El Alamein
Storia di una Battaglia
L'offensiva nel deserto
CARLO DE RISIO
SESSANTANNI fa, di questi giorni, gli italiani seguivano con interesse e trepidazione le operazioni in Africa Settentrionale, dopo la conquista della piazzaforte di Tobruk, avvenuta il 21 giugno 1942.
Il nome della località, sulla costa mediterranea, aveva trovato ampio spazio nei resoconti giornalistici dei mesi precedenti, perché gli inglesi avevano sostenuto con successo l'assedio degli italo.tedeschi. Ora quella formidabile posizione era caduta, schiudendo insperate possibilità all'Armata di Rommel.
In uno dei loro incontri, Mussolini e Hitler avevano concordato la strategia nello scacchiere mediterraneo. In caso di favorevole esito dell'offensiva in Libia, fissata per il 26 maggio, Rommel si sarebbe dovuto fermare sul confine libico‑egiziano, arroccandosi sulle posizioni di Halfaia e Sollum. Riordinate le forze aeree, sarebbe iniziato l'attacco a Malta (operazione «Hercules»). Soltanto dopo aver assicurate le vie di rifornimento, l'Armata corazzata avrebbe invaso l'Egitto (operazione «Aida»).
Il repentino collasso delle difese di Tobruk mandò all'aria l'intero piano. Rommel, promosso al grado di Feldmaresciallo, montò sul cavallo d'Orlando e puntò su Alessandria, Il Cairo, il Canale di Suez. Fu l'illusione di un attimo. Con le truppe a corto di fiato, la spinta offensiva si esaurì a El Alamein, una sconosciuta località del deserto occidentale egiziano, destinata tuttavia a dare il nome a una delle battaglie decisive del secondo conflitto mondiale.
Winston Churchill si trovava alla Casa Bianca per importanti colloqui con Roosevelt, quando giunse la notizia che Tobruk si era arresa.
Il Capo di Stato Maggiore Generale Imperiale britannico, Alan Brooke, che accompagnava il Premier, scrisse in seguito: «Ricordo questo episodio come se fosse accaduto ieri. Churchill e io stavamo parlando con il Presidente seduti davanti alla sua scrivania, quando Marshall entrò nella stanza con un foglietto di carta rosa contenente la notizia della caduta di Tobruk. Né Winston né io avevamo mai contemplato questa possibilità, e la notizia fu per noi un colpo terribile».
Churchill, a sua volta, scrisse: «Non cercai di nascondere al Presidente l'emozione provata: era un momento assai amaro. La disfatta è una cosa, la vergogna è un'altra».
Appena quattro mesi prima, con la capitolazione di Singapore, 85 mila soldati inglesi e del Commonwealth si erano arresi ai giapponesi. Ora era la volta di altri 33 mila soldati inglesi e sudafricani ad alzare le mani davanti agli italo‑tedeschi.
Roosevelt chiese a Churchill: «Che cosa possiamo fare per voi?». E il Premier, di rimando: «Inviare in Medio Oriente, il più celermente possibile, tutti i carri armati Sherman e tutti i semoventi che avete». Ma sarebbero i rinforzi arrivati in tempo?
La perdita dell'intero presidio, con sette generali, era di per sé grave, ma non tutto si riduceva a quegli uomini.
Entro il perimetro delimitato dai forti Pilastrino, Solaro, Arienti, le truppe dell'Asse avevano preso un cospicuo bottino: 2.000 automezzi, quantitativi di munizioni e altro materiale bellico, 2.000 tonnellate di benzina.
Paolo Caccia Dominioni ‑ che nel dopoguerra trascorse anni a El Alamein, all'opera pietosa di raccogliere i resti dei caduti di tutti gli eserciti belligeranti ‑ diede, in un libro che vinse il «Premio Bancarella», una vivida immagine del bottino fatto a Tobruk: «Vi sono alte piramidi di birra in scatola, baracche strapiene di farina bianchissima, di sigarette, di tabacco, di uniformi bellissime: e tonnellate di corredi kaki, quella meravigliosa tela a grossa trama che pare pesante e quando la si mette sembra di portare un velo rinfrescatore. E marmiellate, e fiumi di whisky, e scatolame prezioso». Il tutto subito presidiato da sentinelle tedesche «dalla fucilata facile». Secondo l'Intendenza dellÁfrika Korps «per disciplinare la distribuzione», secondo gli scanzonati soldati italiani «per beccarsi tutto loro».
Alle 9,45 del 21 giugno, dopo aver accettato la resa dal generale sudafricano Klopper, Rommel diramò imperiosamente a tutti i comandi dipendenti il messaggio: «La fortezza di Tobruk ha capitolato. Tutte le unità si riuniscano e si preparino per l'ulteriore avanzata». Fino a dove? Che cosa aveva in mente la vecchia volpe?
Lontano, a migliaia di chilometri di distanza, a Palazzo Venezia e al Quartier Generale di Hitler, la vittoria nel deserto ebbe l'effetto di una bomba.
Mussolini cercava da tempo l'occasione propizia per mettere piede in Libia ed essere poi presente nella marcia trionfale delle truppe su Alessandria d'Egitto; Hitler stava ancora scrollandosi di dosso le amarezze di un lungo inverno che aveva inchiodato le sue truppe sul fronte russo. I capi dell'Asse avevano insomma «fame» di vittorie, anche per tranquillizzare il fronte interno. Per questo, la propaganda, a Roma e a Berlino, diede fiato alle trombe e mai come in quel momento italiani e tedeschi si interessarono alla guerra nel deserto, convinti che fosse «la volta buona» per conseguire un successo conclusivo.
Al fronte, le cose di presentavano in maniera diversa.
Erano trascorsi esattamente venticinque giorni da quando, in una notte di plenilunio, Rommel aveva ordinato il «caso Venezia», mettendosi con la sua autoblindo alla testa di 500 carri armati e 10 mila automezzi. Contrariamente alle previsioni, lo sperato «blitz» alle spalle dell'Ottava Armata inglese si era trasformato in una battaglia di logoramento, con feroci scontri tra mezzi corazzati e artiglierie.
A Sidi Muftah, Bir Hacheim, Knightsbridge, il cozzo tra le opposte forze era stato violento. Poi, la superiorità tattica degli italo-tedëschi era prevalsa e tra l'll e il 12 giugno ‑ come scrive lo storico Correlli Barnett ‑ «le forze corazzate britanniche, attaccate da tutte le parti, subirono la più grande disfatta della loro storia». Centinaia di carri armati, anneriti dagli incendi, punteggiarono il deserto della Marmarica e lentamente, ma inesorabilmente, la battuta passò all'Afrika Korps e al Ventesimo Corpo d'Armata italiano.
L’Ottava Armata inglese non disponeva più di una forza corazzata in grado di opporsi alle truppe dell'Asse.
Rommel compì una finta in direzione della frontiera libico‑egiziana; poi tornò indietro e investì Tobruk, trovando intatti (incredibile ma vero) i depositi di munizioni apprestati nell'autunno del 1941, quando aveva pensato di investire la piazzaforte. Era seguito l'attacco vittorioso a Tobruk, preceduto da un devastante impiego dell'aviazione italiana e tedesca.
Anche l'Armata corazzata aveva però pagato un prezzo elevato. Molte unità non avevano più lineamenti organici e vuoti preoccupanti si erano aperti nella 15a e 21a Panzer, nella 90a Divisione leggera tedesca, nella Divisione corazzata «Ariete» e nei ranghi della Divisione motorizzata «Trieste»: sensibili anche le perdite subite dalle Divisioni di fanteria del X e XII Corpo d'Armata. Conclusione: si imponeva una sosta per riprendere fiato, per ricevere rinforzi adeguati e tutto lasciava presagire che gli Alti Comandi, in Italia e in Germania, avrebbero suggerito prudenza nella successiva condotta delle operazioni.
A Klessheim, il 28 e 29 aprile, Hitler e Mussolini, accompagnati dai rispettivi capi di Stato Maggiore, avevano definito un piano complessivo per la guerra nel settore mediterraneo.
Forze notevoli erano state adunate per eliminare, finalm~e, la spina rappresentata da Malta. Gli aerei, i sommergibili, anche le navi di superficie di base nell'isola, avevano imposto un pesante pedaggio ai convogli dell'Asse e molti rinforzi erano finiti in fondo al Mediterraneo.
Lo Stato Maggiore italiano aveva definito l'Operazione C 3, per conquistare Malta; i tedeschi avevano battezzato quella impegnativa impresa «Herkules», un nome convenzionale quanto mai appropriato. La preparazione era stata curata a dovere e la Dìvisìone paracadutisti «Folgore» si sarebbe calata sull'isola insieme con 1a Settima Divisione paracadutisti tedesca, precedendo una forza anfibia da sbarco il cui nerbo era formato dal Reggimento «San Marco» e da un Raggruppamento scelto di Camicie Nere: anche cinque Divisioni di fanteria sarebbero state disponibili per ampliare la testa di ponte e procedere alla conquista dell'intero arcipelago maltese. Non meno di mille aerei avrebbero assicurato il controllo dal cielo.
Quanto alle operazioni in Libia, la conquista di Tobruk e il controllo di tutti gli aeroporti fino al confine con l'Egitto sarebbero stati ulteriori apporti per il felice esito della duplice operazione C 3 «Herkules». Pertanto, l'Armata corazzata doveva raggiungere la frontiera egiziana, consolidarsi e consentire il ritiro di aliquote dell'avìazìone, da concentrare in Sìcilia.
Già all'indomani del 21 giugno 1942 era ravvisabile qualche incrinatura nel piano complessivo, con Rommel che, chiaramente, stava prendendo la mano a tutti, avendo ordinato alle sue unità di radunarsi «per l'ulteriore avanzata».
«Aida», era l'accattivante nome dato alla offensiva in direzione dell'Egitto, subordinata tuttavia alla conquista di Malta.
Perfino coloro che si trovavano lontano dal campo di battaglia sognavano a occhi aperti. Giuseppe Bottai scrisse sul suo Diario: «La fulminea presa di Tobruk, l'avanzata in Egitto, par che stentino a trovare le vie dell'immaginazione. La gente non osa sperare, credere. Eppure le prospettive sono grandi: conquistato l'Egitto, si può dal Sudan riprendere la via dell'Etiopia, dove, a detta del ministro Piacentini, rimpatriato in questi giorni, i capi abissini ci attenderebbero, avendo essi potuto mettere a raffronto occupazione italiana e occupazione inglese. Perfino il Negus si volgerebbe verso di noi, e al Piacentini partente avrebbe detto, dopo un colloquio: "Siete l'unica faccia simpatica che ho visto dopo il mio ritorno", con chiara allusione ai suoi ospiti inglesi».
