domenica 7 ottobre 2007

CAPITOLO XIX

L'ULTIMA BATTAGLIA

Ottobre‑novembre 1942

DALLA relazione del comandante il 187° reggimento paracadutisti « Folgore »:

« Nella notte del 24 ottobre un tiro di artiglieria, di violenza e proporzioni inusitate, si abbatteva sulle nostre posizioni di El Alamein. Era l'inizio dell'offensiva nemica.

« In seguito ai rimaneggiamenti avvenuti nel corso del mese, la divisione ' Folgore ' era in quei giorni interamente schierata all'ala destra dell'Armata italo‑tedesca, in pieno deserto, fra il saliente di Munassib e il sistema collinoso Qaret El Himeimat‑Nagb Rala. Si appoggiava sulla destra alla Depressione di El Qattara. Fronte occupato: circa 15 chilometri. Schieramento: due reggimenti in primo scaglione, il 187° a nord e il 186° a sud, raccordati da un raggruppamento di due battaglioni, al comando del tenente colonnello Ruspoli di Poggio Suasa. Forza complessiva: circa 5000 uomini, di cui non più di 4000 paracadutisti. Il rimanente, come verrà detto in seguito, era stato precedentemente perduto per ferite e soprattutto per malattie.

« Le caratteristiche topografiche dello schieramento erano lungi dall'essere soddisfacenti. A eccezione degli appigli laterali (Munassib e Nagb Rala), offrenti discrete condizioni di difendibilità per il dominio esercitato all'intorno, la linea correva attraverso una piana desertica priva di ogni ostacolo e agevolmente controllata dalle posizioni inglesi. Si aggiunga che il pilastro settentrionale dello schieramento (Deir el Munassib) costituiva un accentuato saliente della fronte ed era premuto da presso dal nemico su due lati. Nei primi giorni dello stesso mese di ottobre l'avversario aveva anzi tentato di impadronirsene ed era stato respinto con gravi perdite. Ciò nonostante quel settore permaneva assai delicato e tormentato e ci procurava un quotidiano stillicidio di perdite.

« In seguito all'insistente martellamento dell'artiglieria avversaria si era proceduto, nel corso del mese di ottobre, a un diradamento delle forze presidianti la prima linea e a un maggiore scaglionamento in profondità. Ciò in previsione dell'imminente offensiva nemica (i cui complessi preparativi non erano sfuggiti alla nostra osservazione) e del conseguente proposito di attendere l'attacco nelle migliori condizioni di efficienza.

« L'organizzazione della difesa si basava su un sistema di capisaldi circondati da campi minati e aventi possibilità d'azione a giro d'orizzonte. Lo scardinamento di uno dei capisaldi avrebbe dovuto essere contenuto dall'azione fiancheggiante di quelli laterali (come in effetti si verificò). Su questa possibilità di resistenza e di reazione dei singoli elementi della difesa, appoggiata dall'ostacolo offerto dai campi minati, era sostanzialmente imperniato il concetto d'azione formulato in caso d'offensiva nemica: logorare con le fanterie la massa corazzata avversaria sino a raggiungere le condizioni idonee alla contromanovra delle nostre forze meccanizzate.

« Le notizie che si avevano sul nemico lasciavano concordemente intendere che l'offensiva fosse imminente e che riserve massicce di truppe e di materiali fossero in via di afflusso da Alessandria e dalla regione del Delta. Dall'interrogatorio di prigionieri si era potuto accertare che sulla sola fronte della ' Folgore ' andassero ammassandosi forze pari a due divisioni di fanteria e a una intera divisione corazzata: una massa d'urto, cioè, di 15‑20 mila uomini e 300 mezzi corazzati contro i nostri 4000 paracadutisti, debilitati dai disagi e dalle malattie. L'osservazione aerea aveva inoltre accertata la presenza di cinquanta o sessanta batterie nemiche già in posizione. L'aviazione avversaria, rinforzata di recente da forti formazioni americane, aveva raggiunto una decisa superiorità numerica. In quanto alle riserve di munizioni, carburante e materiale vario accumulate dall'avversario, un proclama diramato alle truppe britanniche dal generale Montgomery, comandante la 8a Armata (proclama da noi rinvenuto fra i documenti di un ufficiale prigioniero) diceva testualmente: ' Abbiamo di che alimentare l'offensiva, se necessario, per mesi. Possiamo concederci il lusso di incalzare gli Italo-Tedeschi fino a Tripoli ed oltre senza alcuna tema logistica '.

