mercoledì 30 maggio 2007

Per l'ONORE d'ITALIA "Nec spe, nec metu" 63° anniversario della Battaglia Anzio - Nettuno

Sabato 26 maggio 2007
Presenti alle Bandiere ed alla S. Messa, presso il Sacello del Cimitero al Verano e sui campi della Memoria tutti i Ragazzi a reparti schierati, che hanno partecipato alla Battaglia per la Difesa di Roma gli facevano ala la Bandiera di Combattimmento della R.S.I. i gloriosi Labari e Fiamme di combattimento, Militari ed Associazioni d'Arma con le rispettive insegne, Autorità Civili, Parenti ed Amici.

Agli assenti giustificati è dedicata questa pagina, scaricabile e stampabile in formato reale cliccando su ogni singolo elemento.
Unica variante personale ai testi originali, l'aggiunta della Priere du Parà in francese.
Sono testimonianze storiche personali raccolte e riunite in occasione di ogni incontro che i reduci lasciano a futura memoria Storica ai posteri.
Basco Grigioverde
Basco.Grigioverde@libero.it























































































































































































































































































venerdì 18 maggio 2007

IO I MIEI CARNEFICI LI HO GUARDATI NEGLI OCCHI


PER QUESTO

NON POSSO NON ODIARE
I COMUNISTI

ESTRATTO DA "CAINO E CAINO"
. DI GIANMARIA GUASTI
CHE NE FA OMAGGIO PERSONALE

INIZIO DELLA FINE ‑ 24/04/45 –


Erano circa le ore 14 quando ricevetti l'ordine di abbandonare la postazione Marina III^ per raggiungere, con i miei soldati, il concentramento di forze a Chiavari. Già dalla sera precedente, ma soprattutto dal primo mattino attendevo ordini. Era maturata un'atmosfera di brande tensione e la notte non avevamo quasi dormito. Rumori e movimenti da parte della popolazione, passaggio sul lungomare di automezzi e cingolati provenienti da Sestri Levante e diretti verso ovest, ai quali eravamo demandati a dare sicurezza nell'ambito del settore di nostra competenza territoriale, ci avevano concesso solo dei brevi sonnellini fra un turno e l'altro. Io in particolare, per la responsabilità del comando e l'iper­tensione dell'eccezionale momento senza ancora saperne i motivi. quasi non avevo chiuso occhio. Avevo cercato, in più occasioni, di sapere da qualche componente della colonna motorizzata notizie relative,a tanto movimento ma senza esito, nessuno sapeva niente di preciso. Conoscendo la lingua tedesca. retaggio di due anni di studio a Zuoz in Engadina, provai con i tedeschi mischiati alla colonna ma nemmeno da loro riuscii a sapere nulla di preciso.
Tutti erano tranquilli e calmi per cui reputavo trattarsi di un normale se pur grande spostamento di forze e di mezzi fatto in notturna per evitare il pericolo di attacchi aerei. Oltre tutto, a quei tempi, vigeva la regola del "Taci! II nemico ti ascolta" per cui era normale non commentare le cose. All'alba il movimento era sensibilmente diminuito limitandosi al passaggio di pochi reparti a piedi. Avevo notato divise di ogni genere. Alpini, Decima Mas, Granatieri, Brigate nere, G.N.R. alternati a vari reparti tedeschi. Schulz, ed il caporale con lui, verso le 9, a seguito di disposizioni dal loro comando, lasciarono la postazione diretti a Chiavari.
Schulz non precisò se si trattasse di soluzione provvisoria o definitiva. Ci salu­tammo cordialmente come dovessimo rivederci prima di sera. Verso le 10 Abate, incaricato di vedetta sul tetto, mi riferì di aver notato con il binocolo movimento di civili, forse partigiani, sulle montagne verso Santa Giulia. Considerai che, con tutto lo spiegamento di forze notturno sulla litoranea, probabilmente irregolari, renitenti o anche solo civili dei paesi a mare. impauriti dal movimento delle truppe si fossero rifugiati sul monte.
Nulla faceva presagire quanto di li a poco sarebbe maturato. Da oltre un'ora era cessato qualsiasi movimento di forze sulla litoranea. Nessuno più era passato dal nostro posto di blocco. Poco dopo mezzogiorno improvvise alcune raffiche di mitragliatrice arrivarono sulla nostra postazione dalla boscaglia ad un centi­naio di metri da noi verso monte. Non fecero alcun danno fisico limitandosi a scheggiare il muro. Presi immediatamente provvedimenti allertando la squadra. Ero abbastanza tranquillo perchè tutta la striscia di terreno libero a monte, cin­tata con filo spinato e con vistosi cartelli "Terreno minato", ci garantiva che nessuno avrebbe osato attaccare da quella parte. Il mio trucco delle finte mine funzionava.
Feci sparare dal terrazzo superiore delle raffiche nel folto del bosco e da quel momento tutto tornò tranquillo. Successivamente giudicai quella scaramuccia come un tentativo di qualche gruppo partigiano di avvicinarsi a Chiavari. Praticamente ed inconsapevolmente Marina III° era rimasto l'ultimo baluardo dalla Repubblica Sociale verso Sestri Levante. La nostra reazione aveva consigliato prudenza ed attesa. Quando poco dopo, verso le 14, lasciai Marina IlI° con le dovute precauzioni di difesa, mi resi per la prima volta conto che qual­cosa di grave stava accadendo. Con il binocolo vedevo nettamente gruppi parti­giani che avanzavano occupando la zona e la strada che noi avevamo lasciata alle nostre spalle poco prima. Probabilmente, ormai sicuri del nostro ritiro, ave­vano atteso evitando lo scontro armato. La verità, che diventò immediatamente reale, fu che stavamo ritirandoci e che, per qualche motivo che ancora non conoscevo, abbandonavamo la Riviera di Levante. A Chiavari una ridda di noti­zie si accavallarono da "Radio scarpone" (così chiamavamo le notizie che ci arrivavano di bocca in bocca). Appresi che il fronte in Toscana aveva ceduto e che le truppe Anglo‑Americane erano già arrivate a La Spezia. Fui aggregato alla Compagnia Comando con il capitano Scattolin e, dopo una breve sosta di assestamento e riorganizzazione, prendemmo la via verso Rapallo. Facevamo oramai parte di una grande colonna in ritirata che procedeva a passo d'uomo. Nei pressi di Zoagli prendemmo posizione sul fianco del monte sovrastante. Non fu una sosta tranquilla, tutt'altro. Verso le 18 cominciarono ad arrivare le prime granate che esplosero attorno a noi nel bosco. Il bombardamento conti­nuò a bordate fino alle 20.30 circa, solo tre o quattro bombe caddero a qualche decina di metri da noi e per fortuna ne uscimmo illesi. Il bombardamento ripre­se verso le 22. La notte passò nel timore di essere colpiti.
Nel buio non avevamo idea da dove provenissero le granate. Più tardi ci dissero che eravamo stati cannoneggiati dal mare da navi alleate. Nella relativa calma sopravvenuta nel primo mattino del 25 aprile vennero riorganizzati i reparti e ci giunse notizia di morti e feriti colpiti nella notte. dalle granate in altri settori. Riprendemmo la marcia verso ponente con destinazione Recco dove si trovava già il grosso delle nostre forze. La situazione era abbastanza caotica. Notizie si accavallavano a notizie e tutte in contraddizione fra loro. Prima ci dissero elle eravamo diretti a Genova; poi nel pomeriggio giunse notizia elle forse gli Alleati erano sbarcati proprio a Genova e che la nostra destinazione era Novi Ligure passando dal Passo della Scoffera. Intanto la marcia proseguiva senza inconvenienti. L'unico incidente di cui venimmo a conoscenza fu che un reparto della Decima fece un'incursione a Santa Margherita Ligure dove, dal balcone di un Albergo, sventolava una bandiera rossa appaiata ad una bandiera spagnola. Si trattava di una cantonata da parte di un colonnello spagnolo antifranchista che, con intempestiva decisione e probabilmente male informato, aveva antici­pato i tempi. Pensando di essere oramai al sicuro, aveva esternato la sua idea di parte esponendo le bandiere con il risultato di vedersele bruciare e di diventare a sua volta prigioniero proprio dei suoi specifici nemici. Che fine abbia l'atto nel caos di quei fatidici giorni non l'ho mai saputo. Giungemmo a Recco verso mezzogiorno. Il paesaggio era una distesa di macerie e case distrutte. II viadotto ferroviario che attraversava con alte arcate la valle sopra l’agglomerato urbano aveva provocato una serie di bombardamenti aerei tesi ad interromperne l'utiliz­zazione ma contemporaneamente ne aveva fatto le spese l'intera città.
Ci assestammo un paio di chilometri oltre sulla strada per Uscio.
Una strana pace era sopravvenuta intorno a noi ma si percepiva un'atmosfera densa di incognite. Nel pomeriggio ci raggiunsero finalmente notizie sicure ed altrettanti ordini. Genova era stata occupata e la destinazione era verso Nord dove avremmo dovuto riunirci al grosso dell'Esercito Repubblicano per orga­nizzarne il nuovo fronte di guerra nella zona di Serravalle Scrivia. Al reparto a cui appartenevo venne assegnato il compito di retroguardia. Assistemmo al pas­saggio di tutte le forze componenti la colonna in ritirata verso Uscio. Si trattava in tutto di circa 12.000 uomini di varie armi, tedeschi compresi. Molti automez­zi e pezzi di artiglieria leggera distribuiti lungo tutta la colonna.
Mi meravigliò il fatto che l'aviazione alleata non intervenisse con bombardamenti dal cielo. Noi avevamo impiegato il pomeriggio ad assestarci su una linea di eventuale difesa verso ipotetiche forze nemiche che potessero risalire la valle e minacciare il ritiro della colonna. Rimanemmo nelle postazioni assunte in una attenta attesa carica di tensione ma nulla accadde.
Un profondo silenzio ci circondava e solo lontano, verso la costa nella sera, udivamo di tanto in tanto, delle esplosioni segnale evidente che da qualche parte si combatteva. II giorno successivo, 26 aprile. cominciammo a muoverci al segui­to della colonna. Al nostro fianco un plotone di Marò della San Marco si alter­nava a noi nello spostamento. Tutto andò liscio fino alla tarda mattinata poi, improvvisamente, alle nostre spalle un sordo rumore di cingolati in movimento ci fece presagire quello che temevamo. Nell'arco di una mezzora potevamo vedere, nitidamente lungo i tornanti più a valle dietro di noi una fila di carri armati che ci seguivano. Un reparto corazzato alleato era a non più di un chilo­metro da noi. Gli ordini erano perentori. Fermare il nemico ad ogni costo. Un reparto di guastatori della San Marco ci raggiunse con automezzi leggeri trai­nanti carrelli colmi di esplosivi e razzi anticarro tipo Panzerfaust.
La situazione mi eccitava. L'imminenza della battaglia mi galvanizzava e, memore del corso di guastatore fatto alla Nembo, mi misi a disposizione. Dei 12 componenti la mia squadra non tutti erano eroi. Mi resi conto di timori e dubbi da parte di qualcuno e così decisi in proposito. Fermo restando l'obbligo di presenza da parte del mitragliere Bona e del portamunizioni Abate lasciai agli altri la libertà di scegliere chi voleva restare con me. Il fedelissimo siciliano Patetta, il napoletano Moresco, i milanesi Panetti e Tanzarella ed il torinese Barbetta restarono. Gli altri con il caporale Chiapponi proseguirono per rag­giungere la compagnia. Iniziò un'attività frenetica nella scelta delle posizioni da cui far partire i razzi prevedendo nel contempo la possibilità di ritirata. La copertura doveva essere garantita dal mitragliere Bona per cui venne scelto uno sperone dominante sul quale ricavare la piazzola per la mitragliatrice. Distribuii gli altri nei punti strategici della strada e specificatamente ad ogni curva muniti di razzi e bombe a mano.
I guastatori della San Marco provvedevano a minare ogni ponticello o punto critico che potesse bloccare la strada. L'attesa non fu lunga.
Il primo mezzo corazzato sbucò dalla curva precedente una mezzora dopo a circa trenta metri da noi. L'emozione fu fortissima. Non avevo mai visto prima di allora un carro armato così grande. Mi sembrava una casa in movimento. Vidi nitidamente la stella circolata dell'esercito americano ed i numeri di matri­cola scritti sulla corazza. Partirono due razzi ed uno lo prese in pieno nel cingo­lo bloccandolo. Erano circa le ore 13. Non avevamo nemmeno mangiato perchè ci era mancato il tempo ma avevamo avuto il primo successo. La strada era stretta e non permetteva ad altri carri di proseguire per cui, con relativa calma, arretrammo alla curva successiva. La botta forse inaspettata aveva bloccato l'a­vanzata dei carri e ne approfittammo per mangiare qualcosa a turno.
La reazione non tardò. Una serie nutrita di colpi di cannone e di mortaio arrivarono. II dosso ci proteggeva abbastanza. Venne l'ordine di arretrare mentre con­temporaneamente l'esplosione di una mina posta dai guastatori faceva franare a valle un pezzo di strada. Fino oltre le 15 i carri restarono fermi e solo i mortai continuarono a sparare senza danni da parte nostra trovandoci fuori tiro. Nel cielo si profilò una squadriglia di cacciabombardieri che in picchiata sganciaro­no bombe ma ben oltre le nostre postazioni. Probabilmente il loro obiettivo era più a monte verso il grosso della colonna. Altre squadriglie seguirono e per tutto il resto del pomeriggio fu un inferno ma noi eravamo al sicuro. Trovandoci molto vicino alla testa della loro colonna non correvamo il rischio di essere col­piti e le esplosioni avvenivano lontano. Non potemmo fare a meno di considera­re che, scegliendo il maggior pericolo del contatto diretto con le loro forze, fummo invece beneficiati dai bombardamenti.
Il volume delle esplosioni e del fuoco contraereo che si udiva ci faceva presagi­re l'intensità della battaglia che avveniva. Da parte nostra continuò il lento ripiegamento continuando a minare ed a far saltare ogni punto idoneo della stra­da. Fu solo verso le 16 che riudimmo i motori dei mezzi corazzati in movimen­to. Non era facile avanzare.
I danni provocati da noi alla strada erano gravi e potevamo stare abbastanza tranquilli inoltre, la botta ricevuta, sicuramente consigliava loro la prudenza. Nessun movimento di fanteria a piedi era segnalata dalle pattuglie nel bosco fuori strada ed il resto del pomeriggio trascorse per noi positivamente.
L'incognita era il sopravvento del buio per cui, oltre una valletta che ci dava il vantaggio della posizione, scavammo delle postazioni preparandoci a pernottare con i lanciarazzi a fianco. Le ondate dei cacciabombardieri cessarono all'im­brunire. Le notizie che ci pervennero dal Comando erano gravi. Il bombarda­mento era stato pesante ed i danni subiti rilevanti con un numero imprecisato ma alto di vittime. Alcune ore trascorsero nella relativa calma che ci permise persino un po' di riposo e di sonno. Purtroppo, verso le 23, il bombardamento riprese. Erano cannoni che sparavano con un volume di fuoco spaventoso. Sopra le nostre teste era continuo il sibilo dei proiettili di artiglieria che andava­no a colpire oltre le nostre postazioni. L'inferno di fuoco senza interruzioni con­tinuò fino alle prime luci dell'alba successiva. Per. tutta la notte non furono pos­sibili contatti con il comando a causa dell'intensità del fuoco d'artiglieria ed il fumo acre delle esplosioni ci prendeva la gola.
Verso le 6 del mattino del 27 aprile mandai Moresco al comando per riferire ed avere eventuali ordini. II tempo era uggioso e grigio, nuvole basse avvolgevano il paesaggio 'riducendo la visibilità a poche centinaia di metri, un'umidità inten­sa impregnava gli indumenti ed arrivava fino alla pelle facendoci rabbrividire ma in compenso ci garantiva una certa immunità non potendo essere visti dai ricognitori. La calma era assoluta e, dopo l'inferno del bombardamento nottur­no, persino quasi irreale.
Una sensazione di timorosa apprensione catalizzava i miei pensieri e mi incute­va un senso di attesa di qualcosa di indefinito.
Mi dedicai al controllo delle armi dei miei soldati parlando cordialmente e scambiando con loro le varie impressioni del momento. Il morale era alto ma in tutti esisteva una certa preoccupazione per l'immediato futuro. Approfittando del turno di guardia a cura dei Marò ci preparammo la frugale colazione con i viveri di conforto personali. A Chiavari, in previsione della marcia di trasferta, erano state distribuite le razioni individuali e per svuotare i magazzini ed alleggerire il carico degli scarsi automezzi. le dotazioni furono abbondanti. Coperti dalle nuvole potemmo persino accendere un bel fuoco per scaldarci e su cui preparare quello che chiamavamo caffè ma che in realtà era surrogato d'orzo. Verso le ore 7 Moresco tornò con cattive notizie, gravi oltre ogni possibile pre­visione. Il bombardamento aveva decimato il contingente preso in pieno da ore di fuoco e senza ripari validi. La conca di Uscio era diventata la tomba per molti nostri compagni che, in una notte di concentrazione di centinaia, forse migliaia di tiri di artiglieria, non avevano avuto scampo.
I reparti si erano sbandati ed il caos era generale. Aveva rintracciato solo un Tenente della Compagnia Comando che però non poteva dare disposizioni essendo in corso un tentativo di riorganizzazione. In attesa di nuovi ordini la responsabilità era sulle mie spalle ed a me spettavano le decisioni. Le notizie si accavallavano di momento in momento e tutte pessime. Appena arrivava una notizia, prima di ogni e qualsiasi decisione ne giungeva una nuova. Dai Marò della San Marco arrivò la più grave. Davanti a noi, verso la valle Scrivia dove eravamo diretti, il territorio era già occupato da truppe nemiche e per proseguire dovevamo aprirci la strada combattendo. Anche dalla parte della vai Trebbia le informazioni erano simili tanto che prese forma la realtà del momento "Eravamo circondati!" La parola "resa" non faceva parte del nostro vocabolario ed inoltre, fra le varie notizie, ci era giunta anche quella che, oltre il Po, la Repubblica Sociale era ancora compatta e dovevamo tentare di arrivare là. Ordinai ai ragazzi di tenere pronti gli zaini affardellati per ogni e qualsiasi deci­sione di spostamento urgente e decisi di recarmi personalmente al Comando. Giunsi nel posto dove doveva trovarsi il Comando verso le 8.30 chiedendo informazioni ai vari reparti incontrati. Alcuni alti ufficiali erano raccolti in un boschetto in Consiglio.
II tempo era ancora pessimo ed aveva ripreso a 'piovere. Mi presentai al tenente Steiner che, malgrado il suo cognome tedesco, era italianissimo: parlava con la erre moscia e con un forte accento bresciano. Da lui seppi che, fin dal primo mattino, dalla parte del Passo della Scoffera vi era stato un contatto di trcaua con le forze nemiche americane che ci avevano proposto la resa. Capii il perchè di quella calma, prima inspiegabile, elle regnava intorno. L'idea della resa non voleva proprio entrarmi nel cervello. Un senso di rivolta e di rabbia mi prese e cominciai a pensare a cosa fare per non arrendermi. Non ne ebbi il tempo. Quasi immediatamente giunse l'ordine generale di tregua e che non si dovesse assolutamente sparare in attesa di nuovi ordini. Occupai il tempo facendo un giro di ricerca di Chiapponi e degli altri rna senza esito. Gruppi misti di mostrine e divise diverse si alternavano ma tutte facce sconosciute. Molto movimento da parte dei reparti della Sanità occupatissimi a fasciare ferite sotto improvvisa­ti ripari di teli da tenda tesi a riparare dalla pioggia. Eventuali morti erano evi­dentemente già stati raccolti perchè noti ne vidi in evidenza ma comunque la visibilità intorno era scarsissima. 11 terreno era un continuo susseguirsi di crateri di bombe ed alberi tranciati e scomposti a terra. Mi resi conto di quale inferno doveva essere stata la notte precedente.
Ritornai sui miei passi per non perdere l'orientamento fra la nebbiolina, la piog­gia ed il fumo di invisibili fuochi di ristoro. Anche un forte odore di cordite delle esplosioni regnava ancora sospeso nell'aria. Quando arrivai nuovamente dal Tenente appresi anche i nuovi definitivi ordini. Dopo due incontri fra' parla­mentari delle opposte forze, gli americani ci avevano concesso la resa con l'o­nore delle armi ed il nostro Comando aveva accettato. Nessuno e per nessuna ragione doveva agire impulsivamente perchè ciò avrebbe pregiudicato la vita di tutti. Avevamo avuto molte perdite e tantissimi feriti, non c'era altra alternativa che la resa con onore. lo personalmente mi sentivo molto umiliato e non riusci­vo a rendermi conto della realtà. II prossimo futuro era un'incognita che non prendeva alcuna forma come se al di là della corta visuale ci fosse il vuoto. Ritornai dai miei ragazzi quasi vergognandomi di dover riferire loro le estreme decisioni. Fui favorito dal fatto che ne erano già venuti a conoscenza dai Marò. Gli ordini erano di non sparare per nessuna ragione ma di tenere le armi. Raccolti gli zaini ci avviammo verso la conca in silenzio. Poche parole vennero scambiate nel tragitto anche perchè non si sapeva cosa dire. Ci aggregammo ad un reparto di artiglieri alpini comandati da un capitano e con loro proseguimmo la marcia. Non c'era possibilità di rintracciare la nostra compagnia. Nella tarda mattinata giungemmo ad uno spiazzo dove alcuni ufficiali disponevano i vari reparti alla resa. Ci dissero di tenere le armi ma di renderle inutilizzabili rom­pendo i percussori o deformando, con colpi di pietra, il settore di caricamento o la canna. Procedemmo a questa operazione secondo gli ordini ma confesso che un grosso nodo di pianto mi gonfiava la gola. Quelle armi, sempre tenute così pulite, ora venivano violentate da noi stessi. Era inconcepibile ma reale. Il mio mitragliatore prima e la pistola poi, vennero resi inutilizzabili. Che pena. quella pistola, una P.38 assegnatami con la nomina a sergente, non mi aveva mai lasciato.
Era tanto per me. Un simbolo, la sicurezza; l'emblema del comando. tutto! Quel che restava era solo una profonda tristezza piena di incognite. Ne approfit­tai per salutare i miei ragazzi. E' vero. Li avevo sempre chiamati ragazzi e non uomini anche se, come Patetta, avevano quasi il doppio della mia età. Erano diventati la mia famiglia. i miei fratelli, ci volevamo bene. Ci abbracciammo tutti ed in quell'abbraccio stretto. commovente e profondo sentii tutto il rispet­to e l'affetto che mi avevano sempre portato con ubbidienza e disciplina. Sentii la stima ed il ringraziamento per non averli mai rimbrottati nè richiamati con cattiveria ed alcune lacrime dicevano anche molto di più.