Così Rommel si oppose all’invasione di Malta
Erwin Rommel, 51 anni, comandante dell'Armata italo‑tedesca in Libia, quando voleva, sapeva essere estremamente maleducato e scostante. Albert Kesselring, comandante delle Forze Sud, di sei anni più anziano, pervenuto in età matura all'aviazione, rivelava per contro doti di diplomatico ed era di natura affabile, al punto da essere stato soprannominato «il sorridente Albert».
Tra i due non correva buon sangue e la cosa era nota: una «ruggine» destinata a protrarsi e ad influenzare, in seguito, la campagna d'Italia, dopo l'8 settembre 1943.
Sia il Capo di .Stato Maggiore Generale italiano, Ugo Cavallero, sia il generale Ettore Bastico ‑ dal quale Rommel dipendeva, almeno sulla carta ‑ avevano avuto prove ripetute della protervia di Rommel e dei suoi modi sgarbati. A Cavallero, almeno in una occasione, la «volpe del deserto» aveva inflitto una anticamera mortificante e un altro generale italiano, Gastone Gambara, sempre per contrasti con Rommel, era stato richiamato in patria.
Kesselring condivideva pienamente il parere di Cavallero, circa l'ineludibilità del problema di Malta (la «Delenda Chartago» del Capo di Stato Maggiore Generale italiano).
A detta di von Mellenthin, capo dei servizi informativi dell’Afrika Korps, il colloquio avvenuto il 22 giugno 1942 tra Kesselring e Rommel - con le rovine fumanti di Tobruk, appena conquistata ‑ assume presto toni di stridente contrasto. Kesselring intendeva riportare in Sicilia i reparti aerei che avevano appoggiato le operazioni nel deserto, Rommel sosteneva che erano indispensabili per appoggiare l'avanzata in Egitto.
La posta in gioco, chiaramente, era la realizzazione oppure la rinuncia all'operazione studiata contro Malta. Neppure la riacquistata funzione offensiva dell'isola, nel Canale di Sicilia, valse a schiodare Rommel dalla caparbia determinazione di spingersi in profondità nel territorio egiziano, con le forze disponibili. Di fronte alle meditate obiezioni di Kesselring, Rommel si rivolse direttamente a Hitler.
Nella successione cronologica degli avvenimenti, il passo compiuto da Rommel acquista una grande importanza, cadendo in un momento di particolare euforia, che si era propagata da Roma a Berlino.
Un osservatore svedese nella capitale tedesca riferì infatti: «La caduta di Tobruk fece una enorme impressione a Berlino e in tutta la Germania. Il morale si alzò immediatamente ad un livello mai più raggiunto dalla conclusione della battaglia di Francia nel 1940. Rommel era l'uomo del giorno, al quale nulla era impossibile. "Forse possiamo vincere la guerra, dopotutto”, dicevano tutti, e si abbandonavano alla gioia di una vittoria che sentivano essere veramente una vittoria».
Questo diffuso sentimento popolare non poteva non avere un’ eco nella Cancelleria e Hitler aveva già pronto il bastone di Maresciallo per il suo «soldato al sole» (la qual cosa costrinse Mussolini a fare altrettanto, promuovendo al grado di Maresciallo Cavallero e Bastico: il Duce, ironico, aggiunse: «E non escludo anche Navarra, il mio usciere»).
Un altro fattore ebbe la sua importanza: la sfiducia di Hitler nella Marina italiana e quindi il suo scetticismo sulla effettiva possibilità di conquistare Malta, tanto più che l'anno precedente l'aviolancio su Creta era stato pagato a caro prezzo dai paracadutisti tedeschi e si era sfiorata una bruciante sconfitta.
Al generale Student ‑ uno specialista nell'impiego degli aviotrasportati ‑ che perorava l'attuazione dell'operazione « Herkules» ‑ Hitler, niente affatto convinto, disse: «Sa che cosa accadrà? Gli inglesi usciranno con le loro navi da Gibilterra e da Alessandria, e allora gli italiani torneranno in porto e lei resterà piantato in asso sull'isola con i suoi paracadutisti! Le proibisco di tornare in Italia!».
In Africa, intanto, dopo Kesselring venne il turno di Bastico a subire la collera di Rommel.
Quando Bastico, Comandante Superiore in Libia, affermò che non avrebbe autorizzato l'avanzata in Egitto, Rommel « irritatissimo uscì villanamente dal locale della riunione» (questo si legge in una pubblicazione del nostro Ufficio Storico): un locale scelto ad hoc dal Comandante dell'Armata, del tutto spoglio, senza un tavolo e una sedia.
Rommel, quando si tentò di farlo ragionare, si alterò nuovamente. Quindi affermò con alterigia: « Sono libero ai fianchi e sulla fronte. Nessuno può fermarmi. So che a Roma insistono per realizzare l'attacco a Malta. Bisognava farlo prima. Malta, del resto, bombardata a dovere e sorvegliata dalla Marina italiana, non potrà darci fastidio. Io vado. Se gli italiani vogliono seguirci, vengano pure, altrimenti si fermino. Per me è indifferente!». Quindi, cambiò umore. Sorrise a Bastico e soggiunse: «Fin da adesso la invito a colazione al Cairo».
In seguito, consapevole di essere andato oltre il segno, Rommel disse che «non vi era differenza tra tedeschi e italiani» e che tutti erano anelanti di avanzare in Egitto, fino alla conclusione della campagna. In effetti, sulla via Balbia, intasatissima, colonne italiane e tedesche si rincorrevano e si superavano, dirette verso Oriente. Moltissimi automezzi erano di preda bellica, e questo fu causa di ulteriori dispiaceri per gli inglesi in fuga, che sovente si consegnarono ai vincitöri, a causa degli equivoci sulla nazionalità delle colonne avanzanti.
Di fatto, però, della forza iniziale degli italo‑tedeschi non era rimasto molto e le poche decine di carri armati efficienti arrancavano sferragliando su piste polverose, sotto un sole rovente. Si avanzava sulle ali dell'entusiasmo, perché consapevoli che gli inglesi erano alle corde. Ma i rischi erano innegabili, man mano che l'Armata si allontanava dalle sue fonti di rifornimento.
Kesselring, come si è visto, era contrario a giocare d'azzardo (disse, profeticamente: «Non credo che possa andare oltre El Alamein. Di questo giudizio mi sento responsabile davanti alla storia»). II comandante delle Forze Sud stava già facendo il conto degli aerei efficienti che, in quel momento, si riducevano a 50-60 caccia tedeschi e altrettanti italiani, mentre i servizi logistici stavano incontrando difficoltà a spostarsi in avanti.
Contrarissimo era Bastico, mentre Cavallero cominciava ad adeguarsi alle scelte «politiche» dei capi dell'Asse.
Quanto a Mussolini ‑ che aveva scritto a Hitler, sollecitando una consistente fornitura di nafta per la Marina e ricordando che al centro del quadro strategico mediterraneo rimaneva il problema di Malta ‑ la risposta del Führer valse a convincerlo per la prosecuzione dell'avanzata in Egitto.
Le espressioni usate da Hitler risultarono musica per le orecchie del Duce. «Il destino ‑ scriveva il Führer ‑ ci ha offerto una possibilità che in nessun caso si presenterà una seconda volta sullo stesso teatro di guerra. La dea della fortuna nelle battaglie passa accanto ai condottieri soltanto una volta. Chi non l'afferra in un momento simile, non potrà molto spesso raggiungerla mai più». Espressioni enfatiche a parte, la lettera di Hitler conteneva anche una precisazione di carattere operativo, perché Rommel poteva fare affidamento soltanto sulle forze sul posto.
La mente del Führer, nonostante tutto, era fissa alla nuova offensiva estiva in Russia, che sarebbe scattata il 28 giugno: non una sola delle preziose Divisioni corazzate poteva essere inviata in Libia, come Rommel sperava.
Un meditato giudizio sulla decisione presa di andare avanti, fu quello del generale Giuseppe Mancinelli, all'epoca ufficiale di collegamento col comando di Rommel. «Molto si è scritto, con maggiore o minore competenza su questa decisione e certamente riuscirebbe assai facile oggi, sulla scorta del risultato negativo dell'impresa, sostenere che fu un grave errore. Lo sfruttamento a fondo di un successo tanto rilevante si presentava per Rommel come la naturale, necessaria conseguenza della vittoria: il comandante che non avesse ascoltato questo imperativo, arrestandosi titubante sulla soglia del deserto occidentale egiziano, sarebbe stato certamente bollato di incapacità e peggio, nonostante ogni precedente prova in contrario».
Quanto all'impresa di Malta, da anteporre a quella in Egitto, a parte i rischi dell'attacco, lo scetticismo, a Roma, era piuttosto diffuso. Orio Vergani racconta che Mario Bacchelli, fratello del romanziere Riccardo, destinato come ufficiale a prendere parte alla famosa operazione C 3«Herkules», si dilettava intanto a dipingere la Scalinata di Trinità dei Monti. Avendo Vergani chiesto lumi a Ciano sull'epoca dell'attacco, si sentì rispondere dal ministro degli Esteri: «Se Mario Bacchelli aspetta di imbarcarsi per Malta, può continuare a dipingere per tutta la vita i paesaggi romani».
Quei carri troppo leggeri
Un anno dopo la comparsa della «volpe del deserto», i vulnerabili e scadenti carri armati medi italiani erano all'incirca gli stessi, con una tonnellata di peso in più e il solito cannone da 47 millimetri in torretta. L’industria nazionale non aveva saputo (o voluto) fare di più, nonostante l'esistenza di grandi complessi come l'Ansaldo, la Fiat e le acciaierie di Terni.
Ai veterani della Divisione corazzata «Ariete» si erano aggiunti i nuovi arrivati della Divisione «Littorio», inserita nello schieramento proprio all'indomani della conquista di Tobruk e della decisione di avanzare in territorio egiziano. Le due Divisioni, più la motorizzata «Trieste», costituivano il nucleo del Ventesimo Corpo d'Armata, già Corpo di Manovra. Si muovevano (prevalentemente a piedi) anche le Divisioni di fanteria «Trento», «Pavia», «Bologna» e «Brescia», su due soli reggimenti e con poca artiglieria. Rifatti i conti, era tutto quello che il Regio Esercito poteva mettere in campo per una partita impegnativa, come la conquista di Alessandria, del Cairo e del Canale di Suez.