« Particolare di notevole interesse: le truppe avversarie quasi tutte affluite di recente dal medio Oriente, dall'India e dalla Gran Bretagna, erano abbondantemente motorizzate e dotate di gran copia di automezzi. La ' Folgore ' non disponeva invece che di pochi autocarri impegnati in esigenze logistiche.

« Le condizioni fisiche della nostra truppa, come già accennato, lasciavano a desiderare. In parte per l'alimentazione, che le gravi difficoltà di rifornimento rendevano insufficiente, e in parte per le disagiatissime condizioni di ambiente e di clima, la salute degli uomini era andata assai deperendo negli ultimi tempi. Quasi tutti erano sofferenti per dissenteria.

« Ad onta di tali menomate condizioni fisiche, integre erano rimaste le qualità spirituali e combattive dei paracadutisti. La materia prima umana della divisione s'era rivelata, alla prova del fuoco, di qualità e tempra invero eccezionali. Per mordente aggressivo, sprezzo di ogni pericolo, abilità manovriera, i nostri uomini erano in breve divenuti leggendari in tutta l'Armata. Il nemico aveva maturato un ben nutrito timore dei paracadutisti italiani e bastava talora il grido d'assalto ' Folgore! ' per indurre gli inglesi a evitare il contatto e a battere in ritirata.

« Le notizie sulla consistenza del ciclone offensivo che il nemico era in procinto di scatenare non avevano menomamente intaccato il morale dei ' ragazzi della Folgore ' (com'eran affettuosamente chiamati i paracadutisti in tutto il fronte dell'Armata). Con la sensibilità tattica di chi vive da mesi in prima linea, essi s'erano resi perfettamente conto che il nemico avrebbe tentato, almeno inizialmente, di infrangere la resistenza della nostra linea attaccandone l'ala destra, presidiata appunto dalla ' Folgore ', sì da minacciare di avvolgimento l'intero schieramento dell'Armata. Del duro compito reattivo loro affidato si dimostravano fierissimi. Com'ebbe a dichiarare taluno di essi al generale von Stumme, pochi giorni prima dell'inizio dell'offensiva: ' Dite pure al maresciallo Rommel, signor generale, che finché vi sarà qui un uomo, una cartuccia e una borraccia d'acqua, il nemico non passerà '.

« Ed erano talmente compresi dell'importanza del momento e del settore che, senza alcun incitamento, trascorrevano le notti in lavori di rafforzamento, attuando di loro iniziativa lavori e migliorie spesso geniali. Nei giorni precedenti l'offensiva s'era ad essi aggiunto un altro splendido reparto, il battaglione guastatori del Genio del maggiore Caccia Dominioni. Guastatori e paracadutisti s'erano scambievolmente apprezzati; avevano in breve fraternizzato e gareggiavano nel migliorare l'efficienza della linea con lavori notturni di mina, spesso rischiosissimi, svolti a poche decine di metri dalle vedette nemiche. Compatibilmente con gli scarsi materiali di rafforzamento disponibili, le posizioni erano state messe nelle migliori condizioni di efficienza.

« Questa, in sintesi, la situazione tattica e spirituale della ' Folgore ' alla immediata vigilia dell'offensiva avversaria ».

(Nella notte del 24 il deserto appariva inzuppato di luce lunare. Una nebbiolina leggera sospesa fra cielo e terra trasudava umido e chiarore schermando il paesaggio d'un sipario di silenzio. S'incollava a uomini e cose, lieve e fastidiosa come un velo fradicio. Le sentinelle intabarrate nei gabbani di incerato tossicchiavano in sordina, soffocando a fatica l'irritazione bronchiale di quattro mesi d'addiaccio. I capiposto in vedetta brontolavano:

« Piantala con quella tosse, stupido, ché ti sentono fino al Cairo ».
« Che ce posso f à, caporale? Mi prore. »
« Se ti prude... » un coretto allegro di bisbigli sugge­riva dalle vicine postazioni i rimedi del caso, tutti più o meno osceni.