QUANDO I DELINQUENTI ASSURGONO AL POTERE

Fummo inquadrati in ranghi ordinati e passammo davanti ad un reparto ameri­cano schierato che ci onorava presentando le armi. Subito dopo buttammo le nostre armi in una valletta alla rinfusa sotto gli occhi vigili di controllori milita­ri americani. Era la prima volta che mi trovavo faccia a faccia con uomini con divise tanto diverse dalle nostre e soprattutto con una maggioranza di uomini di colore. Mi sembrava irreale, incredibile, eppure era vero, quegli uomini ci ave­vano vinti. Non li avevo mai immaginati così i nemici ma soprattutto non avevo mai pensato che potessero vincere. Non ebbi molto tempo per fare delle consi­derazioni. Pochi metri oltre il punto dove avevamo buttato le armi un folto gruppo di energumeni di colore ed in divisa, con la minaccia di una pistola, si impossessarono di orologi, catenine e qualunque oggetto di valore avessimo e poi, un secondo gruppo, ci strappava dalle spalle gli zaini che venivano ammuc­chiati su degli autocarri senza darci né il tempo né la possibilità di recuperare eventuali oggetti personali contenuti in essi. Ma forse era proprio questo che volevano; impossessarsi di eventuali valori. Quei vincitori esercitavano l'incivi­le medioevale diritto di preda. Fu un tremendo "choc" per tutti. Il modo violen­to usato e l'appropriazione barbara di cose a noi care fecero nascere in ognuno di noi un violento odio per quegli uomini. In un attimo fu distrutto il rispetto per quella divisa, rispetto che era sorto nel momento dell'onore delle armi e con esso veniva meno anche l'orgoglio, la fede e l'onore lasciando posto ad una profonda e sordida rabbia. A distanza di tempo penso che l'immagine della civile America, in quei momenti, abbia perso molto vanificando anni di propa­ganda democratica. Quello che era avvenuto era una vera e propria rapina, vio­lenta ed incivile, che richiamava alla mente lo storico "Vae victis" in versione peggiore perchè almeno Brenno era un barbaro e non aveva, pretese di portatore di civiltà, libertà e giustizia. Da quel momento iniziava iI nostro calvario. Le violenze ed i soprusi erano senza limiti, venivamo considerati solo bestie e come tali trattati. Non avevamo mangiato nulla dal mattino ed erano forse le prime ore pomeridiane. Eravamo ammucchiati in uno spiazzo fangoso, sotto la fitta pioggia, guardati da soldati armati con tutta l'aria di sparare al minimo segno di rivolta. Le armi, tenute pronte con due mani e sempre puntate su di noi non lasciavano dubbi in proposito. Forse un'ora più tardi, evidentemente finite le operazioni di resa, venimmo incolonnati ed iniziò la marcia che, nel tardo pomeriggio per il gruppo a cui appartenevo, si concluse nel campo sportivo del paese di Ferrada. Evidentemente, dato l'alto numero dei prigionieri, eravamo stati divisi in vari gruppi. .
Non ricordo chi, successivamente in prigionia a Coltano, mi disse che i super­stiti della conca di Uscio furono 3.500. Eravamo 12.000. Che fine avevano fatto gli altri? Morti? Riusciti a fuggire? Chissà! Nessuno mai si interessò di noi e della nostra odissea. Eravamo solo bestie e, per. i governi d'Italia del primo dopoguerra, anche peggio. Nel campo di Ferrada, poco dopo. il nostro arrivo e con il beneplacito dell'Autorità Militare americana che ci aveva in consegna, entrarono vari gruppi di partigiani con tanto rosso addosso, armati più di odio e malvagità che di armi proprie. Giravano in mezzo a noi scegliendo chissà con quale criterio, alcuni prigionieri in prevalenza ufficiali e graduati. Ebbi la sven­tura di essere scelto, forse perchè sergente; forse perchè li avevo istintivamente guardati con disprezzo. Fummo fatti uscire fra l'indifferenza dei militari di guardia e spinti verso il paese dove, a cura di una moltitudine di uomini ed anche donne, avvinazzati ed ubriachi, subimmo il primo di una lunga serie di linciaggi nel nome della civiltà comunista. Non avevo ancora; venti anni ma da quel momento, e per tutto il resto della mia vita, imparai ad diare profonda­mente i comunisti e visceralmente il Comunismo.

