martedì 24 aprile 2007

ANSA Vola da londra all'Australia

PILOTA CIECO VOLA DA LONDRA ALL'AUSTRALIA




SYDNEY - Per la prima volta un pilota cieco ha volato per più della metà attorno al mondo, da Londra fino all'Australia. A bordo di un aereo ultraleggero aperto simile ad un deltaplano, l'inglese Miles Hilton Barber di 57 anni, padre di tre figli e cieco da 25 anni, aveva preso il volo il 7 marzo da Londra ed è giunto ieri sera a Darwin, nel nord dell'Australia. Prevede di completare l'ultimo tratto della traversata di 21.722 km con diverse tappe fino a Sydney, dove conta di arrivare entro fine mese. Durante la traversata sopra 18 paesi, in cui ha affrontato tempeste di neve e piogge torrenziali, e anche una tappa a temperature di 25 gradi sotto zero sopra le montagne del Libano, Hilton Barber è stato accompagnato da un secondo pilota, responsabile di comunicare con le torri di controllo ma non dei comandi. La sua rotta segue quella della classica gara aerea Londra-Sydney del 1919, attraverso l'Europa, il Mediterraneo ed il Medio Oriente, poi Pakistan, India, Birmania, Malaysia e Indonesia. Con la sua impresa, intende raccogliere l'equivalente di 1,5 milioni di euro per la prevenzione della cecità nei paesi in via di sviluppo. Hilton Barber non è nuovo alle imprese record per un non vedente. Nel 1999 ha completato la corsa a piedi più dura del mondo, 250 km attraverso il deserto del Sahara, prima di gareggiare nelle maratona più 'fredda', la Siberian Ice Marathon. Ha anche scalato il Kilimangiaro e il Monte Bianco, oltre a stabilire il record per il giro più veloce per un non vedente nel Grand Prix di Malaysia, su una Lotus a 200 km/ora.
Basco Grigioverde
Basco.grigioverde@libero.it

Accadde con la "nuova" repubblica

Nuovo Fronte 256

La beffa di Gianfranco Chiti
Accadde con la “nuova” repubblica

‑ Fulvio Candia ‑


Bisognava assegnare un "Aiutante di Campo" al neo eletto Capo di Stato Maggiore.

"Voglio un ufficiale in gamba che conosca bene il mestiere, che sappia organizzare e comandare al momento opportuno. Voglio un uomo sul quale poter fare pieno affidamento!".

Così si raccomandò ai suoi collaboratori il Generale appena eletto a quella prestigiosa carica. I suoi ufficiali si riunirono per consultarsi. Si fecero dei nomi, ma poi decisero di interpellare la "Matricola Ufficiale". Si scorsero decine e decine di nomi, ma alla fine si trovarono tutti d'accordo su un nominativo: il maggiore Gianfranco Chiti con alle spalle un brillante curriculum militare, decorato al valore, eccellente preparazione professionale, elevate capacità di comando, ottimo organizzatore, come più volte ebbe modo di dimostrare. Il nominativo venne sottoposto all'approvazione del Generale che, di fronte a quei precedenti, non ebbe difficoltà ad accettarlo e dispose subito affinché gli venisse presentato.

Il giorno dopo il maggiore Gianfranco Chiti venne annunciato al Generale che lo accolse subito calorosamente. "Maggiore Gianfranco Chiti, ai suoi ordini!" Il Generale non mancò di esternargli il suo apprezzamento per il suo passato e per le capacità più volte dimostrate, mentre lo osservava ammirato: il suo "aiutante" era un granatiere dal fisico alto e possente con numerose decorazioni sul petto. "Bene" ‑ concluse ‑ "sono lieto di averti con me, prendi subito servizio". Così dicendo lo licenziò, ma Chiti non si mosse, rimase rigido sull'attenti. "Che c'è ancora?" chiese il Generale. "Signor Generale ‑ rispose Chiti ‑ la ringrazio per l'onore e per la fiducia. Lei avrà in me un attivo e fedele collaboratore, ma ho il dovere di informarla che sono stato un combattente nella Repubblica Sociale Italiana". Il Generale sbarrò gli occhi, credette di non aver capito, restando con la bocca aperta, se lo fece ripetere. Chiti, impassibile, non ebbe difficoltà a ripeterlo. Si irrigidì meglio sull'attenti ed avendo cura di scandire le sillabe ripetè: "Signor Generale, io sono stato nella Repubblica Sociale Italiana!" disse con orgoglio. A questo punto il Generale si rese conto di aver ben
capito. Balzò in piedi col viso paonazzo mentre con la mano aperta cominciò a battere ripetutamente sulla pulsantiera piena di campanelli provocando un gran frastuono in tutto il piano a gran voce cominciò a gridare: "Fuoriiii! Fuori da qui!" mentre si precipitavano nella stanza tutti gli ufficiali attratti da quel fracasso e dalle grida dal Generale. "Cosa succede, signor Generale?" Ma questi non la smetteva di urlare: "Fuori da qui..." Poi, rivolto ai suoi ufficiali: "Voglio sapere chi me lo ha mandato costui, voglio subito il nome, e tu scompari dalla mia vista, esci subito e non farti più vedere". Era diventato cianotico, stava per venirgli un colpo quando esausto si accasciò sulla poltrona.

Gianfranco, per nulla scomposto, tornò al Reggimento alle sue funzioni di "Aiutante Maggiore". Non era vendicativo, lui francescano in pectore, ma pensò fra sé "deve venire il momento, forse un giorno...".

E quel giorno venne presto; si direbbe quasi... spontaneamente.

Il comandante del Reggimento, un vecchio colonnello prossimo alla pensione, un brav'uomo che si sentiva un po' il papà dei suoi granatieri, venne allontanato dal Reggimento per un incarico esterno non definito. Da quel momento assumeva il comando il suo "Aiutante Maggiore", Gianfranco Chiti, compito che, come suo stile, esercitò con il massimo impegno ottenendo eccellenti risultati. Ma il 24 aprile sera dal Ministero arrivò un ordine: "Domani il Reparto dovrà commemorare il 25 aprile! Alla fine della cerimonia comunicare l'eseguito". Significava che il comandante di reggimento, Chiti, in quel momento, doveva prendere la parola per esaltare quella data che significava: Resistenza, lotta di liberazione, ecc.Come poteva rifiutarsi? Come avrebbe potuto parlare di quel periodo senza offendere la memoria dei suoi ragazzi caduti al suo fianco? Come avrebbe potuto parlare contro quelli che erano i suoi sentimenti ed i suoi ideali per i quali aveva combattuto? Era giustamente orgoglioso di quel suo passato che non intendeva assolutamente rinnegare. Un grosso problema da risolvere in poche ore. Aiutato da un amico fedele, passò la notte a sfogliare libri ed enciclopedie e finalmente, alle prime luci dell'alba, trovò la soluzione.

A1 mattino il Reggimento sin dalle prime ore è pronto per la cerimonia, perfettamente inquadrato. Arrivano le autorità e dopo aver presentato la forza al comandante, si dà inizio alla celebrazione. Prende la parola Chiti mentre alle sue spalle certi ufficiali ‑ non propriamente amici ‑ sbirciano e commentano: "Lo hanno incastrato! Sarà costretto a rinnegare il suo passato e ad esaltare la guerra di liberazione! Vediamo come se la cava!".

Gianfranco ha percepito queste confabulazioni alle sue spalle e sicuro di sé pensa "alla fine vediamo chi se la ride". Parla, prende il discorso alla larga. Comincia a parlare delle glorie d'Italia e della sua storia. Si accorge che i giovani schierati lo seguono con attenzione e questo lo incoraggia a proseguire sul tema. Parla dell'ingegno degli italiani, popolo di grandi navigatori che hanno portato alla scoperta di nuovi mondi, di artisti di grande talento, autori di opere apprezzate in tutto il mondo, ed infine di scienziati e di inventori che con le loro scoperte hanno rivoluzionato radicalmente la vita degli uomini verso una nuova civiltà, portando onore e gloria alla nostra Patria. "Noi italiani dobbiamo essere fieri ed orgogliosi di tutto ciò ed in particolare di questa giornata, il 25 aprile" (qui sente un mormorio alle spalle: "ecco, ci è cascato, lo sta dicendo"). Ma lui senza scomporsi prosegue: "Perché oggi, 25 aprile, è una ricorrenza della quale noi italiani dobbiamo essere fieri. Il 25 aprile ricorre la nascita di un grande italiano, uno scienziato che è riuscito, attraverso l'etere a comunicare ed a riunire così i popoli di tutto il mondo con una grande invenzione: la radio. Quest'uomo si chiamava Guglielmo Marconi!". Quindi, rivoltosi ad un suo ufficiale: "Comunica subito al Ministero che abbiamo commemorato il 25 aprile". Poi, rivolto ad un altro: "Proseguire nella cerimonia secondo il programma; alla fine ordina il rompete le righe e disponi per un rancio speciale in onore di Guglielmo Marconi!"

