di Malta, venne sacrificata come truppa di fanteria nella battaglia di El Alamein, stupendo amici e nemici per lo straordinario valore. E identica sorte toccò, nel 1943, al I Battaglione Paracadutisti dell’Aeronautica, anch'esso destinato al lancio su Malta e invece distrutto nell'estrema difesa della Quarta sponda.
Un lancio di guerra, comunque, ci fu, nell'aprile del'41. Si trattò d'una operazione tutto sommato modesta, preparata more solito, con alquanta approssimazione e risoltasi fortunatamente in modo incruento. Protagonista, una compagnia del II battaglione del maggiore Zanninovich, impiegata per l'occupazione di Cefalonia Mentre i 250 gendarmi greci del presidio si arrendevano senza sparare un colpo, Zanninovich provvedeva a far lanciare sull'isola sacchi di viveri e di farina per la popolazione affamata. Pure senza colpo ferire veniva portata a termine, subito dopo, l’occupazione di Zante e di Itaca: questa volta si trattò d'un breve viaggio in barca, con qualche decina di paracadutisti trasformatisi in marinai.
Altro impiego bellico dal cielo si ebbe poi nel '43 ad opera di alcune pattuglie del X Arditi e dellAdra lanciate in Nord Africa e nella Sicilia invasa per compiere azioni di sabotaggio. Ma era troppo tardi, ormai: l'8 settembre si avvicinava col suo carico di; avvilimento, di delusione di vigliaccheria. Per i paracadutisti della «Nembo», scaglionati parte in Calabria (un reggimento), parte in Sardegna (il resto della divisione), il voltafaccia di Badoglio fu un'autentica mazzata che causò laceranti drammi di coscienza. In Calabria il III battaglione del capitano Edoardo Sala decise di continuare la guerra a fianco dell'alleato tedesco per salvaguardare l'onore d'Italia. Altrettanto fece in Sardegna il XII battaglione dei maggiore Mario Rizzatti che segni in Corsica la 90^ Panzer tedesca. L’avvenimento gettò gli altri reparti nel caos: fughe isolate per raggiungere i tedeschi; un battaglione - il X ‑ sciolto d'autorità; molti sottufficiali e ufficiali, tra i quali il vicecomandante della divisione, colonnello Tantillo, e un comandante di raggruppamento, maggiore Invrea, messi agli arresti; il capo di Stato Maggiore, tenente colonnello Bechi Luserna, già della “Folgore” in Africa, colpito a morte mentre tentava di convincere i “ribelli” a ubbidire agli ordini di Badoglio. Sarà la prima medaglia d'oro della guerra di liberazione.
Da quel momento i paracadutisti, divisi da un'artificiosa barriera, continuarono a battersi valorosamente su fronti contrapposti. Quelli dei Nord si distinsero a Nettuno, nella difesa di Roma e sulle Alpi occidentali; quelli del, Sud nelle Mainarde, a Filottrano, a Grizzano, ed ebbero anche la soddisfazione di un lancio di 255 uomini del reggimento «Nembo» e dello Squadrone F alle spalle dei tedeschi in ritirata nella pianura padana il 21 aprile del'45. Ma a guerra finita gli uni e gli altri torneranno ad abbracciarsi come Fratelli e si ritroveranno nella loro associazione d’arma per riprendere l’attività lancistica.
Grazie all'abnegazione di un gruppo di Istruttori di Tarquinia e di Viterbo, al Nord sorse alla fine del'43, un'efficiente scuola di paracadutismo affidata alle cure del tenente colonnello Edvino Dalmas, che aveva comandato sia il I Battaglione dell’Aeronautica sia il Battaglione Adra. Alla scuola, avente sede a Tradate
(i lanci avvenivano nel vicino aeroporto di Venegono), affluirono centinaia e centinaia di giovani entusiasti i più dotati fisicamente e moralmente tra le migliaia di volontari della Rsi.
A Tradate vennero addestrati e lanciati i paracadutisti del Reggimento “Folgore”, i nuotatori‑paracadutisti della X^ Mas, i legionari dei battaglione paracadutisti “Mazzarini” della Gnr. I paracadutisti del Sud, dal canto loro, si allenarono alla scuola di lancio messa su dagli inglesi a San Vito dei Normanni.
Nel dopoguerra la ripresa del paracadutismo fu lenta e difficile Il trattato di pace vietava all'Italia di avere truppe aviotrasportate, per cui potè essere allestito soltanto un piccolo nucleo sperimentale di paracadutisti, ospitato nei locali di palazzo Salviati a Roma. I reduci dell’una e dell’altra sponda cominciarono a lanciarsi con materiale di fortuna da aerei SM 82 prestati dall’Ordine di Malta. Non esistevano, a quell'epoca regolamenti sull’attività sportiva paracadutistica e mentre altre nazioni come la Francia,
l'Urss. e gli Stati Uniti stavano dando Impulso e disciplina a questo nuovo tipo di sport, da noi si procedeva i maniera empirica. I lanci caratterizzati dall’assurda sfida a chi apriva più in basso furono funestati da una serie di incidenti mortali. Tra i campioni della. caduta libera, persero la vita Fumagalli, Pecoraro, Cannarozzo, Vespa,Mura, Cavatorta, Persevalli, Taiani ed altri. Eppure, furono proprio gli italiani a lanciare l’idea di un campionato mondiale di paracadutismo, che si svolse nel '51 a Bled, in Jugoslavia. Tra i nostri “assi” figuravano due appartenenti all’Aeronautica Militare, l'allora maggiore Enrico Milani e l’aiutante di battaglia Sauro Rinaldi i quali insieme con Cannarozzo, formavano un trio formidabile, più volte esibitosi anche all’estero, riscuotendo l'ammirazione delle folle. A Bled Milani si classificò primo nella precisione a terra (si trattava di centrare un cerchio di 50 metri di diametro) ma perse il titolo perché non sapeva nuotare. Infatti una delle prove prevedeva un lancio in acqua; dal punto di arrivo bisognava raggiungere a nuoto la boa bersaglio. Il 25 febbraio del 53 Sauro Rinaldi conquistò il record italiano di altezza lanciandosi con inalatore d'ossigeno da 8261 metri e compiendo con un paracadute Salvador D. 5O, una caduta libera di 150 secondi; l'anno dopo batté il suo stesso primato effettuando un lancio da 9.800 metri con una caduta libera di 2 minuti e 47 secondi.
Intanto, di pari passo con lo sviluppo del paracadutismo sportivo, nel quale profusero la loro passione reduci di guerra come Bonciani; De Angelis, Landi (specializzatosi nel «Lisi»), Ganzini Mancioli, Malavasi, Bianchi, Piccinni, Naldini e il tecnico Luciano Malpeli, procedeva anche il paracadutismo militare, al quale diedero grande impulso uomini. come Turrini, che era stato capoistruttore a Tarquinia, Izzo, Argento, Jubini e altri.
Venute meno, con l'adesione dell'Italia alla Nato, le restrizioni del trattato di pace, fu possibile organizzare, prima a Viterbo, quindi a Pisa, un Centro militare di paracadutismo (CMP), affinare le tecniche e rinnovare il materiale. Nel '53 il vecchio fedele I. F. 41/Sp fu sostituito da un paracadute di più moderna concezione, il CMP, 53, dalla velatura in nylon di 73 metri quadrati dotato di bretelle direzionali. Inoltre venne adottato per la prima volta un paracadute ausiliario, o d’emergenza, il. 53, che dava un'eccezionale garanzia ai lanci Due anni dopo, a questi modelli ne subentrarono due ancora più perfezionati: il CMP. 55, dalla calotta a basco di ben 90 metri quadrati talmente sicuro da essere battezzato “il paracadute della nonna”, e l'ausiliario I 56. Anche i gloriosi aerei SM. 82 vennero posti in disarmo nel '56 e sostituiti dai Fairchild C 119. Cominciarono cosi a risorgere reparti organici di paracadutisti, fino ad arrivare, nel 1963, alla costituzione della Brigata «Folgore», fiore all’occhiello, dei nostro Esercito.
Gli anni '60 segnano una svolta definitiva nell’attività paracadutistica sia sportiva sia militare. Entrano in funzione paracadute a fenditura semplice e a calotta rientrante, come i francesi Efa (il 65/20 Paraclub, il 683 Olimpic, il 687 Papillon l'italiano D. 65, lo statunitense Paracommander Mk 1), che permettono una notevole manovrabilità mediante un sistema di virata, di frenata e di stallo. Sempre in quegli anni sorse a Perugia una scuola nazionale di paracadutismo sportivo gestita dall’Aero Club. Alcuni militari presero a frequentarla, sia pure senza l'autorizzazione dei superiori comandi. Di fronte al fatto compiuto, lo Stato Maggiore dell'Esercito autorizzò nel 1962 due appartenenti al CMP, i sergenti maggiori Guidolin e Negretti a partecipare a un corso d'apertura comandata alla scuola francese di Pau.
A questi precursori se ne aggiunsero altri come l'allora maggiore Argento e i capitani Goffis e Mattei che presero parte nel 1965 al primo campionato nazionale vinto dal tenente dell'Aeronautica Benito Buldrini.
Nel '66 nasceva ufficialmente la Squadra nazionale sportiva della Smipar (Scuola Militare di Paracadutismo),
nuova denominazione del CMP, Da allora fu tutto un crescendo di successi da parte degli atleti militari, campioni assoluti negli anni '67, 68, 71 e 73 e campioni di precisione negli anni'71, 72 e 73. Equipe alla quale si aggiunsero poi gli “assi” Ottaviani, Sacchetti e Serenelli, s'aggiudicava anche:il titolo di precisione
a squadre negli anni 70, 71e 72, nonché nove trofei internazionali e cinquanta nazionali. Nel 1973 la squadra veniva trasformata in Sezione paracadutismo sportivo dei CSE (Centro Sportivo Esercito) e l'anno dopo si aggiudicava il primo posto nelle gare di precisione: al settimo campionato Militare di paracadutismo sportivo svoltosi a Fort Bragg, negli Stati Uniti. Ma in quegli anni an­davano affermandosi anche paracadutisti civili come tanto per citarne alcuni ‑ De Monti, Bauchal, Valsecchi, Malavasi, Fortarel, Trettel, Bolengo, anche se in sede internazionale venivano surclassati dai cam­pioni americani e, soprattutto, da quelli dei Paesi del­l'Est, abituati a compiere centinaia di lanci, d'allenamento a spese dello Stato.
Nel 1975 si registra un exploit della partecipazione femminile. Pina Madinelli dell'Aero Club di Verona, trionfa nelle gare di precisione al campionato europeo di Portorose, in Jugoslavia. battendo le fortissime campionesse sovietiche e cecoslovacche. Per l'atleta azzurra si profila un avvenire carico di soddisfazioni. Purtroppo, il 20 aprile del '76, mentre si allena a Guidonia in vista dei campionati mondiali svoltisi quell'anno a Roma. muore in un incidente di lancio. La grande famiglia dei paracadutisti è in lutto

LA PALESTRA DEL CIELO


Dal Secolo d’Italia


STORIA DEL PARACADUTISMO


Questo affascinante sport ha fatto passi da gigante nell'ultimo ventennio.Con l'avvento dell'”ala” e con i progressi nella tecnica della caduta libera si sono ottenuti risultati un tempo inconcepibili. I successi degli italiani



LA PALESTRA DEL CIELO


Tre medaglie per i nostri campioni nell'ultima competizione mondiale
ALDO GIORLEO