In Libia, nel ventennio tra le due guerre mondiali, si erano avvicendati i personaggi di spicco del firmamento militare: da Badoglio a De Bono, da Graziani a Balbo. Ma nessuno di loro aveva convenientemente meditato sulla particolarità di quel possibile teatro di operazioni, soprattutto dopo la «crescita» dell'Italia nell'area mediterranea e la spinta espansionistica del regime. Per contro, fin dal 1938, gli inglesi, grazie a un loro eclettico generale divisionario, avevano dato vita a una unità mobile, destinata a diventare la Settima Divisione corazzata, i «Topi del deserto». Sempre gli inglesi, pensavano già a reparti 'motorizzati destinati a operare a largo raggio, come il «Long Range Desert Group», affidato ai fratelli Sterling, due baronetti scozzesi convinti, al pari di Lawrence d'Arabia, che il deserto andasse «navigato».
Nulla di tutto questo accadde in campo italiano e la verifica sulla povertà del pensiero militare fu dimostrata dalla prima campagna del 1940‑41, quando due sole Divisioni anglo‑indiane, per di più incomplete, ebbero ragione sulla Decima Armata, imbottita di uomini, ma priva di reparti motoblindati.
Gli industriali italiani continuarono a opporre difficoltà di ogni genere per una produzione di mezzi corazzati adeguata alle necessità, difendendo strenuamente il «mercato», il loro «mercato», basato su una redditizia dimensione «autarchica». Rifiutarono perfino ‑ con l'appoggio dello Stato Maggiore ‑di riprodurre su licenza i temibili Panzer tedeschi. Il Capo di Stato Maggiore Generale, Ugo Cavallero, succeduto a Badoglio e con una precedente (quanto discussa) esperienza nell’Ansaldo, condivise questa politica. Ad esempio, si preferì insistere sul collaudo di un carro «pesante» nazionale, che non entrò mai in linea, se non dopo l'8 settembre, con i colori tedeschi!
Quanto alle materie prime, quando, dopo l'armistizio, si aprirono i depositi, agli occhi stupefatti dei tedeschi si presentò un quantitativo di molibdeno ‑ essenziale come correttivo dell'acciaio ‑ che era superiore a quello esistente in tutta l'Europa occupata: e dire che si erano pervicacemente prolungati gli esperimenti per la produzione di acciai «autarchici», senza che nessuno avesse mosso obiezioni di sorta.
I tedeschi, lo stesso Rommel, chiamavano «casse da morto rotolanti» gli M 13 e M 14 italiani; ma in cuor loro ammiravano gli equipaggi che affrontavano il combattimento con quei mezzi. Il dottor Monzel, capo degli interpreti tedeschi presso il Ventesimo Corpo d'Armata, affermò con commossa consapevolezza: « La probabilità di sopravvivere, durante un attacco, in uno di tali carri ‑ dal momento che con questi mezzi non si poteva minimamente parlare di successi militari ‑ stava al di là della sfera cui appartiene il valore come fatto morale».
Un autore inglese, Michael Carver, è andato anche oltre, riconoscendo il valore dei reparti corazzati italiani: «Che fossero avversari che era pericoloso sottovalutare è chiaramente dimostrato nel corso delle predette battaglie dal comportamento della Divisione corazzata «Ariete» nonché da un notevole numero di eroiche azioni individuali, compiute specialmente dai bersaglieri».
Per sostenere i carri, il Libia furono inviati pochi gruppi di semoventi da 75 millimetri. Perché pochi? Dino Campini, un combattente d'Africa, scrive: Chissà? Forse i semoventi costavano meno dei carri, forse rendevano meno all'industria. I semoventi da 75 erano in grado di battere gli Sherman americani ma come bersaglio, nei confronti dei carri americani, erano pulci, delle terribili pulci che non perdonavano».
Quanto ai rifornimenti ‑ sempre problematici, con gli inglesi che falcidiavano i nostri convogli ‑ nel giugno 1942, proprio quando si decideva di avanzare in Egitto, risultarono i più bassi dall'inizio della guerra, con 32.327 tonnellate sbarcate in Libia, contro un fabbisogno che era più del doppio. I convogli, per muoversi, attingevano nafta alle corazzate e agli incrociatori della Squadra, questa la realtà consacrata dalla storiografia. Ma all'8 settembre si scoprì che esisteva una riserva «intangibile» di oltre 58.000 tonnellate di nafta e la Flotta italiana si consegnò a Malta senza problemi di carburante per muoversi da La Spezia, Genova, Pola, Taranto.
Ancora: poco arrivava in Libia, perché poco c'era da imbarcare.
Eppure, nelle «carte di Rommel» si legge: «In Italia si trovavano, in parte da un anno, circa 2.000 automezzi e quasi 100 cannoni di ogni tipo destinati alle unità tedesche e pronti per il trasporto. Ma questo materiale veniva mandato in Africa con straordinaria lentezza. Altri 1.000 automezzi e 120 carri armati, con la medesima destinazione, erano in Germania, pronti a essere spediti dietro richiesta». Forse, a Roma, c'era chi voleva che i tedeschi contassero un po' meno di quanto già contavano, perché l’Afrika Korps era il nerbo dell'intera Armata d'Africa.
Sempre nel giugno del 1942 ‑incredibile ma vero ‑ cominciavano a partire, dirette sul fronte russo, le Divisioni dell'Armir. Il che sposta il discorso sulla dispersione delle forze, un altro capitolo poco conosciuto e poco indagato.
Non era bastata l'infelice campagna di Grecia a privare la Libia di mezzi, artiglierie, rifornimenti di ogni genere. Quando si aprì il fronte orientale, venne inviato in Russia il Csir, che da solo assorbì 5.500 automezzi e vari gruppi di artiglieria. Hitler scrisse a Mussolini una lettera, ispirata a buonsenso, nella quale chiedeva un maggiore impegno italiano in Africa Settentrionale: così facendo, l'«alleato» contribuiva alla causa comune, peraltro sul fronte di sua competenza. Ma il Csir partì ugualmente, insieme con interi autoreparti, mentre le Divisioni in Libia si muovevano sempre a piedi, soprattutto quelle di fanteria.
Nel giugno 1942 accadde di peggio. Partirono verso la Russia non soltanto le Divisioni dell’Armir, e l'intero Corpo d'Armata alpino, ma ben 16.700 automezzi, 4.470 motomezzi, 1.130 trattori di artiglieria e tutti gruppi diartiglieria moderni.
Lucio Ceva, certo non tenero col regime fascista e storico della Resistenza, scrive: «I combattenti d'Africa non videro mai un 75/32 e non conobbero il 75/18 nella sua normale versione autotrainata mentre ne ebbero pochissimi nella versione corazzata, cioè il «semovente». Trentasei moderni anticarro italiani (quelli del 201° reggimento) avrebbero rappresentato un grosso apporto se si pensa che lo schieramento anticarro pesante dell'Asse, rappresentato essenzialmente dall'88 tedesco, consistette sempre di poche dozzine di cannoni (...). Nella battaglia del maggio‑giugno 1942 che condusse a El Alamein, gli 88 tedeschi erano 48. Essi salirono a 86 solo alla vigilia dell'ultima battaglia di El Alamein nell'ottobre 1942. Ne il 75/32 italiano, munito di proiettile perforante, era molto inferiore all'88 tedesco in quanto la differenza di calibro era compensata dal minore volume e quindi dalla minore vulnerabilità».
Insomma, alla decisione di avanzare in Egitto, nel giugno 1942, non corrispose un adeguato impegno volto a sostenere, a tutti i costi, l'Armata d’Africa, dopo cinque settimane di logoranti combattimenti, in conseguenza dei quali le divisioni non avevano più lineamenti organici e gli uomini erano allo stremo delle forze. Un calcolo miope, pagato poi dall'Asse a carissimo prezzo e con la perdita dell'intero Nord Africa.
«Origliando» alla porta degli inglesi
ALLA vigilia della seconda offensiva estiva tedesca in Russia, il 19 giugno 1942, i piani della Wehrmacht finirono fortunosamente nelle mani dell'Armata Rossa (un corriere tedesco fu costretto a un atterraggio forzato e non fece in tempo a distruggere le preziose carte). Il Maresciallo Timoscenko ritenne di dover informare Stalin. Chiamato al telefono, il Signore del Cremlino rispose bruscamente: «Dite a Timoscenko che i documenti non vincono le guerre». E riappese il ricevitore.
Stalin esagerava, con la sua riduttiva valutazione dei «documenti», perché nel teatro nordafricano, per mesi, proprio un «documento», o meglio un codice, influenzò grandemente le operazioni e decise la prosecuzione dell'offensiva italo‑tedesca in Egitto.
La sottrazione del «Black Code», in dotazione agli addetti militari americani, da parte del Sim, a Roma, nell'ambasciata di Palazzo Margherita, costò agli inglesi molto di più di una battaglia perduta. Alla poca, cura dell'addetto aeronautico americano, e capo‑missione, colonnello Norman Fiske, si dovette se due uscieri, infiltrati dal Sim, poterono prendere il calco delle chiavi della cassaforte. Queste chiavi furono riprodotte e provate; nottetempo, la Sezione «P» (Prelevamento) del Sim, entrò negli uffici degli attaché, apri la cassaforte, prelevò il «Black Code», lo fotografò e lo rimise a posto, senza destare alcun sospetto.
Quando gli Stati Uniti entrarono in guerra, il «Black Code» non fu cambiato, per cui con le stesse tabelle cifranti e decifranti prelevate dal Sim, cominciò a trasmettere dal Cairo il colonnello Frank Bonner Fellers, ufficiale di collegamento americano col Comando inglese del Medio Oriente, che aveva facile accesso anche nei comandi operativi dell'Ottava Armata.
Fellers trasmetteva, le antenne del Sim intercettavano e la Sezione crittografica metteva in chiaro. Rommel, cominciò a chiamare «piccoli Fellers» quei preziosi dispacci, che gli fornivano un quadro dettagliato e aggiornato delle operazioni e perfino delle intenzioni dei comandi inglesi (la qual cosa ridimensiona il leggendario fiuto della «volpe del deserto»).
Un riferimento preciso a questa vicenda di codici e di spie si trova nel Diario di Ciano: « 2 febbraio 1942 ‑ Mussolini è molto felice per l'andamento delle operazioni in Libia: vuole che vengano spinte a fondo tanto più che da alcune intercettazioni americane risulta che le forze inglesi sono piuttosto squinternate». Fellers aveva inoltre informato il Dipartimento della Guerra, a Washington, che unità terrestri e aeree britanniche erano state trasferite in Estremo Oriente, per fare fronte contro i giapponesi, per cui le forze inglesi, oltre che essere «squinternate», erano nel particolare momento anche indebolite.