Racconta Gianfranco: "Non passarono neanche dieci minuti che la notizia era già al Ministero, segnalata, evidentemente da... ignoti. Esplose come una bomba. Sembravano tutti fuori di testa. I centralini impazzivano, tutti correvano da una stanza all'altra per chiedere, per avere conferma di una cosa così inaudita. Ministro e Generali tempestavano di chiamate la Brigata per avere dettagli. In tutto quel trambusto, qualcuno che, ignaro, entrava al Ministero, chiese se era scoppiata la guerra. "E' uno che è stato nella Repubblica Sociale, un certo Gianfranco Chiti". "E voi date il Reggimento in mano al nemico?" strillò qualcuno. Il vec­chio Colonnello ‑ che era molto affezionato a Chiti ‑ venne subito fatto rientrare al Reggimento. Lo chiamò a rapporto e con la testa fra le mani (racconta Gianfranco ) si dispe­rava: "Figlio mio, figlio mio, che mi hai combinato!". Chiti rispose semplicemente che si era attenuto rigorosamente all'ordine di commemorare il 25 aprile, e che nell'ordine non si precisava quale 25 aprile bisognava commemorare. "Ma poi, signor Colonnello ‑ riprese ‑ ci pensa che se noi italia­ni non avessimo avuto quel grande genio che fu Marconi, oggi non avremmo la radio e tutto ciò che ne è derivato, e certamente staremmo ancora a comunicare con... segnali di fumo". "Basta, Chiti!" ‑ gli urlò il Colonnello. "Posso ap­prezzare il tuo passato, ma di quel passato i politici di oggi, i Generali, ed altri, non vogliono sentir parlare". "Signor Colonnello ‑ rispose Chiti ‑ lei sa benissimo che non avrei mai rinnegato i miei Caduti".
Ed il Colonnello non poté dargli torto.
Basco Grgioverde
Basco.Grigioverde@libero.it

Quando a Scuola...






























Da Archivio Z. - T.G.C. Basco Grigioverde
Basco Grigioverde

Da Il Giornale - martedì 24 aprile 2007 "Cosa centra la resistenza con Cefalonia?" di Mario Cervi


di Mario Cervi - martedì 24 aprile 2007, 09:08

Giorgio Napolitano ha deciso di celebrare il 25 aprile a Cefalonia: dove dopo l’Armistizio dell’8 settembre 1943 la divisione Acqui, che presidiava quell’isola greca, ingaggiò combattimenti con i reparti tedeschi e dai tedeschi fu sterminata. Il gesto del Presidente vuole con tutta evidenza legare il sacrificio di Cefalonia alla Resistenza, e conferire all’8 settembre una positiva valenza storica: ravvisando in quella data - e in alcuni episodi che la contrassegnarono - non lo sfacelo desolante del «tutti a casa», ma l’avvio alla lotta partigiana.
In questa rivalutazione d’un evento che per molti - me compreso - fu il più infausto tra quanti ne vissero le nostre forze armate, più di Caporetto, Napolitano si pone sulla scia del suo predecessore. Anche Carlo Azeglio Ciampi vide nel disastro d’allora segni di speranza e di riscatto. Capisco le nobili motivazioni che hanno indotto prima Ciampi a riabilitare l’8 settembre, e adesso Napolitano a commemorare il 25 aprile là dove si immolò la divisione Acqui: ma non le condivido. O meglio: temo che le correzioni ufficiali apportate, per amor di Patria, ad alcune pagine del passato generino equivoci, alimentino la retorica nazionale, evitino i conti con la storia a un Paese che ha gran bisogno di farli, senza infingimenti e senza patteggiamenti.
Il martirio della Acqui - ferma restando l’efferatezza della repressione tedesca - fu molto più confuso, convulso e penoso di quanto una sua versione edificante voglia far credere. Non m’interessa di discutere la figura del generale Gandin: le cui incertezze e i cui errori vanno addebitati - come quelli di tantissimi altri comandanti periferici - al marasma che seguì, a Roma, l’annuncio della resa italiana agli angloamericani. Nulla può sminuire il valore di chi combatté e di chi cadde combattendo. Ma la fine della Acqui appartenne alla logica dell’8 settembre, quella umiliante non d’un confronto tra due eserciti, ma d’un immane rastrellamento ad opera dei tedeschi: i quali lamentarono a Cefalonia 80 morti in tutto, contro le migliaia di italiani.
Per questo, reso onore a chi si batté e a chi perse la vita, penso che sia fuorviante vedere in Cefalonia ciò che Cefalonia non fu. Ossia uno slancio di libertà e di democrazia e, per dirlo con i rètori imperversanti, una dimostrazione di antifascismo. Non v’era, non poteva esserci alcun anelito ideologico - tranne che per pochissimi - nella tragedia di Cefalonia. Vi fu l’anelito angoscioso dei soldati a poter tornare in Italia dalle terre remote in cui la smargiasseria di Mussolini li aveva mandati. Era, quello dei militari italiani, un desiderio umanamente sacrosanto. Da non confondere tuttavia con desideri e sentimenti artificiosamente loro attribuiti: ossia con un moto di ripulsa politica al fascismo nel quale erano cresciuti, e di ribellione morale al nazismo, alleato fino al giorno prima. Continueremo a ingannare e a ingannarci se pretenderemo che il popolo italiano, oppresso dalla dittatura ma smanioso di liberarsi dai suoi ceppi, fosse da gran tempo, nell’intimo, già ostile al Duce e ai suoi gerarchi. Lo divenne via via, tanto più intensamente quanto più fu evidente che la Germania - e al suo fianco, purtroppo, l’Italia - stava perdendo la guerra. Quello fu l’elemento decisivo. Il dirlo potrà indignare i cantori d’una inesistente Italia del ventennio che soffriva e si divincolava sotto il tallone di ferro, ma è la verità.
Per aggiornamenti e precisazioni sul tema, consultare il sito http://www.cefalonia.it/ attivato dall'avv. Massimo Filippini che ha perso il Padre in quella tragedia.
Massimo Filippini ha passato la maggior parte di questi 65 anni facendo ricerche per conoscere la VERITA' su quegli eventi che lo hanno reso orfano.
E per la Verità sulla sua strada del calvario e di ricerca ha trovato anche detrattori historici e parolai della più infima specie...
Un abbraccio all'avv. Mssimo Filippini per la sua coerenza, costanza, e sacrificio.
Basco Grigioverde

"TRA NOI Italia Folgore!" 1°Btg. Arditi Paracadutisti Folgore Foglio da Campo





























Donazione all' Archivio T.G.C. Basco Grigioverde
Basco Grigioverde
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lunedì 23 aprile 2007

Da IL MATTINO ILLUSTRATO 1 febbraio1942 XX Eques Psicologia del Paracadutista


Da Archivio Z. Basco Grigioverde
Da IL MATTINO ILLUSTRATO Anno XIX, 1- febbraio 1942 – XX