NELL’ULTIMO ventennio il paracadutismo ha fatto passi da gigante in tutto il mondo. L’avvento dei paracadute ad ala ha rivoluzionato questo affascinante sport: basti pensare che nelle gare di precisione in atterraggio il diametro del cerchio di bersaglio, che nel primo campionato mondiale di Bled era di cinquanta metri si è ridotto a soli tre centimetri e che molti paracadutisti riescono facilmente a centrarlo.
L’ala, basata sulla struttura multicellulare ideata dall'ingegnere canadese Domino Jalbert, funziona, anziché per resistenza della calotta all'aria come avviene nel paracadute tondo, per portanza da essa stessa generata. L’ala compie quindi un vero e proprio volo planato, simile a quello dell'aliante, e può essere manovrata mediante appositi comandi che permettono di ampliare o ridurre la velocità di discesa e, ciò che più conta, di compiere virate e frenate prima dell'atterraggio, che è di rigore affrontarlo controvento.
Le prime realizzazioni di ali plananti - Delta 2 Parawing e Volplane - furono appannaggio delle ditte americane Irvin e Pioneer. A questi modelli fecero seguito quelli della Para‑Flite (Paraplane, Paraplane Cloud, Strato Star, Silver Cloud), tuttora in uso assieme al Parafoil 252 e al Cirrus, particolarmente adatti all'attività agonistica. Per scopi militari, nei lanci sia con tecnica Halo (uscita dall'aereo ad alta quota con apertura dell'ala a quota bassa in modo da sfuggire all'attenzione dei nemico) sia con tecnica Haho (apertura ad alta quota e successivo volo planato che può raggiungere persino i 35 chilometri) vengono usati particolari tipi di equipaggiamento “tutto dietro”, vale a dire con il sacco custodia dell'emergenza fissato alle spalle del paracadutista insieme con quello della vela principale. I nostri incursori del reggimento "Col Moschin" inquadrato nella brigata “Folgore” e del Comsubin della marina sono e equipaggiati con l’Mt.1, mentre agli altri militari, che usano paracadute tondi ad apertura automatica è stato di recente assegnato in sostituzione del Cmp 55, l’Irvin. 80, poco ingombrante e abbastanza maneggevole.
Ma prescindere dall’avvento dell’ala, si è anche registrato un eccezionale affinamento delle tecniche di caduta libera, che ha portato a esibizioni un tempo inconcepibili e alla nascita anche in Italia accanto alle scuole nazionali dell’ANPd’I (Pavullo) e dell’Aero Club (Ampugnano), d’una serie di altre scuole, centri d’addestramento, club e accademie anche a gestione privata. Questo renderebbe necessario un maggiore coordinamento dell’attività paracadutistica, come va da tempo ammonendo un uomo che al paracadutismo ha dedicato, si può dire l’intera esistenza: il generale Valdimiro Rossi, già comandante della scuola di Pisa ed ex presidente dell’ANPd’I.
Alle gare di precisione e di stile (queste ultime consistono nell’esecuzione a paracadute chiuso di figure acrobatiche in varia sequenza) sono aggiunte quelle di lavoro relativo (Relative Work) praticate da quattro od otto paracadutisti che debbono eseguire in caduta libera determinate “composizioni” e quelle di canopy contact (C.R.W.) che prevedono un lavoro relativo a paracadute aperto in modo da formare svariate suggestive combinazioni geometriche. Le gare di precisione sono individuali quelle di stile possono essere individuali o di squadra (formata da quattro elementi più una riserva) e i loro risultati sommati, danno luogo a una classifica detta “di combinata”. Per accedere alle gare, bisogna essere in possesso di un'apposita licenza rilasciata dall’Aero Club d’Italia per delega della Federazione aeronautica internazionale.

Nei campionati mondiali le squadre italiane, pur non potendo reggere il confronto con i fortissimi russi, tedeschi, cecoslovacchi, statunitensi e, da ultimo, cinesi, sono comunque riuscite a ottenere, specie in anni recenti, onorevoli piazzamenti, grazie soprattutto alla partecipazione dei militari, che hanno maggiori possibilità di allenamento dei civili. I nomi dei paracadutisti del Centro Sportivo dell'Esercito ‑ capitano Paolo Bertolini, tenenti Paolo Filippini e Antonio Squadrone, sottufficiali Giuseppe Tresoldi, Giorgio Squadrone (fratello di Antonio), Michele Tedesco, Davide Boarino, Silvio Di Tecco, Nicola Longo e altri - ricorrono più volte nelle graduatorie nazionali e internazionali e nel medagliere delle competizioni mondiali tra squadre militari. E lo stesso dicasi per la squadra del Centro Sportivo Carabinieri, in cui svettavano i nomi dei vicebrigadieri Francesco Palumbo, Alessandro Ruggeri e Francesco Signoretti, dell’appuntato Thomas Angerer e del carabiniere Lorenzo Silvestri. Nel 1984 Di Tecco conquisto la medaglia d’oro nella precisione ai mondiali di Vichy ma per una banale distrazione (Il filo staccato a un anemometro) venne retrocesso al terzo posto; nel 1995 Ruggeri si aggiudicò il titolo di campione dei mondo nella precisione in atterraggio. Una notevole impresa fu la conquista, ai mondiali dei 1996 a Bekescaba, in Ungheria, di tre medaglie: oro nella precisione individuale (Filippini), argento nella precisione a squadre e bronzo nella combinata per nazioni. Altri successi italiani, l'argento nei mondiali di canopy a quattro svoltosi a Giava e infine l'assegnazione, ai cam­pionati mondiali di stile e di precisione tenutisi quest'anno a Vsar, in Croazia, di due medaglie d'oro nella precisione individuale e a squadre e della medaglia d'argento nella combinata. Il titolo nella precisione individuale è andato per la seconda volta a Fi1ippini che gareggiava insieme con Giorgio Squadrone, Tresoldi, Ruggeri e Palumbo. I militari s’erano aggiudicati quest’anno anche il campionato italiano, con l'exploit del carabiniere Girelli nello stile, seguito da Signoretti e Silvestri e del vicebrigadiere Ruggeri nella precisione individuale, seguito dai marescialli dell’esercito Tresoldi e Squadrone, mentre la combinata era andata a Ruggeri e la precisione a squadre sera conclusa con il primo posto al CSE, il secondo al Centro Sportivo Carabinieri e il terzo all’ANPd’I.
Nel campo femminile, dove per anni ha regnato la statunitense Cheryl Stearms, che ha all'attivo circa diecimila lanci ed è anche pilota d'aereo, si sono distinte Ornella Rosso nello stile, Sandra Rizzi e Anna Madinelli (soltanto omonima della compianta Pina) nella precisione. Tutte e tre si sono aggiudicate i titoli di campionesse nazionali e Anna ha conquistato un onorevole quarto posto nella precisione ai mondiali dei 1986. Sulla loro scia, si stanno facendo onore Marina Ugolini, campionessa di lavoro relativo; Carla Brighetti, protagonista di uno spettacolare lancio da.10.900 metri; Francesca Martuzzi; Antonella Tondi; Francesca Bersani; Silvia Guerreschi; Paola Fereola; Vanna Bazzi; Valeria Venturi.
Oltre alle discipline classiche, esistono altre specialità agonistiche, come il paratrekking (combinata di precisione in atterraggio e marcia di regolarità in montagna) il parasky (atterraggio sulla neve e gara di slalom, in cui eccellono gli italiani Gambirasio. Quagli,. Marchet, Gerda Amplats, Annamaria Bordini, Barbara Doga, Elisabetta Innocenti). Esiste anche una specialità per cosi dire alpina, inventata dall’istruttore dell’Aero Club di Mantova Maurizio Bambini, autore di uno dei pochi manuali di paracadutismo, il quale, Insieme con Hoffer e Maggiori, è atterrato sulla cima del monte Bianco dopo un lancio da 6.200 metri.
Dall’America è giunta anni fa la moda del free‑styIe una sorta di balletto aereo in cui si è specializzata in Italia Stefania Martinengo. Dall'America è arrivato anche il base juniper, che consiste nel lanciarsi dall'alto di una rupe in una vallata o dentro un canalone, col pericolo di schiantarsi contro le pareti rocciose. E Tilde Fanciulli non si è lasciata sfuggire l'occasione di provare il nuovo tipo di lancio, scendendo in caduta libera dalla vetta del Brenta.
Nella frenesia di fare, più che dello sport, del funambolismo, c'è ormai chi si lancia con una tavola da surf o con gli sci agganciati ai piedi, chi in sella a una bicicletta, chi addirittura dentro un'auto, evidentemente destinata alla rottamazione, e persino chi ‑ come ha fatto l'inglese Jan Ashpole nel cielo di Herefordshire ‑ affidandosi a un grappolo di palloncini gonfiati con l'elio e abbandonandoli uno alla volta per aprire il paracadute dopo una veloce discesa di 1.500 metri. Ma il lancio senza dubbio più folle resta quello compiuto nel 1965, presso Los Angeles, da Rod Pack, uno spericolato stuntman in cerca di pubblicità. Egli si gettò da 4.500 metri d'altezza senza paracadute e, dopo una caduta libera di 1.200 metri, riuscì a raggiungere un amico, Bob Allen, lanciatosi poco prima di lui, che gli passò il prezioso sacco custodia contenente il mezzo di salvataggio. Gli andò bene, anche se dovette provare una strizza tremenda. “Quando Bob mi diede il paracadute - ebbe a raccontare Rod Pack ad avventura felicemente conclusa - temetti per un istante di non farcela: il "pacco" fece infatti un balzo nell'aria sopra la mia testa e dovetti stringerlo con tutte le forze perché non mi sfuggisse. Riuscii a tenerlo e ad agganciarmelo addosso con fatica. Provai una sensazione di sollievo ... “.
Fin qui abbiamo detto di agonismo e di esibizionismo, ma bisogna aggiungere che c'è anche chi pratica l'attività lancistica soltanto per un'esigenza spirituale, per soddisfare la “sete d'aria” e sentirsi bene con se stesso. Se i “Falchi blu”, team acrobatico dell'Aeronautica militare, fanno fremere le folle con le loro evoluzioni, tra cui la famosa “bomba Pan”, non è detto che non si debbano apprezzare le discese con l'ala dei “paracadutisti della domenica” (tra questi spicca il generale Giuseppe Palumbo, che a 84 anni possiede l'agilità e l'entusiasmo d'un ventenne) o i lanci vincolati con paracadute tondo praticati da militari in congedo e dai giovani dell’ANPd’I desiderosi di acquisire l'abilitazione per poi magari servire la Patria nei reparti paracadutisti. E se tra questi giovani si trovano dei potenziali futuri campioni sportivi, tanto di guadagnato per il paracadutismo.

martedì 10 luglio 2007

Riservato ad un grandissimo amico di tutti, Roye Lee



Da Libero “Milano” giovedì 05 luglio ’07



La storia

Dopo 25 anni sfrattano Roy
il clochard della Pusterla



Ex cantante del Tennessee, ha riempito di cartoni, libri e cd un vicolo del centro e ne ha fatto la sua casa. È bastato un furgone Amsa per portargliela via

F. VENNI G. CAZZANIGA


••• Hanno buttato via tutto. I suoi giornali, la sua collezione di cd introvabili. Unici arredi della casa di cartone in cui vive ormai da venticinque anni. Roye Lee è il clochard più conosciuto del centro di Milano. La sua storia ha fatto il giro della città. E Libero, qualche tempo fa, l'aveva raccontata. Dorme tra gli scatoloni e i sacchi neri della spazzatura accatastati nel vicolo della Pusterla, dietro via Torino. Un angolo di città in pieno centro che sembra dimenticato da Dio. Lì c'era il suo mondo. Ma venerdì scorso gliel' hanno portato via. Sono arrivati quattro agenti della polizia locale e hanno fatto piazza pulita. «Hanno caricato la sua roba su due furgoncini Amsa», racconta un magazziniere della Fnac. «Pensando al lato umano della faccenda, sono dispiaciuto. C'è da dire, però ‑ aggiunge il ragazzo ‑che quell'angolo stava diventando un immondezzaio».

Lui, Roye Lee, ha opposto resistenza. Ha cercato di salvare il suo rifugio, ma non ce l'ha fatta. E' amareggiato, Roye. «Hanno preso tutto. Non ho più niente. Nemmeno la mia musica». La sua musica. La sua unica ragione di vita, dopo che moglie e figlie, vent'anni fa, lo avevano abbandonato. Seduto su una sedia all'ombra di un albero che lui stesso ha piantato, quasi non curandosi della pioggia battente, ripercorre quella che lui chiama «la favola della mia vita». Dallo sbarco in Italia dagli Stati Uniti nel 1956, all'arrivo a Milano al seguito di Antony Queen nel 1961, alla sua routine, qui, nel cuore di Milano. Dove tutti hanno adottato questo americano di 72 anni, originario del Tennessee che tanto somiglia a Babbo Natale.

«Lo conosco da trent'anni sorride l'edicolante della via ‑. E' da me ogni glomo. Si siede qui accanto e chiacchiera con tutti».

Se lo chiami cantante, lui quasi si offende. «Sono un compositore ‑ sbuffa bonariamente ‑ un artista». Già, i suoi successi country, custoditi in vecchi vinili 45 giri, sono diventati un cd, messo a punto da Angelo, responsabile di un reparto dello store Fnac lì vicino. Una delle tante amicizie che Roye ha coltivato nei dintorni di via Torino. Passeggiare con lui nella zona è un'impresa. A ogni angolo c'è qualcuno che si ferma per salutarlo: commesse, avvocati in giacca e cravatta, semplici amici e compagni di chiacchierate. Gli odono il caffè, il pranzo, a volte qualcosa da bere, gli regalano i giornali, gli prestano il cellulare. Che gli serve, dice lui, per contattare le case disco­grafiche. Vorrebbe scrivere ancora musica, comporla, cantare le decine di pezzi che ha creato negli anni, e, perché no, inciderli e farli ascoltare.