Dal Diario di Ciano
Ancora più circostanziata una annotazione di Ciano all'indomani della capitolazione di Tobruk: « 23 gennaio 1942 ‑ Da alcuni telegrammi intercettati dall'osservatore americano al Cairo, Fellers, risulta che gli inglesi sono a terra e che se Rommel vuole continuare l'azione ha molte possibilità di arrivare alla zona del Canale».
Che cosa aveva comunicato Fellers a Washington?
Dei 1.564 carri armati che l'Ottava Armata britannica aveva il 27 maggio, all'inizio delle operazioni, ne erano rimasti 100 al fronte e appena 27 nella zona del Delta: le artiglierie perdute si aggiravano sul 50 per cento; le truppe avevano perduto la fiducia nei loro comandanti; il morale della Raf era bassissimo e la «Mediterranean Fleet» era impotente.
La valutazione dell'osservatore americano al Cairo così continuava: « Rommel potrebbe tentare l'invasione dell'Egitto dopo un breve periodo di riordinamento delle proprie unità, durante il quale l'Asse potrebbe peraltro attaccare Malta, in modo da assicurare un'ininterrotta linea di rifornimenti dall'Italia e dalla Grecia».
Gli inglesi, inoltre, attribuivano all'Armata italo‑tedesca una forza corazzata ancora temibile: 115 carri, aumentabili a 180 al 25 giugno ed a 200 a fine mese. Il colonnello Fellers concludeva: « Se Rommel ha intenzione di prendere il Delta, ora è il momento opportuno».
Quando questa valutazione dell'osservatore americano giunse nelle mani di Rommel, questi ebbe un argomento in più per sostenere che le operazioni dovessero essere spinte a fondo, sia pure con la tensione delle ultime energie e affrontando oltre cinquecento chilometri «allo scoperto», sotto la minaccia dei bombardieri inglesi.
Prima di riprendere il filo del discorso, è il caso di accennare a quanto scrive il generale Fardella, in quanto proprio la decrittazione dei telegrammi di Fellers contribuì alla «galoppata» in direzione di Alessandria: «Si dovrebbe concludere che la sagace opera del Servizio Informazioni in tale momento sia stata controproducente?». Ma si tratterebbe di una forzatura bella e buona, perché le antenne del Sim avevano svolto un lavoro eccellente «origliando» alle pareti dei comandi inglesi, grazie ai dispacci di Fellers. La crisi dell'Ottava Armata era innegabile, al punto che il comandante del Medio Oriente, generale Claude Auchinleck, si era portato in prima linea, dopo aver rimosso il comandante dell'Ottava Armata, generale Ritchie.
Altri interrogativi
Piuttosto, l'intera vicenda cela tra le sue pieghe altri interrogativi, rimasti senza risposta.
E acquisito dalla storiografia sul secondo conflitto mondiale che il sistema elettromeccanico inglese «Ultra Secret» leggeva le comunicazioni tedesche, cifrate con la macchina «Enigma». Ora, i dispacci di Fellers ‑ messi in chiaro ‑ venivano passati dal Sim al Comando Forze Sud di Kesselring, che li ritrasmetteva a Rommel, con la macchina «Enigma», attraverso le antenne di Monte Cavo, sopra Frascati, dove aveva sede il Funkabwehr. Come mai, se «Ultra Secret» aveva sfondato le comunicazioni tedesche, non diede l'allarme, in quanto un flusso ininterrotto di informazioni di prima mano perveniva dal comando di Kesselring a quello di Rommel? I’ascolto di «Ultra Secret» era discontinuo, come discontinuo era il suo rendimento? Non meno di 80mila soldati inglesi e più di 2.000 mezzi corazzati furono eliminati anche grazie alla «falla» che si era prodotta al Cairo, sia pure all'insaputa del colonnello Fellers (la colpa di tutto era del suo collega di Roma, che si era fatto « soffiare» il «Black Code», mentre beveva tranquillamente la sua birra nel bar dell'hotel Ambasciatori, in via Veneto).
Non mancarono episodi paradossali, perfino grotteschi, a margine di questa vicenda. Il Capo di Stato Maggiore Generale, Cavallero, dopo una visita al comando di Kesselring, convocò d'urgenza a Palazzo Vidoni il capo del Sim, generale Cesare Amé e lo investi in malo modo: «Ho appena avuto un lungo colloquio con Kesselring: come mai i tedeschi sanno tutto delle operazioni in Africa e noi non sappiamo niente?».
Amé dovette spiegare che ogni mattina, con precedenza assoluta, i dispacci di Fellers, messi in chiaro, venivano comunicati al Comando Supremo e che soltanto dopo venivano passati al Comando Forze Sud di Kesselring. La verità era che Cavallero non degnava di uno sguardo il «mattinale» del Sim, contenente le preziose intercettazioni ricavate dai dispacci di Fellers al Dipartimento della Guerra, a Washington.
Un'altra conseguenza delle concitate giornate di fine giugno 1942, fu la decisione di Mussolini di recarsi in Libia, per essere presente all'entrata delle truppe vittoriose ad Alessandria (in piena notte, fu svegliato il maestro Ruccione, perché componesse una canzone sulla presa di Alessandria).
Lotta sotterranea
Nel deserto, molto sangue italiano era stato versato e anche i nostri generali stavano rimanendo sul terreno, come i generali Baldassarre e Piacenza.
Sta di fatto che Rommel non gradì affatto la presenza di Mussolini, che gli «rubava la scena», al punto che per venti giorni non trovò tempo e modo di incontrarlo, a riprova del carattere difficile del Maresciallo e della sua estrema suscettibilità. In parole povere, quella era una «sua» vittoria, che non intendeva dividere con nessuno, nemmeno con il Capo del governo italiano e comandante della nazione in guerra. Mussolini rimase in Libia fino al 20 luglio, poi fece ritorno a Roma, irritato e deluso.
Mediterraneo, la battaglia parallela
CHE cosa accadeva sul mare e nel cielo, mentre la battaglia infuriava nel deserto?
A riprova dell'importanza di Malta, per insidiare le linee marittime di rifornimento degli italo‑tedeschi, l'Ammiraglio inglese organizzò due convogli, da Oriente (operazione « Vigorous») e da Occidente (operazione «Harpoon») per far pervenire rifornimenti e materiali all'isola assediata.
Poiché, a metà giugno 1942, dopo aver assunto l'iniziativa, Rommel controllava l'intera Cirenaica e i relativi aeroporti, il Comando del Medio Oriente decise di attaccare le basi aeree dell'Asse con «commandos» del «Long Range Desert Group» e sabotatori sbarcati da sommergibili. Il tratto di mare compreso tra la Cirenaica e Creta era stato ribattezzato «viale delle bombe» e appunto contro i due obiettivi venne concentrata l'élite degli assaltatori.
I’ennesimo dispaccio del colonnello Frank Bonner Fellers, intercettato e messo in chiaro dal Sim, valse a dare l'allarme. Sempre convinto che il «Black Code» fosse a prova di sfondamento, Fellers aveva candidamente comunicato al Dipartimento della Guerra a Washington: «La notte tra il 12 e il 13 giugno, unità di sabotatori britannici effettueranno un attacco simultaneo contro gli aerei di nove aeroporti dell'Asse».
Nelle basi di Martuba ed El Fteiah, gli incursori inglesi furono in gran parte catturati o uccisi; limitati i danni in altri due aeroporti. A Creta, invece, i tedeschi si fecero sorprendere perdendo 28 aerei, 100mila litri di benzina e 400 bombe. Ma, grazie alla loro organizzazione, i comandi della Luftwaffe fecero affluire altri aerei dalla Grecia e ristabilirono la situazione.
L’azione simultanea dei «commandos» era dunque fallita e il convoglio inglese proveniente da Oriente era esposto, come in precedenti casi, all'offesa aerea. Da Taranto, era uscito il nerbo della Squadra Navale italiana e, prima del contatto, si assistette a una serie di inversioni di rotta degli inglesi, i quali, alla fine, rinunciarono a proseguire, non senza aver perduto navi da guerra e mercantili, ad opera di aerei, sommergibili e motosiluranti. Un pessimo esordio delle due operazioni combinate da Gibilterra e da Alessandria.
Quanto all'altro convoglio, quello proveniente da Occidente, prima fu attaccato dall'aria, poi dalla Settima Divisione Navale, nelle acque di Pantelleria.
Gli incrociatori «Eugenio di Savoia» e «Montecuccoli», rientrarono nel porto di Napoli con i cannoni alla massima elevazione, in segno di vittoria. Mussolini decorò tutti, per quello che sembrava un indiscutibile successo (il Duce affermò, con enfasi, che «per la prima volta il leone inglese aveva avvertito nelle sue carni il morso della lupa di Roma»).
Purtroppo, c'era molta esagerazione e la verità venne subito a galla. La registrò, al solito, Ciano nel suo Diario: «Da un colloquio con Bigliardi (Candido Bigliardi, comandante di Marina) ho appreso che i risultati della battaglia aeronavale sono stati ben più modesti di quanto non si sia annunciato. Le navi mercantili sono state in realtà colpite e molte affondate, ma le perdite del naviglio militare britannico si riducono a un incrociatore ‑ non certo ‑ e ad un cacciatorpediniere certo. Infatti, l'incrociatore «Cairo» era stato leggermente danneggiato, mentre il cacciatorpediniere di squadra «Bedouin» era andato a fondo.
L'«Operazione Mezzo Giugno» ‑ tale la denominazione data dagli Stati Maggiori italiani ‑ fece comunque registrare un «fiasco» degli inglesi: su diciassette mercantili diretti a Malta ne giunsero a destinazione appena due, troppo poco per risollevare le sorti dell'isola.
La guerra sul mare rincrudiva anche per noi: siluramento della nave da battaglia «Littorio», perdita dell'incrociatore pesante «Trento», danneggiamento grave del cacciatorpediniere «Vivaldi». Soprattutto, era ricominciato lo stillicidio dei mercantili affondati, proprio quando la battaglia in corso nel deserto divorava uomini, carri armati, automezzi, artiglierie e imponeva un consumo crescente di carburanti. Perdita del «Giuliani», del «Reichenfels», del «Santantonio», del «Regulus». Tutti affondamenti da attribuire all'intercettazione delle comunicazioni tedesche da parte degli inglesi? Non sempre. Il sospetto che ci fosse qualcosa di torbido, di oscuro si era insinuato da tempo anche a Palazzo Vidoni, sede dello Stato Maggiore Generale, ed era la dannazione dei servizi di sicurezza. Il dubbio era se lo spionaggio avveniva nei porti, oppure a Roma e, fatte le dovute verifiche, si propendeva per questa seconda ipotesi.