Era questa la nuova Era che si apriva all'umanità? Erano questi i vincitori? Che desolazione! Molto meglio la morte tanto desiderata dall'inizio dell'iniquo castigo a cui ero sottoposto. Per nostra fortuna la giornata era alla fine ed il buio incombeva anticipato dalla giornata piovosa e dal cielo di piombo e con il buio diminuirono anche le violenze e le angherie probabilmente perchè, data l'ora, il gruppo di carcerieri si era ridotto notevolmente. Eravamo nelle mani di una Brigata Partigiana che, mi era sembrato di ,capire, si chiamava Stella Rossa. Alcuni degli uomini che ne facevano parte indossava capi militari, giacche gri­gioverdi camicie e pantaloni alla zuava, ma non erano ex militari. Niente nel loro comportamento denotava un passato inquadramento nell’esercito. Fra loro non notai nessuno che avesse particolare autorità sugli altri, anzi, erano frequenti le intolleranze ed i reciproci insulti e liti. Eravamo rinchiusi in un locale che probabilmente era abitualmente adibito a magazzino. Un forte odore faceva supporre la vicinanza di una stalla ed un fienile. Il pavimento era di spesse assi di legno per fortuna asciutto così da attenuare il freddo ed i brividi che provocava l'umidità dei nostri abiti zuppi di pioggia. Dal mattino eravamo digiuni; nes­suno si era curato di provvedere in merito, ma al confronto delle violenze subi­te, la pancia vuota era il male minore. Stavamo al buio perchè il locale era privo di illuminazione e solo di tanto;in tanto venivamo inquadrati nel fascio di luce di una torcia elettrica che l'addetto alla nostra sorveglianza puntava su di noi attraverso una finestra priva di vetri ma dotata di una robusta inferriata. li buio inoltre ci impediva reciproche conoscenze o scambi di parole.
Solo lamenti ed; imprecazioni ed una cieca ricerca di una posizione sul pavi­mento per riuscire a riposare. Non ci era nemmeno possibile sapere quanti fos­simo. Finiva una giornata, sinceramente la peggiore di tutta la nostra vita passa­ta. Il giorno precedente nessuno,. di noi avrebbe potuto immaginare la tragicità degli avvenimenti che si erano accavallati in tale quantità ed in così breve spa­zio di tempo. Era il 27 aprile dell'anno 1945. Al mattino eravamo uomini, sol­dati, forti sani e dotati di personalità e dignità. Alla sera ci ritrovavamo ridotti al livello di animati torturati, umiliati, privati di ogni diritto in balia di individui barbari e violenti. Alle prime luci dell'alba del 28 aprile il mucchio informe sul pavimento cominciò ad agitarsi. Finalmente potevamo guardarci in faccia e sgranchirci gli arti senza scalciare qualcuno come era successo nelle ore nottur­ne. Qualcuno non aveva dormito per niente ma la maggior parte qualche sonnel­lino era riuscito a farlo. Io avevo alternato il profondo stato di agitazione in cui mi trovavo a brevi periodi di sonno continuamente interrotto dai movimenti dei vicini o dagli interventi di controllo dei nostri carcerieri. II pensiero correva alle cose che in quei particolari momenti avevano acquisito enorme importanza. La famiglia, la mamma, le sorelle, i tempi della scuola ed i volti delle persone che avevano significato qualcosa nella nostra vita. Purtroppo difficilmente riuscivo a completare con l'immaginazione il corso dei ricordi. Qualcosa sempre sopraggiungeva ad interromperli. Mentre, nel primo chiarore del mattino, mi rendevo conto dell'ambiente e delle persone che mi circondavano fui interpella­to da un capitanò della X MAS che mi chiese quanti anni avessi e da dove pro­venissi. Era anche lui lombardo di Pavia e dimostrava circa 40/45 anni. Mi rivolse alcune frasi buone e paternalistiche soffermandosi a notare, con ramma­rico e dispiacerei la mia giovane età alla luce della tragica situazione. Fu allora che mi resi conto come tutti gli individui intorno a me fossero più avanti negli anni. Ero l'unico giovanissimo in quel frangente. Tutti, nelle ore successive, mi trattarono con affettuosità e ciò mi fu di grande consolazione e stimolo.
Con il sopravvento della luce del giorno iniziò un fitto scambio di parole ed opinioni. Era comunque convinzione generale che per noi non esistesse futuro. La sete era generale perchè anche l'acqua mancava. Un sergente della Divisione Littorio, che aveva subito particolari violenze a causa della sua divisa, con il volto tumefatto, un occhio completamente nero gonfio e chiuso e l'altro appena in fessura, al primo apparire di due partigiani venuti a controllare chiese del­ l'acqua ed in cambio ottenne un calcio nella pancia ed una: serie di insulti.
L'ultima acqua che avevamo bevuto era quella della pioggia che ci era arrivata in bocca il giorno prima e le numerose ferite ed ecchimosi di fui eravamo tutti coperti accentuavano la sete. Il capitano di Pavia, che si chiamava Rossetti, prese l'iniziativa di organizzare e mettere un po' d'ordine. Era l'unico ufficiale di grado superiore presente fra noi oltre un sottotenente. Particolare strano che i partigiani entrati nel campo di Ferrada non ne avessero scelti di più ma la spiegazione venne proprio per bocca del capitano. Non ne avevano trovati altri per­chè gli americani avevano dirottato tutti gli ufficiali in un gruppo a parte mentre il capitano Rossetti ed il sottotenente Viale, per loro scelta e disgrazia, rimasero con i loro soldati. Dal breve censimento effettuato risultò che solo una decina di noi, me compreso, erano sottufficiali. Gli altri tutti graduati e truppa con preva­lenza di Milizia, X Mas, e Div. Littorio. Di alpini, oltre a me, solo un caporale della Compagnia Servizi. Analizzando la qualità del gruppo il riscontro era che nessuna personalità di spicco esisteva e si trattava solo di povera gente in divisa.
Se, come si presumeva, i partigiani ci avevano preso per darsi importanza, per esibizione o per vendetta, il risultato non era certo lusinghiero per loro: avevano fra le mani uomini qualsiasi senza particolari posizioni o colpe. Ma evidente­ mente, come avevano dimostrato sino a quel momento, i nostri carcerieri erano di livello molto basso, sia socialmente che di intelligenza, dimostravano solo ottusità, comportamenti volgari e violenti, grande cattiveria e mancanza assolu­tá di qualsiasi barlume di civiltà. Nessuno di loro aveva cercato un sia pur mini­mo colloquio con noi e da quando ci avevano prelevato non ci‑ era stato dato né cibo, nè acqua ed a quel punto erano trascorse oltre 24 ore dall'ultima frugale colazione. Di tanto in tanto, oltre l'inferriata si affacciava qualcuno, donne e ragazzi in particolare che, dopo un'occhiata curiosa, si allontanavano ridendo.
Non ho mai capito quale ilarità potesse creare la vista di uomini pesti e laceri come eravamo noi. Il tempo era relativamente migliorato, non pioveva ma il cielo era denso di nubi. Qualche breve e debole raggio di sole compariva a tratti subito sopraffatto dal grigiore. Più avanti nella mattinata finalmente qualcuno si fece vivo. Preceduto da particolare animazione e grida la porta venne aperta e con un gruppo di partigiani armati, fece il suo ingresso un tipo che aveva l'aria del capo. Aveva un cinturone da ufficiale ed una pistola nel fodero, era degnato di rispetto dai suoi uomini e, prima di parlare, girò a lungo l'o sguardo su tutti noi. Chiamato, il capitano Rossetti si fece avanti ed iniziò uno scambio di domande e risposte. II colloquio fu breve e freddo, le parole più usate dall'inter­locutore furono: "Fascisti" "Assassini" "Bastardi" ed altro, concludendo con la dichiarazione che eravamo tutti "da ammazzare". L'unico lato positivo di quella visita fu che dopo una mezzora circa. la porta si aprì e ci venne distribuito del pane e dell'acqua. li pane era il classico a trattone nero delle truppe tedesche, probabilmente trovato in qualche deposito. Nelle prime ore del pomeriggio fummo fatti uscire ed incolonnati, iniziò così la marcia verso il basso che, dalle rare indicazioni stradali, era in direzione di Lavagna e Chiavari.
Il primo paese che superammo fu Cicagna e fu anche la prima dose di legnate, insulti e sputi. La cosa si ripeteva ad ogni paese che superavamo ed i nostri accompagnatori non facevano nulla per evitare il linciaggio, anzi, ridevano sod­disfatti alla vista. Lungo la strada giungemmo ad un paese che, mi pare di ricor­dare, si chiamasse Monleone.
Qui ebbi la mia personale reazione di rabbia e disgusto.
Davanti al sagrato della chiesa, circondato da uomini con fazzoletti rossi, stava, tronfio e goduto con un gran sorriso sulla bocca, il prete. Aveva anche lui, sopra la lunga tonaca nera, il suo fazzoletto rosso al collo. Rideva divertito e parlava con i vicini senza il minimo segno di commiserazione per noi, pesti, sanguinan­ti e laceri. I miéi ultimi studi li avevo fatti in collegio dai Salesiani e tonache nere ne avevo viste tante. Non ero mai stato particolarmente docile nè bigotto ma fino a quel momento avevo sempre avuto profondo rispetto per l'abito tala­re. La rabbia mi prese e senza pensare, istintivamente, giunto davanti al sacer­dote feci un passo fuori dalla fila e, guardandolo negli occhi con odio, gridai: "Dio ti stramalédica prete della malora". Non ebbi modo di vedere la sua rea­zione. Uno degli armati di scorta mi appioppò una botta terribile sul capo con la canna del fucile che teneva fra le mani e, prima che potessi rialzare la testa che avevo avvolta fra le braccia per ripararmi, avevo superato il punto di parecchio. Ricordo solo chi, nell'attimo della mia frase, il suo volto era immediatamente diventato pallido, sul suo viso una smorfia di sorpresa muta aveva preso il posto del riso. Un insistente rivolo di sangue mi scendeva sull'occhio sinistro e sulla guancia fino ad infilarsi nel collo. Qualcuno dei miei compagni mi passò un fazzoletto col quale cercai di tamponare la ferita. La marcia proseguì fra le peg­giori angherie che mente umana potesse partorire. Quando, nel tardo pomerig­gio, giungemmo sulla costa, quello che avevamo già subito era nulla in confron­to a quanto dovémmo ancora subire. Ci fecero passare in lunga fila, fra ali di energumeni picchiatoti pieni di cieco furore, vere e proprie forche caudine, noi potevamo solo cercare di ripararci dalle botte che arrivavano senza interruzione ed in ogni parte del corpo. Pugni, calci, colpi con oggetti vari, le donne con gli zoccoli, sputi, insulti feroci, sassate e legnate nelle gambe. Durò forse mezzora quel calvario ma sembrò senza fine. Quando finalmente ci fecero entrare in un campo sportivo finì quell'infernale bolgia. In quel campo esisteva una vasca con un rubinetto che erogava acqua a volontà e potemmo tutti dissetarci e lavare le ferite. Circa un'ora più tardi ci fecero ammucchiare in piedi in un angolo e ricevemmo la sgradita visita di una specie di brutta copia di un commissario bolscevico con tanto di giacca di pelle nera e cinturone. pistola alla vita, mitra a tracolla ed immancabile fazzoletto roso. Con tanta arrogante prosopopea e boria ma con poche parole frammiste ad insulti ci comunicò che il giorno suc­cessivo saremmo stati processati dal popolo e condannati. Mi rimase impresso quello sguardo bieco e cattivo particolarmente perchè si capiva che era una per­sona colta, dalla parola forbita che però contrastava con quéll'aspetto di boia truce che rappresentava. Senza mezzi termini ci annunciò già l'esito della con­danna che sarebbe stata emessa il giorno successivo. Condanna a morte per tutti. Molti anni dopo, negli anni ottanta, seguendo le cronache sulle brigate rosse alla televisione sono quasi certo di averlo riconosciuto nella persona del­l'avvocato Lazagna, coinvolto marginalmente in quell'inchiesta. Quel giorno finì con il nostro trasferimento nella soffitta di una scuola senza minimamente altro cibo.

29-4-45 IL CALVARIO DELLA GIUSTIZIA ROSSA

Eravamo stati ammucchiati, la sera precedente. in un sottotetto al secondo piano di un edificio scolastico dopo aver subito le peggiori angherie che esseri umani potessero immaginare. Le violenze minori erano le percosse ricevute da donne che si accanivano a zoccolate sulle nostre teste. Colpi con il calcio dei fucili, calci negli stinchi, e nei testicoli che. oltre al dolore. lasciavano delle profonde abrasioni sull'interno delle cosce. Colpi di coltello che pur frenati dagli indu­menti, lasciavano ferite sanguinanti. Pugni dove capitava e quelli che raggiun­gevano il ventre lasciavano chi li riceveva senza fiato. Così, dopo le forche cau­dine del passaggio fra due ali di folla impazzita ed urlante, eravamo giunti alla relativa pace di quel sottotetto. La notte era trascorsa insonne, nessuno era riu­scito a dormire in:quelle ore che, era ormai certo, erano le ultime che ci restava­no da vivere. Io me ne ero rimasto quasi sempre,rannicchiato con la schiena contro il muro e con i pensieri che correvano a ricordare i momenti più signifi­cativi della mia breve ma intensa vita passata.
Non ricordavo nulla da rimproverarmi o fatti di cui pentirmi. La mia giovinezza era limpida e colma di valori spirituali e di profondo amore per quella Patria che, in quei momenti angosciosi, reputavo ormai finita, preda di traditori, delin­quenti e nemici della civiltà che, come sciacalli, pasteggiavano sui resti di un corpo non vinto da loro ma dalla potenza di altre nazioni. Oramai non esisteva più, per noi, la possibilità di vivere per cui nulla e nessuna speranza albergava nel mio cuore per il futuro.
Davanti a me esisteva solo il vuoto, il nulla. Tutto questo e tante altre conside­razioni mi facevano accettare fatalisticamente e senza recriminazioni la soluzio­ne tragica della morte che, da li a qualche ora, sarebbe sopravvenuta. L'unico pensiero che mi portava alla commozione era quello di mia madre e delle mie sorelle. Mi mancava solo la possibilità di riabbracciarle e baciarle per l'ultima volta e poter rivolgere loro le mie ultime parole d'amore. Ogni qual volta que­sto pensiero mi assillava lo scacciavo per non essere preso dalla debolezza dello spirito. Ero forte e deciso a morire con orgoglio senza mostrare alcun segno di cedimento e con il massimo disprezzo per i carnefici.
La luce del mattino ci annunciava il nascere di un giorno tragico ed il tempo accompagnava ]'imminente tragedia con una pioggerella fitta ed un ciélo plum­beo. Che ora fosse non era possibile sapere perchè nessuno possedeva più un orologio. La rapina subita, dopo la resa, non ci aveva lasciato nulla. Gli pseudo liberatori avevano giustificato tale definizione liberandoci di ogni cosa avesse valore. orologi, catenelle, soldi ed anche indumenti tanto che molti erano preda a brividi di freddo trovandosi con la sola canottiera.
II tempo trascorreva veloce ed ogni qualvolta la porta si apriva il battito del cuore accelerava reputando giunto il momento fatale. Invece quella porta si aprì molto frequentemente per introdurre individui armati con vistosi fazzoletti rossi al collo che ci passavano in rassegna alla ricerca forse di qualche viso noto. II loro comportamento era violento e persecutorio proprio come ricordavo di avere visto al cinema nelle pellicole sulla rivoluzione russa e sulla guerra civile spagnola. Francamente mi meravigliai che nessuno riconoscesse me in partico­lare dato che, per due mesi, ero stato il comandante proprio di "Marina III°` a Cavi di Lavagna ed a Lavagna ero abbastanza noto. Più tardi, nel calvario della piazza. guardandomi riflesso nello specchio che faceva da spalla ad un negozio di barbiere, mi resi conto del perchè. lo stesso quasi non mi riconoscevo. Il viso tumefatto, gli occhi gonfi quasi chiusi, un fazzoletto annodato) sulla fronte per fermare il sangue che colava sugli occhi ed i numerosi lividi mi avevano cam­biato i connotati. Forse questo mi aveva salvato da ulteriori torture da parte di qualche giustiziere di turno, dato che, oltre tutto. ero privo dà giacca e con i pantaloni strappati e, forse, ero talmente conciato da fare pietà anche a dei boia.

L'attesa del peggio si prolungava nella mattinata.