PSICOLOGIA DEL PARACADUTISTA

Fra tutti i nuovi mezzi bellici che l’odierna tecnica della guerra ha rivelato - e non son pochi ‑ quello che maggiormente ha di colpo impressionato le folle é il paracadutismo. Bombardieri a tuffo, aerosiluranti, guastatori, mezzi d'assalto marittimi e terrestri: hanno rappresentato in questo conflitto una ulteriore selezione dell'arditismo nei confronti di quello delle passate guerre; costituiscono passi avanti In quella categoria gerarchica degli sprezzatori della vita al cui vertice estremo sta il suicida. I Giapponesi, che degli opposti valori della vita e della morte hanno un concetto etico tutto speciale, hanno, raggiunto questo limite spirituale offrendoci lo straordinario spettacolo di “proiettili umani” che ragionatamente, freddamente, si scagliano Imbottiti d'esplosivo su un obbiettivo e saltano con esso. Ma i Giapponesi, si sa, sono Giapponesi; cori la nostra mentalità. indole, religione ed educazione europea a simili estremi non possiamo di proposito giungere. vi giungeremo in magari in battaglia, nell'eccitazione della lotta; ma non possiamo generalizzare e sancire con un regolare reclutamento simili eroismi eccezionali.
Tornando all' argomento dei “nostri” arditi tornando alla numerosa gamma del ragazzi dl fegato sano che formano le nostre specialità di assalto. i paracadutisti ‑ dicevo ‑ sono quelli che piú hanno attratto l'appassionato interesse delle folle. E con ragione: poiché vi sono nell'azione bellica di questa nuova arma alcune caratteristiche che incidono sulla natura stessa dell’uomo, che si urtano ai lati più sensibili dello spirito di conservazione. Intendo parlare, precisamente. della necessità di superare il nostro radicato, atavico istinto di orrore per tre sensazioni: il “vuoto.”, la “fralezza” del corpo umano e la “solitudine”. Sono sensazioni che gli altri Arditi non provano o provano salo in parte o con l'ausilio di poderosi, rassicuranti congegni che noi paracadutisti, attaccati agli esili fili del nostro ombrello, non possiamo recare dal cielo con noi.
Le prime due sensazioni si riferiscono all'attimo del lancio. E' un attimo ma. agli effetti del tormento nervoso, vale quanto una vita. Tutti voi avrete compiuto l'esperienza di affacciarvi ad un sesto piano, osservare la strada sottostante e pensare: “E se ora cadessi giù...” Sentite istantaneamente il corpo che si liquefa e vi cola a mo di piombo entro le scarpe. Ebbene: moltiplicate per cento quella sensazione, aggiungetevi la complicazione spirituale che Invece di “cadere”, bisogna buttarsi, ed avrete un quadro approssimativo del tormento che un paracadutista deve superare all'atto del lancio. Naturalmente egli compie, prima di brevettarsi paracadutista, un lungo ed adeguato tirocinio preparatorio; ma questo, agli effetti spirituali, non gli diminuisce di molto la sgradevole sensazione da superare; gli insegna a superarla, ecco tutto. Si è sicuri ch'egli si lancerà senza alcuna esitazione, ed anzi con una certa spavalderia ciranesca; ma l'interna Impressione rimarrà tal quale.
Parlavo di fragilità corporea. E' la spiacevole sensazione che si ha precipitando nel vuoto. Il vostro corpo ha appena lasciato l'apparecchIo, con una energica distensione di tutti i muscoli, che vi sentite travolti da una specie di ciclone (la scia d’aria del velivolo) che vi porta via come una festuca. Se non vi siete lanciati a regola d'arte (corpo ad arco e braccia in croce) capriolate per di più su di voi stessi come un burattino disarticolato. ­E fino a che il paracadute non s'è aperto, e s'è aperto bene, vi sentite una povera piccola cosa, nuda ed inerme, in balia degli elementi e della legge di gravitazione universale. Vi garantisco che non è piacevole: provare per credere.
Aggiungerò subito che queste sensazioni sono compensate ad usura da quella veramente deliziosa, che si ha subIto dopo: sospesi e dondolanti nell'azzurro, col mondo ai vostri piedi e lo spirito leggero e soddisfatto per aver vinto quel tale Istinto di conservazione che vi rodeva le budella lassù, sull'apparecchio. Vi sentite una specie di angioletto e vorreste che la discesa mai non terminasse. La vista della terra che si avvicina con rapidità preoccupante e la necessità di prepararsi a quell'atto dl alta acrobazia ch'é 1'atterraggio, vi distolgono a malincuore dall'incantamento del momento.
Tutto ciò concerne il lancio, ossia l'atto che agli occhi della folla ha maggiore interesse spettacolare. Ma il lancio non è che il prologo, il semplice prologo dell'azione bellica del paracadutista. Il difficile viene dopo.
Si piomba intatti nel cuore del paese nemico: sconosciuto ed ostile. E non appena riordinatisi, si deve rapidamente orizzontarsi e procedere, con la maggior velocità consentita dalle proprie gambe, sui varii obbiettivi. Siete soli, in contrade, ignote in cui ogni cespuglio può celare un arma ed ogni riparo un'insidia. Nessuna possibilità di immediato soccorso o rifornimento dal tergo se le cose non vanno bene, dovrete trarvi d'impaccio da soli, sfruttando le vostre armi al massimo del Loro rendimento e dosando bene le cartucce. Se per disgrazia siete ferito non potete sperare in cure ed aiuti, che i vostri compagni non possono nè debbono attardarsi per voi. Se cadete nelle mani del nemico non c'è molto da contare su trattamento umano perchè con i paracadutisti ‑- chi sa mai perchè ‑‑‑ tutti ce l'hanno, barbari e civili, e si sfogano su quelli che acciuffano come se si trattasse di grassatori.
E' questa, insomma, la solitudine che annoveravo fra le sensazioni spiacevoli che il paracadutista ha da vincere. E chi di voi s'è mai trovato In guerra, disperso in territorio nemico, sa cosa io Intenda significare.
-- “Insomma è un gran brutto mestiere quello dei paracadutista”; dirà qualche lettore, Impressionato da queste mie descrizioni.
Al contrario: é bellissimo; è il più bello Che soldato possa, desiderare. Per un uomo di fegato non v'ha infatti destino migliore di quello che vi offra dei bassi istinti da controllore, dei pericoli da sormontare e del compiti difficili da assolvere. Il vero coraggio non consiste nel non aver paura (solo gli incoscienti non la provano) ma nel dominarla, Il paracadutismo vi dà molte occasioni d'aver paura; ma vi offre altrettante possibilità di strapparvela di dosso, di calpestarla come sensazione bassamente animale e dl gettarla via, con un calcio, dietro di voi.
Conosco molto molto Intimamente un certo paracadutista che, ogni volta che dalla carllnga s'avanza verso quella tale porticina che da nel vuoto, sente in fondo ai precordi una specie di brivido. E gli vien fatto di dirsi, con un risolino interno alla Turenne; -- “Tu tremi dunque, vecchia carcassa. Ma tremeresti ancor di più se sapessi ove ti porto...”
Val la pena di fare il paracadutista per potersi dire queste cose.

EQUES

"Canta che Ti passa" Canzoniere ANP Folgore







Archivio Z. Basco Grigioverde
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San Marco Una tradizione da promuovere per uscire da ogni contesto fazioso


Il 25 Aprile a Venezia, Festa del Bocolo


Per i veneziani il 25 aprile è ricorrenza assai più antica dell'attuale festa nazionale. Vi cade infatti il giorno del Santo Patrono Marco le cui reliquie, che si trovavano in terra islamica ad Alessandria d'Egitto, furono avventurosamente traslate a Venezia nell'anno 828 da due leggendari mercanti veneziani: Buono da Malamocco e Rustico da Torcello.
Si tramanda che per trafugare ai Musulmani il prezioso corpo (l'Islam riconosce e venera a sua volta Cristo e i Santi), i due astuti mercanti lo abbiano nascosto sotto una partita di carne di maiale, che passò senza ispezione la dogana a causa del noto disgusto per questa derrata imposto ai seguaci del Profeta.
Va ricordato che in quei tempi (e in parte ancor oggi) le reliquie erano un potente aggregatore sociale; inoltre attiravano pellegrini e contribuivano a innalzare il numero della popolazione nelle città, effetto molto importante per un urbanesimo agli albori che stentava ad affermarsi sulle popolazioni prevalentemente rurali.
Ogni reliquia era quindi bene accetta assieme a chi la recava e quella di San Marco lo fu particolarmente a Venezia, in quanto proprio quel Santo, mentre era in vita, avrebbe evangelizzato le genti venete divenendone Patrono ed emblema sotto forma di leone alato.
Alato, armato di spada e munito di un libro sul quale, in tempo di pace, si poteva leggere la frase Pax Tibi Marce Evangelista Meus (Pace a Te o Marco Mio Evangelista); un libro che veniva minacciosamente chiuso quando la spada, anziché cristianamente discriminare il bene dal male, si arrossava di sangue guerriero.
La commemorazione è oggi ridotta al solo 25 aprile, data della morte del Santo, ma ai tempi della Serenissima si festeggiava anche il 31 gennaio (dies translationis corporis) e il 25 giugno, giorno in cui nel 1094 dogante Vitale Falier avvenne il ritrovamento delle reliquie del Santo nella Basilica di S.Marco.
Alla celebrazione si associarono col tempo alcune leggende popolari.
Secondo una di queste, durante la fortissima mareggiata che, come narra Marin Sanudo, colpì Venezia nel febbraio del 1340, un barcaiolo riparatosi presso il ponte della Paglia fu invitato a riprendere il mare da un cavaliere.Durante il tragitto verso la bocca di porto, il barcaiolo fece sosta a S.Giorgio Maggiore e poi a S.Nicolò del Lido.Raggiunto il mare aperto, i demoni che spingevano l'acqua verso Venezia furono affrontati e battuti dai tre cavalieri, che altri non erano che i santi Marco, Giorgio e Nicolò.

Sconfitti i demoni, San Marco affidò al barcaiolo un anello, da consegnare all'allora doge Bartolomeo Gradenigo perchè fosse conservato nel Tesoro di San Marco.
In occasione della festa del Patrono i Veneziani usano donare il bocolo (bocciolo di rosa) alla propria amata; sulle origini di questo dono conosciamo due ipotesi leggendarie.

Una riguarda la storia del contrastato amore tra la nobildonna Maria Partecipazio ed il trovatore Tancredi. Nell'intento di superare gli ostacoli dati dalla diversità di classe sociale, Tancredi parte per la guerra cercando di ottenere una fama militare che lo renda degno di tanto altolocata sposa. Purtroppo però, dopo essersi valorosamente distinto agli ordini di Carlo Magno nella guerra contro i Mori di Spagna, cade ferito a morte sopra un roseto che si tinge di rosso con il suo sangue. Tancredi morente affida a Orlando il paladino un bocciolo di quel roseto perché lo consegni alla sua (di Tancredi, non di Orlando) amata.
Orlando fedele alla promessa giunge a Venezia il giorno prima di S.Marco e consegna alla nobildonna il bocciolo quale estremo messaggio d'amore del perito spasimante. La mattina seguente Maria Partecipazio viene trovata morta con il bocciolo rosso posato sul cuore e da allora gli amanti veneziani usano quel fiore come emblematico pegno d'amore.
Secondo l'altra leggenda la tradizione del bocolo discende invece dal roseto che nasceva accanto la tomba dell'Evangelista. Il roseto sarebbe stato donato a un marinaio della Giudecca di nome Basilio quale premio per la sua grande collaborazione nella trafugazione delle spoglie del Santo.
Piantato nel giardino della sua casa il roseto alla morte di Basilio divenne il confine della proprietà suddivisa tra i due figli. Avvenne in seguito una rottura dell'armonia tra i due rami della famiglia (fatto che sempre secondo le narrazioni fu causa anche di un omicidio), e la pianta smise di fiorire.
Un 25 aprile di molti anni dopo nacque amore a prima vista tra una fanciulla discendente da uno dei due rami e un giovane dell'altro ramo familiare. I due giovani si innamorarono guardandosi attraverso il roseto che separava i due orti.

