sabato 29 settembre 2007


Da Area Novembre 2002



A sessant’anni da El Alamein, l’Italia onora i suoi caduti
A volte il deserto è un posto bellissimo


Sono trascorsi sessant’anni da quell’epico scontro. Solo oggi, finalmente, la Patria che tanti soldati onorarono si ricorda degnamente di loro, contrariamente ai nemici di un tempo che subito riconobbero il valore degli avversari



di
Marco Cimmino

El Alamein, le due bandiere: chissà quale oscuro episodio della complessa e caleidoscopica storia egiziana determinò questo toponimo, che indica sabbia e sassi e (antica tomba di uno sceicco, a breve distanza da un mare tanto azzurro che si confonde col cielo, in mezzo ad un deserto di sabbia, sassi e rocce lisciate dal vento?
E chissà cosa pensarono i primi, sparuti, reparti d'avanguardia dell'annata italo‑tedesca, quando, in quella torrida estate del 1947, giunsero in vista della grande depressione di Qattara, ubriachi di pista e di ghibli, e di vittoria e di frenesia dell'inseguimento?
Pensarono, forse, al miraggio vicino, eppure lontanissimo, del Delta, di Alessandria, nella cui rada sonnecchiavano come leviatani le corazzate di Cunningham, indenni ancora della pugnalata ardita di Durand de la Penne. O forse pensa rotto al miracolo di Rommel, che dalla Cirenaica pietrosa h aveva catapultati a Tobruk e oltre, avanti ancora, avanti. Oppure, più probabilmente, mentre si ripulivano gli occhialoni e si levavano i caschi incoronati di sudore e polvere ingrommata, non pensarono a nulla di epico: tanti compagni, tra loro, erano solo ombre evanescenti, che li avevano accompagnati, dopo aver lasciato i corpi martoriati, troppo grevi ed ingombranti per una cavalcata così sfrenata, nelle buche scavate a lato delle piste, a Bir el Gobi, a Fuka, lungo la Balbia bollente.
Si accesero una "Macedonia" o una "Jno”' e aspirarono il forte tabacco turco a lente boccate, guardando l'orizzonte segnato di polvere e di fumo: (Ottava armata scappava, lasciandosi alle spalle cadaveri di uomini e carri, tanti, tanti carri.
I soldati, forse, potevano credere che fosse fatta: che il nemico fosse battuto e che la vittoria (l'immancabile vittoria) fosse lì, a portata di mano, pronta ad essere colta, in un tripudio di baionette e di spade dell'Islam. Ma Rommel e i più avvertiti tra i comandanti, sapevano benissimo che il leone era solo ferito; e, perciò, era tanto più pericoloso. Bisognava fare in fretta: andare avanti con quello che c'era; con i brandelli di divisioni, con gli avanzi dì reggimenti: avanti, prima che Montgomery radunasse il suo immenso potenziale di riserva, avanti, con quel poco che riusciva a passare il canale di Sicilia, sotto il martello implacabile degli aerei che decollavano da Malta e dei 381 delle navi da battaglia.
Così, l'Asse tentò il balzo, ma fu balzo zoppo: i carri tedeschi s'impastoiamo no in nuovi campi minati, non segnati sulle carte, i bersaglieri non potevano correre più delle camionette del Desert long Range; sfiatati, come un pugile che ha dato l'ultimo pugno, italiani e tede­schi passarono alla difensiva, e attesero il colpo.
Venne il colpo, e fu colpo terribile: il maresciallo, segaligno e miserello di cor­po e d'anima, aveva un diabolico talento nel radunare forze imponenti e scatenarle contro un nemico quattro, dieci, venticin­que volte inferiore per numero e mezzi.
Di nuovo le due bandiere sventola­rono a venti di battaglia, e il mondo imparò un nome che sarebbe stato desti­nato a restare nella storia e, per alcuni, nella leggenda: El Alamein.
Sotto l'uragano delle artiglierie, a nord, a sud, lungo la palificata, nella grande depressione e ai suoi bordi, avanzarono gli indiani, gli Anzacs, i Cameronians l'Impero di Sua Maestà Britamtica rovesciava sulle deboli trin­cee dell'Asse tutto il sangue delle sue molteplici vene. E dalle acciaierie di Sheffield, dai magli di Liverpool, sferra­gliavano sui sassi e sui magri reticolati i Matilda e i Centurrion, e i Grant, deformi e poderosi, figli di altre acciaierie,che ave­vano passato l’oceano stivati nei cargo a stelle e strisce.
Era un’ondata di ferro e dì fuoco, lenta e sicura della propria potenza: di là aspettavano nei centri di fuoco devastati, nelle buche spianate, nei carri da tredici tonnellate con la targa "RE", i figli migliori d'Italia, spalla a spalla con i gra­natieri corazzati ed i fanti leggeri dell'A­frika Korps. Alcuni avevano vent'anni, e la camicia strappata, con le mostrine sbiadite della Trieste, della Folgore, dell'Ariete, della Brescia; altri avevano già visto albe di morte e di battaglia, nelle trincee di Plava e del Podgora: morirono insieme, tutti giovani, per l'eternità. Pri­vilegio che tocca solo agli eroi.
Vennero i carri, e furono respinti.
Tornarono, e di nuovo furono respinti.
Ma ne venivano sempre: parevano infiniti scarafaggi vomitati dal deserto; e i reparti venivano liquefatti, come ghiac­cio su di una lama arroventata: svaniva­no le compagnie e i battaglioni.
Ottobre declinava, e la battaglia grande continuava ad ardere: si sacrifi­carono le divisioni esauste, i brandelli della vecchia Sabratha, di cui non si parla mai, i genieri guastatori, gli artiglieri da 152, che sparavano a zero come con dei settantacinque. Un po' alla volta, la marea sommerse le linee e gli uomini, che, ormai, erano poco più che fantasmi allucinati, ma una voce passava tra i reparti esausti: la Folgore non rolla!
Nelle buche, nei fortini di sabbia, i paracadutisti, trasformati in fanti d'arresto, combattevano
ancora, invitti, invincibili: lan­ciavano bottiglie incendiarie, con­trassaltavano con le bombe a mano, balzava­no veloci, per ritirarsi indenni. E lì, dove c'ero la Folgore, il mare­sciallo non pas­sò: non gli basta­rono i carri for­giati a Sheffield, non tu sufficien­te dominare il cielo, la terra ed il mare. Lì, dove c'era la Folgore, non c'erano tedeschi per fornire una giustifi­cazione alla boria di Monty di fronte alla battuta d'arresto: erano tutti italiani quelli che si piantarono davanti all'ar­mata inglese e proclamarono, come gli alpini del Pasubio, come i fanti del Piave: «Di qui non si passa!».
Poi, finirono le munizioni, finì la ben­zina, finirono gli uomini; inevitabilmen­te, finì anche la battaglia grande.
Dal novembre 1942 al maggio del 1943 fu storia di ritirate e, talvolta, di fughe; storia di resistenze disperate e di vergognose rese: Kasserine, Enfidaville... i resti delle troppe africane, i reduci di El Alamein, lasciarono l'Africa, mentre la guerra volgeva al suo epilogo inevitabile.
Restarono di guardia gli spettri, lag­giù, alle Due bandiere, nel deserto nero di rottami. Guardavano ancora verso Alessandria, dritti nel vento che viene dalla Siria, col piumetto scosso dalle fola­te, con la fiamma folgorina di nuovo lucente, come alla scuola lanci, in Italia.
Uno tornò, uno dei migliori, dei "veci", si chiamava Sillavengo, ed era tenente colonnello di quel 31° Guastatori d'Africa, che gareggiò con la Folgore in valore, combattendole accanto: lo accom­pagnava un altro alpino africano e, insie­me, cominciarono a girare per il deserto. Girarono per quasi vent'anni, e raccolsero ossa tra le mine, crearono un bellissi­mo cimitero, scavarono e guidarono scrissero e meditarono, in mezzo a quel silenzio fragoroso, pieno di nobiltà e di memorie. Poi, Sillavengo, eh, era ingegnere, e dei migliori progettò un sacra­rio: nacque "Quota 33', che ebbe la sua bandiera e, faticosamente, il proprio rico­noscimento. Le due bandiere sventolavano ancora, stracciate e scolorite, ma sem­pre orgogliose.
Dieci anni fa, Sillavengo morì, dopo una vita piena di dignità e di coraggio, ignorato dai più, pianto da chi lo cono­sceva e ne conosceva la grandezza dì uomo e di italiano.
Oggi, la figlia di Sillavengo, Anna, è la curatrice, a Milano, la sua città, di una bella mostra su El Alamein, con tanto materiale del padre, che fu, senz’altro, il più esperto conoscitore di ogni piega di quella battaglia eroica e sfortunata. E, naturalmente, non sono mancate le vìlissime polemiche, che non meritano altra, risposta che quella della nobildonna: “Sono dei cretini!”, Credo sia esattamen­te quello che avrebbe commentato suo padre, stringendo con aria ironia la pipetta tra i denti, col suo cappello alpino stazzonato e pieno di "pacche” : sono dei cretini, e basta.
A dieci armi dalla sua morte, Paolo Caccia Dominioni di Sillavengo è stato decorato di Medaglia d'oro al valor mili­tare: si tratta di una medaglia del tutto meritata, che onora la memoria di un uomo valoroso, nelle opere di guerra come ìn quelle di pace.
Ma mi piace pensare che questa medaglia Sillavengo se la porterà die­tro, alla sua "Quota 33", in mezzo a tutti quei vecchi amici: si siederà con aria scanzonata su di un muretto bianco di calce e d'acqua di mare e la tirerà fuori dalla tasca, in mezzo ad un cappannello di bersaglieri e di arti­glieri, di fanti e di paracadutisti, di genieri e di carristi, allegri ed irriden­ti: guardate un po' qua, figlioli...
A volte, il deserto è un posto bel­lissimo.



Quando i ragazzini del collegio salesiano di Ismailia cercarono di raggiungere El Alamein
I ragazzi della via Negrelli



II 10 giugno 1940 nell'oasi d'Ismailia, dopo due anni di ginnasiale paramilitare al "Littorio" di Alessandria, ricostituivamo la banda del collegio salesiano. I nostri genitori, i nonni, gli zii e t 'fratelli maggiori erano stati rinchiusi dietro i reticolati d'internamento nel deserto "inglese". E noi sognammo di liberarli tutti”


di Aldo De Quarto

Batte forte il cuore, riandando col pensiero in quel Canale di Suez che ci vide un glomo, tra il 1925 e il1930, nella cittadina nevralgica di Ismailia, bagnata dal lago Timsah perla verdeggiante per mano italia­na, e tutto intorno il deserto nilotico e sinai­tico, separati dalla chiusura lampo di de Lesseps. Oggi, dopo tanti ghibli e hamsin che ci hanno scarpigliato imbiancando le nostre tempie, non dimentichiamo che, quando aprimmo gli occhi al sole africano, oltre il seno matemo intravedemmo i ritratti di un nonno e di un padre in uniforme. Sin da quando leggevamo il Corriere dei Piccoli, prima di passare allo stadio più avventuroso con L'Intrepido, Cino e Franco, La pattuglia dell’avorio, Il deserto del Balilla, nel nostro villino ‑ come in tante altre dimore italiane – C’era l'alza­bandiera Tricolore. “Me ne andavo una mattina a spigolare, quando vidi una barca in mezzo al mare / una barca che andava,, motore e innalzava una bandie­ra tricolore”... La poesia risorgimentale ci accompagnava poi nelle corse in bici a salutare le navi tricolori nel Canale. Corse che diventeranno quotidiane, quando gli stessi Salesiani della scuola "Luigi NegrelIï' c’inquadravano per incoraggia­re i soldati sulle navi, due cantavano lo ti saluto vado in Abissinia. El Alamein ‑ per noi "ragazzi della via Negrellï", l'arteria principale d'Ismailia ‑ era cominciata e non lo sapevamo ancora.
10 Giugno 1940
Come eredi dei "ragazzi della via Paal", noialtri della "via Negrellï" ‑ come quelli di "Campo Cesare" ad Alessandria d'Egitto, rafforzati poi dai "ragazzi del Collegio Littorio" ‑, anche se con diversa dimensione, in un Egitto dalle tante nazionalità, fraternizzavamo con i piccoli fellaim, e i figli del masri effèndi che amava­no el aulad tuliani... i ragazzi italiani che parlavano, leggevano e scrivevano la loro lingua araba, senza complessi e con spon­taneità amichevole... ragazzi scalzi e abbronzati, a differenza dei bianchicci british boys o enfants des Frères, che non sapevano nemmeno chi era Gavroche.
L'orologio del sogno squillò alle venti
del 10 giugno 1940. Rientrato di poche settimane nell'oasi d'Ismailia, dopo due anni di ginnasiale paramilitare al "Litto­rio' di Alessandria, si ricostituiva la ban­da dei "ragazzi di via Negrellï" privi di padri, zii, nonni e fratelli maggiori, tutti rinchiusi dietro ì reticolati d'intemamento nel deserto circostante. Dai 18 ai 78 anni all the ltalians in the prisoner's camps Mo­ascar, Geneifa, Fayed, Ansari. I più anziani ancora, negli ospedali e negli istituti scolastici italiani, requisiti rnanu militari sotto lo sguardo impotente dell'esercito egizia­no, amico nostro, quello stesso che poi sfornerà i Nasser, Sadat e Mubarak. II mio orologio segnava: anni tredici. Sento ancora la voce ferma di mio nonno, dei miei zii e di mio padre; “Da adesso, siete gli uomini della famiglia”.
Reticolati nel deserto
L'Italia è in guerra, e la guerra è vicinissi­ma a noi che siamo in territorio nemico. Non ci avevamo mai pensato: da tre, quattro generazioni eravamo di casa da quelle parti. Il deserto era diventa­to verdeggiante gra­zie alla stirpe cala­bra dei Tirioli, l'ulti­mo dei quali, Nicola, mio nonno materno, era stato "disgra­ziatamente”, segretario del Fascio, oltre ad essere Cavaliere del Regno d'Italia e Gran Croce dell'Ordine del Nilo. Lo conoscevamo bene, quel deserto.
Illusioni e realtà
Questo il contesto nel quale i "ragazzi di via Negrelti" si accingevano ad affron­tare una vita di adulti precoci.
Una mattina, Lidia e Liliana, rosse d'emozione, ci dissero :”C'è un treno pie­no di nostri soldati con il 2 fez rosso; sono malconci e hanno fame!”. La banda parti­va per la sua prima azione contro una barriera che recava la scritta: Bewarre, do not approach! War prisoners! Raccolti pane, formaggio e frutta, in tre riuscivamo a raggiungere il binario cercando di distri­buire tutto ai primi prigionieri che vedevamo sorridenti, sebbene stremati, fre­gandocene delle sentinelle british, baionetta in canna, che strepitavano minaccio­se e incredule get out! Non avemmo nem­meno il tempo di udire il grido d'allarme di mia madre, che il calcio del fucile di un highlander per poco non ci spezzava la spina dorsale mentre i bersaglieri si getta­vano dal treno sui soldati di Sua maestà britannica. Comunque, noi ragazzi ne uscimmo indenni dietro le dune di Tell­-el‑Kebir, che conoscevamo meglio del nemico.
Ma, più che il dolore fisico, fu quello morale. Quei prigionieri non erano che l'avanguardia che aveva occupato Sidi el Barravi, Bug Bug, El Maktila, Alam el Nibewuia, dove cadde il generale Malelti in una lotta corpo a corpo. Nomi di sangue, ore tragiche, che segnarono incredibilmente per noi – che nottetempo clandestinamente il bollettino dell’Eiar - Io sfacelo dell'amata di Graziani, il leone di Neghelli, il nostro idolo del 1935. Idolo infranto dall'inettitudine dei capi riusciti a coprire di umiliazione 40.000 italiani che non lo meritavano e che, in altre mani, avrebbero onorevol­mente affrontato la loro odissea.
Tra beffe e sogni
I "ragazzi di via Negrelli" non imma­ginavano nemmeno il numero dei caduti che giacevano sotto quelle sabbie egizie, allineati come in parata, ma orizzontalmente, non lontano dalle due divisioni libiche distrutte e dal raggruppamento Maletti. Sarebbe, inoltre, stata una stonatura parlare di rovesci nella felice euforia della gioventù spensierata, anche in faccia ad una realtà difficile a capire. Ma il tem­po correva veloce nel mondo dei ragazzi che si ritrovarono, improvvisamene, immersi nel calendario 1942, ormai quin­dicenni.
I due primi anni di guerra, in Africa settentrionale, registravano quattro flussi di mille e più chilometri ciascuno. Vittoria di O'Connor su Graziani, rivincita di Rommel su Wavell e O'Connor, sconfitta di Rommel su Auchinleck e Ritchie e la riconquista di Derna, Tobruk e Morsa Matruh. Durante questo tempo difficile, per noi ragazzi restava un'altra sfida: entrare come talpe nel campo di concen­tramento di padri, zii, fratelli maggiori e cugini: li violammo ripetutamente, bef­fando gli inglesi, i greci e i ciprioti, quand'erano loro di guardia sulle garrite, ma usufruendo del cavalleresco "chiudo un occhio' degli scozzesi e degli egiziani accampati nei dintorni.
Quell'alt a 111 chilometri
Finalmente, all'alba di uno di quei giorni felici, il tam tam arabo ci faceva sapere, prima ancora di Radio Roma, che il 7° bersaglieri aveva raggiunto il fatidico "chilometro 111" da Alessandria, sotto un fuoco tenace degli inglesi, in disordinata ritirata. Un balzo ancora dì poche centinaia di chilometri, verso il Cairo e il Canale di Suez, e i piumati sarebbero stati accolti da migliaia di bandierine tricolori, che le donne egiziane e italiane avevano cucito durante i combattimenti tra Tobruk e Marsa Matrut tale era la fervente atesa, degli arabi per i liberatori italiani. I pri­missimi caduti, alle porte della città di Cesare e Cleopatra, erano due bersaglieri: Giovanni Pasquazzo ed Emesto Droghi, le prime due croci lungo la Litoranea egi­zia, prolungamento della Balbia libica. Rommel, come al solito, non era lontano dalle punte avanzate e, probabilmente, pensò che si trattava di un osso duro. For­se avrebbe potuto andare oltre, tralasciando El Alamein, che sarebbe poi caduta da sola. Forse, il momento propizio era pas­sato. Tutto ciò lo sapemmo dopo. E nostro angosciato interrogativo era uno solo, semplicistico come può essere quello di un quindicenne: .”.Ma perché si sono fermati? Aspettano il grosso dei mezzi corazzati?”.
Non avevamo preso in considerazio­ne che gli inglesi avevano alle spalle vasti serbatoi di forza - Egitto, Siria e Palestina­ con uomini di tutto il Commonwealth, mezzi e carburante, che non cessavano di affluire via aerea e via mare. I nostri ave­vano alle spalle un deserto vuoto e lungo duemila chilometri sino a Tripoli, dove, purtroppo, di carburante proveniente dall'Italia ce n’ era ben poco. Due altriinterrogativi ci arrovellavano: perché non fare appello agli uomini della Decima Mas per far saltare tutti i ponti sul Nilo, come distrussero ad Alessandria le due corazzate inglesi? E perché i paracadutisti della Folgore e della Ramcke, invece di espugnare Malta dal cielo, erano stati mandati a morire nella sabbia?