Il tempo era migliorato e non pioveva più. Dall'esterno ci giungevano lontane le urla e gli schiamazzi della folla ed un altoparlante che alternava frasi urlate a musiche da ballo. Dall'unico finestrotto piccolo circolare che' dava un po' di luce al locale si vedevano solo altri tetti. Venne purtroppo il momento che pre­cedeva la nostra fine.
Fra tutte le ipotesi fatte la notte precedente aveva prevalso la convinzione, ester­nata da un ufficiale della X MAS che si era anche preso l'incarico di contarci, che ci avrebbero fucilati probabilmente sulla spiaggia a ridosso della massiccia­ta ferroviaria dove esistevano anche delle fortificazioni antisbarco in cemento. Eravamo esattamente 51. Ci fecero uscire in fila indiana con sghignazzate di scherno, insulti e bestemmie. Scendendo le scale qualche calcio nella schiena faceva rotolare lungo la rampa il malcapitato che lo riceveva. Giunti sulla strada si ripeteva lo spettacolo del giorno prima. Due ali di folla urlante con uno stretto passaggio al centro. In fila indiana si percorreva quel calvario. lo, per caso, fui tenuto fra gli ultimi e questo forse mi risparmiò più forti percosse essendosi, la folla, già sfogata e stancata con i primi. Giunsi così sulla piazza della cittadi­na antistante il mare dove, macabra sceneggiata, alcuni tavoli erano posti al centro e sopra i quali, uno alla volta, veniva fatto salire il malcapitato del momento. Una pseudo giuria composta da individui con camicie rosse, fazzo­letti rossi, armi in mano od a tracolla, senza minimamente conoscere il nome o menzionare accuse chiedeva solo alla folla il giudizio che invariabilmente era sempre lo stesso,; urlato dai presenti. A MORTE! A MORTE!.
Questo era ciò che in seguito fu definito "Tribunale del Popolo". Ma il popolo era veramente quèllo? Nella piazza erano presenti mille forse più persone, tutte con qualcosa di rosso addosso. Ricordo che qualche pezzo di tela rossa rettan­golare sfilacciata su un lato denotava di essere stata strappata da una bandiera tricolore di cui interessava solo la parte rossa. Povera Italia. La folla presente non poteva rappresentare l'Italia ma solo una piccola parte, sanguinaria e colo­rata, che però prevaricava e dimostrava con la violenza e le minacce, la propria appartenenza alla; peggiore ideologia politica.
In quei giorni violenti, il popolo buono, il popolo onesto e civile non scendeva in strada per non essere vittima, a sua volta, della furia rossa. Così fummo, tutti senza eccezioni condannati a morte. Ed ogni condannato, dopo la sentenza, veniva consegnato a due partigiani armati che facevano la fila, a due a due, in attesa del perverso piacere di poter avere il patriottico incarico di uccidere un odiato nemico. Alche nella piazza fui fra gli ultimi a salire sul tavolo senza una specifica ragione. Forse perchè molto giovane e la precedenza veniva data ai più avanti negli anni presumendoli più colpevoli. Mentre si svolgeva il macabro rito ed attendevo il mio turno a suon di ulteriori botte, sputi e violenze, udivo, dalla spiaggia, le detonazioni che significavano la morte di chi mi aveva preceduto. Ogni condanna richiedeva pochi minuti ma, dato il numero, forse erano tra­scorse un paio d'ore e presumo fosse circa mezzogiorno. Per gli ultimi, forse per stanchezza o noia, il tempo di condanna veniva accelerato e si arrivava, pre­sumo, ad un minuto a testa. il successivo veniva fatto salire sul tavolo prima ancora che il precedente fosse sceso ed il grido A MORTE non aveva interru­zione ed era diventato una tragica cantilena. Quando venni spinto verso la panca che faceva da scalino ai tavoli mi resi conto di essere il quartultimo. L'urlo A MORTE gridato per me non mi fece grande impressione, oramai era fatale ed atteso é le spinte ed il brevissimo tempo impiegato per la condanna non mi permisero alcuna considerazione o reazione. Mi presero in consegna per l'esecuzione due partigiani molto diversi fra loro. Uno giovane, muscoloso, pochi anni oltre i miei diciannove. dotato di molta prosopopea e volontà di esi­birsi come eroe giustizialista, lo chiamavano Tino; l'altro di mezza età, magro. taciturno e con uno sguardo indifferente. Forse anche fra i giustizieri i peggiori avevano preso il sopravvento e la precedenza così a me, erano,rimasti i medio­cri. Fui portato verso un angolo della piazza dove il giovane voleva esibire la sua vittima ad alcune ragazze ed amici posando a eroe vincitore ed invitando chi voleva. a sfogare su di tue l'odio verso i fascisti vinti. La sosta in quel luogo si prolungò un poco perchè il più arziano dei due si allontanò dicendo che andava a bere un bicchiere e sarebbe tornato subito lasciandomi in balia del giovane. Non lo vidi più, gli eventi precipitarono di li a poco con la comparsa di un prepotente energumeno, forse ubriaco, assetato di odio e di sangue e pieno di boria che fendendo la folla intorno. mi si parò davanti con un mitra fra le mani urlando "questo lo ammazzo io" e mi puntò violentemente la canna del mitra sullo stomaco facendomi mancare il respiro. Con l'aria del primo attore della commedia mi disse "Hai niente da dire prima che ti ammazzi? In quel momento mi resi conto che era giunta la mia ora e proprio perchè oramai rassegnato ebbi un attimo di debolezza chiedendo di poter scrivere a mia madre. La risposta fu "Ai bastardi fascisti questo non è possibile". Per reazione, mi prese una profonda rabbia e gli urlai tutto il peggio che conoscevo "vigliacco" "porco" "traditore" "bastardo" “figlio di puttana" ed altro aspettandomi la raffica che avrebbe posto fine alla mia vita. Lo vidi diventare paonazzo e tremare di rabbia e forse era veramente un vigliacco o forse temeva, data la vicinanza, di colpire altra gente per cui, sollevato il mitra a due mani, me lo diede in testa con tutta la sua forza. Una botta tremenda. Caddí per terra e lui continuò la sua opera prenden­domi a calci rabbiosi. Ogni calcio sul mento mi faceva battere.la testa contro il muro della casa tanto che ricordo solo i primi calci dolorosi, i successivi li sen­tivo come ovattati nel sonno. Ero svenuto o forse già più morto che vivo. Non so quanti calci presi e quanto tempo passò, presumo non tanto. Quando ripresi i sensi mi resi conto che un militare americano di colore mi sorreggeva e mi caricava su un gippone mentre un suo compagno, pistolone alla mano, teneva a bada gli esagitati minacciando di sparare. Non ho avuto modo di ringraziare i miei salvatori che, senza parlare, nè io riuscivo a pronunciare parole, dopo aver­mi lasciato in un ospedale da campo americano, non vidi più. Venni lavato e medicato e, dopo alcuni giorni, portato al Campo di Concentramento di S. Rossore nella pineta del Tombolo in Toscana. Forse il linciaggio a cui ero stato sottoposto aveva richiamato l'attenzione e la pietà di quella pattuglia americana di passaggio che era intervenuta salvandomi la vita.
Non so e non mi risulta che altri si siano salvati da quella carneficina. Forse io fui l'unico superstite?
Un giornale edito a Genova, in un articolo postumo sulle stragi perpetrate dalle Brigate Partigiane in Liguria, così si espresse: "ma le stragi di maggiore portata si verificarono quasi certamente nella riviera di Levante e nelle Vallate che la congiungono con le regioni circostanti. In quelle valli riposano i resti di centinaia di ufficiali e soldati delle divisioni "Monterosa" e "San Marco", mas­sacrati e sepolti in località rimaste sempre sconosciute".

I ragazzi che riscattarono l'Onore


Da NUOVO FRONTE N° 231 Ottobre 2003



"I ragazzi che riscattarono l’Onore"

Nino Arena ‑

Scuola Paracadutisti di Tradate ‑ RSI



In occasione del 60° anniversario relativo alla costituzione della Scuola Paracadutisti RSI di Tradate (8 ‑ 9 novembre 2003) uscirà la prossima opera editoriale dello storico Nino Arena "I ragazzi che riscattarono l'Onore" (Storia del Reggimento Arditi Paracadutisti "Folgore" ‑ RSI 1943/45) Edizioni della Moletta Roma -a cura e ricordo dei superstiti-. Vi si rievoca la storia della Scuola, la tragedia della guerra civile vissuta dall'Autore in prima persona e l'eroismo dei giovani che, rifiutando il tradimento e la resa, accorsero al "Folgore", "Nembo", "Azzurro", "NP", "Mazzarini" ‑ come nelle altre Unità delle FF.AA. ‑consacrandosi alla causa dell'Onore.

La PAGINA PIÙ BELLA e signifi­cativa fu quella del volontarismo giovanile nella RSI, trattata in un libro di prossima uscita che descrive le vicende di guerra del Reggimento "Folgore" dell'ANR.

Furono migliaia nella RSI i volontari, forse decine di migliaia ma probabilmente superarono i centomila. senza contare gli oltre duecentomila volontari che fra l'armistizio e la trasformazione da IMI in combattenti scelsero di battersi per l'Asse.

Questa volta parleremo dei giovani, protagonisti di uno straordinario fenomeno all'inverso: presentarsi per combattere nella parte perdente anziché attendere per poi buttarsi col vincitore come fecero molti opportunisti. Un fenomeno che ha incuriosito uomini politici come Ciampi e Violante, che ebbero parole di rispetto per quei giovani, sia pure con taluni distinguo necessari e salvare le apparenze come politici e avversari.

La lunga, difficile strada dell'Onore era irta di ostacoli, pericoli, difficoltà di ogni genere; per percorrerla era necessario disporre di qualità umane e maturità di scelta, senza far conto sulle emozioni e la superficialità da sempre presenti nel nostro DNA nazionale.

Quella scelta generosa e disinteressata ebbe come premio il sacrificio, la morte che mieté a piene mani, il carcere, il campo di prigionia e per tutti l'emarginazione, anche se in contraddizione si ebbe il riscatto dell'onore ottenuto a caro prezzo, per ridare all'Italia dignità di nazione, rispetto etnico, stima e considerazione perduti ma ritrovati, di cui molti italiani igno­rano l'evento per voluta disinformazione ge­neralizzata o ignoranza storica: ma il miracolo si avverò e la Storia lo annotò diligentemente e doverosamente.
Accorsero un po' ovunque, presentandosi dove c'era un Comando, un reparto, una ban­diera, un comandante carismatico, di propria volontà oppure in un coinvolgimento imprevi­sto accettato obtorto collo. lo venni "rapito" da paracadutisti tedeschi per fare da guida nel­la città e trascorsi tre settimane con loro nel Lazio prima di essere "congedato" e presen­tarmi ad un centro di arruolamento italiano nella fattispecie il prestigioso Campidolio dove mi offersi in ottobre del 1943. Avevo scelto i paracadutisti

Avevo esattamente 17anni e 10 mesi quando venni ufficialmente registrato dopo una patriottica cerimonia ufficiale con cineoperatori, Luce autorità, musiche marziali. Mi diedero una coccarda tricolore (che ancora conservo) ci fecero discorsi di circostanza (eravamo un centinaio di volonta­ri di ogni età e condizione sociale fra cui una ventina pro paraca­dutisti).

La giornata fu lunga, faticosa, emozionante: registrazioni di prammatica, trasferta allo Stato Maggiore Esercito in Via XX settembre, allocuzione del generale Gambara, spostamento alla caserma Medici in Via Sforza (di fronte alla Presidenza ANPdl), lunghe ore inutili in attesa del nulla, disorganizzazione, indiffe­renza, curiosità, fame, delusione fino a sera. Poi improvvisa­mente giunse la salvezza: il sergente maggiore Sanna, mutilato della "Folgore" a El Alamein ascolta le nostre lamentele, ci por­ta alla caserma Ferdinando di Savoia vicino alla stazione Termi­ni, chiede a gran voce, minacciando, di darci qualcosa da man­giare ‑ sono le 21.30 del 15 ottobre ‑ discussioni, litigi, rifiuti burocratici, ordini e contrordini (stanno cucinando il rancio per il giorno successivo), poi finalmente acconsentono a farci un po' di brodo e un pezzo di lesso ma occorrono la gavette che non ci sono in quella sudicia caserma saccheggiata all'armisti­zio, abbandonata, resuscitata in emergenza, dove si vive alla gior­nata. Recuperiamo una gavetta e a turno mangiamo qualcosa di caldo. Sono stanco, amareggiato, deluso; ma non è ancora fini­ta! Ci sono enormi cameroni vuoti, freddi, sporchi e all'ultimo piano una camerata con brande e pagliericci luridi, vetri rotti, spifferi ovunque, fioche luci. Dormo fra due pagliericci, paten­do il freddo e la rabbia e penso alla mia cameretta alla Garbatella, ai miei genitori, ai fratelli, a ciò che ho perso in cambio di delu­sioni, alle loro preoccupazioni, al mio futuro nebuloso e incerto. Mi sorregge soltanto la fede e la volontà a non mollare.
Non fu il mio un caso isolato, poiché con me soffrirono tutti coloro che avevano scelto di battersi per riscattare il disonore: non vuote parole retoriche frutto di educazione politica artefatta, ma il meglio degli insegnamenti ricevuti, poiché indubbiamente qualcosa di buono c'era ed io avevo vissuto quasi 18 anni di regime ed eventi importanti. Dovevo resistere e andare avanti per la strada scelta.

Il mio "giorno più lungo" ebbe nei giorni successivi analoghi svolgimenti (venni persino morsicato da un cane) poi pian piano la normalità prese il sopravvento: andai a Palidoro, co­nobbi il maggiore Mario Rizzatti, rividi il Capitano D' Abbundo che avevo conosciuto a Viterbo e mi assegnarono al suo batta­glione nel plotone comando del tenente Antonio Esposito a Casal Turbino ‑ 57° km dell'Aurelia.

Si apriva un nuovo mondo per me, quello che avevo desiderato e finalmente trovato. Di­fendiamo un tratto di costa con l'aeroporto di Furbara; postazioni a mare, sulla ferrovia, zone minate, bunker, cannoni controcarro e mitra­gliere contraerei che usiamo con frequenza contro Thunderbolt e Lightning che scorazzano sulla spiaggia a bassa quota mi­tragliando tutto quello che vedono.

A fine anno trasferimento a Spoleto dove l'XI Flieger Korps del Generale Student ha allestito un centro di addestramento tattico per costituire un Reggimento di paracadutisti ita­liani. Il merito di tale iniziativa va al Maggio­re Rizzatti, al suo parlar chiaro, anche nei con­fronti di Mussolini, da Lui criticato in una sua lettera censurata. Mussolini non volle riceverlo a Gargnano chiedendo una lettera di scuse che Rizzatti non riuscì a compilare, ma lasciò un lungo promemoria con la storia del "Nembo" dalla Sardegna alla Corsica e alla difesa del litorale laziale, da Maccarese a Cerveteri. Mussolini in cuor suo apprezzò questo corag­gioso soldato dell'Onore e fece di tutto per realizzare il suo promemoria, chiedendo al Ma­resciallo Göering il necessario aiuto, a Kesselring, a Student, all'ambasciatore Rahn il dovuto appoggio.