Tutti i ragazzi erano all'erta, nella notte del 24. Fra Munassib e Qaret el Himeimat non v'era chi dormisse. Sdraiati sulla sabbia diaccia, accanto alle armi incap­pucciate a proteggerle dalla guazza, gli uomini veglia­vano, stretti l'un contro l'altro in cerca di tepore. Guar­davano all'insù le folate di nebbia in fuga sul disco opaco della luna; lievi e sfrangiate come ricordi inse­guentisi nella memoria.
Taluno bisbigliava, rievocando all'orecchio dell'amico.
« ...e allora io le dissi: ora vado alla guerra, ma tu aspettami e quando torno... »
« E credi che quella t'aspetti? Va là, fregnone, ché le donne sono tutte eguali. Gli assenti hanno sempre torto. »
« Stupido. Si vede che non conosci Rosina. E una ragazza ammodo, educata, all'antica... »
Più in là due ufficiali protendono il capo oltre il ciglio d'un osservatorio.
« Che silenzio, stanotte! Non si odono neanche i so­liti autocarri che scaricano. Che attacchino sul serio? »
« Mah! Sono tre notti che si aspetta. Sarebbe ora che si decidessero. »
« Che ore sono? »
« Le otto e tre quarti. Ma per quel che ne so potreb­bero anche essere le sette e mezzo o le undici e venti. Ho ricaricato l'orologio a occhio, regolandomi sul sole » .
« Del resto, il tempo qui non ha valore. »
« Non ha valore. »
Una vampa all'orizzonte, lontana.
« Hai visto? »
« Sì. Sparano sul fronte della ' Brescia '. »
Un'altra vampata, un'altra e un'altra ancora. Poi dieci, venti, cinquanta, come se l'intero orizzonte deflagri. Un'ondata di fragore giunge compatta da oriente e som­merge di colpo le nostre linee. S'ode acuta e un po' ridicola una voce di capoposto che grida: « All'armi! »)
***
« Nella tarda sera del 24 ottobre, verso le ore 21, un tiro di artiglieria di eccezionale violenza si abbatteva, come già detto, sull'intero fronte della divisione. Dall'im­ mediato rilevamento alla vampa effettuato dagli osser­vatori di artiglieria si poté calcolare che contro il solo settore del 187° agissero non meno di quaranta o cin­quanta batterie. Gli avversari, evidentemente, erano riu­sciti a portare in linea un numero di pezzi ancora mag­giore di quello stimato prima dell'azione. Apparve pre­sto evidente, dall'insistenza e precisione del tiro, come esso fosse il preludio dell'attesa offensiva avversaria.
Nelle pause di silenzio balistico si udiva infatti lo sfer­ragliamento di grosse masse di carri armati serranti nella notte sotto le nostre posizioni. Il bombardamento, con qualche breve sosta, si prolungò violentissimo sino al­l'alba nei settori laterali della divisione, provocando pe­raltro perdite relativamente limitate, grazie alle minute predisposizioni prese pel ricovero della truppa in linea.
Nel settore centrale (Ruspoli) il tiro venne invece allun­gato dopo circa due ore e il nemico mosse all'attacco con forze importanti (successivamente valutate a quat­tro battaglioni di fanteria e a una brigata corazzata).
I collegamenti a filo si erano interrotti alle prime grana­te e quelli radiotelegrafici erano molto disturbati dall'avversario; solo alle prime luci si poté quindi avere un quadro sommario della situazione.