Il roseto accompagnò lo sbocciare dell'amore tra parti nemiche coprendosi di boccoli rossi, e il giovane cogliendone uno lo donò alla fanciulla.
In ricordo di questo amore a lieto fine, che avrebbe restituito la pace tra le due famiglie, i veneziani offrono ancor oggi il boccolo rosso alla propria amata.
Particolare curioso e molto italiano, il bocolo è anche il dono che in quel giorno i figli usano fare alle mamme.

Orrore: Il Giornale Lunedì 23 aprile 2007

Mariella mi ha sottolineato questo articolo, definirlo orribile è un complimento all'orrore.
L'unica cosa che mi viene in mente è che qui in Italia Genitori, Nonni, Parenti e Amici acquistano a basso prezzo quei giocattoli costruiti con l'utilizzo degli schiavi bambini, ma soprattutto questi Bambini mai nati, perché di bambini si tratta non vedranno mai perché a loro il Mondo è stato negato.

Basco Grigioverde

Basco.Grigioverde@libero.it


Cina, la guerra dei figli unici. Aborti forzati al nono mese
di Eleonora Barbieri - lunedì 23 aprile 2007, 10:43


Pechino - He Caigan era incinta di nove mesi: il suo bimbo era pronto a nascere quando i medici l’hanno ucciso, con una iniezione alla testa. Il piccolo ha sofferto insieme alla mamma, nel letto numero 37 dell’ospedale del Popolo di Youjiang, nel Sud della Cina: un’agonia di 20 minuti, poi non si è più mosso. Non è mai nato. I medici hanno eseguito gli ordini dei funzionari dell’ufficio per la pianificazione familiare che, pochi giorni fa, hanno deciso così la sorte di 61 bambini, destinati a non lasciare il grembo materno se non da morti. Come il figlio di Wei Linrong, moglie di un pastore cristiano, che ha dovuto prima subire cinque dosi massicce di farmaco abortivo e, poi, il dolore di partorire il suo piccolo ormai cadavere.
È l’effetto più macabro della politica del figlio unico, che il governo cinese non solo non ha intenzione di abbandonare (continuerà almeno fino al 2010), ma vuole addirittura inasprire. Il nuovo obiettivo sono le coppie ricche, quelle che possono permettersi la multa da seimila euro: le autorità vogliono svergognare gli evasori e pubblicare i loro nomi sui quotidiani locali. E vogliono punire anche i trasgressori all’interno del partito: nello Henan, d'ora in poi promozioni e ruoli da dirigenti saranno riservati a chi rispetta la legge. Ma queste sono intenzioni: nella realtà, la campagna di aborti forzati colpisce con crudeltà le famiglie più povere. È quello che è successo nei giorni scorsi nella provincia meridionale del Guangxi: una regione ricca, amata dai turisti cinesi e dagli imprenditori. Il 17 aprile 41 donne sono state trascinate in ospedale e costrette ad abortire. Il giorno dopo è toccato ad altre venti donne.
Ventiquattr’ore per uccidere 61 bambini. La denuncia è partita da "China aid association", organizzazione con base negli Usa, ed è stata ripresa dal sito "Asia news" e dal quotidiano "Avvenire". Pechino ha poi mandato altri poliziotti per difendere medici e agenti dalla rabbia della popolazione locale, che subisce il peso di una legge spesso ignorata dalle famiglie più ricche. Anche se, ufficialmente, dalla normativa sono esclusi i contadini più poveri e le minoranze etniche. Le cifre parlano di 90 milioni di coppie colpite dalla pianificazione familiare, quasi tutti residenti nelle città. Una norma apparentemente rigida ma che, dal 1979, è stata applicata in realtà a circa il 35% della popolazione: perché, quando il primo nato è una femmina, le autorità spesso chiudono un occhio e consentito un secondo tentativo. L’ultima spiaggia è Hong Kong, dove il divieto non è in vigore. Ma il governo locale ha reso obbligatoria la prenotazione della visita medica per chi è incinta di almeno 28 settimane, per evitare le code al pronto soccorso.
Fra eccezioni e permessi, la legge è stata un fallimento a livello numerico. Ed è un disastro sul piano sociale: perché alimenta il risentimento già molto diffuso verso i ricchi (secondo un sondaggio del China youth daily, il loro privilegio familiare è «ingiusto» per il 68% degli intervistati) e accelera l’invecchiamento della popolazione (di questo passo, nel 2050 gli anziani raggiungeranno il 30%). E perché le donne - ovviamente penalizzate, perché basta un’ecografia per convincere molti futuri genitori ad abortire, nella speranza di un maschietto - sono già troppo poche per la sovrabbondanza di uomini in cerca di moglie: con la conseguenza che molte giovani sono rapite e condotte nelle campagne, per sposare signori molto più vecchi e poco ambiti.
Buon giorno Mariella,
il settaggio del Blog come tutte le cose gratuite ha un limite e questo sono il paletto che si sconta nella lunghezza dei commenti.
Coerentemente dato che l'articolo lo hai segnalato tu mi sembra giusto aggiungere quella che è la tua opinione.
"Lottando con gli euro, ho spesso comprato prodotti cinesi. Costano poco, e sono simili agli altri. Ieri ho letto Il Giornale, e ho deciso che i prodotti cinesi grondano sangue...L'aborto forzato a nove mesi, i laogai, campi di concentramento dove sono tutt'ora reclusi sei milioni di dissidenti politici, permettono alla Cina di essere un colosso economico...Per forza! Ogni laogai, ha annessa una fabbrica, la manodopera non è pagata, fanno turni massacranti di 16-18 ore giornaliere, se muoiono è lo stesso...si devono riabilitare...E nota in più per me animalista, i cinesi mangiano cani e gatti, li vendono ai mercati, spellati vivi, ancora agonizzanti...La Cina gronda sangue... " .
Concordo con quanto hai espresso. mi piace perché sei pacata, misurata e lontana da espressioni inutile fuori luogo per esempio quelle con contenuti xenofobi.
Ma ti vorrei ricordare che l'utilizzo dell'Arma del Boicottaggio ha fomentato più di una Guerra per esempio la 2^ G.M. è nata dalla coda lasciata irrisolta della 1^ , unitamente ad un Dichiarazione di Guerra operata da un Popolo verso un'altro, da qui sono nate le Sanzioni messe in atto dalle nazioni ricche e plutocratiche per impedire l'indipendenza e la libertà economica commerciale di quelle emergenti invidiate e temute per l'opera di quei governi che si sono attivati nel socializzare la propria azione a favore del Popolo, del territorio creando quelle infrastrutture che ancor oggi sono l'esempio di una buona ed oculata amministrazione.
Sotto questi aspetti la Socializzazione ha fatto si che la Persona il Cittadino e i suoi figli avessero quelle protezioni e garanzie per la loro crescita Civile, Demografica, Culturale, Ambientale, e Salutare.
Una crescita che ha dovuto combattere contro gli ostracismi, le sanzioni, gli embarghi che arricchiscono i poteri ed umiliano, affamano gli Ultimi della terra di ogni Popolo.
L'ho fatta lunga per dirti che la dove vi sono eccessi pagati dagli ultimi della terra occorre essere moderati e disponibili senza per questo cessare di combattere i soprusi e gli orrori con estrema determinazione.
Ricordo a te e a chi ci legge che esistono Le lettere al direttore della testata che va ringraziata per questa coerenza nell'informare i propri lettori.
Qui in questo spazio gratuito ci sarà sempre comunque spazio per questi ed altri temi Sociali
Un abbraccio
Basco Grigioverde

Dal Notiziario dei Paracadutisti milanesi il Reg.To AZZURRO nasce a Tradate nel' 43