Categorico il parere di Rommel, forse non dovuto soltanto a malanimo nei confronti degli italiani: «La sicurezza dei convogli marittimi era affidata alla Marina italiana. Gran parte degli ufficiali di Marina italiani non erano per Mussolini e avrebbero volentieri visto la nostra disfatta, anziché la nostra vittoria. Perciò facevano opera di sabotaggio dovunque potessero. Non se ne traevano però le conseguenze politiche».
Rincrudiva anche la guerra aerea. Perfino i tedeschi soffrivano del «mal di Malta», perché nel cielo dell'isola il tasso delle perdite continuava a salire. Non per niente, nei primi due anni di guerra, la Luftwaffe ci rimise 897 aerei di tutti i tipi, 570 bombardieri e caccia l'Aeronautica italiana, mentre la Raf cancellava dai propri registri 844 tra «Spitfire» e «Hurricane».
Con caparbietà, la Marina inglese continuava i lanci a distanza degli aerei diretti a Malta, facendo uscire le portaerei che si portavano all'altezza del meridiano di Algeri, per le operazioni di involo, sempre a rischio; perché le grandi navi con ponte di volo potevano finire a fondo, al pari dell'«Ark Royal» e della «Eagle», colate a picco dai sommergibili tedeschi in due fortunate ma ardimentose azioni.
Era nel deserto, tuttavia, che il confronto tra le opposte aviazioni era diventato terribilmente impegnativo per uomini e macchine.
Gli Alleati avevano inaugurato un ponte aereo tra Takoradi (Costa d'Oro, nell'Africa Occidentale) e Khartum, nel Sudan, per poi raggiungere i campi egiziani. Gli aerei arrivavano nel porto africano smontati in casse e una grande organizzazione logistica era stata impiantata per il montaggio, il concentramento degli specialisti e del personale di volo. Beneficiaria di questo impegno gravoso, la «Western Desert Air Force», destinata ad appoggiare l'Ottava Armata e a bombardare i lontani centri di rifornimento dell'Asse. Con l'intervento degli Stati Uniti, il «ponte aereo» di Takoradi era stato ulteriormente potenziato.
Quanto alla qualità degli aerei, la Regia Aeronautica, mettendo in linea i Macchi MC 202, aveva, in parte, ridotto il divario tecnico con i caccia inglesi, sempre numericamente superiori.
Nonostante gli appelli, le intimazioni, gli anatemi, l'industria aeronautica italiana non era riuscita a standardizzare la produzione ed a disporre, ad esempio, di un bombardiere a tuffo (l'aviazione tedesca aveva ceduto un centinaio di «Stuka», da noi ribattezzati «picchiatelli»). Per la specialità dell'assalto, in Africa Settentrionale si continuò ad andare avanti con i biplani! Scrisse un comandante inglese: «Vedo passare, alti nel cielo, i biplani italiani Fiat CR 42: non so se ridere di scherno o piangere di commozione».
I biplani, arcaici, superatissimi, continuarono a uscire dalle catene di montaggio fino al 1943! Questo accadeva in Italia, dove era semplicemente improponibile il raffronto con Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania e Giappone. Si pensi che gli aerei bellici entrati in linea tra il 10 giugno 1940 e l'8 settembre 1943 furono 7.844, che rappresentavano, in cifra tonda, gli 8/9 della massima produzione americana di un mese.
Dopo il sacrificio della Quinta Squadra Aerea nella prima campagna del 1940‑41, gli stormi e i gruppi della Regia Aeronautica continuarono ad affluire in Libia; ma quasi mai, nemmeno con l'appoggio tedesco, fu possibile pareggiare il numero degli apparecchi a disposizione della «Western Desert Air Force». E un esercito privo di adeguato «ombrello aereo» era condannato alla distruzione.
Quando Rommel, sordo a ogni invito alla prudenza, superò la frontiera libico‑egiziana, tornò a udire il rombo degli aerei della Raf e il crepitio i delle armi di bordo. Una squadriglia dopo l'altra, gli si avventarono contro i 200 bombardieri e i 160 caccia con le coccarde inglesi, ancora disponibili nel deserto occidentale.
Una ennesima baruffa si verificò tra Rommel e Kesselring, perché questi chiedeva un adeguato numero di automezzi, per portare avanti il dispositivo logistico della Luftwaffe. Nonostante il grande bottino fatto a Tobruk, i vari comandi erano sempre alle prese con la motorizzazione dei reparti e ognuno di essi difendeva il possesso anche de gli automezzi di preda bellica.
Né era sperabile un sostanzioso rinforzo. Hitler aveva messo le mani avanti, nella lettera indirizzata a Mussolini, dopo la resa di Tobruk: «Ordinate il proseguimento delle operazioni fino al completo annientamento delle truppe britanniche, fino a che il Vostro Comando ed il Maresciallo Rommel crederanno di poterlo fare militarmente con le loro forze
Luglio ’42, l’iniziativa passa agli inglesi
Le Divisioni dell'Asse erano tali soltanto di nome, coi battaglioni ridotti a duecento uomini e con poche decine di carri armati. Pure, l'azzardata manovra di Rommel riuscì. Quasi ipnotizzati, gli inglesi non furono capaci di impiegare al meglio i loro 150 carri e la Seconda Divisione Neozelandese, agguerrita e appena giunta dalla Siria.
Quando gli ultimi spari si spensero nel perimetro del campo trincerato di Marsa Matruh, altri seimila soldati inglesi e indiani furono presi prigionieri, 40 i carri armati distrutti. Ma il grosso delle fanterie poté essere schierato più indietro, a El Alamein (in arabo, «due bandiere»), che cominciò a figurare nei bollettini di guerra.
Nel 1940, il prestigioso generale francese Maxime Weygand, comandante dell'«Armée d'Orient», era stato prodigo di consigli su come sfruttare la «strozzatura» del deserto occidentale egiziano, tra El Alamein e la Depressione di Qattara, una sessantina di chilometri più a sud, una orrida zona 134 metri sotto il livello del mare, costellata di sabbie mobili.
Arrivo a El Alamein
Schierato l'esercito, trincerato in una serie di «box», Auchinleck attese l'attacco di Rommel. Molti ufficiali inglesi scoprivano che a El Alamein non c'era alcuna «linea», ma il solito deserto, dove rilievi appena percettibili del terreno diventavano di grande importanza tattica.
Superate le località costiere di Fuka, el Dabà, Sidi Rahman, gli italiani giunsero davanti alla stazioncina di El Alamein per saggiare la consistenza di quell'ultima posizione, un centinaio di chilometri da Alessandria.
Gli uomini erano però esausti e si addormentavano alla guida degli automezzi, sognando una nuotata nel mare azzurro, che si estendeva oltre una spiaggia dalla sabbia bianchissima. L’Afrika Korps era rimasto con 55 carri armati efficienti, e con 14 carri il Ventesimo Corpo d'Armata italiano.
Il resto arrancava più indietro, sgranato lungo i cinquecento chilometri che correvano dalla frontiera libica a quella fluttuante prima linea.
Il generale Auchinleck, vero protagonista di quelle ore così cariche di destino, era consapevole che Rommel si era spinto troppo in avanti, con la tensione delle ultime forze. Pertanto, indirizzò alle truppe un non rassegnato messaggio, facendo appello alla tradizionale tenacia britannica, specialmente nei momenti di crisi: «Il nemico si è esteso sino all'estremo limite, e crede che noi siamo un'armata battuta. La sua tattica contro i neozelandesi è stata assolutamente inefficace. Egli spera di prendere l'Egitto con un bluff. Mostriamogli che si sbaglia».
Il comandante in capo non poteva che esprimersi in questi termini. Ma al Cairo ci si preparava al peggio: nell'ambasciata inglese si bruciavano gli archivi, ed era stato proclamato lo stato d'assedio. Molti comandi stavano sfollando in Palestina e nell'Alto Nilo. Anche il re, Faruk, aveva pronte le valigie; ma molti suoi giovani ufficiali, come Anwar el Sadat ‑ futuro Presidente egiziano ‑ si preparavano ad accogliere gli italiani e i tedeschi come liberatori.
La bella danzatrice del ventre, Mehkmet Fahmy, aveva provocatoriamente ballato il «valzer di Tobruk» (dopo la resa della piazzaforte) scatenando una rissa nel «Kit Kat», un locale notturno, tra gli egiziani e i militari inglesi. Mehkmet Fahmy era una spia dell'Abwehr (il servizio informazioni militare tedesco) e l'ammiraglio Canaris disponeva di altri elementi per tenere d'occhio il fronte interno egiziano e sorvegliare gli inglesi al Cairo.
Dal 1° al 3 luglio Rommel tentò di sfondare, ma fu respinto. Per avere ragione di una Brigata indiana, appena giunta dall'Iraq, 18 dei 55 carri de11Áfrika Korp rimasero immobili sul terreno.Cede l'«Ariete»
Quando il comandante dell'aviazione lo informò che la flotta inglese aveva sgombrato il porto di Alessandria, Rommel ordinò perentoriamente: «Esigo un energico attacco da tutto l Alfrika Korps». Ma Auchinleck tenne duro e un micidiale tiro di artiglieria, da nord, da est, da sud, investì le colonne italiane e tedesche.
In modo del tutto inatteso, cedette l'«Ariete», con i suoi pochi carri e le artiglierie: lentamente, l'iniziativa tattica passava agli inglesi. Dopo tre giorni di tentativi, l'Armata‑fantasma di Rommel fu costretta ad assumere uno schieramento difensivo.
« La nostra forza è svanita», fu costretto ad ammettere il Maresciallo. I fatti davano ragione a Kesselring, il quale aveva lucidamente predetto: « Non credo che possa andare oltre El Alamein».
Una dopo l'altra, cedevano anche le Divisioni italiane di fanteria del Decimo e Ventunesimo Corpo d'Armata. La «défaillance» della «Sabratha», appena inserita in linea e non ancora bene orientata, ebbe conseguenze gravi per tutta l'Armata.
Per tamponare là falla, anche la Compagnia Intercettazioni di Rommel venne improvvidamente portata avanti, insieme con i fanti della 164 Divisione tedesca, appena giunti da Creta. Reparti della Nona Divisione australiana piombarono sulla «Horck Kompanie» comandata dall'abile capitano Alfred Seebhom, che nello scontro rimase mortalmente ferito.
Tutti i documenti rinvenuti negli automezzi, irti di antenne, furono passati al vaglio, comprese molte tracce delle intercettazioni dei dispacci di Fellers, il colonnello americano distaccato presso il comando del Medio Oriente al Cairo.