Ed è proprio parlandogli, toccando la corda giusta, che lui inizia a canticchiare. Prima timidamente, poi, una volta preso il la, a gran voce. E tra vecchi successi americani anni Sessanta risuona il ritornello di "Cinque minuti e poi" , testo «che ho scritto io, anche se tutti credono che sia di un altro». Vorrebbe inciderla insieme a Mina. E la canta. La canta con gli occhi lucidi dì un uomo che, alla sua età, ha ancora voglia di sognare.

«Pian piano risistemerò la mia casa ‑ alza le spalle con l'aria di chi nella vita ne ha viste tante ‑ I miei amici mi aiuteranno coi giornali, coi cd». I suoi amici gli esprimono solidarietà.

E quando gli si domanda se ha paura di essere sfrattato dal suo piccolo angolo nel cuore di Milano, allarga le braccia: E come possono mandarmi via? Sono qui da una vita». La pioggia continua a cadere, incessante. Forse, si porta via un po' di amarezza. «I'm singing in the raro ,Lee Roye - Tears (Nothing But Tears)», canta Roye.

giovedì 5 luglio 2007

Da Rivista Aeronautica IL COMPORTAMENTO DELLE TRUPPE ITALIANE SUL FRONTE ORIENTALE (1941-1943)


............................... approfondimento


IL COMPORTAMENTO DELLE TRUPPE ITALIANE SUL FRONTE ORIENTALE (1941-1943)

di Filippo Cappellano

Il tema del comportamento delle truppe italiane sul fronte russo, già al centro di un'infuocata polemica nell'immediato dopoguerra (1), è tornato d'attualità nell'ambito del dibattito sui presunti crimini di guerra italiani che, a partire dal 2003, ha animato il panorama storico‑culturale nazionale, soprattutto in riferi­mento al teatro dei Balcani (2).

II fronte orientale vide livelli di ferocia e di spietatezza ineguagliati e senza precedenti, con i due principali contendenti impegnati in una guerra di annien­tamento, senza alcun riguardo per le convenzioni internazionali, che coinvolse

(1) La polemica, sorta a motivo del mancato rientro dalla prigionia della grande maggioranza dei militari italiani catturati dall'Armata Rossa, contrappose soprattutto il comandante del Corpo di Spedizione Italiano in Russia, maresciallo d'Italia Giovanni Messe, e i partiti di sinistra che, sposando le tesi di Mosca, facevano risalire le cause della morte dei prigionieri alla totale mancanza di predisposizioni adeguate da parte dei comandi italiani, esclu­dendo, o comunque fortemente ridimensionando, qualunque responsabilità da parte sovietica. In questo contesto il 22 settembre 1946 i deputati comunisti Togliatti e Terracini presentarono alla Camera un'interrogazione in cui chiedevano provvedimenti nei confronti di Messe in quanto «uno dei responsabili principali della morte di decine di migliaia di giovani, ufficiali e soldati italiani, da lui stesso, in qualità di mercenario di Hitler, portati a combattere in Russia, in una campagna che egli, come capo militare, doveva sapere che anche solo per l'equipaggiamento assolutamente inadeguato delle truppe, non poteva concludersi altro che con un'ecatombe dei nostri connazionali». Messe era il solo ufficiale di alto rango che, in virtù dei suoi trascorsi, nonché in ragione del fatto di aver comandato le Forze Armate nella guerra di liberazione aveva l'autorità morale per tener testa a esponenti di par­titi che avevano fatto parte del Comitato di Liberazione Nazionale. L'interrogazione non sortì alcun effetto, anche perché ritirata dai proponenti, ma la sorte dei prigionieri italiani in Russia continuò ad avvelenare il clima politico italiano per diversi anni. Nella polemica intervenne anche la Pravda, organo ufficiale del PCUS, che nel luglio 1948 accusò i soldati italiani di essere stati «dei saccheggiatori, degli stupratori e degli assassini», e ancora nel marzo 1949 il PCI diede vita al "Comitato Nazionale d'iniziativa per l'inchiesta sull'ARMIR", istituito in contrapposizione alla già esistente "Unione Nazionale Italiana fra Reduci di Russia", di tendenze di destra. L'obiettivo dichiarato del Comitato era quello di indagare, dopo che il Governo aveva rifiutato di istituire una commissione d'inchiesta, sulle responsabilità della tragedia dell'ARMIR, partendo dalla tesi preconcetta che la quasi totalità dei dispersi fosse stata uccisa in combattimento o dall'inverno russo, a causa del deficiente equipaggiamento (AUSSME, fondo L‑13, car­teggio Messe).
(2) Cfr. M. Battini, Peccati della memoria. La mancata Norimberga italiana, Laterza, Bari, 2003; D. Rodono, Il nuovo ordine mediterraneo, Bollati Boringhieri, Torino, 2003; B. Mantelli (a cura di), "L'Italia fascista come potenza occu­pante: lo scacchiere balcanico", in Qualestoria n. 1 giugno 2003; C. S. Capogreco, I campi del Duce, Einaudi, Tori­no, 2004; C. Di Sante (a cura di), Italiani senza onore. 1 crimini di guerra in Iugoslavia e i processi negati (1941­1945), Ombre corte, Verona, 2005; F. Focardi, "I mancati processi di criminali di guerra italiani", in Giudicare e punire, L. Baldissara e P. Pezzino (a cura di), L'Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2005; Crimini e memorie di guer­ra, L. Baldissara e P. Pezzino (a cura di), L'Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2004.

pesantemente le popolazioni civili (3). Fu un conflitto combattuto senza quartie­re, quale avrebbe potuto essere solo lo scontro fortemente connotato dal punto di vista ideologico tra due sanguinarie dittature, pronte a far leva sul sentimen­to patriottico dei rispettivi popoli e sul richiamo ad atavici motivi di contrasto, nonché, almeno da parte tedesca, su considerazioni di ordine razziale (4).
Fin dalle prime fasi, le operazioni militari furono contrassegnate da scontri ad alta intensità nei quali, al superiore addestramento e alla maggiore capacità di manovra dell'avversario, l'Armata Rossa oppose una strenua volontà di resisten­za, battendosi senza tenere in alcun conto le perdite. Obbligati a cedere un'am­pia porzione del loro territorio dopo le pesanti sconfitte patite nell'estate e nel­l'autunno del 1941, i sovietici ricorsero alla tecnica della "terra bruciata", distruggendo sistematicamente nel corso del ripiegamento ogni infrastruttura della rete viaria, ogni manufatto legato alla produzione industriale, ogni fonte di approvvigionamento alimentare.
Se da un lato ciò acuì i problemi logistici della Wehrmacht, dall'altro contribuì a ridurre alla fame le popolazioni civili, costrette anche a subire gli espropri e le massicce requisizioni di un occupante impegnato a sfruttare al massimo le resi­due risorse economiche dei territori invasi.
Per quanto riguarda i prigionieri, entrambi i contendenti riservavano al nemi­co che si arrendeva un trattamento che, quando non contemplava l'esecuzione immediata sul luogo della cattura, si traduceva nello sfruttamento forzoso come manodopera, con orari di lavoro massacranti e condizioni di vita bestiali. II governo sovietico del resto non aveva ratificato le convenzioni di Ginevra del

(3) Cfr. Bartov 0., Fronte orientale. Le truppe tedesche e l'imbarbarimento della guerra (1941‑1945), II Mulino, Bologna, 2004; Overy R., Russia in guerra. 1941‑1945, II Saggiatore, Milano, 2000; Schreiber G, La seconda guer­ra mondiale, II Mulino, Bologna, 2004; J. Bourke, La seconda guerra mondiale, II Mulino, Bologna, 2005. Questi autori hanno accusato l'esercito regolare tedesco di essersi reso responsabile, al pari delle formazioni speciali delle SS e della Gestapo, della morte di milioni di civili e prigionieri sovietici. In merito al dibattito storiografico tedesco sul tema della guerra di sterminio condotta dalla Germania nazista nei territori dell'Unione Sovietica tra il 1941 e il 1945 si veda in particolare, L. Klinkhammer, "La guerra nazionalsocialista nella storiografia della Repubblica fede­rale tedesca", Mondo contemporaneo, n. 2/2005.
(4) II 30 marzo 1941 Adolf Hitler si espresse chiaramente in tal senso affermando che: «la guerra contro la Rus­sia sarà tale da non poter essere condotta in maniera cavalleresca; è uno scontro di ideologie e di differenze raz­ziali e dovrà essere condotta con una durezza senza precedenti, impietosa e inesorabile [...]. I soldati tedeschi che infrangeranno le leggi internazionali [...] saranno giustificati. La Russia non ha preso parte alla Conferenza dell A­]a e pertanto non gode al riguardo di alcun diritto» (J. Bourke, op. cit., p. 93). In linea con questa impostazione alla vigilia dell'invasione un apposito decreto «sulla giurisdizione delle corti marziali nel territorio dell'operazione "earbarossa" e i provvedimenti speciali per le truppe>, stabilì la non obbligatorietà dell'azione penale per reati commessi dalle truppe ai danni di civili nemici. Tali direttive, finalizzate a una guerra senza regole, furono tra i fat­tori determinanti per l'imbarbarimento della guerra sul fronte orientale, un fenomeno che interessò non solo le SS o le unità speciali del servizio di sicurezza ma anche la Wehrmacht (G. Schreiber, La seconda guerra mondiale, op. cit., p. 66). Stalin di contro, nell'appello al popolo sovietico del 3 luglio 1941, lo incitò a combattere senza pietà gli invasori. Lo sterminio dell'avversario venne così a essere il motivo dominante della propaganda sovietica, diret­ta da Elia Ehremburg, che si esprimeva in questi termini: «con i tedeschi non si discute, i tedeschi si uccidono»; <,nessun soldato tedesco dovrà rivedere la propria patria» (G. Messe, La guerra al fronte russo. 11 Corpo di Spedi­zione Italiano (CSIR), Rizzoli, Milano, 1964).

1929 sul trattamento dei prigionieri di guerra, e in linea con questo atteggia­mento nell'agosto 1941 arrivò a dichiarare, in via riservata sui canali diplomati­ci, di non ritenersi più vincolato agli accordi internazionali circa il divieto di usare aggressivi chimici e l'assistenza da prestarsi a feriti e ammalati degli altri eser­citi in guerra (5). Sebbene questa dichiarazione fosse subito ritrattata, nella realtà, almeno per quanto riguarda il secondo aspetto, il trattamento inflitto ai prigionieri non rimase ben lontano dagli standard comportamentali previsti, e questo non solo in relazione a feriti e ammalati, al punto che, stando alla memo­rialistica, nei campi di concentramento si registrarono anche casi di antropofa­gia (6). Altrettanto, se non più duro, l'atteggiamento tedesco che, a onta di un'adesione formale alla lettera delle convenzioni internazionali, sul fronte orientale era guidato dalle cosiddette "istruzioni speciali", finalizzate a una guer­ra di sterminio che ebbe una delle sue manifestazioni più eclatanti nell'ordine che stabiliva la fucilazione dei commissari politici al momento della cattura (7). Nei campi di concentramento ufficiali e soldati vivevano frammisti, quasi senza assistenza sanitaria, con un'alimentazione largamente insufficiente, sottoposti a continue vessazioni e ad un ritmo di lavoro massacrante (8).

Per quanto inizialmente impreparati, i sovietici non tardarono ad attivare la guerra partigiana nelle retrovie dell'avversario, reclutando agenti informatori e sabotatori anche tra donne e ragazzi e infiltrando nelle linee nemiche reparti di truppe speciali in abiti borghesi per compiere attentati e organizzare la resi­stenza (9). A questi sistemi di lotta non convenzionale i tedeschi risposero con metodi brutali, ricorrendo su larga scala a rappresaglie contro i civili e all'uso

(5) AUSSME, fondo N‑1/11. Telegramma cifrato n. 21357/Op. in data 12 agosto 1941 orario 17.25 del Comando Supremo inviato al comando CSIR a firma del gen. Ugo Cavallero. La comunicazione del Commissariato degli Este­ri sovietico, datata 8 agosto, fu peraltro smentita ufficialmente il giorno seguente. II Comando Supremo italiano sottolineò nell'occasione il comportamento ambiguo e contraddittorio di Mosca in tema di diritto di guerra (AUS­SME, fondo N‑1/11, diario storico Servizio Informazioni Militare, "Riassunto novità politiche ‑ URSS", in data 15 agosto 1941).