IL BATTAGLIONE AZZURRO DEL RGT. FOLGORE NASCE A TRADATE NEL ‘43




(Il nostro Aldo Arcari, uno dei protagonisti d'epoca, racconta quei giorni.)
Mi illudevo di trascorrere in santa pace, dopo quasi tre anni di guerra, non proprio guerreggiata ma comunque lontano dalla Patria, una licenza premio capitatami tra capo e collo che mi aveva consentito di imbarcarmi su un aereo il 31 agosto'43 a Heraelion (Creta) destinazione Brindisi. Lungo viaggio in tradotta e finalmente a Milano.
La sera dell'8 settembre mi stavo recando da un paesino del Legnanese (la mia famiglia era sfollata lì) a Legnano per assistere al "Rigoletto" interpretato da un amico dell'adolescenza che aveva studiato canto e che si esibiva per la prima volta. In attesa del trenino vidi la folla che correva da un bar all'altro da dove le radio emanavano ad alta voce un messaggio. Era l'armistizio e la voce era quella di Badoglio. Rinunciai al breve viaggio e tornai a casa in tumulto. Non voglio darmi delle arie nel senso di far credere che capii subito tutto ciò che sarebbe successo ma quella ultima frase del messaggio «... le FF.AA. reagiranno contro eventuali attacchi da qualsiasi parte provengano » mi fece riflettere, sia pure in modo ancora confuso. La massa non si soffermava ad analizzare, festeggiava la fine della guerra e basta.
I giorni che seguirono furono per me decisivi: il Re era scappato insieme a tutti i Capi militari, l'esercito senza Capi era sbandato ed aveva gettato ignominiosamente le armi. La mia confusione si trasformò nella certezza del tradimento con tutte le conseguenze immaginabili.
La liberazione di Mussolini fece il resto e non appena comparvero i bandi di arruolamento corsi a Piazza l. Balbo (ora Piazza Novelli) sede del Comando dell'Aeronautica. Vi trovai il Ten. Mallen paracadutista dell'ADRA il quale, essendo io un graduato, mi spedì subito a Tradate dove era in atto l'organizzazione della futura Scuola di Paracadutismo. Era il 10 ottobre, a Tradate le rondini volavano basse e c'era nell'aria un profumo di tigli in fiore come recitò in seguito il nostro poeta Cap. Bonola.
E fu così che vidi arrivare giorno dopo giorno, insieme a qualche anziano", i "Balilla", nel senso che avevano poco più o poco meno di 17 anni.
Ah! se li ricordo: Briani dai capelli rossi, i gemelli Fumagalli, i Berticelli, i Brovelli, Greguoli, Cartasegna e tanti altri che non posso enumerare non per mancanza di memoria bensì di spazio. Mi dissero che li avevano portati in una caserma dei pompieri a Milano e fatti saltare da mia torre sul telo di salvataggio tanto per vedere se avevano paura... di morire!
Quanta tenerezza; la guerra era perduta ma loro forse sognavano una fantastica eroica Waterloo. Per la verità anch'io la sognavo ma intanto bisognava prepararsi. Con l'arrivo dei carismatici Istruttori di Tarquinia e Viterbo come il Cap. De Santis, il Ten. Martinotti, Carlo Maria Milani (pioniere di Castel Benito) la scuola di Tradate prese forma e sostanza nelle attrezzature tecniche, e con l'arrivo di Ufficiali valenti cominciò anche l'addestramento al combattimento: si doveva diventare Arditi Paracadutisti dell'Aeronautica Repubblicana.
lo dovevo iscriverli a ruolo, un lavoro burocratico necessario affinché... la paga cominciasse a correre per essere spesa tutta nelle serate di libera uscita nella locale Pasticceria (mitica) tanto per non smentire di essere ragazzini.
Nel giro di poche settimane le tre Compagnie che dovevano formare il Battaglione Azzurro furono costituite. 1 tre rispettivi comandanti furono designati nel seguente ordine: Ten. ard. parac. Max Carriere della 1^ Compagnia (in seguito assunse la numerazione di 11^) nella quale io ebbi l'onore e l'onere di assumere il ruolo di Sergente Aiutante. Un ruolo che presupponeva un grado superiore ma, dati i tempi e la scarsità di quadri, capitò spesso in quel periodo rivoluzionario che alcuni comandi operativi venissero assunti da graduati inferiori. E il caso del Magg. Sala che assunse il Comando del Reggimento, di Capitani che assunsero il Comando di Battaglione, di Tenenti che assunsero il Comando di Compagnia.
Mi piace qui ricordare, a proposito di questo ruolo di Aiutante di Compagnia, un episodio dell'immediato dopoguerra quando proprio in questa veste fui citato a testimoniare nel processo contro il S.Ten. Del Monte. Il Pubblico Ministero in quel processo, nel tentativo di sminuire la mia testimonianza, definì quel ruolo come quello di "tirapiedi del Comandante.
Mi piace altresì ricordare, mi si perdoni l'orgoglio, che durante la battaglia di Falmenta (Val d'Ossola) assunsi il comando di una squadra è in quella occasione venni indicato per la Medaglia di Bronzo al V.M. alla faccia del tirapiedi!
Ma andiamo avanti con l'organigramma del Battaglione Azzurro: Ten. ard. parac. Leonida Ortelli della 2^ Compagnia (assumerà la numerazione di 12^), questo valoroso Ufficiale nella Battaglia di Roma scomparirà nella mischia dato per morto verrà insignito la Medaglia d'Oro al V.M. alla moria. Fortunatamente sopravvisse prigioniero in Algeria ma la massima decorazione sarà confermata. Gli succedette al Comandante Ten. ard. parac. Tomasina.
La ^ Compagnia (che assumerà in seguito la numerazione di 10^)! posta al Comando del Cap. Capozzo.
Il Comando del Battaglione Azzurro fu assunto dal Capitano Bussoli un Ufficiale proveniente dal X Arditi e da quella fucina di Arditi fu la Scuola di S. Severa (Civitavecchia).
Ricordo la gran festa quando furono assegnati i pugnali che ci qualificavano Arditi. Mancava ancora il paracadutino di stoffa da cu sulla manica sinistra ma quello va per arrivare.
Bisognava lavorare molto s maledetta capovolta a terra:condicio sine qua non per essere ammessi al lancio. La capovolta! Oggetto di odio e amore che gli attuali Paracadutisti non conoscono l'evoluzione tecnica dei mezzi moderni. Il nostro IF42 era un paracadute che, avendo il fascio funicolare non bretellare bensì attaccato al dorso, ci esponeva all'impatto terreno in posizione quasi orizzontale anziché verticale, quindi l'arrivo a terra necessitava di una capovolta atta a distribuire su tutto il corpo l'impatto col terreno.
Dovevamo arrivarci nell'aprile ‘44 ma nel frattempo, in gennaio, lo sbarco anglo‑americano ad Anzio. La notizia arrivò di sera e il Btg. di ragazzini si radunò spontaneamente nel cortile del Castello reclamando a gran voce davanti alla mensa Ufficiali l'ordine di partire immediatamente per il fronte dato che lo sbarco minacciava direttamente Roma.
Che serata ragazzi! Il Col. Dalmas comandante la scuola, rimase interdetto. Ma come, avete appena imparato a marciare in ordine chiuso, reminiscenza dei Balilla, e volete partire subito per la guerra? andate in pasticceria! Cinismo degli adulti, incomprensione di e Comandanti nobilmente timorosi di mandare allo sbaraglio ragazzini imberbi e impreparati.
Non capivano che loro volevano la loro eroica Waterloo.
Finalmente venne il giorno del lancio. Da tre SM. 82 il Btg. Azzurro, il 24 aprile 1944, si lanciò sul campo di Venegono e si fregiò del distintivo di Ardito Paracadutista.
Il giorno seguente lasciammo Tradate diretti al fronte di Anzio/Nettuno dove gli Alleati, sbarcati nel gennaio precedente, erano ancora lì fermi come balena insabbiata. Su quel fronte già combattevano i nostri fratelli del Nembo al comando dell'eroico Magg. Rizzatti. Insieme a loro e al 1° Btg. Folgore di stanza a Spoleto dovevano costituire il 1°Regg. Arditi Paracadutisti “Folgore". Anche noi dell'Azzurro ci fermammo a Spoleto per un periodo di addestramento sulle armi tedesche sotto la guida di tremendi Istruttori teutonici.
Attendati sulle rive del fiume La Bruna trascorremmo un duro periodo, scalpitanti di andare al fronte, insofferenti di quegli Istruttori arcigni. Ci vendicammo battendoli in una partita di calcio Italia‑Germania ante litteram. Quando partimmo per la zona d'operazioni il fronte era già in movimento nel senso che lo sfondamento a Cassino da parte delle forze alleate aveva costretto il fronte di Nettuno a indietreggiare verso i colli Albani. L'Azzurro arrivò per combattere insieme al Nembo una disperata battaglia di retroguardia per la difesa di Roma intorno a Casteldidecima e Ardea. A Casteldidecima trovò la sua eroica morte il Com. Rizzatti Medaglia d'Oro alla memoria definito il Cavaliere dell'ideale. Poi fu la ritirata. Fu quella la gloriosa Waterloo dei ragazzi dell'Azzurro? La copertina di Beltrame sulla "Domenica del Corriere" la eternò.
Il resto è storia spicciola. Un periodo di riposo ad Angera sul Lago Maggiore, l'arrivo dei complementi, altri Balilla provenienti dalla scuola di Tradate che continuava a ricevere e ad addestrare volontari che non smisero di affluire fin quasi alla vigilia della fine. Quale eroica incoscienza!
Un'altra partenza in autunno per la Val d'Ossola, altri combattimenti, ma questa volta ci toccò in sorte una feroce guerra civile di cui i più giovani ignoravano totalmente le lontane premesse e non ne capivano che vagamente le molteplici motivazioni.
Poi ancora un fronte di guerra, l'ultimo in Val d'Aosta sul Piccolo S. Bernardo, a fronteggiare insieme alla Divisione Alpina Monterosa (già, eravamo diventati Paracadutisti/Alpini!) i Francesi gollisti che premevano per occupare l'intera valle e annettersela per mettere tutti davanti al fatto compiuto da far pesare sul futuro tavolo della pace.
Non ci riuscirono, ma forse ne furono dissuasi anche dagli Alleati i quali, bontà loro, non avrebbero mai accettato che il loro fresco cobelligerante italiano del Sud subisse una mutilazione così atroce. Ma questa è un'altra storia che già stata scritta dai Grandi A Yalta.
Quando il 25 aprile 1945 giunse l’annuncio della disfatta definitiva dei Tedeschi sul fronte di Bologna e il conseguente dilagare degli Alleati in Val Padana, il Btg. ebbe l'ordine di ripiegare ed asserragliarsi nella Caserma Testafochi di Aosta. Si trovava con l'Azzurro il Comandante Sala, Comandante del Reggimento. A lui si devono le trattative per la resa che iniziò con lo spostamento in pieno assetto di guerra verso Saint Vincent all'Hotel Billia diventato per alcuni giorni la nostra fortezza. Lasciammo Aosta inquadrati ed armati fra due ali di Aostani silenziosi e in preda al timore che qualche sconsiderato partigiano sparasse un colpo. Sarebbe stata una carneficina.
A S. Vincent fummo raggiunti da una Commissione Interalleata di armistizio la quale, accettando la resa, ci concesse l'onore delle Armi che depositammo nelle mani del nostro durante una suggestiva e struggente cerimonia. Infine, caricati sui camion alleati, prigionieri a Coltano (una località tra Pisa e Livorno) in un viaggio infernale.
Ma qui bisognerebbe aprire un altro capitolo della storia dell'Azzurro che investe la storia di tutto il Reggimento che si ritrovò tutto lì unito, in divisa con cuore puro e conscio di aver servito “L’Onore d’Italia”, una storia finale che segnò per sempre un duraturo cemento di solidarietà e fratellanza fra i Reduci che tuttora rappresentano lo zoccolo duro di italianità, solidarietà, premessa per la rinascita della nostra Associazione la quale l'anno prossimo celebrerà il 55° anniversario della sua fondazione.