David Khan, storico della crittografia americana, ha scritto: « E che razza di dispacci erano! Fornivano a Rommel, fuori di ogni dubbio, il più ampio e il più chiaro quadro delle forze e delle intenzioni avversarie che un comandante dell'Asse abbia mai avuto durante tutta la guerra».
La «buona fonte», che aveva consentito a Rommel di origliare alle pareti del comando Medio Oriente e dell'Ottava Armata, si inaridì di colpo. Gli inglesi, con garbo, informarono il colonnello Frank Bonner Fellers dell'«infortunio» nel quale era incappato (ma la colpa di quell'incredibile vicenda era del colonnello Norman Fiske, il quale, a Roma, si era fatto «soffiare» il « Black Code» degli addetti militari statunitensi dagli «uomini ombra» del Sim).
Roosevelt richiamò in patria Fellers e ordinò un'inchiesta, sul cui esito gli americani non hanno mai detto una parola. Ancora oggi non se ne sa niente.
Il capo del Sim, generale Cesare Amé, aggiunse dell'altro, scrivendo: «Dopo il 1945 fu palese e insistente il proposito americano di soffocare l'episodio nell'oblio, ed a tale intento furono rivolte sollecitazioni e cauti inviti anche all'ex capo del Sim, da parte del Servizio Informazioni americano. Ma senza esito. Era del resto chiara e fondamentale l'importanza del caso, che coi suoi riflessi e sviluppi aveva improntato l'intera vicenda bellica in Nord Africa in momenti e condizioni tali da non poter essere trascurato senza spezzare la correlazione degli avvenimenti. Da parte inglese l'episodio non creò né alimentò suscettibilità, per quanto fossero stati proprio gli inglesi a sopportarne le conseguenze».
Infatti, i «piccoli Fellers» ‑ come Rommel chiamava i preziosi dispacci ‑ avevano, contribuito a una serie di rovesci inglesi, da gennaio a giugno, con la perdita di 80 mila uomini e più di 2.000 mezzi corazzati.
In luglio, Rommel fu costretto a un continuo lavoro di «rammendo» della linea, perché gli inglesi continuavano ad attaccare. A un certo punto, il comandante dell'Armata prese anche in considerazione un arretramento alla frontiera libica; ma i fattori «politici» erano ormai predominanti, e gli fu ordinato di tenere a tutti i costi il fronte.
Elogio agli italiani
Circa il cedimento degli italiani, Rommel, nel libro «Guerra senza odio», riconobbe che con il loro cattivo armamento, non si poteva chiedere di più agli alleati. Scrisse anche: «Bisogna dire che le prestazioni di tutte le unità italiane, ma specialmente delle unità motorizzate, superarono di molto ciò che l'esercito italiano ha fatto negli ultimi. decenni. Molti generali e ufficiali suscitarono la nostra ammirazione dal punto di vista umano come da quello militare».
«La sconfitta degli italiani ‑scrisse anche Rommel ‑ fu una conseguenza dell'intero sistema militare e statale italiano, del cattivo armamento e del poco interesse che molte alte personalità, capi militari e uomini di Stato, avevano per questa guerra».
Non fu tutta colpa «di Enigma»
LEGGERE attentamente il Diario del Capo di Stato Maggiore Generale, Ugo Cavallero, significa comprendere quali (inutili) sforzi egli compì per coordinare l'azione delle tre forze armate. Perché mai fu uguagliata, da parte italiana, la stretta unità d'azione tra Ottava Armata inglese, Royal Navy e Raf. Per Cavallero era difficile anche farsi obbedire:
«Perdita del "Carbonia" (un mercantile). Informo l'ammiraglio Riccardi (Capo di Stato Maggiore della Marina) che ho appreso la notizia dal Maresciallo Rommel. Insisto per un maggiore collegamento». Ancora: «Telefono a Riccardi: affondamento "Istria". Faccio rilevare che la notizia è giunta in ritardo. La perdita è grave». Non basta. «Occorre insistere molto per ottenere dalla Marina quello che si chiede». Quindi una annotazione sconsolata: «Noi non possiamo perdere le navi e il carburante in questo modo! Ho la sensazione che la responsabilità non è stata sentita nella sua importanza fin dal principio».
Non andavano molto meglio le cose col generale Rino Rougier (Capo di Stato Maggiore dell'Aeronautica), il quale disertava le riunioni e si faceva sostituire dal Sottocapo, generale Santoro. Sovente, la scorta ai mercantili non era assicurata con un adeguato numero di caccia, e carichi preziosi finivano in fondo al Mediterraneo.
Prendiamo il caso del «Monviso», una motonave, perduta come tante altre. «Aveva ‑ è sempre Cavallero che scrive ‑2.860 tonnellate di materiali vari più 400 tonnellate di carburante nostro e 200 dei tedeschi. Aveva 6 motocarrelli e 120 automezzi, 7 autoblindo tedesche e 11 carri armati nostri». La serie degli affondamenti di carichi indispensabili era senza fine: 54 automezzi e 10 carri armati tedeschi sull'«Apuania», 3000 metri cubi di carburante e un gruppo di semoventi sul «Pisani», 150 automezzi sul «Dandolo», e così via.
Nell'agosto del 1942 ben dieci motonavi e piroscafi carichi furono affondati. Successi da ascrivere, in tutti i casi, all'intercettazione di «Enigma», la macchina cifrante tedesca? Non sempre. Ci fu anche dolo. Non si spiegherebbe, diversamente, perché gli Alleati, nel Trattato di Pace con l'Italia, firmato il 10 febbraio 1947 a Parigi, inserirono l'articolo 16, che recitava: «I’Italia non incriminerà né molesterà i cittadini italiani, particolarmente i componenti delle Forze Armate, per il solo fatto di aver espresso simpatia per la causa delle Potenze Alleate e Associate o di aver svolto azione a favore della causa stessa durante il periodo compreso tra il 10 giugno 1940 e la data di entrata in vigore del presente Trattato». Questo nel testo francese, quello ufficiale. Nella versione inglese invece si legge «...compresi i componenti delle Forze Armate».
Impensabile che gli Alleati pretesero un articolo del genere (indubbiamente vergognoso) per «coprire» figure di secondo piano e non piuttosto ufficiali superiori che si trovavano nei vari «supercomandi».
Insieme con le oltre 60mila tonnellate di naviglio andate a fondo in agosto, si perdettero interi battaglioni corazzati, autogruppi, migliaia di tonnellate di carburante, artiglierie, viveri, rifornimenti di ogni genere. Questo accadeva mentre, un miglio dopo l'altro, attraversava l'Atlantico, l'Oceano Indiano e il Mar Rosso un grande convoglio alleato di 100 mila tonnellate, sul quale erano stati caricati 300 carri pesanti americani « Sherman» e 100 semoventi da 105 millimetri (la nave sulla quale erano stati caricati i motori degli «Sherman» venne affondata da un sommergibile tedesco; senza dire una parola, gli americani fecero partire un'altra nave, con un ugual numero di motori).
Importanti mutamenti avvenivano intanto negli alti comandi inglesi. Se l'Egitto era stato salvato, lo si doveva al generale Auchinleck, il quale aveva evitato che l'Ottava Armata ripiegasse fino in Palestina.
Come scrive Alan Moorehead nella sua «trilogia africana»: «Dopo l'Egitto sarebbe caduta Malta, che significava il controllo del Mediterraneo. Avremmo perduto il canale di Suez, e con esso depositi e materiali cinquanta volte più importanti di quelli lasciati a Tobruk. Suez, Porto Said, Alessandria, Beirut e Tripoli di Siria avrebbero fatto la stessa fine. Di conseguenza, Palestina e Siria non potevano sperare di resistere, e una volta giunti a Gerusalemme e Damasco i tedeschi sarebbero stati in vista dei pozzi di petrolio, e la Turchia sarebbe rimasta praticamente circondata. Il Mar Rosso sarebbe diventato un lago dell'Asse, e, una volta sboccata nell'Oceano Indiano, la flotta italiana avrebbe potuto controllare tutte le rotte per l'Africa, l'India e l'Australia. Il nemico si sarebbe avvicinato da due lati all'India, e il fianco sinistro dell'esercito russo si sarebbe trovato pericolosamente esposto».
Winston Churchill, lungi dall'essere riconoscente col generale Claude Auchinleck, il quale aveva fermato gli italo‑tedeschi a El Alamein, preparò la sua rimozione. In agosto, il Premier ‑ diretto a Mosca, compiendo un lungo giro in aereo ‑ sostò al Cairo, all'andata e al ritorno. Con rabbia, Churchill esclamò: «Rommel! Rommel! Rommel! Bisogna sconfiggerlo a tutti i costi». E tirò fuori il suo asso nella manica, d'accordo col Capo di Stato Maggiore Generale Imperiale, Alan Brooke.
Al comando dell'Ottava Armata fu designato il generale Bernard L. Montgomery, al comando del Medio Oriente il generale Harold Alexander. Montgomery, legnoso, pieno di sé, si insediò addirittura prima che Auchinleck lasciasse il suo quartier generale. II futuro visconte di El Alamein non trovò soltanto le cose aggiustate, ma anche definito il piano, nelle linee generali, per sventare l'ultimo tentativo degli italo‑tedeschi di sfondare in direzione di Alessandria e del Delta.
La grande paura di luglio era alle spalle e la Nona e Decima Armata, nel Vicino e Medio Oriente, avevano ceduto alla Ottava uomini e mezzi, sempre in attesa dei carri armati «made in Usa» che Roosevelt e Marshall avevano ceduto agli alleati inglesi in un momento di sconforto e di crisi.
Da parte dell'Asse, non vi fu certo la volontà di puntare assolutamente tutto per battere definitivamente l'Ottava Armata e raggiungere Alessandria e il Delta. Lo Stato Maggiore italiano poteva inviare in Libia la Divisione corazzata «Centauro» e la Divisione motorizzata «Piave». Nemmeno da parte tedesca si ritenne di creare un centro di gravità nel Mediterraneo, anche a scapito di altri settori non di primaria importanza. Rommel, per un attimo, sperò che gli venissero inviate la Settima e Decima Divisione corazzata: le due unità furono effettivamente equipaggiate per l'Africa, ma poi finirono in Russia. Era accaduta la stessa cosa nel 1941, quanto la Sesta Divisione corazzata era partita per l'Ucraina, con i carri armati che erano stati dipinti con il colore ocra, per operare nel deserto.
Anche la Marina italiana fu restia ad «avvicinarsi» al teatro nordafricano. L'Ottava Divisione navale rimase a lungo inattiva nel porto greco di Navarino e fu scartata l'idea di avvicinarla a Suda, nell'isola di Creta.