I risultati non si fecero attendere: centro tattico di Spoleto per costituire, addestrare e armare modernamente un Reggimento su 4 battaglioni per 2400 paracadutisti, invio in Germania di 160 allievi alla scuola di lancio di Friburgo, invio in Francia (Le Courtine di Avignone) di un gruppo di Ufficiali per un corso di tattica a livello superiore, invio alla scuola tattica di Città di Castello di Ufficiali e Sottufficiali per un corso di preparazione a li­vello di reparto inferiore (plotone/compagnia). Assegnazione al costituendo Reggimento dei Nuotatori Paracadutisti della X. a MAS, dei pa­racadutisti recuperati in altri Reparti e del costituendo battaglione Arditi Paracadutisti del­l'Aeronautica, cui era stata assegnata, nel nuo­vo regolamento e ordinamento delle FFAA / RSI, la responsabilità di servizio per l'Arti­glieria Contraerei (AR.CO) e per i Paracadu­tisti (come nell'ordinamento della Luftwaffe). Il nuovo Reggimento ‑ denominato "Folgo­re" ‑ sarebbe stato assegnato una volta costi­tuito e addestrato, alla completa competenza dell' ANR.
Per tale ambizioso programma, lo SM/ ANR costituiva in novembre a Tradate nel Varesotto, una scuola di paracadutismo utiliz­zando un gruppo di provetti istruttori di Tarquinia/Viterbo e le attrezzature delle vecchie scuole recuperate. Un bando di concorso per volontari nei paracadutisti dell'Aeronau­tica (APAR) vide la presenza di oltre 2000 aspiranti, di cui 500 vennero selezionati per costituire il nuovo battaglione chiamato "Az­zurro". Si era messa in moto una grande or­ganizzazione italo‑tedesca, poiché 1'XI. FI. Kps. aveva selezionato oltre un centinaio di istruttori al comando del Magg. H. Kruger re­sponsabile per l'addestramento secondo le severe regole di preparazione tattica della Wehrmacht. A farne le spese gli oltre 1.200 italiani concentrati a fine 1943 presso la caserma "Garibaldi" di Spoleto (già sede dei "Cacciatori delle Alpi") mentre altri 1300 erano fuori sede impegnati nei vari corsi di preparazione. Sfumava la previsione di incor­porare il Btg. NP (Cap. GN. Nino Buttazzoni) poiché il Comandante Borghese non volle ri­nunciare al prestigioso Reparto d'élite della "Decima", mentre prendeva corpo la nascita di un nuovo battaglione di allievi paracaduti­sti, che stava costituendo il Comando Genera­le della GNR nei pressi di Brescia. Ma anche questa eventualità sfumava per il rifiuto della GNR a privarsi del suo eccellente "Mazzarini".

All'inizio del 1944, mentre ferveva la pre­parazione dei singoli reparti allievi nelle di­verse sedi, si verificò un fatto importante: gli "alleati" erano sbarcati il 22 gennaio fra Anzio/Nettuno (operazione "Shingle") per creare una situazione di pericolo alle spalle della linea "Gustav" che difendeva Cassino, ed accorciare in tal modo la guerra in Italia, com'era nella visione del Premier Winston Churchill. Il Maresciallo Kesselring, fronteggiò il grave pericolo diramando la parola convenzionale "Richard" (pericolo di sbarco nemico) e da ogni parte si mossero le Unità destinate a contrastare tale minaccia. Partiva dal perugino la 4.a Divisione paraca­dutisti (Gen. Heinz Trettner) che si trovava in addestramento in Umbria, ancora incompleta. Mussolini colse al volo la situazione di diffi­coltà in cui si trovava l'H. Gr. C di Kesselring e, memore della volontà contenuta nel memo­riale Rizzatti, interpellò Kesselring per accer­tare se vi era la possibilità di impiegare nella zona di sbarco anche Reparti italiani. Non era la prima volta dall'armistizio, che Reparti italiani combattevano per rispettare i patti d'alle­anza dell'Asse, riscattando con l'azione il tra­dimento badogliano, poiché numerosi Reparti avevano ripulito le retrovie della "Gotica" dalla presenza di ribelli e sbandati ed un numeroso gruppo di Arditi camionettisti/paracadutisti del X° Rgt. Arditi, che lo stesso giorno dell'armi­stizio si era schierato con i tedeschi, aveva se­guito le sorti della 2.a Fallschirmjäger (Gen. Bernard Ramcke) trasferita dall'Italia in Russia. Assegnati al 2° Btg. Pionieri (Magg. Gestner) combatter in Ucraina nella zona di Nowgerodka, Jitomir, Baranivka, dove moriva il Comandante Cap. Paolo Paris decorato di MOvm memoria, con numerosi altri Arditi. I superstiti si batteranno ancora nel 1944 a settembre ad Arnhem contro i paracadutisti inglesi. I pochi rimasti rientreranno a Tradate nell'autunno. Altri Caduti per l'Onore si erano registrati già il 10 settembre Salerno: par. Giovanni Zucca (giorno 10), Busolini Giordano, D'Anna Mario, Aldo Palazzo, Roggiopane Giovanni e Vulcani Tullio (il giorno 11 settem­bre) appartenenti al 3° Btg. "Sala" e al 12° "Rizzatti", caduti a Battipaglia e in Sardegna, cui andavano aggiunti gli' altri caduti in Corsica nei giorni successivi.

Non quindi diserzione da11a storia, ma protagoni­sti della storia sin dai primi giorni dell'in­fausto armistizio.

I1 19 febbraio un ordine di servizio della 14.a AOK (Gen. Von Mackensen) n. 1370/44‑14AOK, richiedeva l'approntamento di un Reparto italiano di 300 uomini con un plotone servizi, da trarre fra i 1200 in addestramento a Spoleto, completo di Ufficiali italiani, uniforme italiana, insegne italiane (era evidente il pensiero di Rizzatti) tradotto in pratica dal Prefetto Dolfin, suo com­paesano friulano, nella stesura dell'ordine te­desco, poiché il Segretario particolare di Mussolini aveva sollecitato in alto (su ispira­zione del Duce) l'OKW. Il Reparto era desti­nato a rinforzare la 4.a Divisione "Trettner" e sarebbe stato armato ed equipaggiato a cura che al trasporto. L'ordine precisava ancora, che il modesto grado di addestramento raggiunto (era iniziato sol­tanto da 5 settimane) consigliava l'impiego in Reparti tedeschi ripartiti tra i Reggimenti 10° e 11 ° (una squadra di veterani allo sturm rgt.). Vennero selezionati 350 uomini ripartiti fra 310 pa­racadutisti anziani e 39 giovani volontari, suddivisi fra il 1 ° plo­tone M.Ilo Tomasi Canova, 2° S. Ten. Ubaldo Stefani, 3° S. Ten. Mario Angelici, 4° S. Ten. Angelo Fusar Poli, 5° S. Ten. Domenico Betti (mi aveva arruolato a Roma Hotel Continenta­le), 6° S. Ten. Antonio Esposito (era stato il mio Comandante di plotone a Casal Turbino).

Il comando del Btg. di formazione "Nembo" venne affidato al Cap. SPE Corradino Alvino. Giunti ad Ardea il 12 febbraio, sotto­posti ad un breve addestramento con fucile Maser 98K, MG. 42, pistole P 38, bombe a mano e conoscenza di mine shu e teller, le nuove moderne armi tedesche consegnate con MP. 41 e una decina di Thompson gun USA catturati.

Distribuiti fra i tre Reggimenti, gli italiani andarono in linea il 14 e raggiunsero le posizioni sul torrente Moletta, fronteggiati dai fanti inglesi della La Div. Ftr. Sistemati su quote tattiche superiori e non a fondo valle. L'offensiva te­desca "Fishfang" stabilita per il 16 alle ore 06.30, prevedeva un attacco di Stukas sulle prime linee e un suc­cessivo fuoco di artiglieria, disposi­zioni che vennero intercettate e tra­dotte in chiaro dal servizio campale ULTRA che provvide a far arretrare le prime linee inglesi di 400 metri, evitando gli effetti del bombarda­mento aereo e dei cannoni, col velo­ce rientro sulle posizioni originarie subito dopo la preparazione d'attac­co. Ad eccezione di alcune inesattezze di tiro, il bombardamen­to aereo e quello dell'artiglieria non procurarono gravi danni e quando alle ore 06.30 sui 14 km. di fronte iniziò l'attacco, fu difficile aver ra­gione del nemico, anche se ovunque furono occupate le posizioni inglesi con gravi perdite da ambo le parti e numerosi prigionieri catturati.

Il "Nembo", su cui incombeva una grande responsabilità morale, fece la sua parte con grande impe­gno, valore, sacrifici (oltre il 70% di perdite) suscitando consensi, elogi, stima e ammirazione. Ci furono 74 caduti, 90 feriti, otto dispersi, anche se il premio a tanti sacrifici fu la riconquistata fiducia e il riscatto morale degli italiani.

A Spoleto proseguiva l'addestra­mento con teutonica "crudeltà men­tale" esercitata senza risparmi dai terribili Waffenlehrer, preparazione che in maggio venne estesa anche al Btg. "Azzurro" giunto da Tradate dopo i lanci su Venegono.

Vennero superati problemi di fon­do e quando Rizzatti ebbe sentore che il "Folgore" a preparazione ultimata sarebbe stato utilizzato dai Comandi tedeschi in totale misura, parlò col Gen. Lungerhausen (conosciuto in Sardegna con la 90.a Pz. Div. e ora Generale Ispettore per le nuove Unità italiane destinate al fronte) che riuscì a modificare la formula del giuramen­to con una clausola particolare, a ri­fiutare le uniformi Luftwaffe con l'aquila e svastica, che voleva ufficiali italiani, insegne italiane, responsabi­lità italiane. Ci furono colloqui ad alto livello fra Graziani e Kesselring per quel piccolo terremoto attivato dal cocciuto Maggiore friulano, ma alla fine gli italiani la spuntarono relegan­do ai soli Comandi tedeschi di G.U. l'impiego operativo.

Il "Folgore" si completò, prese un indirizzo addestrativo omogeneo, subì alcune modifiche, prese in carico il personale istruttore dell'XI Flieger Kps 15 ufficiali, 67 sottufficiali, 56 graduati e truppa che costituirono col Magg. Knolke, lo Stab Reggimentale operativo e di collegamento (Verbidung 1 ° F. Sc. Kps (Gen. Alfred Schlenun) il Reparto guardie (Wache Zug), la Cp. Trasmissioni (Nachcriten Kp) il Reparto cacciatori di carro (Pz. Jager), il Reparto trasporti, vale a dire tutti i servizi reggimentali direttamente impegnati al funzionamento operati­vo del Reggimento, il cui comando titolare venne affidato al Ten. Col. Edvino Dalmas e quello operativo al Maggiore Otto Frederic Kruger coadiuvato dal Maj. Knolke Hans distaccato dal 1 ° Corpo Paracadutisti, risolvendo in tal modo i vari proble­mi dei collegamenti, delle trasmissioni, dei servizi e dei trasporti che ri­chiedevano personale specializzato a conoscenza della lingua tedesca e del­la procedura tattica in uso nella Wehrmacht. A fine maggio dopo una riuscita operazione tattica alla presen­za del Gen. Kurt Student, responsabi­le dell'addestramento a livello di co­mando dell' 11 ° Corpo Aereo, il Rgt. "Folgore" veniva considerato idoneo al combattimento e inviato al fronte come riserva tattica a disposizione del 1 ° Corpo Paracadutisti, che aveva pre­visto il suo impiego nella zona a nord di Ardea fra Castel Porziano, Castel di Decima, Malpasso, Pratica di Mare dove correva la linea difensiva "Caesar" approntata a difesa del trat­to di pianura da Campoleone al mare e alla base dei colli Albani fra Lanuvio, Albano, Ariccia, Velletri.

Contrariamente alle aspettative per un impiego unitario per i 1201 ita­liani attesi al fronte dai 433 paracadu­tisti del "Nembo" (stranamente chia­mato 4° Btg. negli ordini di servizio tedeschi), l'impiego unitario non ebbe luogo a causa dei movimenti del fronte precipitati negli ultimi giorni di mag­gio e il "Folgore" venne inviato dove c'era bisogno per colmare una falla, sostituire un reparto distrutto, occu­pare posizioni importanti per la ritira­ta in atto. Furono sei giorni di com­battimenti ovunque, mentre il "Nem­bo" si portava nelle retrovie dopo tre lunghi mesi di linea e decine di morti, mutilati, feriti, dispersi. I combatti­menti più sanguinosi si ebbero al Fos­so dell'Acquabona (7.a Cp. Ten. Ro­mano Ferretto) e a Castel di Decima (Maggiore Mario Rizzatti poi Capi­tano Edoardo Sala). Fu una ecatombe di giovani vite e anziani parà. La 7.a riuscì a fermare l'avanzata della 3.a brigata inglese fino alla dissoluzione fisica del Reparto, la fortuita presen­za in zona di nucleo di sette parà della 6a Cp. che, isolati, rimasero a presi­diare una postazione vicino all'Acquabona fino a sera, per poi ri­tirarsi a nord bloccando la La Div. Ftr. del Gen. Penney: "... the final attacks on the Ardea Line took place on 3 June. The Forrester and KSLI of the Third Brigade, áfter some stubborn fighting on the Acquabona Ridge, drove the defender off it altough not. until a number of spirited counter attacks and fallen on them. During the night patrols roaming forward reported: no contact and the 18"Brigade were passed throught to take up the running". (dal diario di guerra della l.a Div. Ftr. Inglese).

Un pugno di valorosi paracadu­tisti aveva fermato una intera Briga­ta (la 3.a) costringendo ad una lun­ga sosta un'altra Brigata (la 18.a) destinata allo sfruttamento del suc­cesso. Ci furono splendidi episodi di valore col Ten. Ortelli (poi decorato di MOvm) quelli del gruppo Camesasca e Marani Tassinari, quel­lo di De Santis a Zolforata che cat­tura una cinquantina di fanti USA, quelli di Tomasi Canova e Lucchet­ti, Bernardi e i fratelli Strufaldi.

Il più importante combattimento del 4 giugno 1944 si svolse sulle altu­re di Castel di Decima ‑18 km. a sud di Roma ‑ protagonista il 1 ° Btg. del Magg. Rizzatti che difendeva la posi­zione e quando si profilò un grave pe­ricolo con l'intervento di Sherman del 46° RTR che minacciarono di accerchiamento le posizioni italiane.

Rizzatti non esitò a uscire dal suo po­sto campale di comando andando in­contro al nemico. Una raffica di mi­tragliatrice uccideva il valoroso Co­mandante assieme al suo portaordini Massimo Rava appena diciottenne. Fu un momento drammatico e fu soltan­to con il deciso intervento del nucleo di riserva del Capitano Sala, se fu pos­sibile ristabilire la situazione e capo­volgere il risultato. Sala attaccò col Panzerfaustil carro di testa incendian­dolo, poi colpi quello in coda immo­bilizzando la colonna nella stretta e incassata strada della tenuta Vaselli davanti al castello e ai carristi inglesi non rimase altra alternativa che arren­dersi o morire; scelsero la vita! Un atto eroico quello di Sala che salvò da morte certa il 1° Battaglione. Rizzatti verrà decorato di MOvm alla memo­ria. La Medaglia d'Argento e la Cro­ce di ferro di 2.a classe, la promozio­ne a Maggiore per m.g. furono il me­ritato premio al valore del Comandan­te Edoardo Sala.