(6) Tale aberrante fenomeno si registrò in almeno quattro campi di prigionia russi in cui erano rinchiusi anche mili­tari italiani (M. T. Giusti, "La memorialistica sulla prigionia in Russia", in Annali n. 9/10/11 ‑ 2001/2003, Museo storico Italiano della Guerra, p. 22). Si calcola che dei 108.000 prigionieri tedeschi fatti a Stalingrado; dopo la resa della 6' Armata del gen. Paulus, almeno 50.000 morirono di fame e di freddo nel giro di un mese (J. Bourke, op. cit. p. 97).
(7) Cfr. G. Schreiber, op. cit. p. 66.
(8) In totale morirono 3.300.000 prigionieri russi, su un totale di 5.700.000, pari a circa il 60% (J. Bourke, op. cit. p. 95).
(9) AUSSME, fondo N‑1/11, diario storico CSIR. La "Situazione descrittiva avversaria alla data del 1° aprile 1942" stilata dall'Ufficio Informazioni del CSIR segnala che: «II nemico, nei mesi scorsi, ha fatto continuamente affluire nel territorio occupato dalle truppe del CSIR numerosi informatori, per la massima parte donne e ragazzi. In segui­to al mancato ritorno di detti elementi ‑ quasi tutti da noi catturati ‑ il nemico ha cambiato itinerario d'affluenza e ha inviato informatori in numero notevolmente minore che nel passato, preferendo la qualità alla quantità. Infat­ti, gli ultimi catturati sono in maggioranza uomini sui trent'anni, scaltri, addestrati, decisi a essere nel contempo informatori e partigiani. Alcuni di essi vengono inviati alle nostre linee in divisa militare; se riescono a eludere la vigilanza cambiano le uniformi con abiti civili, se sono catturati si dichiarano disertori». Le prime notizie sull'orga­nizzazione di formazioni partigiane fornite al Comando del CSIR dal servizio informazioni tedesco risalivano all'a­gosto 1941 (AUSSME, fondo N‑1/11, diario storico CSIR).
indiscriminato di ostaggi (10). Così riportava una direttiva sull'amministrazione e sulla sicurezza dei territori occupati, emanata nell'agosto 1941 dal Comando dell'11a Armata tedesca, da cui inizialmente dipendeva il CSIR (11): «La resi­stenza passiva o attiva della popolazione civile deve essere soffocata sul nasce­re con misure severissime. Nei confronti degli elementi ostili ai tedeschi, rome­ni e italiani, bisogna contrapporre un comportamento preventivo sicuro e senza pregiudizi. II punto di vista dominante per ogni azione è la sicurezza assoluta del soldato tedesco, romeno e italiano!». Allo stesso modo un bando tedesco del giugno 1942, parimenti trasmesso al CSIR, prevedeva un'indiscriminata rappre­saglia nell'eventualità di azioni di sabotaggio alle linee ferroviarie, azioni che si facevano sempre più frequenti: «Ogni singola località abitata situata lungo la linea delle ferrovie risponde in massa con tutti i suoi abitanti delle linee e dei ponti della propria zona e in caso di atti di sabotaggio per i quali non fosse pos­sibile trovare i colpevoli le forze armate agiranno contro i comuni responsabili e le persone colpendoli severamente». Di tutto ciò l'Armata Rossa si sarebbe ampiamente vendicata, nella sua avanzata verso occidente tra il 1944 e il 1945, e una volta raggiunti i confini della Germania l'arrivo delle sue avanguardie sarebbe stato preceduto dalla fuga in massa della popolazione, in cerca di scam­po da quella che si presentava come un'orda assetata di vendetta (12).
L'immane massacro che si andava compiendo sul fronte orientale venne a conoscenza dei vertici militari italiani già nell'estate 1941, quando la Missione Militare Italiana a Berlino riferì al Comando Supremo di un colloquio riservato avuto con un alto esponente del servizio informazioni tedesco. II rapporto ripor­tava le spaventose perdite subite fino ad allora dai due contendenti, non meno di 600.000 uomini tra morti, feriti e dispersi per i tedeschi, e oltre 4 milioni per i sovietici, e indicava chiaramente quale fosse il trattamento riservato ai prigio­nieri, puntualizzando come il mutamento verificatosi nel frattempo fosse dovuto a motivi di opportunità e non certo a ragioni umanitarie: «Le cifre delle perdite russe date dall'OKW (Alto Comando dell'Esercito, nda) ‑ 5 milioni ‑ sono leg­germente superiori alla realtà, perché includono molti lavoratori; tuttavia non sono certo inferiori ai 4 milioni. Riconosciuto l'errore iniziale, i prigionieri russi non vengono più fucilati e si pensa convenga meglio impiegarli come mano d'o­pera» (13).

L'anno dopo una relazione del Comando Supremo conferma come fosse ormai ben chiara la natura del conflitto, richiamando anche l'opinione di osservatori neutrali per precisare la natura ideologica di un conflitto che si presentava come una guerra di annientamento, tra due regimi che si battevano per la sopravvi­venza senza esclusione di colpi, avendo molte delle caratteristiche più atroci delle guerre di religione (14): «La campagna invernale ‑ (1941‑1942, nda) ‑ ha confermato e messo ancor più in evidenza le caratteristiche di questa guerra che non soltanto è totale ma è anche una guerra di annientamento. Germania e Unione Sovietica combattono per la loro esistenza e perciò hanno impresso alla lotta un carattere di distruzione e di ferocia, quale da molti secoli non si verifi­cava nelle guerre europee. L'uccisione di prigionieri in massa, i provvedimenti di rigore presi da entrambe le parti contro le popolazioni, le distruzioni, costitui­scono un aspetto caratteristico di questa lotta, come già messo in rilievo nel noto articolo del critico militare svizzero, col. Danicker. Egli ha detto: "Si tratta di una vera e propria guerra di annientamento nel senso antico, la quale tocca la sostanza stessa di tutto un popolo. Nelle altre campagne si è trattato piutto­sto di un giuoco a scacchi. Chi era accerchiato ha capitolato. Ora invece la lotta viene condotta al coltello. La strategia russa ‑ nella quale affiorano naturalmen­te concezioni asiatiche ‑ porta in campo anche le donne e gli adolescenti e distrugge tutto nel ripiegamento". Si tratta del resto di un fenomeno ricorrente ogni qualvolta due opposte ideologie, fanaticamente sostenute dagli avversari, vengano in contrasto. [...] Si manifestano quegli stessi caratteri di ferocia che si sono verificati nelle guerre di religione dei secoli scorsi».
In questo quadro di brutalità e di spregio di ogni norma del diritto bellico, il comportamento delle truppe del CSIR prima, e dell'ARMIR poi, verso prigionieri e civili russi si distinse da quello degli altri eserciti belligeranti e questo nonostan­te il contesto degenerato in cui si trovavano a operare. All'inizio della guerra il governo sovietico aveva dichiarato che, pur non figurando fra i firmatari della Convenzione di Ginevra, ne avrebbe ugualmente rispettato le disposizioni, in condizione di reciprocità, assumendo poi nei fatti un atteggiamento ben diverso. Due mesi dopo, il 21 agosto 1941, il governo tedesco comunicò che, di fronte alle constatate atrocità perpetrate dai russi sui prigionieri germanici, non si sarebbe più considerato vincolato alle disposizioni di Ginevra in tema di prigio­nieri di guerra. Nella stessa circostanza venne emanata una circolare, indirizza­ta anche alle truppe alleate combattenti sui fronte orientale, in cui la decisione era giustificata con l'elenco di una serie di terribili atrocità che sarebbero state commesse dai sovietici. II governo italiano non si associò però alla dichiarazio­ne tedesca e il comando del CSIR continuò a comportarsi secondo le norme sta­bilite dalle convenzioni internazionali ratificate all'Aja nel 1907 e a Ginevra nel 1929. Solo molto più tardi, il 12 marzo 1942, se ne sarebbe in parte discostato comunicando al Comitato Internazionale della Croce Rossa che da quel momen­to, per mancanza di reciprocità, non avrebbe più comunicato le liste dei prigio­nieri russi (15).



(10) Per contrastare il movimento partigiano, nel settembre 1941 l'Alto Comando tedesco ordinò forme di rappre­saglia indiscriminata: per ogni tedesco ucciso era autorizzata la soppressione di un numero oscillante tra 50 e 100 russi (R. Overy, Russia in guerra, op. cit,. p. 156). (11) AUSSME, fondo N‑1/11, diario storico CSIR. (12) J. Bourke, op. cit, p. 103. (13) AUSSME, fondo I‑4, "Rapporto della Missione Militare Italiana a Berlino", in data 24 agosto 1941. (14) AUSSME, fondo M‑3, "La campagna invernale in Russia", relazione del 1942 stilata dal Comando Supremo. (15) G. Messe, op. cit., p. 340.
Nel periodo in cui fu attivo il CSIR, tra il luglio 1941 e il luglio dell'anno successivo, i militari russi catturati, in base a precedenti accordi fra i governi italia­no e tedesco, e in aderenza alla circostanza che vedeva il CSIR operare inqua­drato in un'armata tedesca, venivano avviati dopo un sommario interrogatorio ai campi di concentramento posti sotto la sorveglianza di unità germaniche, nei quali non vi era alcuna possibilità di ingerenza da parte di comandi e reparti ita­liani. Soltanto a inverno inoltrato il comando germanico concesse a quello italia­no di trattenere qualche centinaio di prigionieri che, in collaborazione con repar­ti del genio e dell'intendenza, venivano saltuariamente impiegati nelle retrovie in lavori di manovalanza, stradali e di sgombero neve (16). Per tali prigionieri, ai quali venivano distribuiti lo stesso rancio e la medesima razione di sigarette dei militari italiani, fu impiantato un campo ben organizzato nel quale trovarono una decente sistemazione. II trattamento fu tale da indurne molti a offrirsi spon­taneamente, al fine di evitare il trasferimento nei campi gestiti dalle autorità tedesche, ed è altresì significativo che spesso i prigionieri furono avviati al lavo­ro senza alcuna sorveglianza.
Dopo il luglio 1942 la costituzione dell'ARMIR portò all'organizzazione di due campi di prigionia a Stalino e a Dniepropetrosch, nei quali erano inizialmente rin­chiusi 835 militari. In seguito il numero dei campi salì a dieci, con un totale di circa 5.000 prigionieri provenienti per la maggior parte da campi tedeschi, dai quali giungevano in condizioni spaventose. I comandi tedeschi avevano emanato dispo­sizioni particolareggiate e apparentemente umane circa il trattamento dei prigio­nieri, ma la realtà era ben diversa, mentre le analoghe disposizioni impartite in materia dai comandi italiani trovarono sempre regolare applicazione (17). I mala­ti venivano curati e ricoverati in un convalescenziario appositamente impiantato a Rikovo, e se nei campi germanici ufficiali e truppa erano accantonati promiscua­mente in quelli dell'ARMIR si provvide alla loro separazione, come previsto dalle convenzioni internazionali. II comportamento italiano si diversificò da quello del­l'alleato anche nei settori del vettovagliamento e del vestiario, il cui rifornimento sarebbe stato compito del comando tedesco. Mentre le autorità germaniche ave­vano stabilito razioni diversificate per addetti ai lavori pesanti, addetti a lavori leg­geri, non impiegati in lavori e malati, l'intendenza dell'8a Armata, constatata la grave insufficienza di quanto previsto da queste tabelle, ordinò che ai degenti nelle infermerie ed ai soggetti deperiti o denutriti fosse distribuita la razione del solda­to italiano e autorizzò i comandanti dei campi a estendere a tutti gli altri la razio­ne viveri spettante agli addetti ai lavori pesanti (18). Per quanto riguarda il vestia­rio, non essendo state accolte le numerose richieste rivolte ai servizi tedeschi, venne ordinata la distribuzione ai prigionieri di indumenti usati ritirati alle truppe italiane dopo la loro sostituzione con indumenti nuovi.

Diversamente da quanto avvenne sul fronte dell'Africa Settentrionale, dove i pri­gionieri del Commonwealth venivano inviati in campi di concentramento nel terri­torio metropolitano, né il CSIR né l'ARMIR trasferirono mai in Italia i loro prigio­nieri.