« Alle ore 5 questa appariva la seguente. Gli avam­posti del ten. col. Ruspoli, dopo lotta impari e accani­tissima durata sino all'alba, erano stati sommersi. La compagnia avanzata (cap. di cavalleria Marenco di Mo­riondo), sebbene investita da un'autentica valanga di ferro e di fuoco, non era arretrata d'un passo. I novanta uomini che la componevano s'erano abbarbicati al ter­reno e, benché sopravanzati e circondati dalla massa degli assalitori, avevano condotto resistenza tenacissima per oltre sei ore. Schiacciati dal grave peso dell'attacco, iso­lati e frantumati dalle infiltrazioni di carri armati, erano stati soverchiati solo dopo un'accanita serie di assalti e di contrassalti conchiusasi alle prime luci. La quasi totalità era rimasta sul terreno; unici superstiti, una quin­dicina di paracadutisti, quasi tutti feriti. Il nemico ave­va anch'esso subito dure perdite, fra cui non meno di una trentina di carri. L'accanita resistenza l'aveva anzi a tal punto sconcertato da indurlo a desistere dall'attac­co e a rafforzarsi sulle posizioni raggiunte, in attesa che la massa dei suoi mezzi corazzati serrasse sotto lo sca­glione di rottura.
« Altri attacchi, condotti da forze degaulliste, erano stati sferrati nella notte sul fronte del 186°. Ma erano stati energicamente stroncati dai contrassalti personal­mente guidati da un comandante di battaglione, ferito nel corso dell'azione.
« Appena chiaritasi la situazione, i comandanti di reg­gimento laterali distoglievano d'iniziativa le batterie a disposizione dai loro compiti di protezione normale e battevano con esse durante l'intera mattinata del 24 la massa corazzata avversaria, visibilissima dagli osserva­tori, sì da alleviare la pressione esercitantesi sul raggrup­pamento Ruspoli. Non appena ristabiliti i collegamenti (verso mezzogiorno) si poté concentrare sul fronte del settore centrale anche il tiro degli altri gruppi onde mantenere l'avversario sotto un fuoco pressoché costan­te. L'azione sortì esito particolarmente efficace, ché nu­merosi mezzi corazzati, colti di sorpresa, furono centrati e messi in fiamme; e il fumo del carburante incendiato, levantesi altissimo nella mattinata calma, servì da richia­mo e da obiettivo ai successivi concentramenti di arti­glieria.
« Fosse tale vigorosa reazione, fossero le gravi perdite già subite, il nemico si mantenne inattivo durante l'in­tera giornata. Le fanterie inglesi, logoratesi nell'assalto, andavano frettolosamente cercando riparo con lavori di scavo. All'orizzonte, fuori delle nostre batterie, si scorgeva il complesso movimento delle riserve nemiche autocarrate apprestantisi a riprendere l'attacco col fa­vore delle tenebre.
« Approfittando della tregua venne effettuato a sera un contrattacco con le magre forze disponibili. Si poté così ristabilire una linea continua, se pur esile, fra i due reggimenti della 'Folgore' minacciati di separazione. In questa fase dell'azione cadeva valorosamente sul campo il tenente colonnello di cavalleria principe Mare­scotti Ruspoli di Poggio Suasa.
« Giova ricordare che questo splendido ufficiale era già stato ferito in precedente azione né aveva voluto al­lontanarsi dalla linea. Benché ancora febbricitante, ave­va diretto mirabilmente la difesa della notte prodigan­dosi quindi durante l'intera giornata. Cadde mentre conduceva in linea di persona i pochi rincalzi per il contrassalto. Era il quarto ufficiale superiore della ' Fol­gore ', dopo i maggiori Rossi, Macchiato e Patella, a lasciare la vita sul campo in breve volgere di giorni » .