Quando la battaglia terminò nel primo pomeriggio del 4 giugno, fu possibile rendersi conto della sua importanza e dei risultati: gli inglesi non avevano conquistato Roma bloccati a sud dagli italiani e l'ono­re di tale risultato venne attribuito agli americani del Gen. Clark, che fece carte false per tale evento. Sul campo di battaglia erano rimasti 113 caduti, 202 feriti, alcune centinaia di dispersi in gran parte prigionieri (stranamente le documentazioni del 1° F. Sc. Kps. parlano di 302 caduti italiani, 289 feriti, 79 dispersi, pur comprendendo fra questi 29 caduti tedeschi, 35 feriti, 9 dispersi).

Quando i resti del "Folgore" giunsero al nord, si contavano 685 superstiti (647 secondo le notizie tedesche) ma comprendevano anche i 300 paracadutisti rimasi a Spoleto al comando del capitano Leonardo Faedda. Numerose le decorazioni meritate italo‑tedesche assegnate ai valorosi che avevano combattuto per l'Onore d'Italia. Un'altra pagina di Storia scritta a lettere cubitali.

In settembre un Reparto di parà andava di rinforzo alla 4.a "Trettner" dislocata a difesa dei Passi della Futa e del Giogo, battendosi con corag­gio, lasciando due caduti e sei feriti sul campo di battaglia.



Nino Arena

lunedì 14 maggio 2007

Cento Ferrara dedicata una via ai Fratelli Govoni

INAUGURATA A CENTO LA VIA IN MEMORIA DEI FRATELLI GOVONI

E finalmente una piazza ai 7 fratelli Govoni, trucidati da una banda partigiana. Gliel'ha intitolata ieri il comune di Cento, in provincia di Ferrara, con una scelta significativa di riconoscimento del dramma dei vinti della seconda guerra mondiale.
La storia dei Govoni è molto nota. L'11 maggio, cioè quindici giorni dopo la fine della guerra civile tra fascisti e antifascisti, la Seconda Brigata partigiana "Paolo", a Pieve di Cento e a San Giorgio di Piano nel Bolognese, preleva nottetempo, e stermina, 17 persone. Vengono
denudati e "giustiziati con modi barbari", scrive il maresciallo dei Carabinieri ~ : Masala. In pratica, li strangolano uno dopo l'altro. Prima dell'epilogo, le torture. Le urla di dolore dei prigionieri rinchiusi in una casa colonica e in una cavedagna trasformata in una macelleria, riecheggiano nella pianura
Tra le vittime del rastrellamento c'è un'intera famiglia. Sono i sette fratelli Govoni, tra i quali una madre di appena ventanni, Ida. Due ragazzi, Dino e Marino, avevano aderito alla Repubblica Sociale Italiana. La distanza dal Reggiano, dove i nazifascisti trucidarono i sette fratelli Cervi è minima. Le due tragedie parallele per tanto tempo pesano sulle memorie del Ferrarese: ma mentre per i Cervi ci sono pubblici riconoscimenti e onori, i Govoni sono ricordati solo dalla minoranza invisibile dei vinti. Ai Cervi la Repubblica dedica una Fondazione, alimentata da un ricco budget, continue celebrazioni da parte delle più alte autorità dello Stato, una processione annuale di scolaresche, un filone editoriale con decine di titoli. Tutto giusto, per carità. Ma ai Govoni, i cui corpi furono ritrovati solo il 24 febbraio 1951 in una fossa comune, neanche una lapide, una fioriera. Chi ha subito i colpi di frusta della polizia partigiana del Pci non ha meritato per tanto tempo nessun omaggio.
Ieri questo vuoto è stato riempito a Cento, dove il Comune (amministrato dal centro-destra) ha dedicato ai Covoni una piazza. Il sindaco, Flavio Tuzet, con i deputati e senatori di Alleanza nazionale, hanno inaugurato solennemente la targa. Ma i rappresentanti della sinistra locale e regionale hanno scelto di non partecipare. C'era però, commossa, una piccola folla, gente del popolo che dopo 62 anni non ha dimenticato la notte dell'11 maggio. Sulle ragioni dei vinti e dei vincitori si è intrattenuto, in un dibattito, lo storico prof. Salvatore Sechi.
C. M.

DONNE IN GRIGIOVERDE 13 maggio 2007 alla Piccola Caprera MN






Da Storia dei XX secolo 6 dicembre '96










DONNE


IN GRIGIOVERDE





Il Servizio Ausiliario Femminile della RSI

di Marino Viganò






In un'accurata ricostruzione storica, la nascita, l'organizzazione e la fine del SAF tra il 1944 e il 1945.


Il 20 aprile 1944 il «Corriere della Sera» e altri quotidiani della Repubblica Sociale Italiana sottolineano il fatto che donne «di ogni condizione sociale, di ogni età, di ogni regione d'Italia chiedono di essere artefici della riscossa nazionale». E segnalano fra i diversi provvedimenti adottati in Consiglio dei ministri l'approvazione di un Servizio ausiliario femminile che si affianchi alle forze armate della repubblica, perché «tante forze attive non vadano disperse e nella certezza che esse potranno dare un apporto tangibile alla ricostruzione della Nazione»1*.

Il testo del decreto esce sui giornali, decreto e regolamento verranno invece pubblicati sulla «Gazzetta Ufficiale» solo nell'agosto. La deliberazione sulla costituzione ufficiale del S.A.F. è avvenuta un paio di giorni prima, nel Consiglio dei ministri del 18 aprile, riunitosi ‑ scrivono gli stessi quotidiani ‑ «sotto la presidenza del Duce» per l'approvazione di diversi provvedimenti, tra i quali, su proposta del Partito.fascista repubblicano, lo «Schema di decreto che disciplina l'istituzione del "Servizio Ausiliario Femminile" nelle Forze Armate Repubblicane, nella Guardia Nazionale Repubblicana e in ogni altro settore interessante la difesa nazionale»2*.

Sia il decreto istitutivo del S.A.F (che in 12 articoli dà le basi di massima per l'organizzazione del servizio), sia il relativo regolamento di esecuzione (più dettagliato, articolato in 6 capi per complessivi 35 articoli, più 2 allegati), approvato con apposito decreto in articolo unico 3*, sono firmati da Mussolini e controfirmati dal ministro segretario del partito, Alessandro Pavolini, e dai membri competenti del governo neofascista: il comandante generale della Guardia nazionale repubblicana, Renato Ricci, e i ministri delle Finanze, Domenico Pellegrini‑Giampietro, delle Forze armate, Rodolfo Graziani, e della Giustizia, Piero Pisenti.

Tali documenti legislativi derivano dallo schema preparato a Torino dalla comandante di un primo nucleo ausiliario presso la G.N.R. confinaria, Anna Maria Bardia, dal commissario federale Giuseppe Solaro e dal capo della provincia Paolo Zerbino. Schema sottoposto a Mussolini già a fine marzo durante un'udienza a Villa Feltrinelli di Gargnano e comunicato quindi a Pavolini per la successiva elaborazione e presentazione 4*. Per questo motivo si è soliti scrivere che il 18 aprile 1944 segna la data di nascita del primo e ultimo caso di arruolamento di personale femminile nella storia delle forze armate italiane, e la data dell'annuale viene commemorata dal governo neofascista con cerimonie ufficiali il 18 aprile 1945.

La realtà è invece parecchio diversa, e già l'esistenza di quel primo nucleo di ausiliarie presso la G.N.R. confinaria a Torino‑Moncalieri ne è un segnale. La realtà è che il decreto del 18 aprile costituisce piuttosto una "sanatoria di un fatto compiuto di iniziative femminili locali (la «spontanea fioritura delle origini», come chiama questa fase in una sua memoria la vicecomandante generale del S.A.F. colonnello Cesaria Pancheri)5* "imposte" ai vertici del partito, e da questi alle forze armate e al governo. Iniziative periferiche, spontanee appunto, di donne che collaborano alla riapertura di federazioni e all'organizzazione della vita politica e dell'assistenza.

A Milano, ad esempio, secondo l'ausiliaria Maria Pavignano, appena dopo la costituzione del Fascio repubblicano il 16 settembre 1943 «erano sorti non meno di quattro gruppi di donne che volevano combattere», e alcune si erano presentate a «ufficiali tedeschi e italiani per vedere di farsi ammettere nei reparti»6*. Il che spiegherebbe anche la rapidità dell'arruolamento di personale femminile nel fascismo ambrosiano, annunziato il 9 febbraio 1944 nel «Corriere milanese» come organizzazione di «gruppi di donne di sana costituzione, dai 20 ai 40 anni, che non abbiano figli inferiori ai 14 anni e che vogliano servire nel modo migliore la Patria in armi»7*.

Pochi giorni dopo, il 13 febbraio, anche la Federazione neofascista di Torino comunica d'essersi indirizzata in questo senso, con l'aggregazione di un reparto «ausiliario» femminile alla G.N.R. confinaria con «immediatezza che ha dato ancora una volta alle donne torinesi il privilegio di essere all'avanguardia del movimento di riscossa nazionale»: «Già oggi», si legge sul giornale, «cinquanta donne sono state assunte dai servizi ausiliari della Confinaria. Primo nucleo formato in maggioranza da universitarie e da operaie. Con alto spirito patriottico, le universitarie, tra cui alcune laureate, assolveranno i vari compiti loro assegnati, tra cui non pochi sono i lavori pesanti. E’a buon punto la formazione, per il momento, di cinque squadre per l'assistenza in linea. Queste volontarie saranno equiparate in tutto ai militari, con eguali diritti e doveri»8*.

Anche a Venezia secondo il «Gazzettino» del 1 marzo «accorrono» donne «chiamate dai Fasci femminili»9*, e si commenta: «Ia nostra gioventù femminile ha un sol cuore», dato che «arruolarsi nelle squadre di pronto soccorso del G.U.F è non soltanto un dovere, ma un bisogno spontaneo irresistibile, per queste non degeneri figlie di nostra gente»10*. Notizie che, pur nella loro frammentarietà, dimostrano come prima del decreto del 18 aprile e nel giro di poche settimane l'idea d'un servizio ausiliario femminile riscuota un incoraggiante successo, sebbene ancora a livello provinciale e senza dipendenza da direttive "nazionali". Sottolinea anche Dante Ciabatti, all'epoca ufficiale d'ordinanza del comandante generale della G.N.R., che «Renato Ricci aveva già autorizzato il generale Romegialli, comandante della G.N.R. confinaria, ad assumere personale femminile, presso il Comando a Moncalieri, nel dicembre 1943» e «il decreto per la costituzione del S.A.F è del 18 aprile 1944 ma l'inizio del corso O.N.B. per la G.N.R. a Noventa Vicentina è anteriore alla data stessa»11*

Nel frattempo, anche reparti autonomi delle forze armate repubblicane danno vita ‑ sempre in forma del tutto spontanea ‑ a loro servizi ausiliari, nettamente distinti da quelli del partito. Il Servizio ausiliario della Decima Mas è il primo e prende l'avvio a Roma il I' marzo 1944 coordinato da Fede Arnaud, che ricorda: «Il primo reclutamento venne fatto a Roma, sia perché era la zona dove più facilmente sarebbero stati reclutati gli elementi idonei in quel momento, solo per il fatto che li si conosceva, non per altro, perché c'erano in tutte le regioni italiane indubbiamente delle persone idonee a questo servizio, ma poi perché si sarebbe fatta immediata esperienza di assistenza a un reparto in armi»12*.

Poco alla volta, anche gli organi ufficiali prendono atto della mobilitazione femminile e il «Corriere», nel resoconto «Stefani» del Direttorio del PFR. del 1 marzo a Brescia, tratteggia per la prima volta i campi d'azione del Servizio «coi suoi tre rami di assistenza infermieristica negli ospedali, di cooperazione provinciale nei servizi civili e in quelli militari ausiliari di organizzazione dei posti mobili di ristoro nell'immediato retrofronte»13*. Ancora una settimana e una relazione a Mussolini dell'ispettrice nazionale dei Gruppi fascisti repubblicani femminili, Licia Abruzzese, o del presidente nazionale dei Gruppi d'azione giovanile «Onore e Combattimento», Giulio Gai, nel sottolineare la necessità di «stimolare ogni iniziativa» meglio se «dal. basso che dall'alto», ma con «il concorso e il consenso dello Stato», si preoccupa della «coordinazione di queste forze» e suggerisce un programma di massima per l'istituzionalizzazione del servizio e del comando:

Allo scopo sarebbe opportuno stabilire immediati contatti con i vari reparti militari per conoscere più precisamente in quali specialità le donne potrebbero sostituire uomini validi alle armi, facendo al tempo stesso particolare menzione delle iniziative che già sono sorte. Determinate così le specialità utili, si dovrebbero fissare per ciascuna di esse una località dove i nuclei di volontarie già pronte e addestrate nelle singole città in collaborazione con i Comandi provinciali locali o perfezionate in corsi celeri riprendendo attività già in uso, passerebbero un brevissimo periodo (una settimana) di severissima prova, che selezioni gli elementi per capacità e disciplina. Nel frattempo si invierebbe una circolare a tutte le Federazioni per autorizzare il concretamento delle varie iniziative (poiché i contatti personalmente presi con qualche federazione mi hanno rivelato che si aspettano solo ordini e autorizzazioni dal Centro) consigliando a prendere diretti contatti con i Comandi Provinciali, autorizzando sin da principio l'acquisto, per quanto possibile, del materiale necessario all'equipaggiamento e la costituzione di un laboratorio. Del tutto mandare poi una precisa relazione a questo Ispettorato. Compito di quest'ultimo sarebbe precisamente quello di stabilire e mantenere i collegamenti con i reparti‑scuola dove avverrebbe la prova definitiva delle volontarie, fornire il materiale necessario alle Federazioni che non potessero provvedere da sé, dare istruzione per la formazione di nuclei, dove fosse necessario supplire alla insufficiente iniziativa. Si concilierebbe in questo modo la libertà per quanto formale, di iniziativa, ordinamento e direzione da parte dei Centri Federali (e quindi un più entusiastico e concreto contributo), con il controtlo effettivo che il Partito effettuerebbe a mezzo dell'Ispettorato14*.