Aldo Arcari






... e non avrò
più voglia di parlare,
ma se qualcuno ancora
mi domandasse,
risponderei
semplicemente
ONORE!
(Cap. Bonola, da "Rapsodie di Tradate”)'

Dal Notiziario dei Paracadutisti milanesi "Folgoré":Storia di un Reggimento

Dal Notiziario dei Paracadutisti Milanesi N° 3 -1995 pag 2-3


























FOLGORE”:
STORIA DI UN REGGIMENTO


(SUNTO DEL TRATTATO DI NINO ARENA PER IL 40°` DELLA BATTAGLIA DI ROMA
)


In quel tragico 8/9/1943 furono pochi i reparti che si ribellarono all'ipocrita slogan del "tutti a casa". Pochissimi quelli che in contrasto con la logica e l'opportunismo scelsero la parte perdente pur di riscattare con le armi l'onore militare, schierandosi al fianco dell'alleato germanico e restando fedeli ad un patto politico e militare ancora valido al momento dell'armistizio. I reparti paracadutisti che presero tale decisione furono: in Sardegna, il 12°Btg. "Nembo" del Magg. Mario Rizzatti; in Calabria, il 3° Btg. "Nembo" del Cap. Edoardo Sala; nel Lazio, uomini del X Rgt. Arditi della costituenda Div. Parac. Ciclone" del Btg. ADRA. La confusione morale e le incertezze d'azione scaturite dall'annuncio dell'armistizio fra i reparti italiani ebbero in Calabria, fra i paracadutisti del 185' Rgt. della "Nembo", l'aspetto più emblematico: dei tre battaglioni in ritirata, l’8° coinvolto in un impari combattimento veniva smembrato e travolto lo stesso giorno dell'armistizio da reparti canadesi; l'11° rimase inattivo in attesa dell'evolversi degli eventi; il 3° al comando del Cap. Sala scelse la via della continuità e del rispetto delle alleanze schierandosi senza esitazione al fianco dell'alleato germanico. Erano giorni terribili e sconvolgenti, ovunque si avvertiva un'atmosfera di abbandono e di sfacelo. Mentre le truppe tedesche in ritirata si garantivano da ogni sorpresa con ostruzioni stradali per rallentare l'avanzata nemica, le unità alleate avanzanti in Calabria si comportavano in forma violenta e moralmente offensiva nei confronti dei soldati italiani procedendo al loro disarmo fra soprusi e umiliazioni. Ciò avvenne soprattutto nei riguardi dei reparti del XXXI C.A. da cui dipendeva tatticamente il 185' Nembo tanto da far ritenere più che legittima quella istintiva ribellione dei paracadutisti del Btg. "Sala". «9 settembre 1943 ‑ ore 22 Signor Maggiore, il nemico non deve avere le nostre armi e noi le portiamo in salvo perché alla Patria possono ancora servire e la nostra fede e la nostra vita anche. Per l'onore d'Italia.» (Questo il messaggio inviato dal Capitano Edoardo Sala al Comandante del 185'Rgt. Nembo allorché il 3°Btg. decise di proseguire la lotta accanto ai tedeschi. Fu in questo deprimente scenario di desolazione che i paracadutisti del 3° giunti a Soveria Mannelli, trovarono abbandonati rotoli di nastro per decorazioni e fra questi uno di colore nero bordato ai lati di tricolore: un simbolo eloquente di lutto per la tragedia che la Patria stava vivendo. Il Cap. Sala volle far suo quel simbolo e dispose che un pezzo di nastro fosse consegnato ad ogni paracadutista del battaglione quasi come un impegno di fede, un atto di volontà di combattere ancora, senza contropartita alcuna, per l'Italia. In seguito furono aggiunte ricamate in oro sul nero la data 8‑9‑1943 e la frase 'Per l'Onore d'Italia" che lo stesso Cap. Sala aveva scritto in calce al messaggio da lui inviato al comandante di reggimento. Una frase che assurgerà a simbolo collettivo di fede per tutte le FF.AA. della R.S.I.
Dal canto suo, in Sardegna, il Comandante del 12° Btg. Nembo, Magg. Rizzatti, scriveva in quei giorni sul suo diario: «Io mi rifiuto di ubbidire all'ordine di tradire la Patria e di passare al nemico perché questo è un diritto e un dovere militare. Quindi io con il mio battaglione continuo la guerra da leale alleato a fianco della Germania».
Sul finire di quel mese di settembre i due battaglioni ribelli che al "tutti a casa" avevano preferito il tutti al fronte", alla resa incondizionata l'incondizionata dedizione al dovere militare, dopo aver seguito le rispettive sorti combattendo in Calabria, in Sardegna e in Corsica a fianco delle FF.AA. germaniche, venivano assegnati alla competenza operativa della 2^ Div. parac. "Ramcke" e stanziati sul litorale laziale a difesa da eventuali sbarchi alleati.
Cominciavano intanto a giungere volontari provenienti da altri reparti e ai primi di ottobre vennero attivati diversi centri di raccolta che registrarono uno straordinario afflusso di giovanissimi volontari che solo chi ha vissuto di persona l'affascinante militanza nella R. S.I. può pienamente comprendere nella sua essenza spirituale e morale. Veniva nel contempo costituito il Gruppo Arditi Paracadutisti "Nembo" affidato al Magg. Rizzatti che, il 17 dicembre, riceverà dal Cap. di S.M. Gen. Gambara un alto elogio e la primogenitura di "primo reparto italiano risorto all'onore delle armi". Si cominciava a dar vita alla Scuola di Tradate dove affluivano istruttori e materiali delle disciolte scuole di Tarquinia e Viterbo. Veniva costituito a Spoleto un centro addestramento con provetti istruttori germanici e ufficiali ed allievi venivano inviati a scuole di tattica in Germania.
Nel gennaio del 1944 gli alleati attuavano lo sbarco a Nettuno mirante ad aggirare la linea difensiva "Gustav" che da mesi resisteva caparbiamente all'offensiva alleata. Lo sbarco avvenne con uno spiegamento enorme di uomini e mezzi su un tratto di costa difeso da una compagnia di fanteria territoriale. Immediata e fulminea l’azione tedesca. Fra le unità destinate a bloccare l'offensiva anche Div. Parac. da cui tatticamente dipendeva il "Nembo" che invierà 300 paracadutisti distribuiti fra tre reggimenti tedeschi. La partecipazione dei reparti italiani ai combattimenti con le unità germaniche significava sotto il profilo storico politico la continuità di una guerra in comune con l'alleata Germania iniziata tre anni prima e, l'aspetto etico, stava significativamente a rappresentare la rinnovata volontà degli italiani di rispettare gli impegni presi a suo tempo dalla Nazione. Significava ancora molti giovanissimi volontari la prova del fuoco, la dimostrazione concreta di battersi con armi ed insegne italiane al fianco di valorosi paracadutisti che avevano sul petto i nastrini di Narvik e di Rotterdam, di Creta e di El Alamein Leningrado e di Tunisia.
I combattimenti si svolsero dal 16 inizio del contrattacco, al 21 febbraio in quella che viene ricordata come la battaglia della Moletta. Impossibile in questa sede ricordare gli innumerevoli atti di eroismo di abnegazione e di arditismo quei ragazzi sottoposti per cinque giorni ad un ininterrotto bombardamento dal mare, dal cielo e da terra tanto da suscitare l'ammirazione dei paracadutisti tedeschi. Le cifre aride della battaglia della Moletta davano un primo bilancio del sacrificio sopportato dagli italiani breve ma glorioso scontro del 16/2 74 i caduti, oltre 90 i feriti e mutilati, 149 i superstiti fra cui solo 3 ufficiali su 7. Numerose le decorazioni alla memoria e ai viventi italiane e tedesche.
Ciò che restava del Nembo, una compagnia denominata “Nettunia‑Nembo", resterà in quella zona in attesa del reggimento, impegnata quotidianamente in missioni esplorative, ricognizioni notturne ecc ecc. in uno stillicidio di morti e feriti.
A Tradate intanto veniva costituito il Btg. "Azzurro", affidato al Cap. Bussoli, e a Venegono nell’aprile venivano effettuati i primi lanci. Sempre in aprile il Raggr. Parac. Nembo veniva assegnato all'Aeronautica Nazionale Repubblicana (ANR) ed integrato Raggr. Arditi Parac. dell'Aeronautica (APAR) al comando del Col. Pilota e paracadutista Edvino Dalmas. Contemporaneamente a queste trasformazioni veniva costituito il Rgt. Arditi paracadutisti “Folgore” al comando nominale del Ten. Col. Dalmas composto dal Btg. “Folgore" (Magg. Rizzatti "Nembo" (Cap. Alvino), "Azzurro (Cap. Bussoli). Anche I"'Azzurro" verrà trasferito a Spoleto per un intenso e durissimo addestramento tattico agli ordini degli inflessibili ma bravissimi istruttori germanici.