(L'avevo visto la vigilia, Marescotti Ruspoli. Aveva telefonato al comandante del settore contiguo: « Vieni che ho da parlarti. Io non posso muovermi a causa d'un lieve malessere > . Ci eravamo recati da lui e l'aveva­mo trovato nella sua buca Comando, disteso su una certa sdraio che gli teneva luogo di letto. Batteva i denti per febbre e la mano scarna gli tremava mentre ad­ditava sulla carta al collega l'andamento della linea: « C'è la sutura del mio settore col tuo che mi preoccu­pa. Qui, vedi, c'è una zona in angolo morto ed il ne­mico potrebbe... »
Come Ferrari Orsi. Anche lui si preoccupava di quel­la sacca ch'era riuscita fatale al generale, pochi giorni addietro. Furono decise le misure del caso: incrocio di fuochi, spostamenti di rincalzi. Ma io pensavo incon­sciamente a Ferrari Orsi e al maleficio di quel covo di mine e di granate vaganti e nel vedere il volto scarno e gli occhi lucidi di febbre di Ruspoli mi venne istintivo il dirgli:
« Marescotti, tu non sei in condizione di poter restare in linea. Dovresti andare in ospedale. Perché non tele­foni al Comando di divisione per farti sostituire? ».
Ma lui mi guardò stupito, quasi offeso dell'offerta:
« Andarmene ora, nell'imminenza d'un attacco nemi­co?... Vorrai scherzare. E poi sto bene, sto benissimo. Solo qualche linea di febbre. È un acciacco che mi porto dietro dall'Etiopia: roba di poco conto. »
E quando mi salutò vidi che frenava il tremito feb­brile della mano onde mi convincessi che stava benone. Ma la sua mano scottava.
E il tenente Gola. Era di presidio con i suoi mortai sui rovesci dell'Himeimat. Sere prima aveva udito oltre la linea un bizzarro grugnito e quindi uno scoppio. Era accorso con i suoi uomini e aveva trovato un cammello squarciato da una mina nel nostro campo marginale. Non aveva notato lì per lì che quel cammello, in appa­renza selvaggio e vagabondo, aveva una latta attaccata alla coda come un gatto randagio di sobborgo. Aveva solo pensato ai suoi uomini affamati e s'era rallegrato dell'insperata macelleria. Avevano mangiato bistecche di cammello per due giorni.
Poche ore prima dell'attacco nemico, il maggiore Izzo, comandante il V battaglione, che teneva con meno di quattrocento uomini un fronte di sette chilometri, aveva saputo casualmente di quel cammello suicida e aveva rimproverato l'ufficiale per non esserne stato avvertito in tempo.
« Non capisci », gli aveva detto, « ch'era un espe­diente del nemico per rilevare il tracciato dei no­stri campi minati? Hanno sospinto contro le nostre li­nee quella povera bestia, spaventata dall'arnese appe­sole alla coda, a guisa di pattuglia esplorante. E tu hai pensato solo a mangiarla. Mostrami dove l'hai trovata che lì, assai verosimilmente, il nemico attaccherà. »
E proprio in quel tratto, infatti, i degaullisti attac­carono.
Gola c'era rimasto male. E nella notte sul 24, allor­ché vide il suo maggiore che si lanciava al contrassalto con un pugno di uomini, lasciò i suoi mortai e accorse anche lui coi serventi. Attaccò sul fianco gli assalitori e concorse a volgerli in fuga. Ma si buscò una sventa­gliata di mitraglia nel ventre e si abbatté.
Nell'autoambulanza che lo conduceva morente al­l'ospedale, disteso accanto al maggiore ferito, cercò nel buio la mano del suo superiore, la strinse e disse: « Quel cammello. Vi chiedo scusa, signor maggiore, per non avervi avvertito del cammello ».
E il paracadutista Inverardi. Era la staffetta dello stesso maggiore Izzo. E quando vide il suo ufficiale a terra con un ginocchio in frantumi gli legò strettamente le gamba per arrestare l'emorragia, poi si caricò il mag­giore sulle spalle e fece due ore di marcia sotto il tiro d'artiglieria per portarlo in salvo all'autoambulanza. L'ufficiale, assai malconcio, gli diceva: « Lasciami qui e pensa a ripararti dalle granate ». E Inverardi rispon­deva: « Fossi matto! » A un certo punto, discendendo da Nagb Rala, passarono accanto a un deposito di mine che ardeva per principio d'incendio. Inverardi temette che l'esplosione imminente potesse coinvolgere il suo ufficiale, lo depositò garbatamente al suolo e si buttò fra le casse di mine e di bombe a soffocare le fiamme. Ci riuscì solo perché Santa Barbara gli tenne le sante mani sul capo. Poi si ricaricò il maggiore sulla schiena e lo portò, come dicevo, sino all'ambulanza.