Sui passi degli Ascari
Intanto, nei dintorni d'Ismailia., il tam‑tam arabo diceva che una dozzi­na di ascari libici erano evasi dal loro campo di prigionia, per una dispe­rata fuga verso El Ala­mein. Erano stati catturati il 10 dicembre 1940, a Sidi El Barrani, dopo la distru­zione delle due divisarmi libiche. Durante due anni. erano stati maltrattati e sottomessi a pressione affinché si arruolassero nelle forze coloniali ingle­si. Ma quasi tutti non cedettero, pensando solo a evadere per passare le linee. Tre di essi riusciranno a raggiungere la depressione di Quat­tara e un caposaldo dei IV Folgore. L’a­scaro che li aveva guidati si chiamava Ahmed Grithia, tripolino, sergente del III°m batt. libico dei tiratori scelti, medaglia d'argento, croce al valor militare.
E se noi "ragazzi di via Negrelli", con alcuni compagni del Cairo, avessimo fat­to lo stesso? Raggiungere i "nostri" e con loro ritornare al Cairo e sul Canale per liberare padri, nonni, zii e fratelli maggiori? Un sogno pieno di brividi, malgrado il possesso di una cartina militare britanni­ca, scoperta in un baule il cui contenuto mi rivelò le segrete missioni paterne. Somigliavamo, bruni e abbronzati di natura, a dei giovani egiziani. Potevamo mangiare e parlare come loro... Deci­demmo di tentare. Lascio le peripezie per un eventuale libro e vengo al sodo. Giunti ad Alessandria e ridotti a cinque, mischia­ti in un treno popolare con migliaia di barracani e galabieh avemmo la pessima idea di nasconderci nel cimitero cattolico di Chatby, adiacente al nostro Collegio Littorio, chiuso da tre anni. La notte e l’orizzonte rosso di bagliori di fuoco, ci fece capire che la battaglia d'ottobre infuriava a El Alamein. Troppo tardi per i ragazzi in uniforme beduina, scoperti e traditi dai
custodi, non più italini , del cimitero, dal­le cui grinfie riuscimmo a sfuggire (alla Gil, la Gioventù italiana del Littorio all'e­stero, oltre la mente, avevamo sportiva­mente coltivato il corpo). Rientrati inden­ni al Cairo, nessuno badò a noi, a parte mia madre, appena liberata dalla “prigio­ne per donne italiane”, dove sì trovava per non aver mai voluto rivelare il nome di colui che trasmetteva i suoi messaggi al consorte internato: iI fedele amico, allo­ra capitano della polizia egiziana, Ali Abdalla, che poi si unirà agli ufficiali libe­ri di Nasser., senza mai privarci della sua amicizia.
Dieci anni dopo, nel i 1952, i "ragazzï” dispersi e separati dalle circostanze ‑ chi mi leggerà, tra le migliaia di coetanei connazionali d'Egitto, residenti in Italia, ricorderà ‑ il ritorno a El Alamein, laddo­ve un certo Caccia Dominioni tornava tra le mine a rischio della propria vita e della sua èquìpe, per ritrovare migliaia di resti grigioverdi che il deserto è sempre avaro nel restituire. Fui anch'io di questa partita., armato della sola "Lettera 32", la mia mac­china da scrivere. Molti dei "ragazzi della via Negrelli" si trasformeranno anch'essi in pellegrini di quella Quota 33 ‑ El Alamein, ormai e per sem­pre "terra d'Italiá'.
E, ancora oggi, quando dei militari egiziani sfiorano il cip­po della rimembranza, al "chilometro 111" da Alessandria, portano spontaneamente la mano tesa a destra dell'elmetto.



Solenni celebrazioni in Egitto e in Rai


Se è per la Patria non si sbaglia mai


Le celebrazioni per il Sessantesimo anniversario della battaglia di El Alamein hanno avuto tratti unificanti d'inedita ampiezza nel ricordare con orgoglio l'e­roismo dei nostri soldati. Non si è trattato tuttavia, in assoluto, d'una novità. Sin dal 1953 Randolfo Pacciardi, ministro della Difesa e ricostruttore delle Forze Armate democratiche dallo sfacelo materiale e morale della sconfitta, aveva iniziato il rito dei pellegrinaggi a El Alamein dopo aver fatto finanziare la realizzazione del Sacrario ad opera di Caccia Dominioni. Sarebbe una bestemmia, ancor prima che un errore, attribuire significati di parte a simili occasioni d'unione nazionale. E tuttavia tre fattori contingenti hanno contribuito a imprimere lla’anniversario eccezionale rilevanza. Uno è la cifra tonda: sessant'anni. Ascoltiamo con emozione i reduci, vecchi e fieri, Poi c'è Ciampi, il Presidente che ama canti e sim­boli del valore militare: intorno a lui si son potute mobilitare le televisioni. Mettia­mo da ultimo il governo di centrodestra, col ministro Martino che ha sentito il bisogno di balbettar sciocchezze sulle parti sbagliate e il ministro Tremaglia. che l'ha messo a posto dicendogli: “Obbedendo al richiamo della Patria non si sbaglia mai!”,
Sono capitati a tutti degli alleati imbarazzanti: a chi Hitler (senza che ciò togliesse nulla al valore dei nostri alleati tedeschi con Rommel), a chi Stalin. E non eravamo i soli con qualche scheletro nell’armadio. Gli inglesi in India massacrava­no i ribelli legandoli alle bocche dei cannoni. L'America è una grande democrazia cresciuta sul genocidio dagli indiani: ha combattuto battaglie interne contro le discriminazioni razziali con Kennedy una ventina d'anni dopo, mentre i sudafri­cani che ci vennero a occupare praticarono l'apartheid sino a pochi anni fa.
Ma non turbiamo il clima cavalleresco di El Alamein, dove tutti i rappresentanti degli eserciti in lotta si sono ritrovati, rinfacciandoci a vicenda i fantasmi della storia.


Nicola Ponte



Trent'anni fa così veniva rievocata la battaglia delle due Bandiere sul Giornale d'Italia


"El Alamein, 30 anni dopo"
di
Giovanni Scantaburlo

Finalmente la Patria si ricorda degnamente di loro, sì. Ma, a distanza d, 30 anni, non si può non condividere l'amarezza, per noi ancora viva, espressa da monsignor Scantaburlo, che fu tenente cappellano della "Folgore" ad El Alamein, in un articolo apparso allora sul Giornale d'Italia


El Alamen, ottobre 1972. Siamo tor­nati tra queste dune sconsolate, in questo deserto bruciato e secco, in questa sabbia arida e maledetta, dopo trent'anni. Trent'anni! Sono tutta una vita, tutta una generazione, tutta un'epoca! Potremmo dire anche, senza essere smentiti, che sono tutta una civiltà perduta. Veramente, noi che sia­mo tornati qui dopo trent'anni, coi nostri capelli bianchi, col cuore devastato da tante amarezze e disinganni, con lo spiri­to inaridito ed avvilito da tanti compromessi e cedimenti ammassatisi su di noi come macerie sfatte, come foglie di un tramonto inglorioso e vile, se ripercorria­mo a ritroso, lentamente e pensosamen­te, passo dopo passo, giorno dopo gior­no, anno dopo anno, questi trent'anni, ci accorgeremo che abbiamo perduto un mondo, uno stile di vita, un patrimonio di ideali, di costumi, di cultura, di idee e di tradizioni ‑ ed anche di dignità e di virile umanità.
Siamo tornati qui, dopo trent'anni, con molta umiltà e con molta umiliazione , come ad una nuova Canossa, alla ricerca di una civiltà e di una realtà. per­duta, alla ricerca di un punto di parten­za, sicuro cd intramontabile, per una nuova strada di purificazione e di risu­rrezione. E qui, fra queste dune sconsola­te, in questo deserto bruciato, rievochia­mo i nostri ragazzi che si sono immolati a migliaia e ci par quasi di ritrovarli intatti, nella loro prorompente e sana giovinezza nel loro cuore pieno di gene­rosità, di dedizione e di coraggio, nei loro occhi fieri e limpidi di nobiltà e di eroismo. Ci avvolgono e ci stringono da tutte le parti, sorgendo dalle dune, dai caranchi, dagli uadi, dalle colline, dalle buche, da ogni piega di questo immenso e bruciato deserto, da ogni luogo dove hanno combattuto e versato il loro sangue ed immolata la loro vita; e vengono in lunghe interminabili processioni, ven­gono a noi come ad un appuntamento fatale ed indifferibile, come ad un incon­tro di speranza.
Loro non sono mutati, noi sì. Ci han­no aspettato trent'anni, in questa immensa, tragica e gloriosa ara, ci hanno aspettati puri e generosi come allora, perché non sono mutati, loro; perché trent'anni, per loro, non sono nulla; per­ché, fissati nella glorificante eternità del supremo sacrificio, per loro il tempo non conta. Ora sono tutti qui intorno a noi ‑ in noi ‑ per rimproverarci, perché abbia­mo disatteso, ed anche a volte tradito, il loro sacrificio e lo scopo della loro immolazione; per insegnarci ed ammo­nirci che i loro valori, le loro realtà sono validi e vitali ancora oggi; per incoraggiare, e spronarci a riprendere la strada che ci hanno indicato con la loro vita e la loro morte trent’anni fa; per dirci, in una parola, che il come ed il perché loro sono vissuti e sono morti, deve essere il come ed il perché della nostra vita e della nostra morte.
Per dirci che, se vogliamo risorgere a nuova e nobile vita, ad imprese gloriose e civili, nel solco e nella tradizione di tut­ta la nostra civiltà latina e cristiana, noi dobbiamo superare, questi trent'anni amari, afferrare dalle loro mani la fiacco­la dell'amore a Dio, alla Patria. al prossi­mo e portarla avanti e sempre più in alto, con nobiltà, coraggio e dedizione.
Solo così, questi nostri giovani eroi, ancora spiritualmente vivi, sentiranno di non avere versato inutilmente il loro sangue, di non avere immolato inutilmente la loro vita.



Le celebrazioni a Roma organizzate dall’ANPd’I
Moffa: « È un dovere onorare i nostri soldati caduti in Africa»



«Commemorare El Alamein vuol dire onorare, con i soldati italiani cadu­ti in Africa, tutti i militari italiani. Ai giovani il compito dì preservare la memoria storica di un evento che, pur nella sconfitta, celebra l’'eroi­smo e il coraggio. È opportuno portare nelle scuole il ricordo di questo episodio, andando finalmente oltre ogni pregiudizio ideologico... È quanto ha affermato il presidente della Provincia di Roma Silvano Moffa inter­venendo alla cerimonia del 60° Anniversario della Battaglia dì El Alamein, orga­nizzata presso il cinema Barberini dalla Provincia di Roma con la sezione romana dell'Associazione nazionale paracadutisti d'Italia (Anpdl) alla presenza di tanti reduci e di autorità civili e militari. «Il riconoscimento del valore dei soldati dì El Alamein». ha proseguito Moffa, ..da parte del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, dev'essere il punto di partenza per rinsaldare il rapporto delle istituzioni con questa data così importante per la storia patria. Lo spirito di sacrificio dei soldati di allora, che smentisce un falso e ridicolo pregiudizio che vuole i nostri militari pavidi e non adatti aI combattimento, sia patrimonio delle nuove generazioni chiamate a rafforzare la vocazione di pace del nostro l'asse. Ancora oggi abbiamo tanti italiani nel mondo impegnati in varie missioni. Difen­diamo il soldato italìano onorarlo è un dovere, ovunque combatta. Non voglio riaprire una pagina chiusa né cambiare le storici. Ma ad El Atarneìn sono stati compiuti gesti eroici e sono questi che dobbiamo ricordare. Ho accolto con grande soddisfazione» ha infine ricordato Moffa, «il riconoscimento del valore dei nostri soldati da parte del sindaco di Scopje, in Macedonia, che ha apprezza­to nei nostri militari soprattutto la capacità dì presidiare quei luoghi come, nes­sun altro militare...