I rapporti con la popolazione civile furono di solito corretti e improntati in genere a reciproco rispetto che sfociò più volte in manifestazioni di cordialità, soprattutto nelle regioni ucraine. Casi sporadici di violenza vennero severamen­te puniti. Così, ad esempio, a Rikovo un soldato della Divisione Torino che aveva ucciso una donna per rapina fu immediatamente processato da un tribunale straordinario e, dopo un pubblico dibattimento al quale furono presenti molti russi, condannato a 26 anni di reclusione. Sempre a Rikovo, un ufficiale italiano accusato di aver tentato di usare violenza a una donna fu punito con un mese di arresti di fortezza e immediatamente rimpatriato. Gli ordini dei comandi supe­riori sulla necessità di rispettare la popolazione erano del resto categorici, come dimostrato da due documenti relativi al Corpo d'Armata Alpino, al significato dei quali nulla toglie la dichiarata intenzione di conquistare la fiducia delle popola­zioni ai fini di una più agevole condotta delle operazioni:
«E' mio preciso intendimento che i nostri reparti acquistino la fiducia dei civili in modo che ci sia assicurata la sempre più fattiva collaborazione da parte della popolazione della zona. Prego pertanto di voler svolgere opera fattiva ed ener­gica per convincere ufficiali e truppa dell'assoluta necessità di quanto esposto (19). Contegno con la popolazione civile: deve essere corretto, dignitoso, ener­gico. Evitare che i militari circolino con civili, specialmente donne. Furti di bestia­me e di qualsiasi genere devono essere assolutamente evitati. Reprimere con la massima energia e severità gli spari abusivi (passibili di denuncia). [...] Punirò severamente qualsiasi abuso commesso a danno della popolazione» (20).
Non meno significative furono le iniziative nel campo scolastico e dell'assi­stenza sanitaria, con l'intento di ricreare nelle zone occupate le basi per una vita civile. Nell'inverno 1941‑1942 il comando della Divisione Torino riorganizzò il locale orfanotrofio, distribuendo ai circa 400 bambini viveri e vestiario e reclu‑

(16) Altri prigionieri russi, non segnalati alle autorità tedesche, rimasero presso le unità italiane che li avevano cat­turati dove furono adibiti in particolare alla guida delle carrette e delle slitte di requisizione (C. De Franceschi ‑ G. de Vecchi, I servizi logistici delle unità italiane al fronte russo (1941‑1943), SME ‑ Ufficio Storico, Roma, 1975, p. 187). Una situazione dell'Ufficio Prigionieri dello Stato Maggiore del Regio Esercito del marzo 1942 segnalava la cattura da parte del CSIR di 14.267 militari russi dei quali 12.472 ceduti ai tedeschi e altri alle autorità romene. Si trovavano in campi di concentramento in Italia solo 3 militari russi, gli altri erano internati in Ucraina (AUSSME, fondo N‑1/11, diario storico SMRE ‑ Ufficio Prigionieri). In relazione all'esigenza di forza lavoro, nel novembre 1941 fu siglato un accordo per il trasferimento dalla Germania all'Italia di 20.000 prigionieri di guerra russi, che, però, sembra non abbia avuto seguito (AUSSME, fondo N‑1/11, diario storico SIM).
(17) AUSSME, foglio n. 10241/Op. in data 13 febbraio 1945, "Prigionieri di guerra russi", Stato Maggiore Genera­le ‑ Ufficio Operazioni.
(18) Iniziative in tal senso furono prese anche a livello locale. II XXXII battaglione anticarro di corpo d'armata Gra­natieri di Sardegna organizzò nell'agosto 1942 un campo di prigionieri russi impiegati per la provvista di legna da ardere. II vitto giornaliero corrisposto era costituito da 400 g dl pane e da viveri pari alla metà della razione spet­tante ai militari italiani, senza vino, tabacchi e generi di conforto (AUSSME, fondo N‑1/11, foglio n. 6533/00 in data 16 agosto 1942, "Provvista di legna da costruzione e da ardere", Comando II Corpo d'armata).
(19) AUSSME, fondo N‑1/11, foglio n. 2.780 in data 24 settembre 1942, "Disciplina", Comando del Corpo d'Arma­ta Alpino ‑ Ufficio Operazioni.
(20) AUSSME, fondo N‑1/11, foglio n. 2.099 in data 22 agosto 1942, "Memoria operativa n.l", Comando della 3a Divisione Alpina Julia ‑ Sezione operazioni e servizi.

tando a pagamento il corpo insegnante. Quanto all'assistenza sanitaria, così rife­risce la relazione del direttore di sanità del CSIR (21): (5): Per mio ordine tutti gli ospedali da campo e di riserva italiani istituirono ambulatori gratuiti per la popo­lazione civile che largamente beneficiò di tale aiuto, priva, com'era ridotta, di qualsiasi mezzo di cura e specialmente di materiale di medicazione. [...] Come da mie precise disposizioni furono sempre istituiti e mantenuti buoni rapporti dai medici italiani con i sanitari russi, per la cooperazione ritenuta indispensabile al fine della difesa igienica delle truppe che non poteva prescindere da quella della popolazione civile per la quale, serpeggiando numerose endemie di difterite, tifo esantematico e dissenteria, si provvide sempre a fornire mezzi profilattici e per­sonale per disínfestazíoni e disinfezioni, mezzi curativi e soccorsi alimentari». Più tardi, nelle retrovie dell'ARMIR, vennero attivati a favore della popolazione 29 ospedali e 75 ambulatori, con un totale di 71 medici e 157 levatrici.
Molti furono i casi in cui russi, e specialmente donne, si rivolsero a militari ita­liani per essere difesi dalle angherie e dalle violenze dei soldati tedeschi, e tutte le volte che, in territorio occupato, le truppe italiane venivano avvicendate da quelle germaniche negli abitanti si avvertiva il timore di un peggioramento della situazione. Ancora in tema di rapporti con la popolazione civile, i comandi cer­carono di limitare le requisizioni, preferendo piuttosto diminuire la razione delle truppe, e, quando fu necessario ricorrervi, provvidero a pagarne regolarmente l'importo. Si evitò inoltre di imporre contribuzioni in viveri ai privati, mentre le requisizioni di immobili furono limitate quasi esclusivamente ai locali pubblici, anche se talora per ubicazione e per caratteristiche abitative non rispondevano alle necessità (22). Così riporta al riguardo una relazione datata settembre 1945 del maresciallo d'Italia Giovanni Messe (23), che fu prima comandante del CSIR e poi, fino all'ottobre 1942, del XXXV Corpo d'Armata (24): «Anche in fasi ope‑

(21) AUSSME, fondo L‑13, carteggio Messe, "Comportamento del servizio di sanità italiano sul fronte russa verso i prigionieri infermi e verso la popolazione civile", relazione in data 4 luglio 1945 del maggior generale medico Fran­cesco Caldarola. Riguardo l'atteggiamento verso i prigionieri russi il generale riportò che: «durante tutta la cam­pagna i prigionieri russi feriti e malati godettero presso le nostre unità sanitarie trattamento curativo e dietetico uguale a quello dei connazionali coi quali molto spesso essi, dato il loro numero non rilevante, venivano commisti nelle sale di ricovero».
(22) Solo in una delle 20 sedi del Comando del CSIR fu effettuato uno sgombero forzoso a seguito di un bombar­damento aereo russo che aveva reso inabitabile l'edificio. I civili sfrattati ricevettero nuovi alloggi a cura dell'in­tendenza, che provvide anche al trasporto delle masserizie (AUSSME, fondo L‑13, carteggio Messe).
(23) Giovanni Messe (1883‑1968) iniziò la sua carriera militare nel 1902 a 18 anni. Dopo essere partito volonta­rio nel corpo di spedizione italiano in Cina, nel 1910 fu nominato ufficiale. Combattè nella prima guerra mondiale, distinguendosi al comando del IX reparto d'assalto, e successivamente in Albania nel 1920, in Etiopia nel 1936, in Grecia nel 1940‑1941, in Russia nel 1941‑1942 e in Tunisia nel 1943. Fatto prigionieri dagli inglesi, rimpatriava nel novembre 1943 mettendosi al servizio del Re a Brindisi e ricoprendo la carica di capo di Stato Maggiore Generale. Lasciata la carriera militare, nel 1953 viene eletto senatore e nel 1955 fonda l'Unione Combattenti d'Italia, Movi­mento per la Rinascita Nazionale. Ferito 3 volte in combattimento, ha ottenuto 14 decorazioni al Valor Militare ita­liane e tedesche (AUSSME, fondo "Biografie", busta n. 43/54). Sulla figura militare di Messe si rimanda al conve­gno di studi "II Maresciallo d'Italia Giovanni Messe. Guerra, forze armate e politica nell'Italia del Novecento" tenu­tosi a Messagne (LE) il 27‑28 ottobre 2000. Gli atti, curati da I. Garzia, C. Pasimeni, D. Urgesi, sono stati pubbli­cati nel 2003 da Congedo editore, Galatina (LE).
(24) G. Messe, Le truppe italiane in Russia. Trattamento dei prigionieri e dei disertori russi. Rapporti con la popo‑

ratíve che avrebbero richiesto il massimo sfruttamento delle risorse locali (a causa della difficoltà dei rifornimenti, nda), le nostre truppe pesarono il meno possibile sulle popolazioni. Allorquando il pantano delle piste non consentiva alle colonne logistiche dell'intendenza di raggiungere le unità più avanzate, nulla fu requisito con la violenza e tutto regolarmente pagato ai legittimi proprietari. [...] Posso per personale constatazione affermare che devastazioni terrificanti come quelle operate dalle truppe russe in ritirata io le ho viste soltanto con i bombar­damenti aerei scientifici. A parte ogni considerazione di carattere umanitario, ritengo che sia più che evidente che gli italiani, almeno per le zone nelle quali dovevano sostare e vivere, non avevano nessun interesse ad accrescere il qua­dro di desolazione e di squallore già esistente. [...] Rapporti più che cordiali si stabilirono fra le nostre truppe e le popolazioni civili. Gli italiani avevano saputo conquistare l'animo dei russi, di tutti i russi, anche dei partigiani che noi non ci accorgemmo mai di avere nelle nostre retrovie. Sotto questo aspetto si aveva l'impressione di operare in un Paese amico!».

Messe probabilmente esagerava nel presentare un quadro tanto idilliaco, prova ne sia che nella relazione del comandante dei Carabinieri Reali del CSIR sui primi sei mesi di attività al fronte russo è riportata la consegna alla polizia segreta tedesca di 249 sospetti agenti del nemico e la fucilazione di 27 partigiani «per­ché sorpresi in flagrante delitto» (25). Gli ordini impartiti erano del resto di fuci­lare i partigiani catturati con le armi in pugno risparmiando gli altri (26). La rela­zione di Messe, compilata nell'immediato dopoguerra per rispondere alle accuse per crimini di guerra formulate dal governo sovietico nei confronti di una dozzi­na di ufficiali italiani, aveva un chiaro intento assolutorio e mirava a riscattare l'operato delle truppe italiane, messo all'indice dai governi di Stati che avevano subito l'occupazione dell'Asse (27). Gli ordini emanati dal comandante del CSIR

lazione civile, settembre 1945. Tali argomentazioni furono riportate su vari articoli di giornale scritti da Messe nel­l'inverno 1945‑1946 con l'intento di rivendicare la correttezza del comportamento dei soldati italiani verso le popo­lazioni dell'Unione Sovietica. Gli articoli vennero pubblicati in più puntate dai quotidiani 11 Secolo Liberale, 11 Gior­nale della Sera e Il Giornale dell'Emilia tra il 15 novembre e il 7 dicembre 1945. I titoli degli articoli erano in linea con lo scopo: "Due civiltà di fronte alla sofferenza", °II campo di Karinskaja oasi di pace e umanità'; "Sangue ita­liano per salvare vite russe", "I sacrifici degli Italiani per sfamare le popolazioni russe", "Piangevano le madri russe, piangevano le madri italiane" (AUSSME, fondo L‑13, carteggio Messe).
(25) AUSSME, fondo N‑1/11, diario storico CSIR, foglio n. 27/5‑1941 in data 18 febbraio 1942, "Attività svolta dai reparti dell'Arma mobilitati", Comando Carabinieri Reali ‑ CSIR. Occorre ricordare che le leggi di guerra interna­zionali dell'epoca non garantivano ai partigiani la qualifica di combattenti regolari. Le disposizioni impartite al CSIR dal Comando della la Armata corazzata tedesca prevedevano la fucilazione degli agenti e partigiani nemici solo col consenso della polizia segreta germanica.
(26) AUSSME, fondo N‑1/11, foglio n. 1545/RS/1 in data 16 agosto 1942, "Partigiani", M.V.S.N. ‑ Raggruppamen­to CC.NN. "23 marzo".
(27) La lista dei presunti criminali di guerra italiani fu trasmessa dal governo russo nell'ottobre 1944. La posizio­ne degli indiziati fu attentamente vagliata da un'apposita commissione d'inchiesta ministeriale, cui faceva parte anche il senatore comunista Mario Palermo. I militari furono tutti assolti. Un'altra trentina di alti ufficiali italiani furono a lungo trattenuti in Russia con l'accusa di crimini di guerra, tra questi i gen. E. Battisti, E. Pascolini e U. Ricagno, comandanti rispettivamente delle divisioni Cuneense, Vicenza e Julia. Solo una parte fu processata e con­dannata tra il 1948 e il 1950 dal tribunale militare di Kiev. Gli ultimi prigionieri furono liberati nel 1954 (M.T. Giu­sti, 1 prigionieri italiani in Russia, II Mulino, Bologna, 2003, p. 182).

sull'atteggiamento da mantenere nei riguardi della popolazione furono peraltro chiari e non lasciano dubbi sull'intenzione di rispettare il più possibile la popola­zione civile, sia pure non solo a fini umanitari ma anche per facilitare l'azione delle truppe: «Scopo eliminare presenza civili in vicinanza linee et consentire maggiore libertà movimenti truppe et massimo controllo transito attraverso le stesse per repressione spionaggio dispongo che tutta popolazione tuttora abi­tante in caseggiati a cavallo postazioni difensive sia fatta sgomberare a tergo alt. [...] Comandanti divisione organizzino esodo in guisa assicurare at popola­zioni sgomberate sicuro asilo in abitati arretrati con particolare riguardo a donne et bambini» (28).