Nel frattempo la segreteria militare del PFR. si è già mossa in questa direzione, e la proposta del partito esce lo stesso 10 marzo sui giornali, sotto forma di un comunicato che, prima ancora di una deliberazione in sede di Consiglio dei ministri, detta le direttive del costituendo S.A.F: ne possono far parte «le donne iscritte o no al Partito, purché diano sicure garanzie di fede patriottica, abbiano età dai 18 ai 40 anni, siano di sana e robusta costituzione fisica e abbiano provata capacità tecnica per le mansioni che intendono svolgere». Tre sono i rami di attività: «assistenza infermieristica negli ospedali militari; collaborazione nei Comandi regionali e provinciali militari e nelle caserme, per quanto riguarda la propaganda i lavori di ufficio e di fatica; posti mobili di ristoro, per truppe operanti, da organizzarsi nell'immediato retrofronte». Saranno preferite «coloro che conoscano il tedesco, sappiano guidare automezzi, siano infermiere»15*.

Una circolare del 13 marzo a firma dell'ispettrice provinciale di Como dei Gruppi fascisti repubblicani femminili, Teresita Saldarini, nel riprodurre il comunicato ne mostra la rapidità di ricezione alla periferia, con l'istruzione di «darne la massima diffusione fra i Gruppi Femminili costituiti» e con un'aggiunta: «Ricordo che possono aderire donne iscritte e no al Partito purché diano sicura garanzia di fede patriottica ed abbiano requisiti precisati nel comunicato»16. Terminata l'indagine del «centro>~ sulle iniziative spontanee locali, con una comunicazione diretta «alla sezione femminile di tutte le Federazioni», l'Ispettorato agli arruolamenti (come ancora viene definito l'ufficio di coordinamento del servizio) chiede «in accordo con il Segretario del Partito e il Capo di S.M. Maresciallo Graziani» di conoscere i progetti di reclutamento e d'impiego di donne elaborati in periferia, e, con una procedura ormai collaudata per uniformare l'azione delle federazioni, dirama direttive valide per tutte le province:

Si autorizza pertanto a compiere tutti i passi necessari per la realizzazione dei reparti femminili specializzati (esempio: contatti con i Comandi Provinciali Militari i quali concorreranno con l'esperienza all'organizzazione e all'addestramento Ripresa di corsi di perfezionamento già in uso per marconiste, infermiere ecc. Ricerche per acquisto di materiale necessario all'equipaggiamento: panno grigioverde, tela impermeabile, maglioni neri, tela grigioverde, scarponcini ecc. ‑ Costituzione di un laboratorio ‑ Il modello della divisa sarà inviato dal Centro). In base alle proposte saranno individuate e determinate le specialità e per ciascuna di esse verràjissata una sede dove le specializzate passeranno un breve periodo di severissima prova. ‑ Le volontarie saranno distinte in tre categorie [ ... ] che corrisponderanno agli effetti del trattamento economico ai sottufficiali per la I e II categoria, agli ufficiali subalterni per la III. Le volontarie saranno organizzate in reparti secondo le specialità: ogni reparto in nuclei, ciascuno dei quali costituirà una unità atta ad assolvere completamente un determinato servizio. Per ogni nucleo la volontaria che per titolo di studio, capacità, ascendente si distinguerà naturalmente dalle compagne avrà l'incarico di tenere i collegamenti col comando per ogni eventuale necessità. Qui una segretaria di comando accoglierà le relazioni facendo capo al Comando Militare stesso o a questo Ispettorato. Nessuna distinzione esteriore differenzierà le volontarie per categoiia all'infuori del diverso colore di un distintivo sul quale risalterà il motto «Italia»17.

Da quel momento è tutto un rincorrersi di provvedimenti, di notizie, d'avvisi che mostrano quasi un'ansia di arrivar presto a mettere finalmente in moto il progettato servizio ausiliario. Così, a seguito dell'accelerazione impressa dalla segreteria militare del P.F.R., si mobilita anzitutto l'Ispettorato nazionale dei Fasci femminili con un lungo articolo sul quotidiano di Brescia a firma dell'ispettrice che, tra le righe della cronaca, preannunzia l'emanazione di un decreto favorevole alle donne che desiderino arruolarsi e che «se già occupate», «potranno egualmente essere ammesse al Servizio e godranno dei benefici già previsti per i richiamati alle armi, sia per la conservazione del posto sia per il trattamento economico»18*. poi, ancora nell'assenza del decreto, i limiti dell'arruolamento di personale femminile e le specialità richieste sono ribaditi «a scanso di equivoci» nella rubrica «Corriere milanese» dal quotidiano lombardo del 12 aprile, nel riquadro riservato al notiziario della Federazione provinciale 19*.

Passo a passo si arriva cosi alla "sanatoria" del decreto del 18 aprile 1944. Letti in quest'ottica, la mobilitazione femminile nel febbraio‑marzo del '44 e l'istituzione del S.AF. non sono affatto iniziative isolate, ma rientrano anche cronologicamente – nelle diverse forme del volontarismo nel PFR. che caratterizzano il difficile momento politico militare: istituzione delle Squadre federali fasciste di polizia il 5 novembre 1943 20*; apertura di centri d'arruolamento di volontari presso le federazioni a fine gennaio del '44 21*; inaugurazione dei Gruppi d'azione giovanile «Onore e Combattimento» il 16 febbraio '4422 ; costituzione di «Compagnie della Morte» alla metà dello stesso febbraio23* e del Corpo ausiliario delle squadre d'azione di Camicie Nere ‑ le cosiddette Brigate Nere ‑ il 25 giugno24*. Una conferma di Ciabatti, ufficiale d'ordinanza di Ricci: «Pavolini agiva nel quadro di una progressiva militarizzazione del partito come si evidenzierà successivamente. Non mi risulta che il maresciallo Graziani abbia avuto una parte significativa nella realizzazione del progetto S.A.E»25*.

Le norme di base della vita del S.A.F. vanno ricercate, in linea di massima, nei decreti dell'aprile '44. Eccole, in sintesi. Anzitutto, il Servizio ausiliario non è un organo permanente delle forze armate, ma, per il decreto istitutivo, «ha carattere temporaneo e solo per la durata dell'attuale stato di guerra»: non viene contemplata perciò l'introduzione tout court di donne nell'Esercito, ma col provvedimento straordinario si fa fronte ad un'esigenza limitata nel tempo. In secondo luogo, sebbene le volontarie siano distaccate presso comandi dell'Esercito e della G.N.R., il S.A.F. rimane un'emanazione del partito, presso la cui Direzione è costituito il Comando generale, come più tardi lo sarà il Comando di un altro corpo ausiliario, quello delle Brigate Nere: il momento del passaggio ai comandi militari si verifica solo una volta concluso l'addestramento.

Terza caratteristica, le ausiliarie, a norma di regolamento, sono adibite a «servizi sussidiari», non operativi, nelle forze armate, e dunque ‑ sempre di norma non portano armi. Anche qui, in ogni caso, si registrano eccezioni: «Collateralmente all'attività del S.A.F.», spiega il tenente Lucrezia Pollio, «ha funzionato in via assolutamente autonoma il reparto ausiliario della Marina militare operante con il battaglione Barbarigo (Xa M.A.S.). Di questo reparto fu comandante Fede Arnaud. Questo reparto era armato»26*. E la vicecomandante generale Cesaria Pancheri scrive nel le sue memorie:

Il federale di Piacenza aveva un nucleo di ausiliarie armate e in divisa maschile. Ogni rimostranza del Comando urtava contro una muraglia di indifferenza. Fu il comando di piazza tedesco che, spontaneamente, richiamò il federale alle leggi che regolavano l'arruolamento del S.A., invitandolo a conformarsi ad esse. E allora con decisione eroica egli spedì un gruppo di queste ragazze al Centro di addestramento perché ricevessero il crisma ufficiale. Ma la disciplina che richiedeva la rinunzia della volontà e che inquadrava ogni ausiliaria nei ranghi non era fatta per l'esaltazione di adolescenti sviate da un'avventura di guerra. Ritornarono, com'erano arrivate, irregolari e scomunicate 27*.

Inoltre, con la creazione di corpi «speciali» come le «Volpi argentate», donne armate e in uniforme entrano a far parte di compagnie volontarie «al fronte» e di servizi informativi che sfuggono al controllo del partito e dei ministeri delle Forze armate e degli Interni. Come conseguenza, con circolare del giugno '44 diretta a diversi comandi federali e in particolare «Al Comando 20° Regg.to d'assalto "Volontari della Morte"»

e «Al Comando Servizi Ausiliari Femminili», il capo della segreteria militare del P.F.R., colonnello Giovanni Battista Riggio, deve richiamare l'attenzione al divieto di «arruolamento di donne per le Compagnie della Morte o per altri reparti armati» con ordine di «rientro alle proprie residenze di tutto il personale femminile eventualmente arruolato ed in servizio presso il 2° Reggimento d'Assalto 'Volontari della Morte"»28*.

Quarto punto, il Comando generale del S.A.F. ‑ nato dalla trasformazione dell'iniziale «Ispettorato di arruolamento»29* ‑ è alle dirette dipendenze del segretario del PFR., cui competono la nomina della comandante generale in accordo col ministro delle Forze armate e col comandante della G.N.R., e che solo può sanzionare le nomine disposte dalla comandante generale sino al grado di comandante provinciale. Comandante del S.A.F. ‑ con funzioni di comando equiparate al grado di generale ‑ è nominata la contessa toscana Piera Gatteschi Fondelli, amica della famiglia Pavolini e già fiduciaria del Fascio dell'Urbe. La relativa circolare «Alle Reggenti dei Gruppi Femminili e per conoscenza Ai Commissari Federali ‑ Ai Capi Provincia» è della metà di maggio, il segretario del partito vi sollecita per ogni provincia «la nomina della Comandante Provinciale» dietro «proposta della Reggente i Gruppi Femminili, d'intesa col Commissario Federale», e conclude: «Il Comando dei Servizi Ausiliari ha sede a Venezia, Cà Littoria»30*. Avviati dunque gli arruolamenti spontanei e solo in seguito delineati per legge inquadramento e compiti del S.A.F., il Partito fascista repubblicano impiega ancora un paio di mesi, tra marzo e aprile del '44, a mettere in piedi l'apparato necessario all'organizzazione dei corsi nazionali di istruzione per le allieve ausiliarie e il Comando generale. Prima tappa, le circolari del segretario nazionale del PFR. che, anticipando sempre i decreti sul S.A.F., delimitano l'ambito entro cui si muoverà il servizio preannunziato dai giornali e ne delineano certe caratteristiche. E’ il caso, ad esempio, di un dettagliato documento indirizzato da Pavolini a fine marzo «Alle Reggenti dei Gruppi Femminili del Partito Fascista Repubblicano e per conoscenza Ai Commissari Federali Ai Capi delle Provincie».

Vi si legge che «il Servizio è un'emanazione del Movimento Femminile Fascista Repubblicano», il «Partito assume la responsabilità politica degli elementi destinati al Servizio e cura gli accertamenti circa la idoneità tecnica per i lavori cui le donne saranno singolarmente destinate», «in ogni Provincia, funzionerà una Commissione composta di tre donne fasciste (che potrà essere eventualmente la stessa incaricata di esaminare le domande di adesione al Partito), la quale, per le non iscritte, raccoglierà nel modo più opportuno gli elementi di giudizio per stabilire se le aspiranti abbiano o meno i requisiti di patriottismo e di moralità indispensabili», «le camerate per i Posti Mobili di Ristoro debbono essere iscritte al Partito», «per i servizi di propaganda bisognerà fare una scelta accurata fra donne preferibilmente iscritte al Partito, di grande fede, possibilmente laureate o studentesse universitarie, o che, comunque, abbiano dimostrato speciali attitudini e cultura». Dunque connotazione politica del S.A.F.31*.

Il Comando generale si articola su quattro raggruppamenti: dei posti di ristoro; dei servizi ospedalieri;dei servizi territoriali; dei servizi contraerei; nelle province, è il Co­mando provinciale ad essere strutturato su quattro gruppi che corrispondono perfettamente ai raggruppamenti. Per la gerarchia e l'organigramma del Comando generale del S.A.F., il tenente Pol­lio ricorda «una comandante ge­nerale, vice comandante generale, comandante dei Servizi ammini­strativi, comandante Organizza­zione ed assegnazione delle ausiliarie ai reparti, comandante Ser­vizi logistici e approvvigionamenti, comandante Servizi stampa, propaganda e informazioni, comandanti dei Corsi di addestramento», nelle province «comandanti provinciali, ausiliarie scelte, ausiliarie». Sui criteri di scelta delle ausiliarie: «Le prime componenti il Comando generale furono cooptate. Alcune altre componenti provennero dai Corsi di addestramento. Tutte le comandanti provinciali, ausiliarie scelte ed ausiliarie provennero dai corsi di addestramento». Sui compiti del Comando generale:

Circa le funzioni del Comando Generale, questo provvedeva: al classificazione dei corsi nazionali di addestramento e loro pro grammi; all'esame degli elenchi delle neo‑arruolate per verificarne l'idoneità al servizio e attività che avrebbero dovuto svolgeré (non era ammessa la permanenza ai corsi e di conseguenza 1a permanenza nel S.A.F. di elementi dal cui certificato penale. risultassero condanne per reati infamanti, o di cui per comportamento e provenienza si avessero fondati motivi per considerarli elementi infiltrati); provvedeva alla nomina, trasferimento o revoca delle comandanti provinciali e delle capo reparto dei nuclei assegnati a caserme (servizi amministrativi, servizio medico‑sanitario, servizio magazzino, servizio mense, servizi di pulizia ecc.); alla scelta ed assegnazione di ausiliarie da dislocare presso i comandi militari, Presidenza del consiglio o altro ufficio di particolare rilevanza; provvedeva altresì alle assegnazioni dei gradi ed alle promozioni da un grado a quello superiore; dava disposizioni di carattere disciplinare e ne controllava, con frequenti ispezioni, l'applicazione. Inoltre, approvava ovviamente l'organizzazione e il programma dei corsi nazionali di addestramento. Nei casi di particolari atti di abnegazione o addirittura di eroismo, provvedeva alla segnalazione del nominativo e richiesta della correlativa menzione speciale o decorazione. Infine, la comandante generale partecipava alle riunioni dei comandi militari per questioni attinenti alla situazione generale o a particolari interventi32*.