FDR



Un riconoscimento al miglior tema sulla battaglia
La provincia di Milano indice un Premio


Giovedì 3 ottobre, a Milano, l'assessore Provinciale all’istruzione e all'Edilizia scolastica, Paola Frassinetti, ha presentato alla stampa il concorso indetto nelle scuole della Provincia di Milano in occasione del 60° anniversario della Battaglia di El Alamein, un'iniziativa direttamente colle­gata alla Mostra interattiva II deserto e i leoni. El Almnein„ 23 ottobre 1942 che si tiene nelle Serre di Palazzo Dugnani, a Milano fino al 13 novembre e che è stata inaugurata il 20 ottobre con uno spettacolare lancio di paracadutisti della Brigata Folgore in piazza del Duomo.
II concorso bandito dalla Frassinetti è dedicato al tema del valore e del sacrifico del soldato italiano in terra d'Africa, è aperto a tutti gli studenti delle scuole medie superiori di Milano e provincia e riguarda quattro categorie, un elaborato scritto, uno artistico, uno informatico e infine una ricerca, riservata ai docenti. La Commis­sione giudicatrice è presieduta da Anna Caccia Dominioni, figlia del celebre comandante del 31° Battaglione Guastatori d'Africa, architetto dello splendido Sacrario Militare Italiano di El Alamein, famoso anche per la pietosa, e rischiosissima, opera di ricerca delle salme dei caduti nei campi minati della battaglia. La giuria è completata tra gli altri da un ex ufficiale della Divisione Folgore, Renato Migliavacca, storico e giornalista, di cui esce per la casa editrice Auriga l'ultimo libro su quelle vicende dal titolo Nel vivo della battaglia”, e da Marco Mantovani, uffi­ciale in congedo della Brigata Folgore e presidente del Centro Studi El Alamein.
I lavo­ri più significativi per ognuna delle categorie elencate saranno premiati con un viaggio in Egitto e con una visita presso i luoghi della battaglia.
Una testimonianza doverosa al valore e al coraggio sfortunato dei nostri soldati. E un occasione per ricostruire una memoria nazionale troppo spesso negata.


Di Gianfranco Peroncini

Le forze armate nel dopoguerra
Amnistie, amnesie e ricostruzione

Nel dopoguerra ci sono anche numerosi episodi di "resistenza" allo strapotere degli Alleati episodi obliati a causa dell'ostile clima ideologico che però indicano il radicamento del sentimento nazionale

di Dan& Lloyd Thomas

Il rinnovato ruolo delle forze armate,acquisito negli ultimi anni, suggeri­sce qualche riflessione sulla genesi dell'attuale assetto, che risale al periodo tra il 1943 e il 1947. Si tratta di una fase caratterizzata da un comples­so intreccio di vicende operative, politi che, organizzative ed anche giudiziarie; infatti, Giorgio Rochat, uno dei massimi studiosi di storia militare, ha posto l'ac­cento la natura interdisciplinare del pro­prio campo di ricerca.
In quegli anni l'istituzione militare subisce un vero e proprio fuoco incrociato sul versante politico e ideologico: da una parte, la sinistra (oltre agli angloamericani, seppure con accenti diversi) stigmatizza la «complicità con il fascismo», mentre, dall'altra, i sostenitori di Salò lanciano accuse, in qualche modo speculari, di «tradimento badogliano». A distanza di oltre mezzo secolo potrebbero sembrare paradossali tali condanne. Nessuna delle due riassume, infatti, la complessa realtà di quelle vicende che hanno coinvolto, nel bene e nel male, milioni di italiani. Occorre pertanto mettere da parte quelle forme di massimalismo per esaminare altri processi.
Nella fase di ricostituzione delle forze armate si scorgono propositi, tra mille difficoltà, di assicurare una certa continuità con la tradizione; ciò nonostante i tentativi (controversi ed approssimativi, ma pur sempre inevitabili) di affrontare le conseguenze della frattura civile, morale ed organizzativa dell'8 settembre 1943. Si avviano quindi due processi distinti ma paralleli: quello politico della "defascistizzazioné" e quello meno noto operato dalla "Commissione per l'accertamento del comportamento dei militari all'atto e dopo la proclamazione dell'armistizió". È in tali ambiti si che si cerca di ripristinare le regole della disciplina militare, nel contesto del nuovo assetto politico.
Il controllo angloamericano sulle forze armate italiane risale all'Atto di Resa (detto "armistizio lungo") del 29 settembre 1943, firmato a Malta dal generale statunitense Dwight D. Eisenhower e dal maresciallo d'Italia Pietro Badoglio. Le forze armate dovevano assicurare la massima disponibilità nei confronti delle Nazioni Unite; coalizione di cui fanno parte anche l'Urss, nonostante l'esclusione di fatto della presenza sovietica (almeno quella ufficiale). Nel protocollo di modifica al 1° articolo, sottoscritto da Badoglio e dal generale inglese Noel Macfarlane il 9 novembre 1943, la dicitura originale «resa incondizionata» venne mitigata, eliminando la parola «incondizionata».
Nonostante la sconfitta e l'occupazione, si manifestano nelle varie forze armate del Regno (dalle quali, appunto, nasce in sostanza l'odierno assetto militare) tentativi di mantenere una certa autonomia. Nell'Esercito si cambia persino il colore delle divise, passando al color kaki degli inglesi, adducendo come motivo la maggiore facilità di approvvigionamento.
Nell'immediato dopoguerra, ci sono anche numerosi episodi di "resistenza" allo strapotere dei nuovi alleati; episodi, oggi dimenticati a causa del già citato "fuoco incrociato" ideologico, che indicano tuttavia il radicamento del sentimento nazionale. A titolo di esempio, si potrebbe ricordare la querelle sorta in relazione alla pretesa di assicurare l'impunibilità dei militari italiani imputati di collaborazionismo a favore delle potenze alleate prima dell'8 settembre. Infatti, nell'articolo 16 del Trattato di Pace del 1947 si afferma: «L’Italia non incriminerà né altrimenti perseguirà alcun cittadino italiano, specialmente gli appartenenti alle forze armate, per avere tra il 10 giugno 1940 e la data dell'entrata in vigore del presente trattato, espresso la loro simpatia per la causa delle Potenze Alleate o aver condotto un'azione a favore di detta causa».
Come si arriva ad un provvedimento a dir poco incredibile, atto a delegittimare l'assetto disciplinare dell'apparato militare? Peraltro, si parte dalla data del­la dichiarazione di guerra alla Gran Bretagna ed alla Francia, trascurando invece le "guerre fasciste" in Abissinia, Spagna e Albania... Mentre l'accettazione di tale pretesa, nonché di altre norme dello stes­so Trattato, nasce in parte dal pragmati­smo della nuova classe politica, intenzio­nata a chiudere in fretta i contenziosi con il passato, si evince allo stesso tempo un'arrendevolezza talmente forte da destare meraviglia anche tra gli stessi vincitori.
Tracciamo qualche antefatto di que­sta norma. L’ art. 32 B dell'accordo del 29 settembre 1943 richiede la scarcerazione, nonché la rimozione di ogni pregiudizio giuridico (legal disabilities), nei confronti dei militari accusati di contatti con gli angloamericani. Questa norma, piutto­sto vaga, è seguita, nel accordo segreto Badoglio‑Macfarlane del 1944, con l'im­pegno di «non perseguire i reati di diser­zione verificatisi nel periodo 10 luglio‑8 settembre 1943» (ossia a partire dalla data di invasione della Sicilia).
Passiamo al mese di maggio 1945: la guerra si è ormai conclusa, e il governo di Ivanoe Bonomi vara un decreto legge di «amnistia ai disertori». La Commis­sione alleata aveva auspicato un provvedimento ampio e immediato, soprattutto con il proposito di "condonare" i colla­boratori filoalleati. Tuttavia, tra i vertici militari l'opposizione è forte: si rischie­rebbe di vanificare ogni tentativo di ristabilire la disciplina militare. Sono in corso migliaia di procedimenti ‑ gran parte dei quali a carico di ufficiali e sot­tufficiali ‑ per diserzione ed altri reati. Per complicare la situazione, i tribunali alleati si sono riservati di perseguire gli imputati di sabotaggio e di spionaggio. Si discute, peraltro, del problema della validità o meno del giuramento prestato al Re o alla Repubblica sociale (per molti, da ambedue le parti, il giuramento non rappresenta un mero atto formale ma qualcosa che scaturisce dal concetto di onore.. . ).
Riguardo alle proposte di amnistia, la reazione del capo di Stato maggiore generale, il generale Trezzani, è assai dura. In una lettera dell'8 ottobre 1945, indirizzata al nuovo primo ministro, Ferruccio Parri (in "Acs, pres. Cons. ministri"), egli fa alcune considerazioni, anche di tipo storico e geopolitico, che vale la pena di citare:
«L'amnistia concessa ai disertori dopo l'altra guerra fu, dal punto di vista morale e militare, errore gravissimo, in quanto diede a tutti la convinzione del­l'impunità a chi si sottraeva al dovere fondamentale di ogni cittadino: combat­tere per la propria Patria. Le conseguenze di questa convinzione si sono rese mani­feste in questa guerra, quando l'esercito alla notizia dell'armistizio si sentì auto­rizzato a sbandarsi in massa, e con i suc­cessivi 200.000 disertori, di fronte ai qua­li il Governo si sente impotente.
Al termine di ogni guerra si diffonde sempre la convinzione che essa sia l'ulti­ma, mentre con ogni trattato di pace si sono sempre create le basi e le ragioni della guerra futura. Sono profondamen­te convinto che, pur cambiando modi e forme, le guerre continueranno finché durerà l'umanità, e che l'Italia, non fosse altro che per la sua posizione geografica, sarà coinvolta in ogni guerra europea. La concessione dell'amnistia ai disertori anche al termine di questa guerra finirà per convincere ogni italiano che combat­tere non è un obbligo ma una facoltà... Dovrebbe perciò essere costituita una Commissione nella quale siano presenti tutti gli organi interessati ...al fine di non sancire ancora una volta di più la norma per cui i responsabili delle cattive soluzioni dei problemi militari sono sempre i militari, e solo questi».
In un'altra missiva, lo stesso Trezza­ni propone una soluzione: «Disertori e collaborazionisti cogli alleati pel periodo 10 luglio‑8 settembre: applicare gli accor­di Badoglio‑Macfarlane dicendo esplici­tamente che ciò avviene non per libera volontà nostra ma per imposizione degli alleati».
Alla fine, è stata effettivamente la politica ad offrire una "cattiva soluzio­ne, nel fattispecie del Trattato del 1947. Il "condono" ai collaborazionisti alleati si estende addirittura al 1940; ciò probabilmente per motivi più prettamente politici (ossia il disconoscimento retroat­tivo della sovranità del governo nazio­nale) che non per il numero, a quanto pare assai contenuto, degli accusati.
In seguito le polemiche si sono asso­pite: un po' perché gli atti sono rimasti a lungo sepolti negli archivi e un po' per l'amnistia, voluta da Palmiro Togliatti, a favore degli accusati di "reati fascisti" (concessa, a quanto pare, in cambio del voto referendario per la Repubblica, garantito dall'accordo con Pino Romualdi, quale "vendetta" contro i Savoia). E intanto, nei lunghi anni della Guerra fredda, ogni critica al Trattato del 1947 è relegata rigorosamente alle "estre­me", di destra e di sinistra. Oggi, final­mente, si può ragionare serenamente su queste vicende. Che il proposito del ritorno, nell'Esercito, alla divisa grigio­verde, sia il simbolo di una ritrovata dignità storica (e quindi anche morale)?

Storia del generale Gioacchino Solinas, granatiere, sciarpa littorio, "resistente" e repubblichino

Il Fascista che difese la città aperta

Dopo l'otto settembre, e la fuga del Re, Roma viene difesa dall'entrata dei tedeschi: alla battaglia di Porta San Paolo giurano di aver partecipato tutti i futuri "padri" partigiani. Ma alla testa dei soldati schierati c'era un ufficiale che poi aderirà alla Rsi