Anche durante il periodo di attività dell'ARMIR nei territori occupati furono rior­ganizzate le attività civili e sociali che il passaggio della guerra aveva tempora­neamente interrotto. Gli Uffici Affari Vari dei comandi di corpo d'armata per la zona delle operazioni, e la Direzione delle Tappe per la zona delle retrovie, prov­videro a censire la popolazione, a riaprire scuole e chiese, ad amministrare la giustizia, ad adeguare i servizi sanitari all'emergenza, a mantenere l'ordine pub­blico. La popolazione espresse la propria gratitudine soprattutto per la riapertu­ra delle chiese, oltre 50, provvedimento che rispondeva a un sentimento religio­so ancora vivo e profondamente sentito. Furono inoltre riaperte complessiva­mente 477 scuole, frequentate da 28.000 allievi, e il servizio sanitario fu attiva­to riattando gli ospedali civili danneggiati, riaprendo gli ambulatori e rifornendo per quanto possibile le farmacie (29), e dove non fu possibile l'immediata riaper­tura degli impianti sanitari preesistenti si ricorse all'opera dei medici militari. Tutti gli ospedali da campo e di riserva italiani istituirono infatti ambulatori gra­tuiti per la popolazione civile che se ne servì largamente. L'amministrazione della giustizia non fu un problema, in quanto la popolazione si mantenne tranquilla, con i reati più comuni costituiti da furti e contravvenzioni alle disposizioni delle autorità locali, ad esempio in materia di oscuramento e coprifuoco, e per finan­ziare le amministrazioni locali si applicò un'imposta personale a tutti gli abitan­ti dai 18 ai 65 anni.

I rapporti con i civili rimasero buoni, come ebbe a segnalare il Comando del Corpo d'Armata Alpino, nella "Relazione mensile sullo spirito della truppa e delle popolazioni dei territori occupati" datata 31 dicembre 1942: «I rapporti tra la truppa e la popolazione civile si sono mantenuti normali. Nessun incidente da

(28) AUSSME, fondo N‑1/11, diario storico CSIR, fonogramma n. 381/Op. in data 28 gennaio 1942 del Comando CSIR ai comandi di divisione dipendenti.
(29) I soli due ospedali civili requisiti furono quelli di Sinelnikovo e di Voroscilowgrad, trovati in stato di completo abbandono e gravemente danneggiati, tanto che fu necessario largo impiego di mano d'opera e di materiale edili­zio per la loro risistemazione (AUSSME, fondo L‑13, carteggio Messe).
(30) AUSSME, fondo N‑1/11, diario storico del Comando Corpo d'Armata Alpino, "Relazione mensile sullo spirito delle truppe e delle popolazioni dei territori occupati", in data 31 agosto 1942.
(31) AUSSME, fondo N‑1/11, diario storico del Comando Corpo d'Armata Alpino, "Relazione sullo spirito delle trup­pe e della popolazione civile. Mese di settembre 1942", in data 30 settembre 1942.

segnalare, persistendo corretti e cordiali i rapporti con la popolazione». I rap­porti precedenti erano del resto dello stesso tenore, anche se durante l'ultima fase dell'avvicinamento al fronte si era percepita una maggiore diffidenza e si era avuto sentore di un possibile intensificarsi delle azioni di disturbo nelle retro­vie:
Agosto 1942: «I militari, durante il successivo spostamento in zona di opera­zioni, si sono cattivati con il loro contegno la simpatia delle popolazioni dei ter­ritori occupati, fatti segno costantemente a cortesie da parte degli abitanti. [..] Con le popolazioni, il contegno è stato sempre dignitoso ‑ senza eccessive con­fidenze ‑ improntato allo spirito di carità che distingue il nostro soldato d'innanzi alla miseria materiale e spirituale. I rapporti quindi fra la truppa e la popolazio­ne si sono mantenuti cordiali, anzi il senso di simpatia che gli alpini suscitano nei paesi che li ospitano è andato aumentando col passare del tempo» (30).
Settembre 1942: «Le popolazioni ucraine delle zone di Rikovo, prima, Gorlow­ka, Voroscilowgrad, ecc., poi, dove hanno sostato i reparti, hanno dimostrato in generale aperta simpatia per il nostro soldato. Episodi sporadici di rapine di frut­ta, verdura, bestiame, causati più che altro da necessità contingenti in relazio­ne a esigenze logistiche non potute soddisfare per cause di forza maggiore, non hanno influenzato la buona opinione dell'ambiente locale sul soldato italiano. Scarsissimi incidenti, tutti di breve entità» (31).
Ottobre 1942: «Lo spostamento dalla zona di Voroscilowgrad alle sponde del Don ha fatto incontrare una popolazione civile alquanto diversa. Essa piuttosto chiusa, a differenza degli ucraini, per quanto non dimostri nessun atteggiamen­to di aperta ostilità, è da considerarsi con diffidenza. La vicinanza del nemico suscita in alcuni la speranza di rivincita delle forze russe, avvalorata da qualche atto propagandistico a mezzo manifestini e dalla infiltrazione di qualche ele­mento lanciato da aerei. Nel complesso la popolazione dei campi non dà segni di insofferenza e comincia ad aprire la sua simpatia alle nostre truppe» (32).
Qualche preoccupazione sul possibile deteriorarsi di una situazione che fino a quel momento era stata se non ottimale almeno soddisfacente si può cogliere anche nell'analoga relazione del II Corpo d'Armata compilata alla fine di novem­bre (33): « E' ancora difficile comprendere quali siano le idee e lo spirito della popolazione dei territori occupati. Si ha tuttavia l'impressione che la nostra pre­senza sia appena sopportata, anche da quelli che sono contrari al regime sovie‑

(32) AUSSME, fondo N‑1/11, diario storico del Comando Corpo d'Armata Alpino, "Relazione sullo spirito delle trup­pe e della popolazione civile. Mese di ottobre 1942", in data 31 ottobre 1942.
(33) AUSSME, fondo N‑1/11, diario storico del Comando II Corpo d'Armata, "Relazione sullo spirito delle truppe e della popolazione dei territori occupati. Mese di novembre 1942", in data 30 novembre 1942. In precedenza, lo stesso Comando aveva consigliato i reparti dipendenti di «non fidarsi della popolazione civile che in occasione dei recenti attacchi ha dimostrato con atti ostili occulti (taglio linee telefoniche) o palesi incidenti di essere non a noi favorevole» (foglio n. 2855/02 in data 15 settembre 1942, "Misure precauzionali"). La "Relazione sullo spirito delle truppe e delle popolazioni dei territori occupati" del mese di dicembre riferì che «la popolazione civile dei territori occupati si è dimostrata, durante gli ultimi avvenimenti bellici (ritirata dal Don dell'ARMIR, nda), decisamente osti­le a noi» (AUSSME, fondo N‑1/11, diario storico II Corpo d'Armata).

tico. Influisce forse sulla situazione la mancanza, molto sentita, di generi ali­mentari e di vestiario. Tutto consiglia a diffidare di tutti».

La regione del Don era stata appena teatro di aspri combattimenti e il quadro generale era comunque meno favorevole alle truppe dell'Asse di quanto non lo fosse stato un anno prima, soprattutto perché la controffensiva sovietica dell'in­verno aveva rappresentato un chiaro segnale di ripresa. Anche la lotta partigia­na si stava intensificando, pur incontrando oggettive difficoltà a raggiungere nei territori dell'Ucraina e della Russia Meridionale lo stesso livello d'organizzazione e d'efficacia che aveva altrove. Era comunque una realtà da non ignorare, anche se non ancora inquietante, e nel settembre 1942 il Comando dell'ARMIR diede disposizioni per la costituzione di nuclei di milizie locali per lo svolgimento di compiti di polizia, ordine pubblico, sfruttamento delle risorse naturali e concor­so alla lotta anti partigiana (34). All'ARMIR fu inoltre aggregata la divisione di fanteria con organici da occupazione Vicenza, destinata a svolgere compiti di controllo delle retrovie e di lotta alla guerriglia. La grande unità, priva del reg­gimento d'artiglieria e rinforzata da un battaglione carabinieri, operò nelle retro­vie del fronte per circa due mesi (ottobre e novembre 1942), provvedendo alla sicurezza delle vie di comunicazione. Nel corso di queste operazioni, che videro impegnati oltre la metà degli effettivi alle dirette dipendenze del Comando Grup­po d'Armate "B", gli scontri con i partigiani furono pochi e di portata limitata e all'inizio di dicembre, in previsione dell'offensiva sovietica, la Vicenza fu inserita nello schieramento del Corpo d'Armata Alpino (35). Anche i rapporti della divi­sione alpina Cuneense tra l'estate e l'inverno del 1942 riportavano che <> (36).
Per tornare al comportamento dei soldati italiani nei confronti dei prigionieri, sembra opportuno riprendere la lettura della già citata relazione di Messe, che in proposito si esprime in termini inequivocabili, confermando e rilanciando i contenuti delle direttive: «La sosta dei prigionieri e disertori russi si limitava presso i nostri comandi a 36‑48 ore o poco di più, dopo di che venivano accom­pagnati ‑ quasi sempre con automezzi ‑ al campo di concentramento più vicino indicato dai comandi germanici. Ben presto però cominciarono a diffondersi nei