In considerazione della posta in giocò, l'Ammiragliato britannico ‑ con la momentanea stasi sul fronte del deserto ‑ ritenne giunto il momento di dare fondo a tutte le riserve per rifornire Malta e consentire all'isola ‑ insignita dal re d'Inghilterra della «George Cross» ‑ di riacquistare pienamente la sua funzione offensiva.
In occasione dell'operazione «Pedestal», una vera e propria « Armada» attraversò lo Stretto di Gibilterra diretta verso Oriente. C'erano le supercorazzate «Nelson» e « Rodney» , tre portaerei e uno stuolo di incrociatori, cacciatorpediniere e altre unità minori: il tutto, per scortare quattordici mercantili carichi di rifornimenti. La cisterna «Ohio», in particolare, aveva a bordo undicimila tonnellate di carburante ed era stata fornita dagli Stati Uniti, insieme con altre due motonavi.
La battaglia di Mezzo Agosto ‑ venne chiamata così ‑ fu pagata dalla Marina inglese a carissimo prezzo. Andarono a fondo la portaerei «Eagle», gli incrociatori «Manchester» e «Cairo», il cacciatorpediniere «Foresight»; la portaerei «Indomitable» subì seri danni, al pari degli incrociatori «Nigeria» e «Kenya». Mai, prima di allora, un così grande numero di navi da guerra era stato eliminato, temporaneamente o per sempre.
Dei quattordici mercantili, ben nove furono affondati; ma cinque, compresa la preziosa petroliera «Ohio», che navigava col bordo a fior d'acqua per i colpi ricevuti, riuscirono a raggiungere Malta, salvandola.
La flotta di superficie italiana mancò la sua grande occasione, e fu vera jattura averla richiamata prima che potesse dare il colpo di grazia al convoglio. Da Messina, Napoli, Cagliari, La Spezia, erano salpati sei incrociatori ‑ tre dei quali pesanti ‑ e undici cacciatorpediniere, che non spararono una cannonata. Sulla rotta di ritorno, un sommergibile inglese silurò gli incrociatori «Bolzano» e «Attendolo», che andarono praticamente perduti, senza costrutto.
A Washington le fasi della battaglia furono seguite attentamente. Se l'operazione «Pedestal» si fosse conclusa con un disastro completo, quanti erano riluttanti a «infilarsi» nel Mediterraneo avrebbero avuto un argomento in più per non impegnarsi nel settore, con gli sbarchi programmati per l'autunno. Ma, a Roma, nessuno sembrò valutare queste implicazioni.
L’effimera corsa dei sei giorni
« Rommel farà o no l'offensiva?» ‑ annotò Cavallero sul Diario. «Se non agirà, dovremo metterci sulla difensiva. Dimostro che la situazione imperniata su di un uomo non va. Ecco le conseguenze!».
Con chi sostituire il comandante dell'Armata»? Venne subito fatto il nome di Kesselring, il quale proveniva dalla fanteria e soltanto in seguito era approdato all'aviazione. In realtà, il Maresciallo Albert Kesselring comprendeva tutti i difficili aspetti di una guerra moderna ‑ terrestri, aerei e navali ‑ e non per niente era stato messo al comando dello scacchiere «Sud»: nel 1943‑45 avrebbe diretto, con molta abilità, la campagna d'Italia, imponendo agli Alleati due gravosi arresti, prima sulla linea «Gustav», poi sulla linea «Gotica». Insomma, era l'alto gallonato più idoneo per condurre in battaglia l’Armata d'Africa.
Quando Erwin Rommel comprese che poteva essere sostituito da Kesselring, dimenticò subito i suoi acciacchi e non volle cedere il comando: ancora e sempre la vecchia «ruggine» tra i due Marescialli.
Tutto sommato, non fu una soluzione felice, perché la «volpe», per la prima volta, era riluttante a uscire dalla tana e azzannare gli inglesi. Sfiduciato, deluso, tormentato dai dubbi, Rommel era contrario ad assumere l'iniziativa. Invece di ordinare una accurata ricognizione del terreno, si abbandonava a recriminazioni, a volte pretestuose, sulla mancanza di rifornimenti, che, quasi sempre, erano risultati al di sotto delle richieste.
Diciamo subito che la cosiddetta «corsa dei sei giorni» (31 agosto ‑ 5 settembre) non fallì per mancanza di benzina, perché nessuna unità rimase immobilizzata, con i serbatoi a secco. Il piano d'attacco prevedeva di coprire, di slancio e di notte, cinquanta chilometri verso Oriente, sbucando dal settore meridionale di El Alamein.
Una volta realizzato questo primo tempo, le colonne corazzate e motorizzate avrebbero dovuto ruotare verso la costa, raggiungere la località di El Hammam e avviluppare, da Est verso Ovest, l'intero schieramento britannico. Con qualche variante, era la ripetizione del «caso Venezia» del maggio precedente, contro la linea Ain el Ghazàla‑Bir Hacheim.
Rispetto al mese di luglio, l'Armata italo‑tedesca aveva rimpolpato i ranghi, aggiungendo qualche pedina in più al suo dispositivo. La Divisione corazzata «Littorio» era stata completata; la 164 a Divisione tedesca era giunta da Creta e, soprattutto, avevano fatto la loro comparsa i paracadutisti: la Divisione italiana «Folgore» e la Brigata Ramcke, tedesca.
Severo il giudizio di Caccia Dominioni sullo scriteriato impiego, nel deserto, di quella truppa scelta, cacciata «in buca», privata della sua mobilità. Un parere largamente condiviso dai veterani della guerra in Nord Africa.
«Noi italiani ‑ disse un ufficiale della Divisione «Trento» ‑siamo in stato fallimentare, ma da bravi scialacquatori usiamo l'acqua di colonia e lo sciampagna per lavare il pavimento, fabbrichiamo cascinali in marmo di Candoglia, e ora seppelliamo nella sabbia del deserto i paracadutisti che dovevano espugnare Malta».
E innegabile che il Comando Supremo italiano ‑ cioè Cavallero ‑ aveva garantito un regolare afflusso di benzina e che ciò non accadde perché le petroliere «San Andrea» e «Picci Fassio» finirono in fondo al Mediterraneo. Ma era semplicemente inimmaginabile che una offensiva di quella importanza avesse inizio con scarso carburante: le lamentele successive non risultarono affatto convincenti e il tutto aveva sapore di pretesto, per giustificare il fallimento della più incredibile e «svogliata» impresa militare di Rommel.
Come sempre, il nerbo dellArmata era formato dalle due Divisioni corazzate tedesche e dal Ventesimo Corpo d’Armata italiano. La 158 Panzer entrava in battaglia con 70 carri tipo III e IV, molti dei quali «Spezial», con cannone lungo; la 218 Panzer, con altri 120 carri. Le Divisioni «Ariete», «Littorio» e «Trieste» disponevano di 243 carri medi. Le altre Divisioni dovevano inscenare un attacco dimostrativo, per distogliere l'attenzione degli inglesi dal settore meridionale.
Si disse che una « ruse de guerre», concepita da Freddy de Guingand, Capo di Stato Maggiore di Montgomery, contribuì a depistare Rommel e i suoi collaboratori. Prima della battaglia, era stata deliberatamente fatta cadere nelle mani degli italo‑tedeschi una carta topografica nella quale risultavano cedevoli i tratti di deserto duri e compatti, e viceversa. Ma lo stratagemma ebbe in realtà un'importanza relativa.
Piuttosto, come avverte il nostro Ufficio Storico, « i campi (minati) erano molto sommariamente noti nelle loro dimensioni e nella esatta ubicazione e nessuna ricognizione specifica risulta essere stata compiuta preventivamente». Una grave dimenticanza, che contrastava con la cura che aveva contraddistinto precedenti operazioni in grande stile nel deserto.
Quando, la notte sul 31 agosto, il fronte meridionale si incendiò e i corazzati mossero in avanti, le mine imposero subito un pesante pedaggio. Il valente comandante della 21^ Panzer, generale Georg von Bismarck, rimase ucciso; ferito seriamente il generale Walther Nehring, comandante dell'Afrika Korps. Inoltre, un fuoco micidiale accolse italiani e tedeschi, mentre la Raf imperversava con attacchi a volo radente.
A giorno fatto, l'avanzata di cinquanta chilometri non si era realizzata e molti reparti erano ancora invischiati nei campi minati, anche se la Divisione «Littorio», con molta bravura, si era portata al di là delle letali «fasce» predisposte dagli inglesi. L’offensiva appariva inceppata fin dalle prime battute.
Rommel si consultò con il colonnello Fritz Bayerlein, suo Capo di Stato Maggiore, che lo convinse a insistere nella spinta offensiva, approfittando di una tempesta di sabbia che soffiava in faccia agli inglesi, inchiodando a terra la Raf.
La manovra a largo raggio verso El Hammam («grande soluzione») appariva irrealizzabile, anche perché gli inglesi non aspettavano altro per lanciare i loro carri armati sul fianco esposto dell'Asse. Si optò per una manovra a raggio più corto: obiettivo il crinale di Alam el Halfa («piccola soluzione»): la quota 132 diventò di grande importanza, perché il suo possesso era essenziale per raggiungere la costa e sboccare alle spalle di El Alamein.
Il generale Claude Auchinleck, prima di cedere il comando a Montgomery, aveva indicato Alam el Halfa come la posizione‑chiave, l'aveva fatta fortificare e ora era presidiata dalla 44' Divisione, con adeguata artiglieria controcarri.
L’attacco diretto al crinale costò a Rommel molti carri e non riuscì. Già la sera del 1° settembre il Maresciallo decise di sospendere l'offensiva e di ritornare, passo passo, sulle posizioni di partenza. I combattimenti durarono ancora tre giorni e si concluse così l'effimera «corsa».
Le truppe, che già sognavano dì sfilare ai piedi delle Piramidi, erano frastornate e non capivano perché la benzina consumata nella manovra di arretramento non era stata usata per continuare l'attacco. Dopo la guerra, Kesselring ebbe a dichiarare: «Mancò la ferrea determinazione di proseguire a ogni costo». Anche il generale dei paracadutisti Hermann Ramcke criticò la sospensione dell'offensiva: «Per noi è stato un mistero perché Rommel non abbia continuato a darci dentro. Avevamo posto nuovamente in rotta gli inglesi, non avevamo da far altro che inseguirli e annientarli».
Hitler portò il discorso su un piano più elevato e disse che «era una follia mantenere troppo a lungo un uomo in una posizione di alta responsabilità; con il passare del tempo è destinato a crollare». Una critica sottile al «calo» di Rommel come comandante d'Armata. Qualcuno ha perfino adombrato la tesi che Erwin Rommel fosse già «dall'altra parte», avendo poi partecipato al complotto contro Hitler, cosa che lo costrinse a suicidarsi per evitare la corte marziale.