All'ospedaletto ebbero a criticare i metodi un po' spicci con cui Inverardi aveva arrestato l'emorragia del suo ufficiale, poiché gli aveva stretto con sì energico zelo il laccio emostatico che ancora un po' il maggiore perdeva la gamba per cancrena. Ma questi sono dettagli, ché Inverardi era un bravo soldato e non un infermiere patentato. Fatto sta che il maggiore è oggi sano e ve­geto e zoppica appena. E di Inverardi invece, tornato in linea a combattere, non si sa più nulla. Disperso.)
« ...L'attacco si riaccendeva violentissimo nella notte del 25. Con i rinforzi affluiti l'avversario si era ricosti­tuito una massa d'urto, valutabile in cinque‑sei battaglio­ni e in due brigate corazzate, e mirava con essa ad allar­gare la fessura dischiusasi nel settore centrale della ' Folgore ', gravando verso meridione sopra il 186° presidian­te le posizioni di .Qaret el Himeimat. Lo scardinamento di questo pilastro difensivo avrebbe probabilmente con­sentito, secondo i calcoli dell'avversario, di iniziare il movimento aggirante destinato a far cadere per mano­vra l'intero fronte di El Alamein.
»
« Al sorgere della luna, precedute dall'abituale mas­siccio tiro di artiglieria, le colonne d'attacco movevano da tre diverse direttrici verso le posizioni del 186°. Si urtavano istantaneamente a una resistenza non meno fe­roce e accanita di quella incontrata nel settore centrale. Il battaglione investito per primo (VII, del capitano Mautino), composto in prevalenza di elementi prove­nienti dalle truppe alpine, stroncava nettamente la pri­ma ondata d'assalto. Le altre, dilaganti su tutto il fronte reggimentale, venivano arginate dapprima e contrassal­tate poi dai battaglioni vicini. Il logorio subito dal­l'attaccante fu tale da non consentirgli di superare la cerchia difensiva dei campi minati e di lanciare oltre questi, come si proponeva, le forze corazzate attendenti in potenza. Né miglior. sorte ebbero i successivi attacchi miranti ad aggirare da sud le difese del pilastro di Qaret el Himeimat. In tal fase un altro comandante di batta­glione, il maggiore Bergonzi, cadeva sul campo.
« Nel pomeriggio, visti falliti i suoi attacchi contro il 186°, il nemico tentava miglior fortuna contro il 187°. Apriva un violentissimo tiro a granate esplosive e neb­biogene contro il caposaldo più vicino di quel reparto e vi sferrava contro, a guisa d'ariete, l'intero reggimento corazzato IV Hussards. Era il caposaldo presidiato da una compagnia (capitano Cristofori) ridotta dai prece­denti combattimenti a non più di settanta uomini, con tre pezzi anticarro. Nel mentre questi sparavano a ritmo accelerato sino ad arroventarsi, gli uomini, infossati fra le mine del campo perimetrale, impedivano ai pionieri nemici di aprire un varco ai carri. Dopo vani e reiterati tentativi di avvicinare al caposaldo elementi appiedati, il nemico lanciava contro i difensori una carica dimezzi corazzati. Ma per nulla scossi dall'impressionante spet­tacolo dei mastodonti (americani, di trenta tonnellate) vomitanti mitraglia a pochi passi, i paracadutisti conti­nuavano il loro fuoco calmo e mirato e passavano anzi al contrassalto, attaccando i carri nemici con bottiglie incendiarie. Contemporaneamente i nostri gruppi di arti­glieria riuscivano con audaci tiri d'infilata a battere effi­cacemente la massa corazzata attaccante arrecandole notevoli perdite. Visto inutile ogni tentativo, il nemico s'induceva a ripiegare a sera sulle posizioni di partenza lasciando innanzi al nostro caposaldo 22 carri armati inutilizzati, successivamente incendiati da nostre pattu­glie. Gli equipaggi, una sessantina di uomini, venivano catturati. Nella notte l'intero fronte della ' Folgore ' era illuminato dal riverbero delle carcasse ardenti innanzi alle nostre posizioni ».