(34) Posti al comando di ufficiali italiani, in genere dell'arma dei Carabinieri, questi reparti erano armati esclusi­vamente di fucili (AUSSME, foglio n. 2938 in data 25 settembre 1942, "Lotta contro i banditi", Comando II Corpo d'Armata ‑ Ufficio operazioni). In precedenza, il Comando dell'8a Armata aveva ordinato la costituzione di specia­li nuclei di cacciatori, formati da personale volontario dell'Esercito e destinati a compiti di controguerriglia e di con­trasto antiparacadutisti (AUSSME, fondo N‑1/11, foglio n. 2643 del 21 settembre 1942 del Comando Corpo d'Ar­mata Alpino, cit.).
(35) II combattimento più sanguinoso sostenuto in questo ciclo di operazioni fu l'imboscata tesa dai partigiani a una compagnia del 277° Reggimento di fanteria nei pressi di Isium dove perirono una ventina di militari italiani

comandi italiani le notizie circa il trattamento che i tedeschi facevano ai prigio­nieri russi. Trattamento di eccezionale rigore e a volte bestiale. Nessuna pietà per i deboli e gli ammalati; ufficiali accantonati insieme alla truppa; la razione giornaliera ridotta a un solo rancio e ad una brodaglia disgustosa di miglio, priva delle vitamine necessarie non tanto per lavorare quanto per sostenere una vita umana. [...] Tali fatti non potevano non fare presa sugli italiani e infatti i nostri comandi: cominciarono a non segnalare ai tedeschi il numero esatto dei prigio­nieri; approfittando della carenza dei mezzi di trasporto e dell'impraticabilità delle strade trattenevano un certo numero di prigionieri, adibendoli a servizio di ausilio. Tutto ciò allo scopo di sottrarre il più possibile i prigionieri ai patimenti che venivano loro inflitti nei campi germanici e procrastinare il giorno della con­segna che doveva alla fine necessariamente avvenire. [...] Fu prescelto come sede del campo di concentramento di Karjnskaja un ampio kolkos con grandi capannoni ben riparato, suddiviso con tramezzi di legno, disinfettato, provvisto di paglia. Furono impiantati i servizi igienici (bagno, disinfestazione, infermeria) e i servizi generali (cucina, latrina). II personale di guardia era costituito da una ventina di soldati che montavano accoppiati a prigionieri ucraini volontariamen­te offertisi per il servizio di guardia. Gli ufficiali russi disponevano di un locale dove mangiavano e dormivano isolati dalla truppa. Non furono mai impiegati in lavori ma esclusivamente adibiti all'inquadramento dei prigionieri che, invero, si dimostravano molto disciplinati. [...] Fu istituita la messa al campo e fu consen­tito l'ingresso al campo dei parenti dei prigionieri e dei civili in genere che voles­sero chiedere ai prigionieri notizie dei loro congiunti e portare loro doni. Le noti­zie dell'umano trattamento usato dagli italiani ai prigionieri si diffusero ben pre­sto anche nelle linee nemiche col risultato che nello spazio di 15 giorni (25 ago­sto‑10 settembre 1942) oltre 800 disertori russi si presentarono alle nostre linee sul Don. [...] Quando a metà febbraio 1943 fu ripreso il ripiegamento momen­taneamente sospeso e si dovette consegnare i prigionieri ai tedeschi, la notizia fu accolta con dolore e scoppi di pianto: molti prigionieri si diedero alla fuga, favoriti dai nostri soldati di guardia. Essi avevano infatti seguito spontaneamen­te le truppe italiane in ritirata e non volevano finire nelle mani dei tedeschi»

(37). All'opposto, il comportamento delle truppe russe nei riguardi dei prigionie­ri italiani si mostrò contrario a ogni legge di guerra e spesso anche a ogni sen­timento di umana pietà. Per oltre un anno dall'intervento del CSIR sul fronte

(AUSSME, fondo N‑1/11, diario storico Divisione Vicenza, "Relazione sull'impiego della 156a Divisione di fanteria Vicenza" a firma del gen. comandante E. Pascolini).
(36) AUSSME, fondo N‑1/11, diario storico Divisione Cuneense, "Relazione sull'impiego della Divisione Cuneense al fronte russo" del magg. Berardi.

(37) Stralci della relazione Messe del settembre 1945 furono riportati nel capitolo VII "II contegno delle truppe ita­liane verso le popolazioni e i prigionieri russi" del libro scritto dal maresciallo d'Italia ed edito da Rizzoli nel giugno 1947 col titolo La guerra al fronte russo. II Corpo di Spedizione Italiano (CSIR). II volume ha avuto almeno quat­tro ristampe.

orientale non furono ricevute in Italia lettere di militari dai campi di prigionia russi (38). Dopo la loro cattura nel dicembre 1942 ‑ gennaio 1943, migliaia di soldati italiani, depredati di indumenti e oggetti personali, furono costretti a marciare per centinaia di chilometri nella neve o stipati all'inverosimile su vago­ni ferroviari senza o quasi alimentazione. Nei campi, scarsamente organizzati, il tasso di mortalità per fame e malattie rimase altissimo, soprattutto nei primi mesi di prigionia. Martellante fu inoltre la propaganda a sfondo politico e mas­sacranti i turni di lavoro. Pochi reduci tornarono dalla prigionia e ancor oggi non è noto il numero esatto dei prigionieri caduti in mano russa (39). Sull'organiz­zazione dei prigionieri di guerra presso l'esercito sovietico, sull'atteggiamento mentale dei vertici politici e militari russi verso le truppe che avevano invaso il loro Paese durante la cosiddetta "grande guerra patriottica" e, più in generale, sul rispetto del nemico, è illuminante una relazione stilata dal nostro rappresen­tante diplomatico a Mosca nel maggio 1945: (40) «Altro ostacolo grave è costi­tuito dalla mentalità di questa gente che è abituata a tutt'altra concezione dei rapporti umani. Qui non si sono mai occupati dei loro prigionieri, non hanno mai cercato di assicurare loro corrispondenza, pacchi, ecc.. Anche adesso agli anglo­americani non si domandano liste (di prigionieri russi liberati dopo l'occupazio­ne della Germania, nda), si domanda di averli indietro. Nell'esercito sovietico, salvo che per i generali, non si comunica alle famiglie che il proprio congiunto è morto. [...] II mistero che circonda i nostri prigionieri non è certo maggiore del mistero che circonda qui qualsiasi piccola cosa. Con questa mentalità dura e spietata, aliena da ogni sentimentalità ritenuta inutile, la nostra ansietà di avere notizie non è capita. Non si vogliono rendere conto di che cosa significa per le famiglie questa incertezza».

L'attenzione al tema dei prigionieri fu determinata anche dalle proporzioni della tragedia dell'ARMIR, ma lo scenario non fu diverso l'anno prima, durante il perio­do in cui fu in azione il CSIR, con episodi documentati di barbarie ai danni dei

(38) AUSSME, fondo N‑1/11, diario storico SIM, foglio n. Cst/213325 in data 4 agosto 1942, "Prigionieri di guerra italiani in mano russa", Comando Supremo ‑ Servizio Informazioni Militare. II SIM auspicò a riguardo un interven­to del Ministero degli Affari Esteri tramite il governo giapponese, potenza protettrice nei confronti dell'Italia con l'URSS.
(39) Stime recenti fanno assommare a circa 95.000 il numero dei militari italiani che non hanno fatto ritorno dalla Pussia. Di questi in gran parte morirono dopo essere stati catturati. Nel dopoguerra il governo sovietico restituì solamente 10.000 prigionieri. Le liste dei prigionieri italiani tratte dagli archivi russi e divulgate in via ufficiale a partire dal 1992 hanno accertato la morte nei campi di Stalin di circa 38.000 militari. Questa cifra non comprende i decessi, stimati in almeno 22.000, avvenuti durante il trasferimento dai luoghi di cattura ai campi di detenzione M .T. Giusti, 1 prigionieri italiani in Russia, op. cit., p. 228; M. Coltrinari, "Le perdite della campagna di Russia. Caduti, dispersi, prigionieri. Dicembre 1942 ‑ marzo 1943", in II secondo Risorgimento d'Italia, n. 1/2004, p. 53­63). Del barbaro trattamento dei prigionieri di guerra italiani furono complici anche vari fuoriusciti italiani, primo fra tutti Palmiro Togliatti, che tra il 1941 e il 1943 da Radio Mosca, sotto il nome di Mario Correnti, esortò i russi a sterminare i combattenti del CSIR e dell'ARMIR chiamandoli con l'appellativo di "predoni", "banditi", "mercenari" e accusandoli dei più efferati delitti. Nella trasmissione del 23 gennaio 1942 pronunciò la seguente frase: «i fasci­sti hanno voluto condurre contro l'Unione Sovietica una guerra di sterminio. Ebbene, essi saranno sterminati.» ("Mario Correnti", P. Togliatti, Discorsi agli italiani, Società editrice l'Unità, Roma, 1945). II "compagno Grieco" chiu­se la comunicazione da Radio Mosca del 12 settembre 1942 con le seguenti parole: «Il popolo sovietico e I'eserci‑

feriti e dei prigionieri. Nel corso della vittoriosa "Battaglia di Natale" del dicem­bre 1941 una ventina di feriti del XVIII Battaglione Bersaglieri, che non era stato possibile sgomberare dall'infermeria del villaggio di Orlowo Yvanovka, furono ritrovati, dopo la riconquista dell'abitato, trucidati con un colpo alla nuca. II sot­totenente Vidoletti (Medaglia d'Oro al Valor Militare), anch'egli ferito, fu ucciso dopo aver declinato la sua qualifica di ufficiale nell'intento di evitare con tale gesto il massacro. Nella stessa battaglia fu ritrovato il corpo di un bersagliere del XX Battaglione con le ginocchia fracassate a colpi di mazza e oltre 30 muti­lazioni sul corpo. Durante i combattimenti dell'estate poi, nel diario di un uffi­ciale sovietico del 619° Reggimento caduto nella zona di lagodnj si lesse: «Durante l'occupazione della linea difensiva io con un plotone perlustrando la zona nella quale si erano infiltrati gli italiani, ho catturato un italiano ferito. In qualche modo mi sono spiegato con lui. Egli è mio coetaneo: un giovanotto di vent'anni, magro, di debole costituzione. Sembra quasi un armeno. E' di Messi­na. Implorava di dargli dell'acqua, una sigaretta e di essere poi finito. Quando ho dato l'ordine ai portaferiti di portarlo via, ha preso a baciarmi le mani. Mise­rabile popolo! II giorno seguente lo hanno fucilato. Era fascista» (41).
Dall'esame della censura postale di militari italiani operanti in Russia sono stati rilevati numerosi altri casi di accertati o presunti crimini di guerra da parte sovietica nei confronti di prigionieri di guerra (42). Così scrisse il caporal mag­giore Ercole Squaiella dell'82° Reggimento Fanteria: «Questi russi sono proprio feroci; il giorno IS un nostro bravo autiere è rimasto prigioniero, il giorno dopo lo abbiamo trovato legato sul camion morto con le mani tagliate; noi invece li soccorriamo e li sfamiamo [...]> . Ancora il capo marconista Luigi Bacchetta della 103' Compagnia Teleradio: «Ti basti sapere che i feriti che trovavano sul terre­no (italiani s'intende) li spogliavano completamente, li legavano così a un palo e colà ve li lasciavano fino a che non erano assiderati dal freddo intenso (43) [...]» . Scrive invece G. Bocchi del 3° Gruppo ‑ Reggimento Artiglieria a Caval‑

to rosso riservano a ogni tedesco, italiano, ungherese, romeno, finlandese penetrati nelle città dei Soviet una pal­lottola e due metri di terra». La vita dei prigionieri italiani nei campi russi fu resa più dura e insopportabile anche dall'opera di alcuni compagni di prigionia che si affiancarono ai fuoriusciti divenendo zelanti e spesso spietati ese­cutori dei loro ordini.

(40) G. Messe, La guerra al fronte russo, op. cit..
(41) AUSSME, fondo N‑1/11, diario storico 3a Divisione Celere, relazione del gen. Mario Marazzani, comandante della 3a Divisione Celere e del cap. Mario Di Campello, addetto alla sezione operazioni della stessa Divisione.
(42) L'articolo apparso su La Repubblica del 14 aprile 2005 dal titolo "II volto feroce dei nostri soldati", dello sto­rico tedesco T. Schlemmer, di presentazione del convegno "L'Asse in guerra", ha stigmatizzato l'operato violento delle truppe italiane durante la campagna di Russia prendendo ad esempio il brano di una relazione quindicinale sulla censura postale che riportava l'uccisione a sangue freddo di alcuni prigionieri da parte di un gruppo di cara­binieri. Da un'attenta lettura del documento originale, individuato presso l'archivio dell'Ufficio Storico dell'Esercito nel fondo I‑4, è emerso, invece, che il massacro fu opera dei sovietici, che bruciarono vivi tre carabinieri cattura­ti in azione.
(43) AUSSME, fondo N‑1/11, diario storico SIM, promemoria in data 11 febbraio 1942, "Relazione quindicinale (16‑31 gennaio 1942) sulla revisione della corrispondenza effettuata dalle Commissioni Provinciali di Censura Postale", Comando Supremo ‑ Servizio Informazioni Militare.
lo:«Avevano fatto tre prigionieri del Reggimento Lancieri [...] cosa ne hanno fatto? Uccisi barbaramente, uccisi a colpi di pistola [...] volete altri casi? [...] fecero due prigionieri dei nostri; uno scomparso e uno barbaramente pugnala­to» (44).