di Emanuele Tonti

Nel settembre '43 a difendere Roma dai tedeschi furono i gra­natieri di Sardegna. Li comanda­va un ufficiale che poi aderirà alla Rsi, il generale Gioacchino Solinas. Questa scomoda verità, a quasi sessant'anni di distanza, è anco­ra sottaciuta per non rovinare la vul­gata che vede nelle giornate della bat­taglia di porta San Paolo l'inizio della "resistenza". Ma qualcosa sta cambiando: sono gli stessi granatieri a pro­muovere incontri per fare chiarezza attorno ad un momento così dramma­tico della nostra storia patria.
In quei frenetici giorni di fine esta­te, mentre Vittorio Emanuele III assieme al maresciallo Pietro Bado­glio, al governo e agli alti comandi dell'esercito fuggiva ignominiosamen­te a Pescara ‑ dimenticando l'illustre prigioniero sul Gran Sasso o forse barattandone la liberazione con un tacito lasciapassare fino a Brindisi ‑, i granatieri salvavano l'onore delle armi del nostro esercito. Mentre una nazione stava andando allo sbando e il "tutti a casa" era diventata la parola d'ordine, il generale Solinas tenne testa all'a­vanzata dei tede­schi. I suoi 12mila uomini, schierati su un semicerchio di circa 30 chilo­metri dalla Cassia alla Casilina in 13 capisaldi, fecero tutti il loro dovere fino all'ultimo. A fianco a loro i Lan­cieri di Montebel­lo, il V battaglione Genio guastatori, un battaglione di carabinieri, uno di bersaglieri, uno della Polizia Afri­ca Italiana, una compagnia di Arditi e qualche civile che aveva preso spontanea­mente le armi. Niente di più.
E pensare che per la difesa di Roma oltre alla divisione Grana­tieri, l'esercito ita­liano avrebbe potuto impiegar­ne altre cinque, a fronte di due divisioni di para­cadutisti tedeschi.
L'apporto alla battaglia delle due divi­sioni corazzate Ariete e Centauro, della divisione motorizzata Piave, della Pia­cenza e della Sassari fu molto limitato soprattutto per il totale caos che regnava nelle istituzioni, a partire dal ministero della Guerra. In via XX set­tembre un colonnello così rispose a chi gli chiedeva ordini per telefono: «Sono rimasto solo, qui sono scappati tutti e ora me ne vado pure io, arrangiatevi». Alle 19 e 45 di quello sciagurato 8 set­tembre, Badoglio dette l'annuncio del­l'armistizio con gli Alleati – firmato cinque giorni prima a Cassibile ‑ e con sublime ipocrisia ordinò ai soldati di «reagire contro eventuali offese da qualunque parte esse fossero pervenu­te». Nel giro di poche ore fu battaglia che durò quasi ininterrottamente fino al pomeriggio del 10 settembre, quan­do venne firmato l'armistizio con i tedeschi: Roma divenne "città aperta" e sarebbe rimasta tale fino al 4 giugno 1944, data dell'arrivo degli americani.
I granatieri si batterono con valore ma dovettero progressivamente arre­trare sulla via Ostiense fino a porta San Paolo. Là ci fu l'episodio più noto dello scontro che fruttò al corpo due Ordini militari d'Italia, tre Medaglie d'oro e sette Medaglie d'argento al valor militare e 25 Croci al merito. Ancora oggi qualcuno cerca di contrab­bandare l'evento come il primo fatto d’armi della "resistenza popolare con­tro l'invasore nazifascista", sottovalu­tando il ruolo di chi sopportò quasi interamente il peso della difesa di Roma. Riprova ne sono le annuali cele­brazioni dell'evento. Lo scorso 8 set­tembre, ad esempio, a porta San Paolo c'è stata una commemorazione a metà. Quel giorno addirittura Walter Veltro­ni ha speso qualche buona parola per chi al tempo della guerra civile fece la scelta "sbagliata": «Chiunque abbia perso la vita combattendo merita rispetto. Onore a lui», ha detto il sinda­co di Roma. Filippo Berselli, sottose­gretario alla Difesa ha pronunciato un toccante discorso ‑ nel quale, evento eccezionale nella storia repubblicana, hanno trovato posto i martiri delle foi­be e i fratelli Govoni ‑ che si è concluso con le stesse parole dell'orazione del­l'anno precedente tenuta da Carlo Aze­glio Ciampi: «Viva l'Italia». Ma il gene­rale Luigi Franceschini, uno dei grana­tieri del 1943, non l'hanno fatto parlare nonostante il suo intervento fosse stato precedentemente concordato. In com­penso a un diciassettenne è stato fatto leggere ‑ da chi? A che titolo? ‑ un proclama con tono saccentello in cui si disquisiva di «nazifasci­smo», di etica, di storia e di filosofia. Veramente irritante.
D'altronde, che la bat­taglia di Roma non sia mai terminata, ne sono lampante dimostrazione le memorie del generale Solinas, nelle quali l'uffi­ciale, a venticinque anni di distanza dagli eventi bellici, si propose di ristabilire la verità. Solinas nei suoi scritti dimostra che fu vera battaglia e la difesa della capitale non fu "mancata" come qualcuno ha poi sostenuto. Solinas, dopo la proclamazione di "Roma città aperta", andò ad ascoltare il generale Rodolfo Gra­ziani al teatro Adriano e decise di seguirlo nella RSI. Considerato che Paolo Monelli nel suo Roma 1943 ricor­da Solinas come «Sciarpa Littorio, squadrista, fascista convinto», non fu certo una sorpresa. Al Nord il generale divenne prima comandante del "Cen­tro Costituzione Grandi Unità" a Ver­celli e successivamente fu nominato comandante della regione militare Lombardia. «Secondo me la sua non fu una scelta ideologica» dice il generale Antonino Torre, direttore del museo storico dei granatieri di Roma, «innanzi tutto Solinas era un militare valorosis­simo, la sua carriera parla chiaro. In quelle ore convulse rispettò le conse­gne e lo fece con decisione, coraggio e decoro. Gli altri no. Si può ipotizzare che la delusione lo portò ad aderire alla Rsi. Oltretutto, a guerra finita, dovette subire le critiche di chi era scappato e il tentativo da parte di civili e di altri militari di appropriarsi del merito della difesa di Roma. Come se non bastasse il suo nome quasi non figura nei libri di storia». Certo, un fascista che dà il via alla resistenza non sta bene. Quegli stessi manuali però ricordano che a porta San Paolo erano presenti Luigi Longo, Antonello Trombadori e Fabrizio Onofri del Pci, Emilio Lussu e Ugo La Malfa del Partito d'Azione, Sandro Pertini, Eugenio Colorni, Mario Zagari del Psiup, Romualdo Chiesa e Adriano Ossicini del Movimento dei cattolici comunisti. Considerate le frequenti esagerazioni della retorica antifascista ci permettiamo di dubitare.
Proprio per fare chiarezza su questa importante vicenda della nostra storia, lo scorso dicembre l'Associazione mili­tari in congedo e lo Stato Maggiore del­l'Esercito anno organizzato il conve­gno Là dove sofferto presso il museo sto­rico dei granatieri. Tra gli intervenuti, lo storico e giornalista Giano Accame, Massimo Coltrinari della Società di storia militare e Piero Ostilio Rossi, professore della facoltà di Architettura alla Sapienza. Accame ha sottolineato la grandezza di Solinas: «Un ottimo comandante che probabilmente, a un certo punto, non ha capito nemmeno bene quello che stava succedendo. Soli­nas si è trovato in un gioco più grande di lui e si è comportato da uomo corag­gioso». Secondo Accame «l'obbedienza del generale e dei suoi granatieri rap­presentarono la continuità istituzionale, malgrado fosse già crollato tutto. È come la coda della lucertola che conti­nua a muoversi dopo che è stata recisa».
Il professor Rossi ha raccontato la battaglia tramite lo studio e la rico­struzione di ventidue luoghi simbolici della città. Lo studioso ha evidenziato come legare la storia alla geografia permetta «una ricostruzione più fede­le dell'accaduto» e aiuti «a formare quella memoria collettiva che ancora oggi è carente e controversa sulla difesa di Roma e su troppi episodi della nostra storia».

Da Nuovo Fronte "La faccia segreta della storia"

La faccia segreta della storia
(Come distruggere la “Folgorè”)
Nino Arena



Dicono gli esperti che siamo un popolo di creduloni ad onta della nostra pretesa intelligenza, poiché le cronache dei giornali sono piene di fregature e raggiri in ogni strato sociale e a livello internazionale. Non si parla quasi mai della superficialità, della ricerca dei particolari poco noti, dell'analisi accurata di quelli più enfatizzati e accreditati come "luoghi comuni", accettando in toto ciò che si dice senza accertato riscontro. Valutare verità e leggenda, superficialità e concretezza e stabilire in che misura sia accettabile non è materia per tutti; poiché questi "insignificanti particolari" sono di norma riservati ai pignoli, alle persone riflessive, ai "stà a guardà er capello..."! Tutt'al più al curioso, considerando che i particolari sono in ge­nere ritenuti ininfluenti o irrilevanti nel generale, contesto del problema trattato o accettato, pur correndo se­riamente il rischio che "l'ininfluenza" possa radicalizzarsi e di trovarsela più tardi, come "verità" nella cronaca quotidiana o peggio ancora nelle pagine della storia.
È già accaduto dai tempi di Orazio Coclite, di Garibaldi, del generale Custer a Little Big Horn contro i Sioux e in tempi più recenti nella storiografia resistenzialistica con l'usuale "Io c'ero".
Oggi ci proponiamo di fare un po' di chiarezza su un evento che ci sta particolarmente a cuore, forse urtando la suscettibilità di qualche benpensante inguaribile, provocando magari qualche demagogico intervento con abbondante retorica più che sostanza, anche se la storia è fatta di verità e realtà, a volte appaganti, altre volte mortificanti e avvilenti; rifiuta fantasie e menzogne, corregge distorsioni ed esagerazioni controproducenti e se qualcuno riterrà opportuno intervenire apportando nuovi particolari alla verità sarà benvenuto e gradito per migliorare il dialogo con nuovi particolari.
Parleremo della "Folgore", dei suoi miti e leggende e lo faremo sollecitati da alcuni protagonisti per dare ai fatti concreti apporti, esaltare ancor più le sue vicende gloriose al di fuori di ogni sterile critica, visto che la seconda guerra mondiale non ha lasciato all'Italia, al di fuori di innumerevoli sacrifici personali, sufficiente bagaglio di battaglie positive e determinanti fra tante disfatte registrare, e fra queste anche Alamein, non certamente una battaglia vinta, anche se combattuta diversamente con una imprevedibile partecipazione individuale meccanica che esce fuori dagli schemi consueti per assumere a livello umano straordinaria importanza e notorietà fra le pagine della storia.
Nell'estate 1942 la "Folgore' in Africa Settentrionale sulla scia della vittoriosa ma disordinata avanzata Rommel, giunto alla strettoia fortificata di EI Alamein in Egitto a mozzichi e bocconi, dopo aver lasciato alle sue spalle panzer IV M. 14/41, disseminati su 1200 km. di strade e piste, migliaia di automezzi in avaria scarsi e discontinui rifornimenti, fanteria italiana appiedata e I'ACIT (Armata Corazzata Italo Tedesca) bisognosa di tutto: rinforzi, benzina, mini, munizioni, viveri e materiali, il necessario per vivere e combattere e la speranza di prevalere definitivamente sulle disgregate unità inglesi in ricostituzione sul Canale di Suez mentre Roosevelt "regalava” Churchill 300 carri pesanti "Sherman" e prometteva molto altro materiale ancora.
La divisione paracadutisti "Frattini" (dal nome del suo comandante) non viene inviata in A.S per le sue specifiche qualità operative non ci va per occupare con aviolancio il Canale o Alessandria, anche se tale diceria venne diffusa ad arte. Si era preparata per lanciarsi su Malta pronta per tale operazione che avrebbe coronato il sogno di miglia paracadutisti entusiasti e preparati per la "loro grande occasione", così ci aveva detto Mussolini in giugno ispezionando la "Frattini" nelle Puglie
I parà vanno in Egitto malvolentieri accettando con disciplina tale ordine; sanno di dover abbandonare la C. 3 (Malta), sanno che non saranno impiegati come paracadutisti dal cielo, non capiscono cosa possono fare nel deserto al confronto carro corazzato, anche se Rommel aveva avuto il miraggio delle piramidi e la sicumera di battere definitivamente gli inglesi coinvolgendo nella sua immaginazione anche Mussolini convinto ad andare in A.S. Occorrevano rinforzi e mentre l’OKW inviava la 164' divisione fanteria in linea e la brigata "Ramche" direttamente dalla Grecia per via aerea lo SM/RE interpellato dal maresciallo Cavallero Capo di SMG, aveva offerto come contributo italiano la divisione paracadutisti "Frattini", suscitando la sorpresa di Cavallero da tempo in A.S. per ordine di Mussolini per controllare e coordinare i "capricci di primadonna" del feldmaresciallo prediletto del Fúhrer. La richiesta di precisazioni del Capo SMG allo SM/RE Ufficio Operazioni del Gen. Magli. ebbe come giustificazioni I'indisponibilità della "Brennero" dislocata in Grecia ma con artiglieria ippotrainata (doveva cambiare cannoni, carrelli trattori, materiali e reperire i necessari automezzi); scartata la "Pistoia" che disponeva di cannoni T.M. ma aveva automezzi desertici e doveva reperirli; rifiutata la "Centauro" corazzata, la motorizzata "Piave”, L’autotrasportabile "Livorno” la "Superga" e "La Spezia" in fase di trasformazione per I'A.S.; alcune di queste G.U. (Grandi Unità) verri inviate in Tunisia in autunno, altre messe a disposizione dello SM/RE (all'epoca comandato dal Gen. Vittorio Ambrosio) per occulti disegni eversivi (verranno utilizzate nella zona di Roma nel colpo di stato del 25 luglio 1943).
Lo SM/RE non credeva alle aviotruppe, le aveva spesso ostacolate nella preparazione e nel morale considerandole "politicizzate e inaffidabili" non aveva trovato per tale politica discriminatoria un generale disposto a comandare la costituenda divisione paracadutisti, al punto che il generale Enrico Frattini del Genio, ufficiale addetto al generale Roatta (sottocapo di SM/RE e poi Capo di SM/RE il 25 luglio) si era offerto volontariamente per evitare l'onta della carenza di comandanti influenzati negativamente e desiderosi di non "rovinarsi la carriera per i parà".
In tal modo un ufficiale generale del Genio, che aveva assolto i compiti tecnici e diplomatici, si trovò al comando della Specialità paracadutisti
o combattendo valorosamente con i suoi ragazzi l'epopea di El Alamein.
L'offerta di inviare la "Frattini" era capziosa poiché l'unità non disponeva di cannoni campali, automezzi, controcarro efficaci che non fosse il modesto pezzo da 47/32, con armamento leggero e mediocre nello standard italiano, incompleta negli organici rispetto ad una G.U. di fanteria di linea e quando Cavallero chiese giustificazioni in merito ebbe come risposta: ridotti organici divisionali ‑8500 rispetto ai 12.000 standard ‑sollecito invio in A.S. mediante aviotrasporto, reperimento sul posto del materiale necessario (equipaggiamento, materiali, automezzi, servizi, trasmissioni ecc.) e l'impegno dello SM/RE su specifica richiesta di Cavallero, che la divisione paracadutisti sarebbe stata utilizzata provvisoriamente e sollecitamente rimpiazzata non appena disponibile una G.U. di fanteria di linea, fra quelle in trasformazione. E con tali negative prospettive, la scelta nella tradizione nostrana del "peggio non muore mai" andò alla "Folgore", ribattezzata dapprima "cacciatori d'Africa" per sviare l'attenzione inglese, privando i paracadutisti di segni esteriori: paracadute, simboli, denominazione ufficiale anche se I'escamotage ebbe breve durata poiché la BBC si affrettò a far conoscere via Radio Londra la novità e il 1 ° agosto 1942 la "Frattini" ebbe la definizione ufficiale di Divisione Paracadutisti "Folgore".
Come poteva utilizzare Rommel una G.U. di aviotruppe? Proviamo a fare alcune congetture: disponibilità 7/8 mila uomini (85% paracadutisti) armati mediocremente con 36 cannoni da 47/32 mod. 35; 36 mortai da 81 e 38 da 45; 64 mitragliatrici e 172 f.m. Breda mod. 30; 12 lanciafiamme, 6500 moschetti mod. 1891 e 870 MAB Beretta Mod. 38 con 2284 pistole Beretta mod. 34. Erano stati lasciati in Italia gli inutili fuciloni controcarro polacchi mod. Radon.
Vi era da tempo un preciso accordo fra SMG e DAK di evitare per quanto possibile l'impiego campale di G.U. di fanteria italiane appiedate, considerando oggettivamente le negative esperienze del passato con la Compass, la Crusader, la Battle Axe ecc. che avevano portato alla distruzione di una decina di G.U. italiane.
Cosa poteva fare la "Folgore" di diverso? Era in grado di fermare i carri inglesi Mathilda, Crusader, Valentine, Grant e Sherman? Onestamente riteniamo di no; come poteva muoversi nel deserto senza automezzi, cannoni campali autotrainati, servizi logistici, trasmissioni, considerando che mancavano persino le borracce per acqua tipo A.S. indispensabili in ambienti desertici: le previsioni stabilivano potenzialmente che al primo serio impatto in campo aperto, con una robusta formazione corazzata nemica, il destino per i parà avrebbe segnato negativo! I folgorini erano praticmente disarmati al confronto con I'avversario, ed entrambi i contendenti lo sapevano anche se attendevano momento del confronto diretto.