Montgomery, arrivato da appena due settimane, si cinse di allori non suoi e annunciò trionfante: «L’Egitto è salvo. Ormai è matematicamente certo che finirò per annientare Rommel». Sui moli di Suez, Porto Said, Alessandria, stavano per sbarcare centinaia di carri armati «made in Usa» destinati a schiacciare l'Armata italo‑tedesca. II 14 settembre un attacco inglese dal deserto e dal mare contro Tobruk fallì, con gravi perdite. Rommel giunse sul posto e si complimentò con i difensori. Il 23 settembre ‑ sostituito dal generale Georg Stumme, che proveniva dal fronte russo il Maresciallo salì su un aereo diretto in Germania, per curarsi.
La triste ritirata verso Tripoli
UN uragano di fuoco investì le linee italo‑tedesche a El Alamein, alle 20.45 del 23 ottobre 1942: era l'inizio dell'offensiva preparata, con dovizia di mezzi, dall'Ottava Armata britannica. La guerra in Africa Settentrionale era giunta a una svolta, tanto più che, di lì a due settimane, sarebbero avvenuti gli sbarchi degli Alleati in Marocco e Algeria.
Secondo lo storico Correlli Barnett, la battaglia di El Alamein fu voluta da Churchill per motivi di prestigio: prima di rassegnarsi a una direzione americana del conflitto, bisognava vantare un vittoria esclusivamente inglese. Anche senza El Alamein, l'Asse avrebbe dovuto comunque sgombrare il territorio egiziano, con gli Alleati alle spalle.
Lo stesso Correlli Barnett scrive: «Ma la mattina del 24 ottobre, a dispetto di tutti i piani, l'attacco si era già trasformato in un macello. Data l'entità delle forze d'assalto, ammassate su un fronte tanto ristretto, queste, come uno spadaccino in mezzo a una folla compatta, non avevano spazio sufficiente per combattere.
Neppure la crisi al vertice del Comando dell'Asse fu sufficiente per agevolare i piani del generale Montgomery. Quando la battaglia ebbe inizio, Rommel si trovava in Germania per curarsi: il suo sostituto, generale Stumme, recatosi in prima linea, morì per un colpo apoplettico, per cui si verificò un vuoto nella direzione delle operazioni. Hitler telefonò allora a Rommel e questi partì subito: la sera del 25 ottobre, il Maresciallo trasmise a tutti i reparti il messaggio: «Ho ripreso il comando dell'Armata».
Nelle intenzioni degli inglesi, il primo urto violento avrebbe dovuto scardinare le posizioni italiane, a sud dello schieramento, così da consentire l'avvolgimento dell'intera linea. Affiorava, in questo calcolo, il disprezzo o, quanto meno, la sottovalutazione degli italiani afflitti come sempre da scarso armamento, problemi di organico e di rifornimenti.
L'attacco si risolse in uno scacco completo.
La Divisione paracadutisti «Folgore», inquadrata nel Decimo Corpo, contenne l'attacco, contrattaccò e mantenne le posizioni. Paolo Caccia Dominioni, che in seguito ispezionò il terreno, raccolse i resti di seicento caduti inglesi, individuando i reggimenti di appartenenza, unità cariche di tradizione e molto prestigiose: « Davanti all'intatta linea italiana fumavano centoventi carri della 7^ Divisione corazzata e si allineavano 600 cadaveri delle Divisioni britanniche 44^ e 50^»; più a sud, era parimenti fallito l'attacco di una Divisione di Francesi Liberi.
La «Folgore» ebbe nei fratelli Ruspoli, caduti nel campo, decorati di Medaglia d'Oro, le figure più rappresentative dei cinquemila uomini partiti mesi prima da Tarquinia e finiti «in buca» nel deserto.
Con la consueta abilità tattica, Rommel impiegò i suoi carri armati e quelli del Ventesimo Corpo italiano: ma si trattava di una lotta «per esaurimento», la partita era decisa in partenza.
Non c'erano soltanto 300 carri armati «Sherman» e 100 semoventi «made in Usa» a fare la differenza, ma altre centinaia di carri affluiti in Egitto nelle settimane precedenti e, inoltre, montagne di munizioni. L’Ottava Armata era sul serio il più formidabile strumento di guerra apprestato dall'Impero, perché gli inglesi erano affiancati da australiani, sudafricani, neozelandesi, indiani, nepalesi e da altre truppe del Commonwealth. Pure, lo sperato, immediato successo non si verificò.
Lontano dal campo di battaglia, a Londra, esplose la rabbia di Churchill per la situazione di «impasse». II Premier, irritatissimo, investì con duri accenti il Capo di Stato Maggiore Generale Imperiale, Alan Braoke, chiedendo che cosa stava combinando il «suo» Montgomery, mentre la Raf dominava incontrastata.
«Perché (Montgomery) aveva assicurato che tutto sarebbe finito in una settimana, perché non intendeva impegnarsi a fondo? Possibile che in Gran Bretagna non ci fosse un solo generale che sapesse vincere almeno una battaglia?».
Il «mito» di Rommel aveva fatto molte vittime, nei due anni precedenti: Wavell, Cunningham, Ritchie, Auchinleck. Il timore, non confessato, era che anche Montgomery è Alexander potessero essere giocati dalla «volpe»: ma i tempi erano cambiati e mutati erano soprattutto i rapporti di forze.
Durante la sua licenza, a Rommel erano stati mostrati i primi carri armati «Tigre», razzi multipli, nebbiogeni: ma nulla di tutto questo era stato inviato in Africa. Poi, era ricominciato lo stillicidio delle perdite in mare, con decine di migliaia di tonnellate di armi, benzina, rifornimenti, finite in fondo al Mediterraneo. Né Stumme, il sostituto, né i rappresentanti militari tedeschi a Roma erano riusciti a migliorare la situazione.
Quanto alla minaccia che si profilava alle spalle dell'Armata, con gli sbarchi nel Nord Africa francese, i pareri erano discordi e il capo dell’Abwehr (Servizio Militare Informazioni), ammiraglio Canaris, si comportò in maniera equivoca, attuando un vero e proprio depistaggio (Canaris era un oppositore di Hitler e pagò poi con la vita questa sua scelta).
In conclusione, l'Armata d'Africa non ricevette gli sperati rinforzi e nulla fu predisposto per parare la minaccia alle spalle. Caddero nel vuoto anche gli Sos di Rommel «in articulo mortis» della sua Armata, perché le Divisioni, i Reggimenti, si fondevano come cubetti di ghiaccio esposti alla fiamma.
Nel campo opposto, i rimbrotti di Churchill se avevano l'effetto di rendere molto movimentate le riunioni del Gabinetto di Guerra, non turbavano granché il Capo di Stato Maggiore Generale, consapevole che Montgomery disponeva di riserve adeguate ed era in grado di rimanere «bilanciato». Non uno, ma cento Rommel sarebbero stati in grado di mutare l'esito finale della battaglia.
Giuseppe Bottai annotava sul diario in quei giorni: «Gli inglesi hanno buttato il grosso delle loro forze verso il mare, senza fare la prevista manovra dal sud. Rommel avrebbe voluto senz'altro ripiegare su Agedabia, abbandonando di nuovo tutta la Cirenaica per difendere Tripoli. Ma un ordine di Hitler, rifischiato, commenta Galeazzo (Ciano), da Mussolini, l'ha inchiodato sul posto, dove si vince o si muore».
Da Rastenburg, dove si trovava la «Tana del lupo» di Hitler, Rommel aveva infatti ricevuto l'ordine di indicare alle truppe la strada che portava alla vittoria o alla morte. Per la prima volta, da quando aveva messo piede in Africa, Erwin Rommel si vedeva privato della libertà d'azione, della facoltà di decidere.
Nelle precedenti campagne, il comandante dell'Armata si era fatto la fama di «volpe» proprio perché era riuscito a districarsi anche nelle situazioni più difficili, salvando il nerbo delle sue divisioni, così da contrattaccare efficacemente alla prima occasione. Il movimento pendolare delle operazioni era dovuto proprio a questa elasticità nella manovra, che ora veniva improvvisamente ad essere negata da un ordine dello stesso Hitler. Per motivi esclusivamente politici, propagandistici, si condannava l'Armata alla disfatta.
Con l'operazione «Supercharge». Montgomery fu in grado di scagliare una nuova massa corazzata, ottenendo finalmente lo sfondamento della linea italo‑tedesca; per la verità, il cedimento si verificò sul tratto tenuto dalla 164 a Divisione germanica.
Si compì anche il destino della Divisione corazzata «Ariete». Nel libro di Rommel, «Guerra senza odio», si legge: «A sud est e a sud del comando si vedevano grandi nuvole di polvere. Qui si svolgeva la disperata lotta dei piccoli e scadenti carri armati italiani del 20° Corpo con circa 100 carri armati pesanti britannici che avevano aggirato gli italiani sul fianco destro scoperto. Come riferì più tardi il maggiore Von Luck, da me mandato con il suo reparto a tamponare la falla fra gli italiani e il Dak, i primi, che rappresentavano ormai le nostre più forti truppe motorizzate, combatterono con straordinario valore. Von Luck era andato in aiuto degli italiani attaccando come poteva con le armi a sua disposizione, ma non aveva potuto mutare la sorte del corpo corazzato. Uno dopo l'altro i carri armati esplodevano o s'incendiavano mentre il violentissimo fuoco dell'artiglieria nemica ricopriva le posizioni della fanteria e dell'artiglieria italiane. Verso le 15,30 partì l'ultimo messaggio radio dell'Ariete. «Carri armati nemici fatta irruzione a sud della Ariete, con ciò Ariete accerchiata. Trovasi circa 5 chilometri nord‑ovest Bir el Abd. Carri Ariete combattono». La sera il 20° corpo italiano, dopo valorosa lotta, era annientato. Con la Ariete perdemmo i nostri più anziani camerati italiani, ai quali, bisogna riconoscerlo, avevamo sempre chiesto più di quello che erano in grado di fare con il loro cattivo armamento.
I resti dell'Armata d'Africa ripiegarono verso ovest e il cauto Montgomery non fu in grado di accerchiarlo. Anche l'Ottava Armata, peraltro, usciva dalla battaglia abbastanza provata: aveva perduto 13.500 uomini, tra morti, feriti e dispersi, e 600 carri armati. Italiani e tedeschi iniziavano una ritirata di duemila chilometri, verso Tripoli. Come disse il generale Ettore Bastico, «Avevano le spalle rivolte al sole e il viso rivolto alla notte».
(Fine)
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