Munito di propria uniforme, distintivi33* e «funzioni di comando» (trasformate peraltro subito in gradi), il Servizio ausiliario è dunque costituito in tutto e per tutto ‑ salvo l'armamento ‑ sul modello dei reparti maschili, tanto negli uffici e servizi, quanto nell'inquadramento e nella disciplina: «le ausiliarie erano considerate praticamente come soldati, con soggezione al codice militare, con un libretto militare, con i vari gradi», tiene a specificare la vicecomandante Pancheri34*. Dal mese di maggio del '44 il Comando generale di Venezia dà il via ai corsi di addestramento delle allieve ausiliarie del partito con il coordinamento fra Ispettorato nazionale dei Gruppi fascisti repubblicani femminili ‑ ministero delle Forze armate ‑ Comando generale del S.A.F., come ricostruisce Fulvia Giuliani:

La Direzione del Partito prese dunque gli accordi col Ministero della Guerra e stabilì ben presto, con decreto 19 aprile '44, il primo corso Nazionale «Italia» per Comandanti Prov. e Uff. Ausiliarie. Vi potevano essere accolte donne in possesso di un Diploma di Scuola media superiore. Il corso ebbe inizio a Venezia il 1 maggio. Ad esso vennero ammesse a partecipare con un diploma di scuola media inferiore anche un piccolo gruppo di ragazze che, non avendo il titolo di studio richiesto, tanto supplicarono e tanto insistettero che vennero accolte e ne uscirono poi col grado di sott'ufficiale, ma l'episodio restò sporadico ed eccezionale. Seguirono al I Corso Nazionale altri tre corsi: il «Roma», «Brigate Nere» e «Giovinezza»; questi ultimi successivamente, insieme al Comando Generale, si trasferirono a Como. Contemporaneamente ai corsi nazionali, si aprirono gli arruolamenti che, come si disse, videro accorrere al richiamo veramente il fiore della gioventù femminile dell’Alta Italia. Gli arruolamenti si accettavano a seconda del titolo di studio, delle capacità professionali o tecniche delle presentate: si ebbero così le telegrafiste, le telefoniste, le addette stampa, le infermiere (queste ultime seguirono corsi di perfezionamento organizzati in accordo con la Croce Rossa) vi furono le addette alle cucine, ai servizi di caserma, le scritturali ecc. ecc. Contemporaneamente la G.I.L., per le proprie iscritte di età inferiore ai ventun anni, preparava dei Corsi di Ausiliarie anche essi assai affollati. In breve tempo, con una precisione che ebbe del miracoloso, tutto un complesso servizio, che per la delicatezza e l'importanza stessa che assumeva, richiedeva personale provato esperto e selezionato moralmente e fisicamente, fu in condizione di iniziare a fianco dei combattenti la decisiva battaglia nel nome d'Italia. Già dal marzo 1944 si era costituito presso i Comando X Flottiglia M.AS. i Servizio Ausiliario Femminile «Decima» destinato a restare, per il suo programma qualitativo e non quantitativo, un corpo scelto35*.

Un aspetto non secondario dei corsi è il criterio di scelta delle comandanti: si tratta in genere di personale femminile già sperimentato nei programmi di istruzione dell'Opera Balilla e della Gioventù Italiana del Littorio mentre altro personale è tratto dai quadri delle fiduciarie provinciali dei Gruppi fascisti repubblicani femminili. Il 27 luglio '44 la comandante generale Piera Gatteschi sottopone a Mussolini una relazione che ‑ tra i consueti accenti retorici ‑ tira le somme dei primi tre mesi d'attività del Comando generale di Venezia. Vi registra la conclusione di «due corsi di addestramento a Venezia (di cui uno in atto) per 416 ausiliarie», due corsi dell'Opera Balilla a Noventa Vicentina e a Castiglione Olona «per 600 ausiliarie», per un totale di «1.016 ausiliarie, di cui 481 già in servizio presso i Comandi militari ed i Posti di Ristoro e 535 in via di ultimare l'addestramento». Annunzia infine che «un nuovo Centro di Addestramento sarà costituito a Como» e dà le cifre del reclutamento nel servizio: «domande di arruolamento (fino al 31.5.44) n. 5.771. Addestrate nei vari centri 481. In addestramento 526. In servizio (provenienti dai Centri di Addestramento) 481. In servizio precedentemente al d. 18.4.44 e destinate ad essere inquadrate 202»36*.

Verso la metà di settembre il Comando generale del S.A F. del partito viene trasferito a Como. «La scelta», ricorda la vicecomandante Pancheri, «è stata dovuta all'andar via da Venezia, e per la vicinanza di Corno a Milano ed al Garda, ove si muovevano il partito ed il governo: a Milano c'era Pavolini, a Gargnano c'era Mussolini, quindi era più facile l'accesso alle autorità. Forse ha contribuito anche una maggior sicurezza dai bombardamenti»37*. Precisa il tenente Pollio come «progredendo l'occupazione alleata e temendosi uno sbarco contemporaneamente sulla costa dalmata ed a Chioggia, il Comando generale venne trasferito a Como e fissò il proprio accantonamento in via Zezio 6 presso un istituto di suore. Gli uffici del Comando generale furono invece organizzati in una villetta del lungolago»38*.

Il 28 ottobre, nel ventiduesimo annuale della marcia su Roma, in un nuovo rapporto a Mussolini la comandante generale dà il polso della situazione dopo l'apertura del centro lariano d'addestramento e l'avvio delle istruite alle zone d'impiego: vi sarebbero «5.500 volontarie in addestramento» ormai «pronte a giurare, nel nome dell'Italia, fedeltà alla Repubblica», mentre la forza conterebbe «Ausiliarie in servizio nell'esercito, nella G.NR. e Brigate Nere n° 1.237. Corsi di addestramento n° 6. Volontarie in addestramento n° 5.550. Corsi provinciali di addestramento n° 22»39*. Agli inizi del '45, gli orga nici s'ampliano a tal punto che l'accantonamento di via Zezio si rivela insufficiente alle attività del Comando generale, e la comandante Gatteschi reclama presso il capo della provincia maggior disponibilità di locali40*: segue il distaccamento di parte degli uffici in una palazzina di via Dante41*. Così la vita del Comando generale finisce con l'intersecarsi con quella della città di Como, tanto più in quanto le ausiliarie compaiono alle cerimonie ufficiali e alla presenza della popolazione comasca giurano fedeltà alla R.S.I. alla fine d'ogni corso, ricevendo i simboli del volontarismo: le fiamme di combattimento e i gladi da bavero. Lultima cerimonia coincide con il primo annuale del servizio, come ricorda Cesaria Pancheri:

Il 18 aprile 1945, anniversario del Centro, [Pavolini] venne a presenziare al giuramento del corso, vi era un senso di inquietudine per l'iniziata offensiva angloamericana. La speranza crollava nei cuori. I bollettini di guerra dal fronte germanico mascheravano male la tragica situazione. Pur nella certezza del disastro, una punta di umorismo scaturiva dalla riflessione. Una propaganda assurda continuava a proclamare la certezza nella vittoria. Grandi manifesti tappezzavano i muri ed un orologio gigantesco segnava l'ora «X». Ormai sapevamo che era la nostra ora, quella che sarebbe, scoccata. Molti ancora attendevano non so quale miracolo. Per il 18 aprile le città della repub blica videro anche i nostri manifesti fiorire sui muri delle case. Raffiguravano tre ausiliarie Croce Rossa, Esercito, Brigate Nere. Nel manifesto, forse per,caso, il disegnatore aveva dato al volto delle tre ragazze un non so che di tragico, come se su esse incombesse un senso di angosciosa attesa. Non era più l'ausiliaria ridente, che nel manifesto > dell'anno prima agitava una bandiera, come una promessa. Ora, le tre volontarie sembravano offrirsi ad un destino di sconfitta. Il Comando era infesta. Al mattino il vescovo di Como aveva celebrato la Messa da campo in un silenzio commosso,rotto dagli squilli del trombettiere. Pavolini venne per il giuramento Quando appuntò i gradi sulla,divisa, vidi che aveva gli occhi pieni di lagrime. Parlò alle ragazze, aveva scritto anche un articolo per il nostro giornale. Visitò l'accantonamento e gli uffici. Davanti agli schedari sostò un attimo e disse piano: «Bruci,tutto». La visita continuò,ma il senso della fine ingigantiva Ricevette le autorità politiche fino all'ora del rancio. C'erano Gray Porta e molti ufficiali. [ ... 1 Dopo il rancio partì per la Valtellina e disse di telefonare il comunicato stampa della cerimonia alla sua segretaria. Poche ore dopo telefonò dalla Valtellina di sospendere la pubblicazione. Evidentemente riteneva che fosse meglio non richiamare l'attenzione sul S.A. I tempi stringevano42*.

La fine per il Comando generale del S.AF. arriva la notte del 25 aprile 1945, tornate a Como la comandante Piera Gatteschi e la vicecomandante Cesaria Pancheri da Milano, dove hanno incontrato Mussolini nel cortile della sede del partito al momento in cui sta per recarsi in arcivescovado per il colloquio con i membri del C.L.N.A.I.: «salutò la comandante con una stretta di mano, ebbe un sorriso stanco, disse: "Come state?"», scrive la Pancheri. Tenute all'oscuro delle decisioni sul ripiegamento prese dal Direttorio nazionale del PFR. il 3 aprile '45 per disposizione di Pavolini, secondo il quale includendo le dirigenti femminili «si snaturerebbe un poco la fisionomia schiettamente politica del Direttorio»43*, le comandanti devono seguire quanto detta loro il buonsenso. Radunano le ausiliarie ancora in sede per le assegnazioni di denaro disposte dal partito nel caso di disfatta (le famose «sei mensilità anticipate», distribuite ad alcuni reparti dall'amministratore del PFR. Stefano Burnelli) e per l'ultimosaluto alla bandiera
Arrivammo a Como. Il federale Porta non pensava più alla possibilità di un arrivo isolato. La comandante chiese un corpo di guardia da distaccare all'accantonamento per la notte. C'erano ormai poche ausiliarie, ma era opportuno prendere precauzioni anche eccessive. Non sembrava possibile che tutto dovesse sparire inghiottito da un caos fatto di terrore e di vuoto. Il tragico consisteva nel non sapere cosa fare. Alla Federazione bruciavano tutti gli incartamenti. La comandante diede disposizioni perché ogni ausiliaria ancora presente avesse un'assegnazione di viveri e gli assegni mensili. Tutte o quasi affermavano di aver trovato un alloggio provvisorio. Del resto anche noi eravamo allo sbaraglio; a nessuno avremmo osato chiedere ospitalità. Forse rimaneva un residuo di speranza, un istinto portava a credere ancora negli uomini che avevano condotto la guerra e retto le sorti della repubblica. La ragione però era senza illusioni, aveva la lucida percezione della fine. Era notte quando in bicicletta arrivarono l'autista e il milite. Erano sfuqgiti per miracolo alla cattura, erano stati picchiati, avevano dovuto abbandonare la macchina per un guasto. Nel cortile ci fu l'ultima adunata. Un'ausiliaria reggeva la bandiera del corpo, la comandante parlò senza illusioni, risuonò nel cortile semivuoto il saluto «Italia Italia Italia»44*.

Poi per ogni ausiliaria la storia dello scioglimento del S.A.F. si trasforma in vicenda individuale, non senza le uccisioni sommarie che sempre la fine di una guerra civile comporta, e le violenze gratuite che invece nessuna guerra giustifica.








PREGHIERA DELL'AUSILIARIA

Signore del Cielo e della Terra,
accogli l'umile, ardente preghiera
di noi, donne italiane,
che sopra gli affetti più cari,
poniamo Te, o Signore, e la Patria.
Benedici le nostre case lontane,
benedici il lavoro delle nostre giornate,
accogli, come offerta di redenzione
per la Patria tradita,
il sangue degli eroi, dei martiri,
il pianto delle madri private dei figli
il singhiozzante grido dei bimbi
privati delle madri
per la ferocia nemica.
Fa, o Signore, che la resurrezione
della Patria sia vicina,
concedi la vittoria.
Benedici sul mare d'Italia,
sulle terre insanguinate ed oppresse,
su tutti i cieli, la bandiera repubblicana,
libera, potente, sicura.
Benedici i nostri morti in noi sempre vivi,
che levano verso Te, su in alto,
la bandiera d'Italia,
che mai sarà ammainata.
Conservaci il Duce.
Benedici.














NOTE

1 Il Consiglio dei Ministri, in: «Corriere della Sera» [Milano] LXIX, giovedì 20 aprite 1944‑XXII,n. 95.
2 importanti deliberazioni del consiglio dei ministri […] istituzione delle consulte comunali elettive e del servizio ausiliario femminile, in la “Stampa” [Torino] LXXXVIII, giovedì 20 aprile 1944-XXII, n.111.
3 «Gazzetta Ufficiale» [Brescia], LXXXIV, martedì 1 agosto 1944-XXII, n. 178. Decreto legislativo del Duce 18 aprile 1944‑XXII, n. 447. istituzione del servizio ausiliario femminile, e: Decreto legislativo dei Duce 19 aprile 1944‑XXII, n. 448. Approvazione dei regolamento dei servizio ausiliario femminile.
4 Testimonianza all'autore di Anna Maria Bardia (n. Tripoli 1919), Torino, 3 aprile 1994.
5 Archivio privato Cesaria Pancheri (Trento). Memoria sul S.A.F., ora in: M. Viganò, Donne in grigioverde. Il Comando generale del Servizio ausiliario femminile della Repubblica Sociale Italiana nei documenti e nelle testimonianze (VenezialComo 1944~1945), Roma, Settimo Sigillo, 1995, pp. 107‑214, qui p. 154.
6 M. Pavignano, Ausiliarie in marcia, in: «Sveglia! Bisettimanale per i soldati italiani e le loro famiglie» [Milano] 1, 3 dicembre. 1944‑XX1111, n. 53.
7 Reclutamento di donne alla Federazione del P.F.R., in: «Corriere della Sera» [Milano] LXIX, mercoledì 9 febbraio 1944‑XXii, n. 34.
8 Le donne per la riscossa nazionale. Un reparto ausiliario di universitarie e operaie. Un gruppo di volontarie aggregato alla Confinaria e cinque squadre per l'assistenza in linea, in: «La Stampa» [Torino] LXV111, domenica 13 febbraio 1944‑XXII, n. 44
9 Donne italiane, in; «Il Gazzettino» [Venezia] LVII, mercoledì 11 marzo 1944~XXll, n. 52.
10 Gioventù nostra, in: Al Gazzettino» [Venezia] LVII, domenica 5 marzo 1944‑XXII, n. 56
11 Testimonianza all'autore di Dante Gabatti (n. Grosseto 14/6/1922 m. Grosseto 17/12/1995), Grosseto, 17 maggio 1994.
12 Archivio privato Carlo Panzarasa (Magliaso Ticino). Fede Arnaud, Il Servizio ausiliario femminile Decima, registrazione del 2 settembre 1985.
13 La prima riunione del Direttorio del Partito. Sei mesi di ricostruzione. Cameratesco saluto ai soldati di Hitler che combattono in Italia. Le fasi della rinascita, in: «Corriere della Sera» [Mìiano] LXIX, domenica 5 marzo 1944XXII, n. 56.
14 Archivio centrale dello Stato, fondo R51, Segreteria particolare del duce, carteggio riservato, b, 38 f. 341. Costituzione Corpo Ausiliario Femminile ltalia, 10.3,44, siglato «M» per presa visione da parte di Mussolini
15 Le donne per la riscossa della Patria. Un Corpo ausiliario femminile nell'Esercito repubblicano, in: «Corriere della Sera» [Milano] LXIX, venerdì 10 marzo 1944‑XXII, n. 6Q <>