Altro argomento oggetto d'analisi riguardava la leggenda di un presunto lancio sul Canale, un evento tatto balenare ad hoc per gettare polvere negli occhi e tacitare i mugugni per Malta. Lanciare circa 6000 uomini implicava la presenza di 220/ 250 trimotori SM. 82, altrettanti direttori di lancio, disponibilità di 8 mila litri di benzina e 20 mila Kg. di olio per motori, paracadute IF.41/ SP e circa un migliaio di aviocontenitori per materiali. Non c'era nulla di tutto questo nella misura desiderata all'infuori dei 5000 paracadute e degli aviocontenitori portati seguito e messi a marcire in disadatti magazzini nella zona di Derna dove andranno in gran parte distrutti ad eccezione di un migliaio IF.41 salvati dal Cap. Mainetto con l'aiuto di due Motozattere della Regia Marina e inviati in Italia dopo un avventuroso viaggio. Un modo questo di sbarazzarsi oltre che dei paracadutisti anche dei loro paracadute una perdita sofferta, di costoso materiale, non facilmente rimpiazzabili in breve tempo, che avrebbe influito se disponibile in Italia, la sua futura utilizzazione con la costituenda divisione "Nembo".
Parliamo dell'aviotrasporto, un momento questo che influì molto in Cavallero all'idea di poter disporre sollecitamente in A.S. della "Folgore”. L'operazione, invece, si svolse senza alcuna fretta, secondo un disegno occulto che mirava a far naufragare proponimenti e impegni oltre mettere a repentaglio la vita di centinaia di paracadutisti, inviati irresponsabilmente dall'Italia in Grecia (oltre 2000 km. di ferrovia) attraverso tutta la penisola, la Jugoslavia infestata, banditi titini e la Grecia infida. Ma se guardiamo cronologicamente gli eventi.
La “Folgore" venne privata del 185° Rgt. paracadutisti e di uomini dei servizi (circa 2400 uomini) assegnati alla costituenda divisione "Nembo” altri 3000 andarono in Grecia a Tatoi con otto giorni di tradotta per "alleggerire Galatina". In A.S. furono aviotra‑sportati 7264 paracadutisti militari dei servizi (circa un migliaio utilizzando 617 SM. 82 e G. 12 in 58 traversate (due soli decolli da Eleusis e il "sollecito trasferimento" magnificato dallo SM/RE per tacitare Cavallero , ebbe invece una durata di 34 giorni trasportando 9113 militari (anche di altri reparti) con 452 ufficiali, 484 sottufficiali, kg. 17692 materiali e I'armamento divisionale
I convogli aerei del SAS (Servizio Aereo Speciale) andavano da minimo di 6 trimotori a una inedia 18 con punte fino a 28 aerei il 30 luglio e 26 il 1° agosto, anche se il 30% degli aerei non era disponibile per controlli e revisioni (da 140/280 persone al giorno trasportate in A.S. Non si verificò alcun incidente anche se l'operazione si dimostrò sballata nelle previsioni e negli intendimenti Ma questo era scontato con l'intenzionalità a livello SM/RE sbarazzarsi dei reparti paracadutisti.
Le difficoltà di portare in linea "Folgore" furono innumerevoli. Nel deserto non c'è acqua e la poca reperibile andava prelevata a lunga distanza e trasportata sotto attacchi di caccia inglesi fino alle posizioni di prima linea. Per assolvere questo indispensabile servizio accorrevano automezzi e fu giocoforza rubacchiarli ovunque, agli italiani, ai tedeschi e soprattutto agli inglesi. I servizi mancanti furono reperiti da disciolte G.U. fra cui la "Sabratha": Posta Militare, Sussistenza, sezioni Sanità, Sezioni CC.RR., guide desertiche e motociclisti portaordini, stazioni radio. I cannoni campali furono forniti dalle Div. "Brescia", "Pavia", "Ariete", "Trieste" e da un gruppo tedesco (Hpt. Albert) fornendo efficace supporto di fuoco. Dopo un movimentato periodo iniziale, fu necessario sistemarsi in una linea fortificata nell'estremo sud del fronte, affidata esclusivamente agli italiani ("Folgore" e "Pavia").
Quanti furono i caduti della "Folgore"? La Divisione venne più volte data per distrutta in battaglia anche se in realtà venne smembrata e dissolta come altre G.U. dell'ACIT: "Ariete", "Bologna", "Brescia", "Trento" ecc. "... Dei 5000 paracadutisti della 'Folgore' ne torneranno in Italia meno di 300" così scrive Storia Illustrata anche se in realtà le cifre non corrispondono a quelle effettive. Proviamo a fare un po' di chiarezza su tali notizie con l'ausilio della pubblicazione ISTAT n. 391 dal titolo "Morti e dispersi per cause belliche negli anni /1940/1945" (pagg. 20/21 ed. 1957) che alla voce paracadutisti morti e dispersi in A.S. presenta i seguenti dati statistici:
militari di truppa sottufficiali ufficiali ufficiali superiori totale
morti 363 46 41 6 456
dispersi 103 15 7 ‑ 125
_______________________________________________________________________________________
totale 466 61 48 6 581

NB. I dati dovrebbero comprendere: libici, carabinieri, folgorini, arditi RA/RE a nostro modesto parere e confrontando altre fonti: rapporti di reparti, ruolini di marcia, brogliacci, diari di guerra, modulistica specifica e taccuini privati, le cifre menzionate non corrispondono alla realtà, riteniamo in quanto desunte o assegnate ad altri reparti diversi dai paracadutisti. Ad esempio: Gruppo mobile "Tonini" con eterogenea composizione; 1° Btg. Carabinieri paracadutisti (come carabinieri o come parà?), 285° Btg. “Lombardini" (come reparto autonomo o inserito nel 66° Rgt. Frt. "Trieste"?).
Sicuramente la "Folgore" ebbe circa 400 caduti e dispersi, oltre 650 i feriti, un migliaio di nominativi depennati fra luglio/ottobre per malattie e i rimpatri, poco più di 3000 prigionieri e un migliaio di superstiti transitati in altri reparti: all'incirca 6000 uomini quanti ne contava al momento in cui i venne trasferita in A.S. escludendo i militari dei servizi. Una indagine approssimativa suscettibile di ulteriori approfondimenti, senza alcun giudizio di parte se non quello, altamente elogiativo, che la Divisione paracadutisti andò distrutta come nelle previsioni dello SM/RE (e non poteva essere diversamente), ma contrariamente ad ogni previsione entrò a testa alta nella leggenda e nella storia, poiché i singoli seppero sopperire alla carenza materiale bloccando a sud l'ambizioso piano di Montgomery, costringendo l'arrogante generale inglese ad attaccare a nord, scardinando il fronte e costringendo i folgorini ad abbandonare il settore sud dopo dieci giorni di sanguinosi ma vittoriosi scontri col nemico. Di più non era possibile fare. Parafrasando un vecchio film di guerra, si potrebbe dire che "la Folgore ha combattuto l'inizio dell'autunno" prima di scomparire per sempre.
Ma forse questo era già scritto sul grande libro del destino per mano di traditori.

Fonti di riferimento
Comando Supremo/Diario di guerra Capo SMG
Emilio Canevari ‑ L a guerra italiana (retroscena della disfatta)
Nino Arena ‑ L'Italia in guerra !940/1945
Nino Arena – I Paracadutisti! 80 anni di storia

N.A.

mercoledì 26 settembre 2007

Pagine di Storia

I RAGAZZI DI BIR EL GOBI

Non un lamento, un grido, non una lacrima ma solo il sorriso su volti bruciati dal sole, su sguardi accecati di sabbia dal soffio del tormentoso ghibli. Maledetto vento del Sahara padrone delle notti gelide, sovrano del caldo infuocato che spandi nei meriggi tropicali, osservi impavido i morti abbandonati nelle «buche». Sono gli spavaldi ragazzi di Bir el Gobi sperduti fra le dune. Nei loro giovanili cuori viveva il deserto dell'amarezza, la gioia, la gloria ed anche l'infinita tristezza. Quel caro vessillo tricolore forato, sdrucito, misero e sbiadito, era il simbolo della Patria e sotto il suo sventolare andavano i giovani oltre l'impossibile. Su quelle giornate infuocate cadde il muto silenzio, il nulla... sorsero tante croci ormai consunte dal tempo che restano a simbolo, a testimonianza di quelli che furono i ragazzi di Bir el Gobi.

Ernesto Giannini
Pescara, 13‑3‑1989

Pagine di Storia

EL ALAMEIN 1942

TOMMASI MELCHIORRE ALFREDO

Presagio di morte e di gloria


Luglio 1942. Siamo in Africa Settentrionale, in Egitto, ad El Alamein, a 140 kilometri da Alessandria, sulla gola di terra che va dal mare alla depressione di El Qattara.

Qui si sono attestate le truppe italo‑tedesche dopo una folgorante avanzata, al comando del leggendario generale Rommel, per compiere il balzo su Alessandria.

Uno dei capisaldi è comandato da un giovane ufficiale siciliano, il messinese Tommasi Melchiorre Alfredo, ventisettenne sottotenente del1l86` Reggimento Fanteria della Divisione Sabrata. Tommasi è in Africa volontario. Erano due anni che chiedeva di essere inviato al fronte. A Messina era insegnante elementare e studente universitario. Suo zio, cav. Guglielmo Cocco, era esponente di primo piano del Fascismo messinese. Tommasi, come tanti altri giovani, era stato educato ai doveri civici ed al culto della Patria e degli ideali che la rappresentavano. Poteva fare lo studente universitario a carico della famiglia ‑ e se lo poteva permettere ‑ invece, contemporaneamente, insegnava e lavorava, aveva cariche nel Gruppo Universitario Fascista (Guf), teneva conferenze ed era fra i primi nelle diverse manifestazioni patriottiche. Ai suoi alunni, alla Scuola «Principe di Piemonte», ed ai carcerati (insegnava anche nelle carceri) indicava la via dei valori che fanno un buon cittadino e un vero italiano.

Nel 1940, allo scoppio della guerra, coerente con i principi che predicava, chiese di servire in armi la Patria. Nel 1941, in febbraio, è al Corso Ufficiali di Palermo, concluso brillantemente il quale chiede di far parte di un Reggimento destinato in Africa Settentrionale. E' assegnato al 16" Reggimento Fanteria Cosenza. Esuberante, generoso, irruente, è impaziente: vuole subito arrivare al fronte. A due sorelle, Lilla e Franca Martelli, amiche di famiglia, scrive: «La mia partenza non arriva, mi vergogno quasi dinanzi ai miei concittadini che pensano forse che io schivi questa stessa partenza».

Finalmente, nel mese di maggio del 1942, gli si concede un breve permesso per recarsi dai familiari prima di raggiungere il comando tappa di Napoli, preludio alla partenza per l'Africa. Alle sorelle Martelli scrive da Napoli: «Piccole amiche, scrivo a voi la lettera del distacco: l'ultima che riceverete dal bel suolo d'Italia. Tra poche ore sarò lontano, andando verso il mio destino, verso il mio fato. Quale sarà esso? Solo l'Artefice Massimo può saperlo. Quante scene, quanti atti mi farà recitare? A me non resta che immaginare. Sarò anch'io tra breve il protagonista di questo dramma che ha l'impronta del secolo che volge. Alla testa dei miei uomini o in servizio isolato, avrú sempre la strada tracciata dalle piccole croci dei miei compagni che mi hanno preceduto. Il ricordo dei miei cari mi segue, il pensiero degli amici mi conforta. La visione di mia madre è accanto a me e la sua benedizione mi accompagna nella dura prova che ho chiesto. Arrivederci alla Vittoria, mie care».

All'alba del 28 maggio sbarca a Bengasi. E' arrivato con il piroscafo «Città di Napoli». Il primo giugno è in prima linea. E' felice. Il 30 invia alle due sorelle la seguente strofa di rime:


«Il sole scotta, l'acqua è chimera
Piango e sospiro il bar Irrera
Penso a quei tavoli posti in piazza
Dove di birra c'era la bazza
Qui manca l'acqua a tutte le ore
Chi se ne frega, noi siamo all'ombra del Tricolore».


Durante un'azione cattura diversi ufficiali inglesi. E' proposto per una medaglia d'argento al valore, gli viene concessa una croce di guerra perché ha poca vita operativa.

In giugno scrive un racconto: «Il ritorno di un fante». E' presago:

«Disse la madre: «lasciate la porta socchiusa ch'Egli verrà». (Fu lasciata socchiusa la porta).

Egli entra, disceso dall'eternità.

Per strade di sabbia e d'arbusti, gli fu guida la stella in cammino.

Riaccosta l'uscio in silenzio, appende al gancio il mantello (fori e bruciacchi di proiettili nella sahariana ridotta un brandello). Ma ben calca sugli occhi l'elmetto, che la fronte non sia veduta, e siede, al suo posto, nel cerchio della famiglia pallida e muta.
«Mamma, perché non ti vedo la veste di raso dal gaio colore...?».
«E' in tomo all'armadio, è in fondo all'armadio, domani la metto, mio dolce amore».
«Sorellina dal tono leggero, perché un nastro nero, sulla testa tua bella?».
«T'inganni, ha il colore del Cielo, della sabbia che fu tua sorella».
Intanto dalle campane di Casa Littoria rintocchi e squilli s'odon per la vittoria. Ed ecco, allora, drizzarsi nell'alta e sottile persona il soldato, togliendo dal capo l'elmetto, piamente, con gesto pacato. Scoperta ardeva in mezzo al fronte l'ampia sommata sanguinosa, corona di re consacrato, fiamma eterna, divina rosa. Ma sotto il diadema del sangue egli il capo reclinerà, come chi nulla ha dato, come chi nulla avrà>.
Il 16 luglio, alle ore 5, scrive a suo zio:
«Sono in riva al mare, fra poco balzerò avanti. Sono calmo, sereno, fiducioso, come tutti del resto. Ti prego di tranquillizzare la mamma, se per un certo periodo di tempo non dovesse arrivare posta, date le circostanze. Sono sicuro che tutto andrà bene, ma, se dovessi pro­curarvi un dolore, perdonatemi. Ti raccomando la mamma. Davanti a noi c'è l'Italia».
Qualche ora dopo, «Animoso ufficiale partecipava volontariamente alle missioni più rischiose dando ripetute prove di ardimento e sprezzo del pericolo. Nel corso di un attacco in cui il nemico, preponderante per numero e per mezzi, era riuscito a sopraffare l'indomita resistenza del caposaldo, si poneva da solo ad una mitragliatrice, continuando a far fuoco malgrado che elementi nemici lo serrassero da vicino e gli intimassero la resa. Ferito da pallottola al fianco, continuava a sparare, finché, colpito da baionetta alla schiena, si abbatteva sull'arma, suggel­lando col supremo sacrificio il giuramento reso alla memoria del ge­nitore» (motivazione della proposta di medaglia d'oro tramutata in medaglia d'argento).

Spirito eletto, aveva avuto il presagio della morte e della gloria. E i suoi resti non furono più trovati. Tommasi è come gli Eroi mitolo­gici che restano nella storia non soltanto di un popolo, poiché il loro sacrificio cosciente è una lezione di particolare valore morale e sociale agli uomini, a tutti gli uomini.
Ho voluto ricordare questa vicenda perché riflettano certi eroi da bidoni d'immondizie e tanti giovani con gli occhi e la mente offuscati e il corpo consunto dalla droga; perché riflettano certi «onorevoli» per niente onorevoli, certe nullità assurte a pontefici nella vita vuota di oggi.