(Era uno spettacolo di fosca bellezza quell'allineamen­to di falò scoppiettanti nella notte. A tratti s'udiva un boato sordo e nel buio scaturiva un cratere di lapilli roventi: un serbatoio di benzina che esplodeva. La brezza di levante sospingeva verso le nostre linee zaffate di fumo grasso, greve di lezzo di cadavere cremato. A1 mattino le carcasse ardevano ancora e i pinnacoli neri s'elevavano altissimi nell'aria calma, come tronchi d'un palmeto fantastico.

Fu in quel frangente che vidi passare due barelle, due caduti: il tenente Mesina, che aveva guidato l'as­salto contro i carri ora in fiamme, e il sergente Lieber, il pattugliatore di El Qattara. Né il maresciallo Carta, l'altro pattugliere, volle essere da meno. Cadde 1'indo­mani. E i due sottufficiali marciatori, come già nella Depressione, s'avviarono certo per diversi itinerari sulle strade non battute che menano lassù, riconoscendo il cammino alle colonne di ragazzi che li seguirono nel giorno seguente.)

« ...La giornata del 26 trascorse relativamente calma ché, ammaestrato dai duri scacchi subiti, il nemico non azzardò azioni isolate e solo si contentò di mantenere le nostre linee sotto un tormentoso tiro di artiglieria. Andava intanto ammassando le sue truppe ancora fre­sche, tenute sino ad allora in riserva, nell'intento di compiere con esse l'estremo sforzo contro la ' Folgore '. Adunò così quattro reggimenti scelti di fanteria moto­rizzata inglese e si accinse nella notte sul 27 a vibrarci il colpo decisivo.
« Avendo constatato il saldo tenore della nostra resi­stenza in ogni tratto (com'ebbero poi a dichiarare vari ufficiali prigionieri), il nemico decise di far massa con­tro il saliente di Munassib, mirando a impadronirsene e a dilagare lungo un allineamento vallivo (Deir EI Munassib‑Deir Alinda) che da quelle posizioni si diparte. Dopo l'ormai consueta preparazione di artiglieria e di nebbiogeni, il nemico moveva all'attacco al sorgere della luna (ore 22) contro le posizioni tenute dal battaglione presidiante il vertice del saliente (IV, comandato dal maggiore Patella, caduto il 18 ottobre, poi dal capitano di cavalleria Valletti‑Borgnini). Una colonna composta da due battaglioni del reggimento Green Hoivards e da una compagnia autoblinde, riprendeva il fallito attacco del pomeriggio contro la compagnia Cristofori. Un'altra colonna, formata da elementi d'assalto degaullisti, impe­gnava la compagnia di sinistra (tenente di cavalleria Si­moni), Una terza colonna, costituita dall'intero reggi­mento Royal West Kent e da un battaglione carri del IV Hussards investiva da ogni lato il caposaldo centrale (capitano di cavalleria Ruspoli). Contemporaneamente venivano impegnate da distaccamenti le posizioni del battaglione più vicino. (II, maggiore di cavalleria Zan­ninovich).
« Alle ore 23 l'intero fronte del reggimento era così premuto da ogni lato. I due gruppi di artiglieria a dispo­sizione sparavano a ritmo accelerato sui previsti settori di protezione. Aliquote del battaglione di secondo sca­glione (IX, capitano di cavalleria Chieppa) venivano spo­state nella notte per rafforzare le ali dello schieramento, particolarmente minacciate. Dopo una dura serie di as­salti e contrassalti, verso le ore 1 gli attacchi diretti contro le posizioni delle compagnie Cristofori e Simoni potevano considerarsi stroncati. Le colonne avversarie, in seguito alle gravi perdite subite, desistevano da ogni tentativo di progresso, e si accontentavano di mantenere impegnata la difesa. Più grave si manifestava invece la situazione della compagnia Ruspoli.
« Protetto da una fitta cortina di nebbiogeni, il ne­mico era riuscito ad infiltrarsi nel caposaldo, presidiato da 67 uomini. 1 vari centri di fuoco si erano visti così attaccati su ogni lato e premuti da presso dai carri. La lotta durò violentissima per un paio d'ore sinché, uno alla volta, i pezzi controcarro esaurirono le munizioni e, non potendo esserne riforniti perché rimasti isolati, furono costretti al silenzio. Le armi automatiche veni­vano soverchiate dai carri. Alle ore 4 solo un paio di centri di fuoco resistevano ancora; il rimanente della compagnia s'era fatto uccidere sulle postazioni. Il co­mandante, capitano Ruspoli di Poggio Suasa (fratelle del colonnello caduto l'antivigilia), rimasto pressoché solo, si accinse alla disperata impresa di difendere col suo moschetto l'ultimo lembo del caposaldo ancora non sommerso. In piedi fra il grandinare dei colpi esortando pacatamente i superstiti a vendere cara la pelle, egli ten­ne così in scacco per più tempo il nemico dilagante sin­ché, colpito al petto dalla raffica di una mitragliera di carro armato, cadeva a sua volta sul campo.
« Ma non per questo cessò la lotta sul contesissimo e insanguinato ripiano di Munassib.
« I pochi superstiti della compagnia Ruspoli veni­vano raccolti e riordinati da altro ufficiale di cavalleria accorso volontario a sostituire il compagno d'armi ca­duto, ed imbastivano successive resistenze per conte­nere il nemico incalzante. Alle ore 5 tutte le artiglierie del reggimento concentravano il fuoco con tiri di repres­sione sul caposaldo, consentendo così ai superstiti, una decina di uomini, di ripiegare. Alle prime luci del giorno 26 il comandante del battaglione (più volte ferito, ma rimasto volontariamente in linea) riusciva con i pochi uomini di cui sopra, con qualche rincalzo e con l'ausi­lio di mine frettolosamente deposte dai guastatori del Genio, a costituire una seconda linea di difesa contro cui si esauriva definitivamente ogni irruzione avversa­ria. I1 nemico, a prezzo di durissime perdite, era solo riuscito a intaccare gli avamposti del 187° senza mini­mamente infirmare la solidità delle posizioni principali. L'offensiva sul fronte della ' Folgore ' appariva già virtualmente fallita ».