Il 27 maggio il Rgt. Folgore effettuava una esercitazione generale che suscitava il pieno consenso delle alte autorità presenti e di tutto il nucleo istruttori, soddisfatti per i brillanti risultati ottenuti. Lo stesso pomeriggio arrivava improvviso l'ordine di partenza per il fronte!
Era iniziata l'offensiva alleata tendente a liberare finalmente dopo lunghi quattro mesi la "balena arenata", come l'aveva denominata Churchill, rappresentata da due gigantesche armate alleate con centinaia di migliaia di uomini, migliaia di carri armati e cannoni, mezzi a non finire e con l'appoggio di una potente flotta e migliaia di aerei.
Il “Folgore” con i suoi tre battaglioni (1441 uomini) si portava nella zona di Roma e a causa del rapido evolversi degli avvenimenti del fronte verrà purtroppo frazionato e smistato su alcuni tratti più minacciati del fronte. Mentre il fronte sud crollava nelle sue linee difensive ed i reparti tedeschi in ottemperanza gli ordini ricevuti ripiegavano velocemente a nord della Capitale, le isolate compagnie del Folgore combatteranno la loro battaglia in diversi settori del fronte più che altro per assolvere un impegno morale rappresentato dal fatto che l'estrema difesa della Capitale era affidata quasi esclusivamente al sacrificio di soldati italiani. Quanto grande sia stato il sacrificio e l'eroismo che in questa battaglia, durata fino al 5 giugno, lo dimostrano ancora una volta le aride cifre: 113 caduti in combattimento; 120 i feriti e ricoverati in ospedali militari; 709 i dispersi in gran parte prigionieri. A questi vanno aggiunti i caduti, i feriti e i dispersi della Cp. "Nettunia‑Nembo" che porta a 1100 il totale delle perdite complessive, compendiate con la concessione di 2 M.O.V.M., una segnata alla memoria del Magg. Mario Rizzatti e una al Ten. Leonida Ortelli, 36 M.A., 75 M.B., 112 C.G., 5 Croci di ferro di 2"cl. e una di Prima Decorato di M.A.V.M. il labaro del 1° Btg. Nembo. Ai paracadutisti tedeschi assegnati al Rgt. Folgore venivano concesse 2 M.A., 12 M.B. 18 C.G.
10 giugno 1944 il bollettino di guerra dell'OKW citava testualmente «... nei duri combattimenti difensivi di questi ultimi giorni si è particolarmente distinto un gruppo di combattimento della 4^ Div. Parac. al comando del Magg. Geke efficacemente sostenuto dai Paracadutisti del Reggimento italiano “Folgore" e dagli artiglieri facenti parte della contraerea germanica”
Anche il Gen. Parac. Kurt Student inviava un suo vibrante messaggio di saluto. Citando il Rgt. Folgore” che alle porte di Roma si è battuto valorosamente ed ha subito perdite elevate», rivolgeva ancora il suo commosso pensiero «ai camerati italiani e tedeschi che nei ranghi del Rgt. "Folgore", con esemplare fedeltà e fratellanza d'armi, sono caduti spalla a spalla come prima avevano combattuto».
Quando dopo la battaglia fu possibile ritrovarsi e contarsi, si constatò che solo un terzo del Reggimento era disponibile nell'Italia del nord, poco più di 600 uomini. A Tradate però, per quella straordinaria ed incredibile forma di volontariato che caratterizzò la R. S.I., continuavano ad affluire centinaia di nuovi giovani. Nell'estate del 1944, quando la guerra per l'Asse era ormai chiaramente perduta, quando la logica ed il buon senso suggerivano l'attendismo, il mimetizzarsi in attesa di tempi migliori, il non compromettersi con scelte politiche, centinaia di ragazzi scappavano da casa o disertavano da altri reparti per avere l'onore di battersi col “Folgore".
Il ricostituito reggimento, comandato formalmente dal Ten. Col. Dalmas, con le nuove divise grigioazzurre in quanto assegnato all'Armata Liguria del Maresciallo Graziani schierata sul nuovo fronte alpino occidentale, veniva gradualmente dislocato in Piemonte.
Sul finire del 1944 la guerra si risvegliava in quel settore e i paracadutisti del Folgore furono chiamati ancora a combattere. Il reggimento, affidato dal gennaio 1945 al neo promosso Maggiore Sala, venne impiegato su diversi settori del fronte: Monginevro, Chaberton, Piccolo S. Bernardo, Moncenisio. Rifiutando e contestando la guerra di posizione, i paracadutisti passavano all'offensiva compiendo continue e rapide incursioni oltre le linee avversarie. Fu portato a termine un brillante attacco al forte Fufernet in collaborazione con un gruppo di alpini tedeschi che venne premiato con 27 decorazioni. Ai primi di aprile, ancora in collaborazione tattica con gli Alpenjáger, i paracadutisti del 1° Btg. che presidiavano l'importante valico del Moncenisio respingevano per tre giorni gli incessanti attacchi dei reparti degollisti che dovevano ripiegare per le gravi perdite subite e col morale frantumato. Ma non era tutto: una nostra compagnia conquistava l'osservatorio avanzato dei francesi catturando un centinaio di prigionieri e molto materiale bellico.
La situazione militare e politica della R.S.I. cominciò a precipitare il 24 aprile. Non era la conseguenza di una disfatta militare che non c'era stata, ma della resa separata dei tedeschi, Per il Reggimento fu necessario fronteggiare l’emergenza: il 1° Btg. Lasciava il Moncenisio il 27/4 e giungeva a Strambino ed Ivrea il giorno 30 dopo vari combattimenti con morti e feriti. Qui attendeva in armi l’arrivo degli alleati fino al 5 maggio. Fu avviato in prigionia dopo aver ricevuto gli onori delle armi. Il 2° Btg. scese a valle col 3° "Azzurro" il 25/4 sistemandosi ad Aosta. Proseguiva isolatamente verso la pianura Padana giungendo, dopo vari scontri a fuoco, a Pont S. Martin dove si scontrò con reparti corazzati americani coi quali si batté caparbiamente lasciando sul terreno 2 morti e 18 feriti. I superstiti furono catturati e condotti in prigionia. Il 3° "Azzurro" e il Comando di reggimento restavano ad Aosta. Il Com. Sala assunse il controllo militare della città affidandola al Cap. Bonola in veste straordinaria di Capo Provincia, stabilì accordi per l'ordine pubblico e la sicurezza del suoi paracadutisti, ottenendo assicurazioni dal C.N.L. che il successivo trasferimento a St. Vincent non sarebbe stato disturbato. Il 29 aprile, in perfetta formazione di marcia, i paracadutisti lasciavano Aosta cantando le loro canzoni di guerra, passando fra due file di cittadini stupiti ed ammirati, di partigiani che presentavano le armi, raggiungendo poi St. Vincent dove si acquartieravano all'Hotel Billia, sistemandosi a difesa contro chiunque. Il 3 maggio giungono al Billia i parlamentari americani per trattare le modalità della resa: onore delle armi, consegna delle armi agli ufficiali italiani, inventario e immagazzinamento di armi e materiale e consegna delle chiavi ai rappresentanti alleati da parte del Comandante Sala, ammainabandiera. Il tutto nella tradizione dei paracadutisti, dignitoso, consono al comportamento dei soldati leali, valorosi anche se sfortunati. Sembrava di rivivere per un attimo il drammatico episodio del 6 novembre 1942 allorché il Magg. Zanninovich, di fronte all'attonito nemico che circondava nel deserto africano i resti della “Folgore", presentava la forza al Col. Camosso. «Non un drappo bianco è stato alzato, nessun uomo ha alzato le braccia il segno di resa.» Il 5 maggio, con austera cerimonia, il Com. Sala parlava per l'ultima volta ai suoi paracadutisti. Un discorso umano, privo di retorica, che commosse ed inorgoglì quei meravigliosi ragazzi prima che essi ricevessero dall'ormai non più soldato nemico, ora ammirato e generoso di elogi, quel cavalleresco onore delle armi che da sempre spetta di diritto ai soldati distintisi per leale comportamento. Poi, la lunga prigionia!