Messe, interpellato espressamente dal Comando Supremo che aveva saputo di questi eventi tramite lo spoglio della censura militare, minimizzò, riferendo di non avere dati d'informazione certi sul trattamento dei prigionieri di guerra da parte dei russi (45). Ciò forse nel timore di ritorsioni che avrebbero potuto nuo­cere ai buoni rapporti instaurati dalle truppe italiane in terra di Russia con l'ele­mento locale. II comando italiano si rendeva conto, inoltre, della necessità di non mostrarsi troppo duro nei riguardi della popolazione ucraina che durante il perio­do leninista e la guerra civile del 1919‑1921 aveva parteggiato in larga parte per i "bianchi" e sofferto la successiva vendetta dei bolscevichi. All'opposto, sareb­be stato opportuno sfruttare l'avversione di larga parte degli ucraini per il pote­re di Stalin a favore di una collaborazione in funzione anticomunista. II sistema d'occupazione tedesco, invece, intriso di preconcetti di ordine razziale, rifiutò sempre tali argomentazioni, finendo per inimicarsi le popolazioni di tutti i terri­tori occupati (46). In proposito varie furono le relazioni inviate a Roma dai comandi italiani rimarcando impietosamente gli errori e le atrocità di una tale politica (47): «Un obiettivo osservatore potrebbe essere portato a concludere che la politica germanica in Ucraina, malgrado precedenti esperienze e pro­grammi di grandiosa portata storica, non abbia dimostrata molta sensibilità né, almeno nei primi mesi, lungimirante previsione. II miraggio di realizzazioni immediate ha avuto spesso il sopravvento sui piani organici e programmatici, causando successive modificazioni e adattamenti. La trasformazione della guer­ra lampo in guerra di logoramento ha condotto a molte improvvisazioni di cui gli errori non furono sempre tempestivamente riconosciuti. [...] La reazione delle popolazioni civili alla politica tedesca in tutti i suoi aspetti è stata ed è in preva‑

(44) AUSSME, fondo N‑1/11, diario storico SIM, promemoria in data 23 dicembre 1941, "Relazione quindicinale (1°­15 dicembre 1941) sulla revisione della corrispondenza effettuata dalle Commissioni Provinciali di Censura Posta­le", Comando Supremo ‑ Servizio Informazioni Militari.
(45) AUSSME, fondo N‑1/11, diario storico CSIR, foglio n. 2339/Inf. in data 23 dicembre 1941, "Trattamento pri­gionieri di guerra da parte dei Russi", CSIR ‑ Ufficio Informazioni. Era dato per sicuro solamente l'invio in Siberia dei prigionieri italiani.
(46) A commento delle affermazioni di un ufficiale disertore, l'Ufficio Informazioni del CSIR così si espresse nell'a­prile 1942: «L'osservazione circa i severi metodi adottati dai tedeschi per reprimere il movimento dei partigiani e sulla loro efficacia di breve durata, non è probabilmente ingiustificata. Effettivamente le autorità germaniche d'oc­cupazione e particolarmente le minori gerarchie usano senza troppi scrupoli e discriminazioni la maniera forte, e non sempre dimostrano di preoccuparsi adeguatamente delle elementari necessità della popolazione civile. Si sono verificati e si verificano esempi di rigore spietato e talora perfino di brutale prepotenza di fronte ai quali la men­talità latina non può non rimanere perplessa e che potrebbero scavare solchi profondi tra il vincitore e la popola­zione locale. Anche l'argomento del futuro assetto politico‑territoriale della regione ucraina non sembra gradito ai germanici, almeno così si può desumere da una recente circolare che vieta ogni discussione sull'argomento e ogni manifestazione politica ucraina. Viene a mancare così la leva principale della collaborazione tedesco‑ucraina. Non bisogna dimenticare che la popolazione ucraina ha mentalità e atteggiamenti non facilmente comprensibili: a ciò

lenza negativa: gli atti di partigianeria e di sabotaggio, abbastanza frequenti e talvolta preoccupanti, verificatisi nei settori settentrionale e centrale, sono sca­turiti da naturale reazione ai soprusi che ha potuto innestarsi su una preceden­te organizzazione di tipo militare predisposta dai sovietici, meno frequentemen­te da convinzione politica, più raramente ancora da propaganda nemica. Una reazione positiva si è avuta soltanto per motivi di interesse, non mai per simpa­tia o spontanea volontà di collaborazione».

Le ricerche d'archivio sul comportamento dei militari italiani in Russia nel 1941‑1943 verso civili e militari nemici non sono state fino a oggi approfondite o condotte con sistematicità. II dibattito accesosi nell'immediato dopoguerra sulla sorte dei prigionieri di guerra italiani e sul trattamento riservato loro dai sovietici si è inserito nel violento scontro politico che divise l'Italia repubblicana nei primi anni della sua storia, il che per forza di cose ha impedito un'analisi serena e scevra da pregiudizi. I tempi sono oggi maturi per una riflessione più pacata e per studi più accurati che si possono avvalere della documentazione d'archivio liberamente accessibile presso gli archivi militari e diplomatici. Un primo modesto e sommario contributo in tale direzione viene da questa ricerca condotta esclusivamente presso l'archivio dell'Ufficio Storico dello Stato Maggio­re dell'Esercito. Allo stato attuale della consultazione della vasta documentazio­ne presente sulla campagna di Russia, si può ritenere che il contegno dei mili­tari italiani fu ispirato a spirito umanitario e rispetto del nemico e dei civili. I comandi italiani evitarono di vessare la popolazione con severe misure coerciti­ve per non incidere ulteriormente in senso negativo sulle già precarie condizio­ni di vita degli abitanti dei luoghi attraversati dalla guerra e soprattutto per non alimentare il fenomeno partigiano. II comandante del CSIR fu costretto addirit­tura a porre un freno alla naturale e istintiva propensione delle truppe italiane a un atteggiamento fin troppo amichevole verso i civili, che poteva offrire eccel­lenti opportunità allo spionaggio e all'attività dei partigiani russi (48). II com‑

che è innegabilmente rimasto del regime bolscevico si sovrappone 1 astio istintivo contro gli invasori: il tutto ammantato da un'apparente collaborazione (lavoratori per la Germania, problema agricolo) e da quello spirito di rassegnazione fatalista che caratterizza gli slavi orientali, ma che non esclude vendette lungamente covate o improvvise reazioni violente» (AUSSME, fondo N‑1/11, diario storico CSIR).

(47) Relazione del maggio 1942 compilata dal comando del CSIR e riportata in stralcio sul volume di G. Messe, La guerra al frbnte russo, op. cit.. Altre relazioni molto critiche sull'atteggiamento tedesco verso i civili e i prigionie­ri russi compilate da Messe nel corso delle operazioni in Russia sono conservate all'AUSSME, nel fondo L‑13: "Note sulla politica germanica in Ucraina", del maggio 1942 e "Aspetti della politica germanica di guerra sul fronte orien­tale. Fronte russo ‑ Bacino del Don", del Comando CSIR, ottobre 1942.

(48) AUSSME, fondo N‑1/11, diario storico CSIR. Nel foglio n. 5328/Op. in data 11 settembre 1941, "Schieramen­to delle truppe e contatti con gli indigeni", del Comando CSIR ‑ Ufficio Operazioni, Messe notò che: «lo stretto con­tatto con la popolazione civile, oltre che essere un incentivo per lo spionaggio avversario, influisce negativamente sullo spirito combattivo delle truppe in quanto può determinare un contagio in quella forma particolare di passiva acquiescenza che è caratteristica delle popolazioni indigene. In sostanza le truppe potrebbero adagiarsi in stato morale e fisico di scarsa vigilanza, fonte di serie conseguenze». Fu ordinato così di evitare «che le truppe assolvi­no ai propri compiti operativi in contatto con gli indigeni o addirittura vivendo con essi. Desidero che ognuno sia ben convinto che non è importante, per un esercito vincitore, riscuotere tenera intimità nei paesi occupati, ma è invece essenziale incutere stima, rispetto, distanza: il che significa prestigio».
portamento italiano si distinse nettamente da quello tedesco e il trattamento dei prigionieri di guerra russi si allineò a quello imposto dalle convenzioni interna­zionali, pur in mancanza di reciprocità (49). Se non si possono certo escludere singoli atti contrari al diritto e alla morale, gli ordini emanati dai comandi supe­riori non previdero il ricorso a mezzi estremi per riportare l'ordine nelle retrovie o per garantire la sicurezza delle truppe negli accantonamenti o nei trasferi­menti. In Russia non si fece ricorso, in pratica, all'istituto della rappresaglia, pur contemplato dalle leggi di guerra italiane all'epoca vigenti e utilizzato durante l'occupazione nei Balcani. L'atteggiamento generalmente non ostile della popo­lazione e lo scarso peso delle azioni partigiane portarono a non considerare nep­pure la possibile deportazione di intere comunità, provvedimento anch'esso, peraltro, non espressamente vietato dalle convenzioni internazionali dell'Aja e dal "Servizio in guerra" dell'Esercito Italiano (50).
Le truppe che marciarono contro l'Unione Sovietica nel quadro della guerra a fianco della Germania voluta dal governo Mussolini e appoggiata senza entusia­smo dai vertici militari, che avrebbero preferito concentrare gli sforzi nello scac­chiere mediterraneo, si batterono con determinazione pur tra enormi difficoltà. In quello scenario, che vide il soldato italiano fare il proprio dovere fino in fondo, la propaganda italiana fece leva più su motivazioni politiche, legate, come nel corso della guerra civile spagnola, alla lotta contro il comunismo, che sull'odio razziale, tema ampiamente sfruttato invece da quella tedesca. Gli ordini impo­sero sempre il rispetto del nemico che si arrendeva, al quale si riconosceva la dignità di combattente regolare, nonché delle popolazioni e dell'economia loca­le. Non sembra quindi che allo stato attuale esistano le condizioni per modifica­re le conclusioni della "Commissione d'inchiesta per i criminali di guerra italiani secondo alcuni Stati esteri" (51): «Attraverso un accurato esame dei diari stori­ci, delle informazioni assunte e delle testimonianze raccolte, la Commissione si è dovuta convincere che le accuse di arresti arbitrari, torture, uccisione di citta­dini sovietici, distruzione di stabilimenti sanitari e altri eccessi, erano basate su

(49) C. De Franceschi ‑ G. de Vecchi, op. cit. p. 186.
(50) La pubblicazione n. 3768, "Usi e convenzioni di guerra", allegato 2° al "Servizio in guerra", Ministero della Guerra, 1940, riferiva che: «La rappresaglia ha il fine di indurre il belligerante nemico a osservare le obbligazioni derivanti dal diritto internazionale e può effettuarsi sia con atti analoghi a quelli da esso compiuti illegittimamen­te sia con atti di natura diversa. La rappresaglia non ha dunque natura di pena, ma è soltanto un mezzo di coer­cizione diretto a indurre il nemico a rispettare i suoi obblighi nei nostri riguardi. Pertanto la rappresaglia deve esse­re sufficientemente proporzionata alla gravità dell'offesa ricevuta, e non può consistere, salvo casi di assoluta necessità, in atti bellici diretti contro la popolazione civile. [...] La rappresaglia è ordinata con provvedimento del Duce o di autorità legalmente delegata. [...] 1 comandanti di grande unità distaccate, possono ricorrere a misure di rappresaglia soltanto in caso di assoluta necessità». (A. Marcheggiano, Diritto umanitario e sua introduzione nella regolamentazione dell'Esercito Italiano. La protezione delle vittime in guerra, volume II, SME ‑ Ufficio Stori­co, Roma, 1977, p. 480‑481).

(51) AUSSME, fondo H‑8, foglio n. 60/02 in data 30 giugno 1951 a firma dell'onorevole Luigi Gasparotto all'oggetto Relazione, Ministero della Difesa ‑ "Commissione d'inchiesta per i criminali di guerra italiani secondo alcuni Stati esteri".

dati di fatti inesatti o inesistenti o, erroneamente, venivano attribuite ai nostri militari mentre dovevano riferirsi a soprusi commessi dalle truppe tedesche; ragione per cui ha concluso ch'esse non avevano alcuna consistenza, tanto più che il governo russo, benché sollecitato da quello italiano, non ha fornito alcun elemento di prova contro i denunziati, e anzi non ha dimostrato di insistere su di esse».

Nota d'archivio: La documentazione utilizzata dagli autori e citata nel testo è interamente tratta dall archivio dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito, fondi N‑1/11 "Diari storici della seconda guerra mondiale"; L­13 "Documentazione acquisita dal 1968 ‑ fondi"; H‑8 "Crimini di guerra'; 1‑3 "Carteggio versato dallo Stato Maggiore Difesa" 1‑4 "Carteggio Stato Maggiore Generale ‑ Comando Supremo'; M‑3 "Documenti IT". Si ringrazia per il supporto alle ricerche d'archivio il dott. Alessandro Gionfrida.