Giuseppe Mugnone

Pagine di storia


Da EL ALAMEIN (1933 – 1962)
di Paolo Caccia Dominioni
Ed. Mursia


Pagine 338 - 339 – 340 – 341- 342


Mario Zanninovich può essere fiero dei suoi paracadutisti, formati ed educati con passione, II battaglione del 187°. Il caporal maggiore toscano Dario Ponzecchi è stato mandato di vedetta nel vasto campo minato antistante, per impedire che il nemico, con 1'aiuto del buio e dei nebbiogeni, crei i varchi per l'avanzata degli uomini e dei mezzi blindati. Infatti, il graduato è avvolto rapidamente dalla nebbia artificiale, lattiginosa nel chiarore lunare ma impenetrabile. E sente movimento vicino: si muove deciso, cade in una imboscata, solo, ma non esita a impegnare una furiosa lotta a corpo a corpo. Finalmente, a gran voce, urla ai compagni della linea di aprire il fuoco senza badare a lui: e cosi viene ucciso, per salvare la integrità del campo minato. Il tenente Ferruccio Brandi ha difeso tenacemente il suo centro di fuoco, ma la furia dei carri lo ha sorpassato lateralmente: il suo fuoco non ha neppure fatto il solletico agli Sherman. Allora riunisce gli uomini, esce allo scoperto, contrattacca e volge in fuga le fanterie d'appoggio ai carri. Ma questi convergono sopra il suo nucleo. Brandi incendia uno Sherman con la bottiglia di benzina, quando una raffica di mitraglia gli fracassa la mandibola. orrendamente trasfigurato, ma continua la lotta e salva la posizione. E’ vivo: forse se la caverà. I suoi uomini sono andati da Zanninovich e hanno detto: « Signor maggiore, vogliamo la medaglia d'oro per il tenente ». Forse potrà guarire anche Luciano Maiolatesi paracadutista, che ha avuto la destra sfracellata

Del VII battaglione, senza tema di parzialità, conviene ricordare sette nomi, e gesta che testimoniano la tempra data ai suoi paracadutisti dal primo comandante, il tenente colonnello Marescotti Ruspoli di Poggio Suasa, e dal successore attuale, il capitano Carlo Mautino de Servat.

« Sparate! » L l'ordine supremo, gridato ai compagni dal caporalmaggiore Antonio Andriolo da Bassano. Ha difeso con successo il suo centro dì fuoco, modesto comandante di una squadra mortai: ora, dopo la terza gravissima ferita, e dopo aver contrattaccato alla baionetta il nemico che gli offriva la resa, sta morendo. Il tenente Roberto Bandini di Colle Val d'Elsa, antico granatiere, da sessanta ore, senza sosta, ha difeso la posizione che gli è affidata. Dopo la seconda ferita, che è grave, decide di rompere la minaccia e contrattacca all'arma bianca: è ucciso da un terzo proiettile. Ma il sottotenente Giovanni Gambaudo, piemontese come Mautino, si è visto cadere attorno quasi tutti gli uomini, è stato già colpito tre volte e resiste tenacemente: è ucciso alla quarta ferita. In un centro vicino è il sergente Nicola Pistillo, di San Giuliano dei Sannio Ha difeso la posizione per ventiquattr'ore, ed è già stato ferito, ma rimane al suo posto. Assiste alla sommersione del centro di Gambaudo, riunisce i suoi superstiti e ne ricaccia il nemico all'arma bianca e con le solite bottiglie di benzina sui carri. Ma il nemico ritorna: è nuovamente ferito, rifiuta di arrendersi: la terza ferita gli toglie i sensi, e solo così è possibile la sua cattura. Si spera sia vivo.

Il paracadutista Leandro Lustrissimi, anch'egli del VII, ha impedito con il suo lanciafiamme che i carri superino il varco a lui affidato, ma dopo ventiquattr'ore non ha più liquido infiammabile. E’, ferito: si difende con le bottiglie, ma viene fatto prigioniero, quasi privo di conoscenza. Poi si riprende, elettrizza i compagni, impegnano assieme un furioso corpo a corpo, si liberano, riescono a raggiungere e rioccupare il loro centro di fuoco. Un gruppo di carri interviene: Lustrissimi disseppellisce una mina e la butta sotto il carro di punta: la vampata e le schegge lo uccidono. Era di Subiaco e aveva ventiquattro anni. Il settimo della serie gloriosa è Leandro Franchi, paracadutista, romano, nato nel 1922. Anch'egli, più volte,ferito, viene sopraffatto e catturato, ma si ribella e d una sanguinosa lotta riesce a liberare un gruppo di compagni: e rientra alla sua linea, dalla terra di nessuno, portando in ispalla un ufficiale gravemente ferito. Non soltanto: guida per mano un altro ufficiale, accecato. In un nuovo attacco il nemico lo fa prigioniero una seconda volta: allora raccoglie la pistola d'un caduto e riprende la lotta: riesce a tornare malconcio tra i suoi. E’ vivo, ma sì teme rimanga cieco e offeso agli arti destri.

Il sacrificio della Folgore è stato alto. Questa cronaca ha già narrato come caddero quattro comandanti di battaglione e di gruppo, Aurelio Rossi e Anileto Carugno in agosto, Ferdinando Macchiato e Vincenzo Patella pochi giorni or sono. Ora sono caduti Marescotti Ruspoli, comandante il raggruppamento che porta sempre il suo nome, Gianni Bergonzi del VI, Francesco Vagliasindi della Torre di Randaccio che aveva sostituito Valletti Borgnini, ferito, al comando del IV. Dei comandanti di compagnia sono stati uccisi Costantino Ruspoli di Poggio Suasa, fratello maggiore di Marescotti e successore di Guido Visconti di Modrone alla ll^/IV, Gastone Simoni della 10a/IV e Felice Loffredo, capitano del genio, comandante i minatori paracadutisti; degli altri undici nominati cinque erano di cavalleria, quattro di fanteria e due d'artiglieria. Continua poi la serie dei tenenti e sottotenenti caduti: Malnig, Cioglia, Mariconda, Mascarin, Viti, Ghignone, Alessi, Mesina, Venturi, Pirami e Mechina. 1 numerosi dispersi non sì contano. La schiera dei sottufficiali uccisi è capitanata dal maresciallo Carta, sardo, artigliere, celebre per le sue qualità ippiche,e la sua severità. In settembre aveva condotto una famosa spedizione nella Depressione di Qattara, assieme al sergente maggiore Liber, padovano, anch'egli caduto i giorni scorsi. E ancora i sergenti maggiori Congami, Piagentini, Fuccaro, Orazio Rossi, Calogero; i sergenti Boi, Danelli, Di Maggio, Lemme, Macario, Vario e Valent: i graduati Beretta, Dubini , Ferro, Giorgi, Bondesan, Perotta, Bertolotti, Frati, Merigo , Giulli, Mario Rossi, Biglietti, Renato Ferrari, Villani, Di Toro e Zimei: e ancora a centinaia, paracadutisti di ogni grado.

(Con la M.O.V.M. m.llo Nicola Pistillo Festa delle M.O. Pisa Caserma Gamerra 1966 )

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- EL ALAMEIN La tattica della Folgore -



Le tattiche d'attacco inglesi presentavano sempre le stesse caratteristiche di estrema rigidità agli schemi studiati a tavolino, cioè prevedevano un iniziale forte tiro preparatorio d'artiglieria e poi, dopo l'allungamento del tiro, un'avanzata a ranghi serrati di formazioni molto consistenti di fanteria, precedute spesso da carri. I paracadutisti si opposero a questa tattica, sia rimanendo costantemente nelle proprie postazioni da combattimento non riparate durante il tiro di preparazione, per essere in grado di entrare immediatamente in azione al sopraggiungere delle truppe avversarie, sia aprendo il fuoco tutti contemporaneamente, alla minima distanza. Prima di far ciò, tuttavia, si lasciavano deliberatamente sopravanzare dal nemico, per sorprenderlo col fuoco incrociato delle armi automatiche sui fianchi e alle spalle. In tal modo essi riuscivano a creare lo scompiglio tra gli attaccanti che, sebbene nettamente superiori in uomini e armamenti, venivano messi nella terribile condizione psicologica di non sentirsi protetti alle spalle. Altra tattica apparentemente suicida, ma nella realtà ampiamente vincente, fu quella del "contrassalto preventivo", adottata per evitare lo scontro diretto all'arma bianca che avrebbe visto senz'altro prevalere il nemico. Quando gli attaccanti erano a poche decine di metri dalle postazioni italiane, i paracadutisti balzavano al contrattacco col lancio di bombe a mano, proprio nel momento in cui l'avversario era più vulnerabile. Approfittando poi della confusione creata dalla oro azione, riguadagnavano la posizione di partenza. In tal modo essi annullavano la forza d'impatto degli attaccanti, ne scompaginavano le fila ed influivano negativamente sul loro morale. Si spiega così come riuscirono ad avere sempre la meglio contro forze anche dieci volte superiori e senza subire apprezzabili perdite. Il contrassalto fu applicato anche negli scontri con i carri armati, utilizzando bottiglie incendiarie ed altri ordigni di fortuna che, se non erano in grado di bloccare totalmente l'avversario, riuscivano ugualmente a sorprenderlo e rallentarlo (anche i carristi inglesi subirono il negativo impatto psicologico di questi assalti, facendosi prendere dalla paura e dal disorientamento). Il vittorioso combattimento di Deir el Munassib del 30 settembre meritò alla Folgore la prima citazione sul bollettino di guerra italiano; la Divisione, in questa circostanza, riassumeva ufficialmente il proprio nome, abbandonando quello di copertura in quanto, con il suo eroico comportamento in battaglia, aveva già avuto modo di farsi ampiamente conoscere, e temere, dal nemico.

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LA BATTAGLIA DI EL ALAMEIN
di Massimiliano Afiero



Dopo la seconda controffensiva italo-tedesca in Africa settentrionale, la riconquista di Tobruk e di Marsa Matruh (vedi Storia del Novecento numero 17) le forze dell'Asse erano giunte alla fine di giugno 1942 a pochi chilometri da El Alamein: qui gli inglesi si erano trincerati per bloccare l'avanzata nemica verso Alessandria e il Cairo.
Ad El Alamein, in arabo "due bandiere", c'era soltanto una piccola stazione lungo la ferrovia che dal Delta del Nilo raggiungeva il confine con la Libia e che gli inglesi avevano prolungato fino in prossimità di Tobruk.
L'area desertica di estendeva dal mare per circa 70 chilometri fino alla depressione di el Qattara, una vasta area paludosa al di sotto del livello del mare, impraticabile e invalicabile per qualsiasi esercito motorizzato.
Proprio ad el Alamein si sarebbero giocate le sorti della guerra nel deserto tra l'asse e gli alleati e forse quello dell'intero conflitto.
La prima battaglia
Il generale Rommel, da poco nominato feldmaresciallo, malgrado le riserve dello Stato Maggiore italiano, assicurò di essere in grado di proseguire l'offensiva e sbaragliare definitivamente le forze inglesi.
Dall'altra parte Il Generale Auchinleck, pur reduce da cinque settimane di ininterrotte sconfitte e quindi consapevole della gravità della situazione era tuttavia deciso a resistere. Le forze a sua disposizione erano ancora sufficienti per poter difendere efficacemente Alessandria e il Delta del Nilo: a sua disposizione c'erano la maggior parte dei reparti della 50a divisione britannica, della 1a divisione sudafricana e della 2a divisione neozelandese del generale Freyberg.
Dall'Iraq era giunta la 18a Brigata indiana subito messa a difesa della posizione di Deir el Shein, mentre l'altra Brigata indiana, la 4a, aveva preso posizione ad Abu Weiss, più all'interno, ai margini della depressione di El Qattara.
Come forze corazzate, Auchinleck poteva contare sui 150 carri della 1a divisione corazzata e sugli autoblindo della 4a Brigata corazzata leggera, di recente creata.
Inoltre la RAF garantiva ancora un'eccellente copertura aerea tale da poter controllare dall'alto i movimenti del nemico.

Contro questa linea difensiva l'Armata italo-tedesca poteva opporre solo un'esigua forza corazzata formata da 35 carri tedeschi e poche decine di carri medi e leggeri delle Divisioni corazzate italiane "Ariete", "Littorio" e "Trieste" i cui reparti erano stati decimati nelle precedenti battaglie.
Malgrado la mancanza di forze adeguate Rommel era pronto a lanciare i suoi uomini all'attacco: sapeva benissimo che il tempo giocava a favore degli inglesi, e prima ancora che potessero rinforzarsi ulteriormente bisognava stanarli e distruggerli.

Data l'esigua consistenza delle forze a sua disposizione, un attacco lungo tutto il fronte difensivo nemico era da scartare per cui Rommel decise di attaccare proprio la posizione di el Alamein con i carri della 15a e della 21a Panzer Division e quelli della divisione corazzata Ariete.
Il piano di Rommel prevedeva una manovra avvolgente da nord per accerchiare il 13° Corpo d'Armata inglese.
Durante il pomeriggio del 30 giugno i reparti tedeschi si scontrarono lungo il perimetro difensivo di el Alamein con quelli della 4a Brigata Corazzata inglese costringendola a ripiegare verso Alam el Onsol: in prossimità della cresta Ruweisat gli inglesi riuscirono però a bloccare l'avanzata dei mezzi tedeschi. I reparti indiani della 18a Brigata si sacrificarono per tutto il giorno opponendo una tenace resistenza e distruggendo 18 dei 55 carri tedeschi che erano entrati in combattimento.
A bloccare definitivamente l'offensiva ci pensarono l'artiglieria e l'aviazione britannica: la prima con un potente fuoco di sbarramento mentre la Raf con attacchi a volo radente sulle colonne italo-tedesche.

Più a sud l'attacco dell'Ariete venne respinto dalla 2a divisione neozelandese: per le tre Brigate neozelandesi a ranghi completi fu facile avere ragione degli scarsi reparti della divisione italiana, ridotta a poco più di 15 mezzi corazzati, trenta pezzi di artiglieria ed un centinaio di bersaglieri.
I reparti della divisione si erano ritrovati allo scoperto nell'ampia depressione di Deep Well, ed erano stati attaccati contemporaneamente da tre lati dalle forze nemiche. Senza alcun riparo naturale non fu possibile organizzare nessuna difesa ne tantomeno fu possibile ripiegare in ordine.

La sconfitta della Divisione corazzata italiana colse di sorpresa lo stesso Rommel: "questo colpo ci arrivò del tutto inatteso, perché nei combattimenti durati lunghe settimane presso Knights Bridge l'"Ariete", sia pure sotto la protezione dell'artiglieria e dei carri tedeschi, si era battuta bene contro tutti gli assalti britannici, sebbene subisse sensibili perdite. Ora gli italiani non erano più in grado di rispondere alle enormi esigenze della situazione".