Sunto a cura del paracadutista Aderno Poletti

la leggenda di Robert Lee

Dal Secolo d'Italia Domenica 22 aprile 2007



































LA LEGGENDA
DI ROBERT LEE


Un libro di Alberto Pasolini Zanelli ricostruisce la storia della guerra di secessione americana, vista dalla parte delle giacche grige

Antonio Pannullo

E’curioso, ma nei programmi sco­lastici italiani la guerra di seces­sione americana (1861‑1865), che negli States preferiscono chiamare Guer­ra civile, Civil war, è menzionata solo di sfuggita, poche righe per dire che gli Sta­ti del Nord combatterono contro quelli del Sud ("ribelli") per abolire la schia­vitù. Poche infor­mazioni, e false, su quello che fu il pri­mo conflitto moder­no nella storia del­l'umanità, e delle sue guerre, che vide, per la prima volta in azione armamenti mai uti­lizzati prima, come ad esempio i som­mergibili.
La guerra di secessione ebbe tra l'altro un numero di vittime elevatissi­mo, circa u milione di persone tra mili­tari e civili. Per fare un paragone, i mor­ti americani nella Seconda Guerra mondiale furono poco più di 400mila.
Ma in realtà in Italia è la stessa storia degli Stati Uniti a essere poco approfon­dita nelle scuole: brevissimi cenni all'e­popea del West, da noi conosciuta soprat­tutto grazie ai film, la tragedia degli Indiani d'America, le storie, i protagoni­sti, le vicende politiche ed economiche: il tutto considerato dai nostri programmi ministeriali alla stregua di fenomeni poco più che folkloristici. E il panorama editoriale made in Italy non è che vada molto meglio: c'è solo la Storia della guerra civile americana di Raimondo Luraghi, oltre ad altri volumi dedicato però al 99 per cento alla storia degli Indiani. C'è però, in Italia, un sito atti­vissimo e serio, Farwest. it, che si occupa dell'800 americano in tutte le sue parti.
Tra l'altro, se gli studenti potessero studiare meglio le origini degli Stati Uni­ti e della loro mentalità così lontana da quella europea, potrebbero comprendere meglio certi fenomeni interni statuni­tensi e anche gran parte della politica estera di Washington...
A movimentare e a integrare il mono­tono panorama editoriale italiano sulla guerra tra "nordisti" e "sudisti", è uscito recentemente per i tipi della Leonardo Facco editore Dalla parte di Lee, "la vera storia della guerra di secessione ameri­cana", del giornalista e scrittore Alberto Pasolini Zanelli, autore molto attento alle vicende storiche "dimenticate": nel 1996 scrisse Il genocidio dimenticato. La Cina da Mao a Deng.
La storia guerra di secessione ameri­cana è tanto affascinante quanto com­plessa e sconosciuta: in quei quattro anni si dipanano vicende militari, perso­nali, economiche, strategiche, di costu­me. Furono compiuti atti di eroismo inimmaginabili, stragi orrende, emerse­ro personalità gigantesche: lo scontro dei mondi cambiò per sempre il volto degli Stati Uniti e in parte anche quello plane­tario. Gli Indiani d'America (i "nativi", come dicono oggi i "politically correct") conobbero i loro ultimi istanti di gloria prima dell'annientamento totale: il gene­rale confederato Stand Watie, un india­no, fu l'ultimo alto ufficiale sudista ad arrendersi, alcune settimane dopo la resa del generale Robert Lee al suo ex commilitone d'accademia di West Point Ulysses Grant ad Appomattox semplice­mente perché perché l'idea della resa non era ben comprensibile dalla mentalità degli Indiani.
Ma probabilmente mai vi fu, negli Sta­ti del Sud, i cosiddetti "secessionisti" un'adorazione pari a quella di cui fu ‑ ed è ancora oggi‑oggetto il generale Robert E. Lee, comandante in capo di tutte le for­ze confederate, che con un esercito infi­nitamente peggio armato, meno numero­so di quello dell'Unione, riuscì a tenere in scacco per quattro anni la più potente macchina da guerra di quel momento sto­rico. Oggi in decine, se non in centinaia, di piazze, parchi e vie di quella che fu la Confederazione, vi sono statue di quel­l'uomo calmo e fiero, dalla barba bianca, che cavalca sul suo fido Traveller, il suo famosissimo destriero che lo accompa­gnò anche all'appuntamento fatale del 9 aprile 1865 in Virginia: la resa.
Per capire ciò che Lee rappresentò per il popolo dei dixie, basti pensare che dopo il conflitto, che fu sanguinosissimo e sen­za quartiere, come tutte le guerre fratri­cide, Lee non subì alcun processo né per­secuzione: anzi, divenne preside del Washington College (oggi Washington and Lee University) a Lexington (Virgi­nia), già dal 2 ottobre 1865, dove tuttora riposa, nella cappella, dal momento della morte, avvenuta nell'ottobre del 1870.
Le ferite inferte dalla guerra avrebbero anche potuto essere ricucite, come avreb­be desiderato il presidente americano Abramo Lincoln (che mai e poi mai fu un abolizionista della schiavitù), che dichiarò pubblicamente che avrebbe ela­borato un piano per la riconciliazione, la pace e la ricostruzione del Sud, messo let­teralmente a ferro e fuoco dalle "pance blu" durante l'invasione.

Con la morte del presidente nordista Abramo Lincoln la Confederazione perse il suo migliore amico, perché era l'unico che credeva nella riconciliazione

Mala morte di Lincoln, il 15 aprile 1865, ucciso dall'at­tore John Wilkes Booth in un teatro di Washington, privò il Sud del suo più grande amico e protettore. Come raccon­ta Pasolini Zanelli, gli Stati confederati divennero teatro di violenze, speculazio­ni, estorsioni, confische più o meno ille­gali delle piantagioni, da parte degli affa­risti senza scrupoli del Nord, gli stessi che avevano scatenato la guerra civile non per amore degli schiavi negri, ma per la loro "emancipazione", in modo da poter ricattare gli operai bianchi del Nord dal punto di vista salariale. Il Sud si trasformò in una zona depressa, un mon­do e uno stile di vita erano morti e per­duti per sempre. Gli ci vorrà un secolo per riprendersi, anche se una riconcilia­zione formale fu celebrata nel 1913 sul campo di battaglia di Gettysburg, alla presenza di cinquemila veterani della Civil war.
È certo vero che storia la scrivono i vincitori, ma per la guerra di secessione americana non si è potuto impedire che la leggenda delle giacche grigie conti­nuasse a vivere nei film, nelle canzoni, nei libri americani. La storia politica ed economica invece la scrissero i vincito­ri, mistificando quelli che furono i motivi reali dello scontro tra due nazioni estre­mamente diverse e inconciliabili tra loro: il Nord e il Sud degli Stati Uniti.

SHERMAN
E LA PRESA DI SAUANNAH


Pur se non vi è in Italia aparte quello di Raimondo Luraghi, un serio e approfondito studio sulla guerra di secessione americana, tuttavia sono stati scritti moltissimi romanzi che hanno come sfondo, o contorno, la"Civil war" statunitense.
A cominciare naturalmente da Via col vento, che per molti anni ha dato la chiave di interpretazione, anche a noi italiani, del conflitto tra Nordisti e Sudisti.
Immensa è anche la mole di libri memorialisti, scritti dai generali protagonisti delle battaglie, e anche dai loro familiari.

Lo scrittore americano Ambrose Bierce vi inserì alcuni suoi racconti horror, con storie di soldati morti che resuscitavano sui campi di battaglia. Anche sul generale George Armstrong Custer (famoso però per Little Big Horn più che per il suo ruolo nell'esercito unionista), sono stati scritti libri sulla sua partecipazione alla guerra di secessione, quand'era colonnello, dove si batté con valore come avversario della cavalleria confederata guidata da suo omologo Nathan Bedford Forrest, altro oggetto di numerose biografie.

Nel mese di marzo è uscito un avvincente romanzo dello scrittore americano E.L. Doctorow, autore di Ragtime, da cui Milos Forman trasse il suo celebre film, libro intitolato La marcia, in cui si racconta l'altrettanto celebre avanzata del generale nordista William Tecumseh (sì, come il celebre capo indiano) Sherman da Atlanta verso Savannah, in Georgia, avvenuta alla fine del 1864, e conosciuta anche come "la marcia verso il mare". Tra l'altro, le Memorie di Sherman sono ancora oggi uno dei più attendibili affreschi della guerra civile.

Il generale Sherman nel settembre precedente aveva messo a ferro e fuoco la città di Atlanta, dalla quale partì con oltre 60mila uomini alla volta di Savannah, che conquistò pochi giorni prima di Natale, a prezzo di combattimenti sanguinosissimi. Sherman scrisse al presidente Lincoln offrendogli la presa della città confederata come "regalo di Natale"
An. Pa.

Perchè un Blog?







Per la verità non lo so nemmeno io...




questa mattina dopo lo scazzo di una notte che possiamo chiamare a corrente alternata fra sonno e insonnia spipolando con il PC quasi senza accorgermene ho aperto questo spazio.




Adesso che c'è vediamo di utilizzarlo al meglio.




Soprattutto rispettando le regole della buona educazione e della reciprocità, sotto tutti gli aspetti.




Odio ogni sorta di discussione e confronto dove emerge l'offesa personale, ogni riferimento a cose o persone deve avvenire esclusivamente con nomi propri per esteso.




Per esempio (Parà) è escluso non mi piace perché esiste solo "Paracadutista".




Se questo non va bene, c'è tutto lo spazio dove andare a scrivere come pare a piace fuori da questo spazio




Quindi a chi non va ... vada a farsi stendere da qualche altra parte.




Le immagini e i testi soprattutto ciò che si riferiscono alla Storia sono a disposizione di tutti, con l'accortezza di citarne la fonte originale riportata.




Per esempio le cartoline in apertura sono si del mio archivio ma l'Origine è lo spaccio e la casermetta di Pisa o Livorno acquisite negli anni 60.




Folgoré




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Basco Grigioverde