A partire dal 10 luglio ebbe inizio la prima battaglia difensiva di el Alamein, che si protrasse fino al 27 luglio.
Nella notte tra il 10 e l'11 luglio il generale Auchilenck, avuta la certezza che il grosso delle forze italo-tedesche era concentrato nel settore centro-meridionale del fronte, lanciò un attacco in quello settentrionale con la 9a divisione australiana e la 1a divisione sudafricana: l'obiettivo era la conquista delle alture di Tell el-Eisa e Tell el-Makh-Khad lungo la strada costiera.
A difesa del settore di Tell el-Eisa c'erano i reparti della divisione italiana Sabratha che vennero ben presto travolti dall'assalto degli australiani. Per chiudere la breccia vennero inviati rinforzi che riuscirono a fermare il nemico a sette chilometri dall'obiettivo e a infliggergli notevoli perdite soprattutto per quanto concerne i reparti corazzati.
Anche nel settore di Tell el-Makh-Khad l'attacco dei sudafricani venne bloccato dalla forte resistenza dei reparti italo-tedeschi.
Fallito l'offensiva britannica, Rommel tra il 12 ed il 14 luglio riorganizzò i suoi reparti tentando di ristabilire la precedente linea difensiva.
Il 15 luglio gli inglesi tornarono all'attacco nel settore dell'altura di Ruweisat questa volta al centro dello schieramento difensivo delle forze dell'Asse.
I primi ad essere investiti furono i reparti della divisione Brescia, che pur opponendo una fiera resistenza vennero ben presto travolti dall'attacco dei mezzi corazzati nemici; Rommel contrattaccò con tutte le sue forze disponibili ristabilendo la situazione a suo favore.
Un nuovo attacco nemico si verificò tra il 21 ed il 22 luglio, risolvendosi ancora una volta in un completo insuccesso per i britannici. Le forze italo-tedesche, malgrado le notevoli perdite, la mancanza di rifornimenti e la superiorità nemica in uomini e mezzi, mosse da indomito valore e spirito di sacrificio resistevano.
La seconda battaglia: Alam el-Halfa
Di fronte agli insuccessi di Auchilenck, il primo ministro inglese Churchill si vide costretto a sostituirlo: al comando dell'Ottava Armata venne designato il Generale Gott, un veterano della guerra nel deserto, mentre il comando generale del Medio Oriente fu assunto dal Generale Alexander. Il 7 agosto però Gott morì durante un volo di trasferimento in Egitto, quando l'aereo sul quale viaggiava venne abbattuto; il comando dell'Ottava Armata fu assunto così definitivamente dal Generale Bernard Law Montgomery.

Anche sul fronte italo-tedesco c'erano state delle novità: l'insieme delle truppe a disposizione di Rommel aveva assunto la denominazione di Armata corazzata italo-tedesca. Erano giunte nuove truppe: la divisione paracadutisti Folgore, la 164a divisione di fanteria tedesca, la 22a Brigata paracadutisti tedesca agli ordini del generale Ramcke e dalla Tripolitania erano giunti i reparti corazzati della divisione Littorio.

Il 28 agosto, sempre consapevole che il tempo giocava a favore del nemico, Rommel inviò ai reparti le direttive per la nuova offensiva che doveva scattare il 30 agosto: la manovra di Rommel prevedeva un avvolgimento da sud e poi una conversione a nord oltre il rilievo di Alam el-Halfa alfine di colpire il nemico sul fianco e alle spalle.

Insieme al Deutsche Afrika Korps, attaccarono il XX° Corpo Motorizzato italiano, con le Divisioni corazzate "Ariete" e "Littorio" e la Divisione motorizzata "Trieste", sul fianco sinistro della 15a e 21a Panzer division.

L'attacco iniziò nella notte tra il 30 ed il 31 agosto: i reparti corazzati tedeschi investirono il settore meridionale del fronte, con l'obiettivo di superare la zona dei campi minati, aggirare l'intero schieramento inglese e sboccare sulla costa all'altezza di El Hamman, alle spalle dell'Ottava Armata.
La 15a panzer division attacava con 70 carri PzKpfw III e IV e la 21a panzer con altri 120. Prima di mezzanotte, i reparti avanzati della 15a Panzer division vennero a contatto con le difese britanniche della fascia minata. Invece delle deboli forze previste, però i reparti tedeschi trovarono profondi campi minati e una forte resistenza nemica. Il 1° battaglione del 115° reggimento granatieri corazzato (15a Panzer division), agli ordini del Maggiore Busch, si trovò sotto un potente fuoco di sbarramento dell'artiglieria prima di dover fronteggiare un contrattacco della fanteria britannica. Urgevano subito rinforzi: l'arrivo del 2° battaglione, agli ordini del Capitano Weichsel, salvò la situazione. I granatieri tedeschi superarono di slancio lo sbarramento minato, riuscendo a stabilire una testa di ponte rendendo così possibile la creazione di un passaggio per i carri della 15a Panzer division.

Il Generale Walther Nehring, comandante dell'Afrika Korps, guidò l'assalto dei suoi uomini seguendo la 21a Panzer: insieme con lui, a bordo della sua autoblindo-comando, il Capo di Stato Maggiore, Colonnello Bayerlein. Poco dopo l'inizio dell'attacco, giunse la prima triste notizia: la morte del comandante della 21a Panzer Division, Generale Georg von Bismarck, caduto alla testa della sua unità, mentre tentava di attraversare la zona dei campi minati. I reparti italo-tedeschi continuavano a combattere di fronte ai campi minati, strenuamente difesi dal nemico mentre dall'alto, la Raf colpiva a volo radente le colonne motorizzate nemiche.
Per meglio illuminare il campo di battaglia gli aerei inglesi lanciavano bombe al magnesio che si incendiavano quando toccavano il suolo: il bagliore delle esplosioni illuminava per molto tempo l'area circostante, permettendo così ai piloti di scorgere i movimenti dei reparti nemici.
Dopo la morte di von Bismarck, il comando dell'Afrika Korps perse anche il generale Nehring, rimasto ferito nel corso di un bombardamento aereo: la guida dei reparti corazzati avanzati venne assunta dal colonello Bayerlein.
Solo poco prima dell'alba, la resistenza dei reparti britannici a difesa della zona dei campi minati nel settore meridionale iniziò a scemare: le punte corazzate del DAK penetrarono per circa 12-15 chilometri oltre la linea difensiva nemica invece dei 50 previsti.
Il piano di Rommel di penetrare profondamente verso est e di ruotare all'alba verso la costa, era dunque fallito.

Dalle memorie del colonello Bayerlein:

"Riflettemmo se interrompere la battaglia, perché gli inglesi sapevano ormai dove eravamo. Rommel parlò con me della situazione e giungemmo alla decisione di continuare l'attacco. Ma una cosa era evidente: la "grande soluzione", ossia il vasto aggiramento dell'Ottava Armata, non era più possibile, in quanto l'avversario aveva avuto il tempo sufficiente per preparare le sue contrazioni. L'avversario ci costringeva dunque alla "piccola soluzione": essa consisteva nel fatto che noi dovevamo girare verso nord assai prima di quanto progettato e, in tal modo, urtare direttamente contro il dorso dell'altura di Alam Halfa, con l'importante quota 132, che doveva essere conquistata mediante un attacco diretto".

Ad aggravare ulteriormente la situazione subentrò il mancato arrivo dei rifornimenti di carburante: le petroliere che dovevano assicurare la benzina per i mezzi corazzati delle forze italo-tedesche erano state tutte affondate o gravemente danneggiate durante il tragitto nel Mediterraneo.

Il 31 agosto, i Panzer tedeschi attaccarono l'altura di Alam Halfa, difesa nel settore centro-orientale dai reparti della 44a Divisione di fanteria britannica e della 10a divisione corazzata britannica nel settore occidentale.
Una provvidenziale tempesta di sabbia, bloccò a terra l'aviazione nemica: cogliendo al volo questa inaspettata circostanza, i panzer tedeschi attaccarono immediatamente a sud dell'altura, scontrandosi con i carri Grant della 22a Brigata corazzata inglese.
L'attacco non ebbe successo per l'ostinata resistenza nemica: nel tardo pomeriggio, i panzer tedeschi furono costretti a ripiegare verso sud, raggruppandosi nella depressione Ragil.
Per rinforzare le posizioni di Ruweisat Montgomery vi trasferì una Brigata sudafricana ed altri reparti per bloccare definitivamente la spinta offensiva nemica.
Il 1° settembre, la 15a Panzer Division, passata temporaneamente agli ordini del Colonnello Crasemann, fu lanciata contro l'altura di Alam Halfa e, dopo durissimi combattimenti riuscì ad arrivare quasi fino alla quota 132, punto strategico di vitale importanza.
Se si superava lo sbarramento nemico alla quota 132 i panzer tedeschi avrebbero avuto via libera verso il mare. Anche il nemico era consapevole dell'importanza della posizione per cui le forze tedesche vennero bombardate incessantemente dall'artiglieria e dall'aviazione. I carri dell'8° Panzerregiment della 15a divisione corazzata tedesca erano riusciti a penetrare nelle linee avversarie giungendo a soli 8 chilometri dalla costa alle spalle del fronte di El Alamein.
Ma, sulla sinistra, il 5° Panzerregiment della 21a Panzer Division era bloccato davanti alle posizioni difensive britanniche, con i carri e la fanteria motorizzata sotto il fuoco dei caccia nemici.

Dopo tre giorni di durissimi combattimenti, considerando le perdite e la mancanza di carburante, Rommel si vide costretto a sospendere l'offensiva e ad ordinare l'arretramento del fronte difensivo.

Il 4 settembre gli inglesi lanciarono l'operazione Beresford nel tentativo di eliminare il saliente che le forze italo-tedesche erano riuscite a creare durante l'ultima offensiva, nella zona di Deir Alinda, Deir el Munassib e Deir Munafid.
L'attacco inglese si arenò davanti alla forte resistenza dei reparti della divisione Folgore, che riuscirono a respingere le puntate offensive del nemico infliggendogli notevoli perdite.
COLPO DI MANO A TOBRUK
Per tentare di allegerire la pressione nemica sul fronte di El Alamein, gli inglesi tentarono tra il 13 ed il 14 settembre un attacco a sorpresa contro la piazzaforte di Tobruk: l'attacco congiunto dall'entroterra con reparti del Long Range Desert Group e dal mare con reparti di Royal Marines, appoggiati da una squadra navale si risolse in un completo insuccesso.
Le forze italiane a difesa del porto (un battaglione del Reggimento San Marco, elementi del XVIII° battaglione carabinieri, il V° battaglione libico ed una compagnia di formazione della Marina), seppero reagire prontamente e stroncarono sul nascere il velleitario tentativo nemico. Grazie anche al pronto intervento dell'Aeronautica italiana e della Luftwaffe gli inglesi subirono gravi perdite: oltre a più di cinquecento uomini dei reparti speciali gli inglesi lamentarono la perdita dell'incrociatore Coventry, dei cacciatorpediniere Sikh e Zulu e 7 motosiluranti.

Il 23 settembre, spossato dalla fatica e bisognose di un periodo di cure ma soprattutto di riposo, Rommel lasciò il comando dell'Armata corazzata italo-tedesca, sostituito dal Generale Georg Stumme, veterano del fronte dell'est.

Al mattino del 30 settembre nei pressi di Deir el Munassib, all'estremità meridionale del fronte, gli inglesi attaccarono di nuovo: a difesa di quella posizione c'erano i paracadutisti del IX° battaglione del 187° Reggimento Folgore. Dall'altre parte c'era un battaglione del Queen's Royal Regiment, appoggiato da circa 40 carri. Dopo aver pesantemente bombardato per oltre un'ora le posizioni dei parà, la fanteria nemica approfittando del fumo alzatosi dopo le esplosioni riuscì a penetrare attraverso alcuni varchi prodotti dalle artiglierie nella zona dei campi minati.
La reazione dei paracadutisti non si fece però attendere: una prima colonna inglese si ritrovò in mezzo al campo di tiro della 25a e 26a compagnia paracadutisti, mentre l'altra colonna si scontrò con la 27a compagnia ed il battaglione tedesco "Hubner".
Seguirono durissimi scontri che videro gli inglesi lamentare pesanti perdite e quindi decidersi a ripiegare per evitare l'annientamento. Negli scontri i britannici lamentarono la perdita di 200 uomini tra morti e feriti e circa 150 prigionieri.
La terza battaglia di El Alamein
Mentre le forze italo-tedesche erano sempre in attesa di ricevere adeguati rinforzi e rifornimenti, sull'altra sponda grazie agli aiuti americani non c'era di che lamentarsi.
Zio Sam aveva fatto affluire nei porti egiziani carri armati, artiglierie, automezzi, montagne di munizioni e milioni di litri di carburante.
L'aggravarsi della situazione militare sul fronte dell'est, non aveva consentito a Berlino di inviare ulteriori rinforzi in Africa settentrionale, cosi come lo Stato Maggiore italiano aveva pensato bene di inviare sul fronte russo mezzi e uomini che sarebbero stati di vitale importanza per il conseguimento del successo sul fronte africano.
Mancarono la fortuna e non il valore come si scrisse dopo, ma mancò anche nelle nostre alte gerarchie militari la volontà di vincere, quasi come se qualcuno stesse veramente già pensando ad una pace con gli alleati e pur di raggiungerla stava portando allo sfacelo le nostre forze armate.
Quindi la famosa frase potrebbe essere modificata in "Mancarono la fortuna, i mezzi e la volontà, che resero vano il valore dei nostri soldati".
Durante il periodo antecedente la fase finale della battaglia i reparti italo-tedeschi furono impegnati nel fortificare le posizioni difensive e stendere una vasta fascia di campi minati, i cosiddetti "giardini del diavolo", vaste zone di terreno zeppe di mine e trappole esplosive.
LE FORZE IN CAMPO
L'Armata Corazzata Italo-Tedesca, alla vigilia dell'ultima battaglia di El Alamein, allineava:

a nord il XXI° Corpo d'Armata (Gen. Gloria) compredente le divisioni di fanteria italiane Trento e Bologna, la 164a infanteriedivision tedesca e due battaglioni della Brigata paracadutisti Ramcke.
La presenza di reparti misti alternati, italiani e tedeschi, fu ritenuta necessaria da Rommel, alfine di bilanciare l'insufficiente armamento italiano.

A sud, il X° Corpo d'Armata (Gen. Frattini) con le divisioni di fanteria Brescia e Pavia, la divisione paracadutisti Folgore e gli altri due battaglioni della Brigata Ramke.

Dietro questa prima linea c'erano le forze corazzate mobili: a nord la 15a Panzer Division e la divisione corazzata Littorio (Gen. Bitossi), a sud la 21a Panzer Division e la divisione corazzata Ariete (Gen. Arena).
La divisione motorizzata Trieste (Gen. La Ferla) e la 90a Leichte division Tedesca erano dislocate ancora più a tergo dello schieramento, lungo la fascia costiera, per respingere un eventuale sbarco inglese.

L'intero schieramento comprendeva in totale:

104.000 uomini (circa 55.000 italiani), 751 pezzi di artiglieria, 522 pezzi anticarro, 489 carri armati (211 tedeschi, 278 italiani), poche decine di autoblindo, 675 aerei (di cui solo 150 tedeschi e 200 italiani efficienti).

L'Ottava Armata inglese schierava invece, a nord, in prima linea, il XXX° Corpo d'Armata (Gen. Leese), comprendente la 9a Divisione australiana, la 51a "Highland", la 2a neozelandese, la 1a sudafricana e la 4a indiana.
Più a sud, c'era il XIII° Corpo d'Armata (Gen. Horrocks), comprendente le divisioni di fanteria 50a e 44a, la brigata della "Francia Libera" ed un gruppo di brigata greco.

In seconda linea, a tergo del XXX° Corpo, c'era il X° Corpo d'armata (Gen. Lumsden), con le Divisioni corazzate 1a e 10a, mentre dietro al XIII° Corpo c'era il grosso della 7a Divisione corazzata.

A disposizione di Montgomery c'erano inoltre inoltre, una Brigata indiana, una Brigata corazzata, due Brigate di artiglieria contraerea e una Brigata di fanteria indiana.

In totale: 220.000 uomini, 1348 carri armati, 400 autoblindo, 939 pezzi di artiglieria, 1200 aerei da caccia e da bombardamento.

Già da queste cifre la sproporzione delle forze è alquanto evidente, se poi iniziamo a considerare anche la qualità degli armamenti la situazione delle forze dell'Asse era catastrofica.

Le formazioni corazzate inglesi disponevano di 285 carri Sherman, 246 Grant, 421 Crusader, 167 Stuart, 223 Valentine e 6 Matilda.
I 489 carri dell'Asse, comprendevano 239 carri medi e 20 carri leggeri italiani, nettamente inferiori ai carri Sherman e Grant di costruzione americana ma anche ai Crusader inglesi.
Inferiori erano anche i 30 carri leggeri tedeschi Panzerkamfwagen II, mentre i 170 PanzerKampfwagen III reggevano appena il confronto.
Gli unici carri superiori a quelli nemici erano i 38 Panzerkampfwagen IV tedeschi, alcuni dei quali montavano il cannone da 75mm.
Da parte italiana, gli unici mezzi validi erano i semoventi da 75/18, delle divisioni corazzate Ariete e Littorio.
Per quanto riguarda le armi anticarro, gli italiani disponevano del superato pezzo da 47/32 e i tedeschi dell'altrettanto inefficace 50/35.
Gli unici pezzi di rilievo erano il cannone da 88/55 tedesco, vero terrore dei carri nemici, e il cannone italiano da 90/53.
Gli inglesi erano dotati dell'ottimo pezzo da 57mm entrato in servizio proprio nell'estate del '42. L'artiglieria nemica era quantitativamente e qualitativamente nettamente superiore, considerando anche che la maggior parte dell'artiglieria italiana allineava ancora vecchi cannoni risalenti alla prima guerra mondiale.
Ai 1200 aerei della RAF Rommel poteva opporre solo 700 aerei (di cui efficienti solo 150 caccia e 180 bombardieri.
Operazione Lightfoot
L'Operazione Lightfoot messa a punto dallo Stato maggiore di Montgomery prevedeva un massiccio attacco nel settore settentrionale del fronte, con le quattro Divisioni del XXX° Corpo e le due Divisioni corazzate del X° Corpo, mentre nel settore meridionale, sarebbe stato lanciato un attacco diversivo, per mascherare la direttrice principale dell'offensiva.

Alle 20.40 del 23 ottobre 1942, l'artiglieria inglese con circa mille pezzi da campagna aprì il fuoco contro le posizioni italo-tedesche ad El Alamein: un uragano di fuoco si rovesciò sulle teste dei nostri soldati.
Inizialmente vennero colpite le posizioni dell'artiglieria poi dopo quindici minuti il fuoco fu diretto contro le posizioni difensive avanzate.
Poco dopo la fanteria nemica si mosse per aprire i varchi nei campi minati per il passaggio dei mezzi corazzati.
Ovunque si accesero furiosi combattimenti che videro impegnati per primi i battaglioni del 62° Reggimento della divisione Trento e quelli del 382° Reggimento tedesco (164a Infanteriedivision).
Nel settore nord del fronte l'attacco della 9a divisione australiana e della 51a inglese, permise una prima penetrazione dei carri della 1a e 10a divisione corazzata all'interno del dispositivo difensivo italo-tedesco. Un pronto contrattacco della Trento, da parte del III° Battaglione del 61° Reggimento, appoggiato dai cannoni del I° e III° Gruppo del 46° Reggimento, riuscì a bloccare l'offensiva nemica, lasciando i fanti e i carri nemici in balia in mezzo ai campi minati.
Al centro dello schieramento, anche l'attacco della 4a divisione indiana contro la cresta di Ruweisat venne bloccato dai fanti della divisione Bologna.
Più a sud ci pensarono i paracadutisti della Folgore a fermare la fanteria della 44a divisione inglese e i carri della 7a divisione corazzata: i parà dell'VIII° Battaglione guastatori e del VII° battaglione del 186° Reggimento, agli ordini del tenente colonello Ruspoli, grazie all'appoggio del V° Gruppo di artiglieria e di alcuni Panzer tedeschi bloccarono in mezzo ai campi minati gli inglesi.
Un altro attacco di una formazione mista comprendente inglesi e francesi quasi al confine della depressione di El Qattara cozzò contro le difese del V° battaglione del 186° Reggimento a Nagh Rala. Un contrattacco portato dai paracadutisti insieme al II° battaglione del 27° Reggimento della divisione Pavia frenò definitivamente l'offensiva nemica.
Nei cieli di El Alamein i piloti italiani del 4° e 5° stormo caccia e del 50° stormo d'assalto, a bordo dei superati Fiat CR.42, si stavano battendo valorosamente contro la superiorità aerea della RAF.

Al mattino del 24 ottobre, Montgomery non poteva dirsi certo soddisfatto circa l'andamento delle operazioni: malgrado qualche piccolo successo locale il grosso delle sue forze era ancora bloccato davanti ai campi minati antistanti lo schieramento difensivo nemico. Per incitare i suoi comandanti di divisione a fare meglio, arrivò addirittura a minacciarli di sostituzione.
Sul fronte italo-tedesco vennero lanciati una serie di contrattacchi per ristabilire la linea del fronte ed eliminare le brecce aperte in seguito all'attacco nemico.
Sul fronte meridionale il contrattacco portato dai paracadutisti della Folgore pur concludendosi positivamente costò la vita al comandante Ruspoli.
In quelle ore cadde anche il generale Stumme, stroncato da un attacco cardiaco mentre la sua vettura era finita sotto il fuoco nemico.

Bollettino n.882 del 25 ottobre 1942:

"Dopo intensa preparazione di artiglieria il nemico ha attaccato i settori settentrionali e meridionale del fronte di El Alamein con importanti forze blindate e di fanteria. L'avversario, ovunque respinto, ha subito gravi perdite soprattutto in mezzi corazzati, di cui 47 risultano finora distrutti. La battaglia continua. L'aviazione britannica, intervenuta con poderose formazioni a sostegno dell'azione terrestre, è stata efficacemente contrastata dalla caccia dell'Asse che abbatteva 16 apparecchi in fiamme; altri 4 precipitavano al suolo sotto il tiro delle batterie contraeree".
IL RITORNO DI ROMMEL
Intanto Rommel, era ancora in convalescenza in Austria: non appena gli venne comunicata telefonicamente l'inizio dell'offensiva inglese non ci pensò due volte a far subito i bagagli per il fronte africano. Alle ore 23.25 del 25 ottobre, tutti i reparti italo-tedeschi sul fronte di El Alamein ricevettero il seguente messaggio:

"Ho ripreso il comando della Panzerarmee - Rommel".

Solo nel pomeriggio del 26 ottobre, gli inglesi ripresero l'offensiva, facendola sempre precedere dal fuoco di preparazione dell'artiglieria.
A nord gli inglesi attaccarono nell'area denominata Kidney Bridge con la 9a divisione australiana e la 51a inglese: dopo alcune penetrazioni locali, l'offensiva venne bloccato dall'intervento dei reparti della 15a Panzer Division e della divisione corazzata Littorio.
Sul fronte meridionale, ancora una volta l'attacco inglese portato dalla 44a divisione inglese venne fermato nei pressi di Deir el Munassib dai paracadutisti della Folgore.
Il 27 ottobre, Rommel decise di contrattaccare nel settore settentrionale con la 90a Leichte Division, la 21a Panzer e reparti della divisione corazzata Ariete.
Il tentativo fu vanificato dal potente fuoco di sbarramento dell'artiglieria nemica e dall'intervento dei bombardieri nemici che colpirono duramente le colonne italo-tedesche.
Dal 28 ottobre si ritornò sulla difensiva: malgrado la superiorità dei mezzi a disposizione Montgomery non riusciva a creare un varco nella linea difensiva nemica.
Questa situazione di attacchi e contrattacchi durò fino alla fine di ottobre, senza alcun risultato di rilievo né da una parte né dall'altra: un logorio continuo di uomini e di mezzi che giocava come già detto più volte, a favore degli inglesi.
OPERAZIONE SUPERCHARGE
A partire dal 1 novembre Montgomery passò ai suoi comandi le ultime direttive per l'operazione Supercharge: il vecchio Monty voleva una volta per tutte travolgere le difese italo-tedesche con una massa corazzata appoggiata da tutta l'aviazione alleata disponibile.
Questa volta l'attacco decisivo doveva essere portato nel punto di congiunzione tra lo schieramento tedesco e quello italiano, con il maggiore sforzo contro i reparti italiani ritenuti più vulnerabili.
Dopo il solito bombardamento dell'aviazione e dell'artiglieria, all'alba del 2 novembre iniziò l'attacco delle fanterie e dei mezzi corazzati. Mentre la 9a divisione australiana effettuava un attacco diversivo in direzione della costa, più a sud passando attraverso un varco creato nei campi minati la 9a Brigata corazzata (2a divisione neozelandese) doveva aprire la strada alle divisioni corazzate del X° Corpo d'Armata (1a e 10a).
Quando la 9a Brigata stava per giungere nei pressi della pista Rahman, venne a contatto con le difese anticarro tedesche, perdendo ben 73 dei suoi 94 carri nei combattimenti. Tuttavia il suo sacrificio non fu vano, dal momento che le altre divisioni corazzate inglesi riuscirono a passare attraverso lo schieramento nemico e ad ingaggiare battaglia.
Il comandante del Deutsche Afrika Korps, generale Ritter von Thoma, si vide costretto a lanciare in combattimento tutti i mezzi corazzati ancora a sua disposizione, per tentare di fermate gli inglesi: i resti della 15a e 21a Panzer Division ed i reparti corazzati della Littorio e della Trieste.
Appena un centinaio di carri contro più di duecento carri nemici: i nostri valorosi carristi a bordo degli M13 e M14 poco potevano contro i potenti Grant e Sherman, ma si lanciarono comunque all'attacco, per l'onore e per la patria.
L'assalto nemico venne temporaneamente bloccato, e Rommel voleva approfittarne per effettuare un ripiegamento all'altezza di Fuka e salvare la maggior parte dei reparti italo-tedeschi. Ma il 3 novembre da Berlino e da Roma arrivò l'ordine di "mantenere a qualunque costo attuale fronte".
Nella serata del 3 novembre le divisioni italiane Littorio, Trieste ed Ariete ricevettero l'ordine di ritornare in prima linea e prendere contatto con il nemico.
Nel frattempo Montgomery proprio durante la notte tra il 3 ed il 4 novembre ordinò una manovra di aggiramento della sacca di Tell el Aqqaqir ed un attacco generale tra la costa e la depressione di Deir Abu Busat.
La 9a divisione australiana travolse i reparti della 90a Leichte division, mentre le divisioni corazzate 1a e la 10a piombarono sugli altri reparti del Deutsche Afrika Korps. La divisione corazzata Ariete si ritrovò isolata, mentre la Littorio continuava a battersi con gli ultimi 20 carri rimasti in organico.
Proprio la divisione Ariete insieme ai resti della Littorio e della 15a Panzer Division venne impiegata per coprire la ritirata alle altre forze: finalmente da Roma, valutata l'inutilità della lotta ad oltranza, era giunto l'ordine di ripiegamento.

I carristi dell'Ariete si sacrificarono fino all'ultimo quando venne inviato l'ultimo messaggio radio:

"Carri armati nemici fatta irruzione a sud dell'"Ariete"; con ciò "Ariete" accerchiata. Trovasi circa 5 chilometri nord-est Bir el-Abd. Carri "Ariete" combattono".

A proposito dei carristi italiani e della giornata del 4 novembre scrisse Rommel nelle sue memorie:

"La disperata lotta dei piccoli e scadenti carri italiani del XX° Corpo contro i pesanti carri britannici che avevano aggirato gli italiani, vide i nostri camerati battersi con straordinario calore…
I carri armati della Littorio e della Trieste venivano abbattuti uno dopo l'altro dai britannici. I cannoni anticarro da 47mm, esattamente come i nostri da 50mm, non avevano alcuna efficacia contro i carri inglesi…
La sera il XX° Corpo italiano, dopo valorosa lotta, era annientato. Con l'Ariete perdemmo i nostri più anziani camerati italiani, ai quali, bisogna riconoscerlo, avevamo sempre chiesto più di quello che erano in grado di fare con il loro cattivo armamento".

Nel settore meridionale, anche le forze del X° Corpo d'Armata italiano erano state annientate: le divisioni Brescia, Pavia e Folgore.
Quando giunse l'ordine di ripiegamento ai decimati reparti della Folgore ormai era troppo tardi: senza autocarri i paracadutisti marciarono nel deserto a piedi nudi, trascinandosi a mano le poche mitragliatrici e i cannoni rimasti. Per tre lunghissimi giorni vagarono nel deserto finchè non furono tutti catturati dal nemico. Su 5.000 effettivi dell'organico iniziale, restavano solo 300 superstiti tra ufficiali e soldati.

Il 5 novembre le forze italo-tedesche ripiegarono su Fuka, ed il 6 su Marsa Matruh; il 12 venne raggiunta la linea Tobruk-el Adem.
LE PERDITE
La battaglia di El Alamein costò all'Armata italo-tedesca 25.000 uomini, tra morti, feriti e dispersi, oltre a 30.000 prigionieri: tra questi ultimi anche 10.724 tedeschi, compreso il comandante dell'Afrika Korps, Generale von Thoma.
Da parte inglese si lamentava la perdita di 13.560 uomini, tra morti, dispersi e feriti e 600 carri armati fuori combattimento.
Vista l'enorme sproporzione di forze in uomini e mezzi all'inizio della battaglia, le perdite inglesi sono da ritenersi troppo alte.

TESTIMONIANZE DEL NEMICO
Quando si parla della battaglia di El Alamein si pensa subito a due nomi: Rommel e Folgore. La divisione paracadutisti italiana si battè valorosamente, ma anche le altre nostre divisioni si comportarono altrettanto valorosamente. Queste testimonianze rivolte in modo specifico ai combattenti della Folgore, desideriamo dedicarle a tutti i soldati italiani che sacrificarono la loro vita in terra d'Africa combattendo con mezzi inferiori un nemico dieci volte superiore.

"gli italiani si sono battuti molto bene. la divisione paracadutisti folgore ha resistito al di la' di ogni possibile speranza". (Radio Cairo, 8 Novembre 1942
)

"la resistenza opposta dai resti della divisione folgore e' stata ammirevole". (Reuter Londra, 11 Novembre 1942)

"gli ultimi superstiti della folgore sono stati raccolti esanimi nel deserto. la folgore e' caduta con le armi in pugno". (B.B.C. Londra, 3 Dicembre 1942)

"dobbiamo davvero inchinarci davanti ai resti di quelli che furono i leoni della folgore". (B.B.C. Londra, Discorso del 1° Ministro Churchill, alla camera dei comuni)


Massimiliano Afiero



Bibliografia:

M. Montanari, "Le operazioni in Africa settentrionale", Ufficio Storico S.M.E.
A. Bongiovanni, "Battaglie nel deserto", Mursia editore
AA.VV., "Soldati e Battaglie della 2GM: Africa settentrionale numero 3", Hobby & Work editrice
B.P. Boschesi, "Le Armi, I protagonisti,…della guerra di Mussolini", Mondadori editore