(Se n'ebbe .la sensazione sino all'alba. L'ondata of­fensiva nemica, rotta dalla resistenza della compagnia Ruspoli, giungeva ormai fiacca, a spruzzi di pattuglie, contro la diga delle posizioni di Munassib. Gli ultimi scogli della linea d'avamposti continuarono per più ore a frangere la risacca. Un centro di fuoco al comando del tenente Mascarin resistette fino alle prime luci. Lo si scorgeva dalle posizioni retrostanti. Era circondato da carri armati che lo trapassavano con le saette luminose delle mitragliere traccianti. A tratti il fuoco ecssava e dai carri armati gridavano: « Surrender! Arrendetevi! » E s'udiva lontana la voce di Mascarin che rispondeva: « Andè sulla forca! » Era un giovanotto milanese, dai capelli rossi, con un volto aguzzo da falchetto e una energia tagliente come il filo di una spada. Seguitò a gri­dare: « Andate sulla forca », sinché ebbe munizioni e i carri non gli si rovesciarono addosso a valanga. Sbucò allora dalle macerie e s'avventò col pugnale, alla dispe­rata. Lo si vide per un attimo aggrappato alla prora di un carro e poi sparì travolto, maciullato dai cingoli.
Ma intanto la posizione di resistenza si era consoli­data, cementata. 1 carri nemici vagolavano innanzi in­certi, fuori tiro, sparando a casaccio qualche raffica, co­me mastini che ronzano attorno alla macchia ov'è ap­piattato il cinghiale e non osano farsi avanti e abbaiano per rincorarsi. Sulla linea i ragazzi sfigurati dalla fatica, agguantati alle manopole delle mitragliatrici e ai volanti­ni dei pezzi, sogghignavano: « Vigliacchi, venite a tiro se avete cuore. » Ma il nemico, pago della gloriuzza sanguinosa della notte, ottenuta in venti contro uno, ruppe il contatto balistico e arretrò al riparo di certe dune sassose ove restò a far capolino dalla torretta dei carri. Così su tutto il fronte della « Folgore ». L'offensiva andava esaurendosi col fiato grosso.
Distesi fra i sacchetti sventrati di un posto di vedetta, si osservava col binocolo la linea di battaglia della divi­sione, già evacuata dalle forze d'urto avversarie. L'in­sonnia di quattro giorni ci appesantiva le palpebre e appannava la trasparenza delle lenti. Il sole arroventava gli elmetti serrandoci le tempie in una morsa dolorosa.
« Hanno avuto una dura lezione », fece Vagliasindi senza volgere lo sguardo dall'oculare. « Vedo innanzi alle posizioni del quarto e dell'ottavo centinaia di fa­gotti abbandonati nella sabbia. Morti. » Vagliasindi ave­va sostituito Macchiato nel comando delle artiglierie del settore. Era un ragazzone bruno, siciliano, soldato nel­l'anima.
« Dubito che ritentino attacchi, per lo meno di gior­no. Forse col favore della notte, da quelli sciacalli che sono.»
« Che ore sono? »
« Le undici. »
« Fa caldo », notò Vagliansindi e si strappò l'elmetto dalla fronte madida. Un nugolo di mosche lo assalì, incollandosi alla pelle in sudore.
« Maledette! » fece lui sventagliando la mano. « Nean­che le cannonate le spaventano. Si combattono battaglie, crepano uomini a centinaia, ma le mosche sopravvivono. Sono più forti della morte. »
L'imprecazione del mio compagno s'associa d'istinto alla visione panoramica che mi appare attraverso le lenti del binocolo. Il deserto. È tal quale, questa mane, al de­serto di ogni giorno. Laggiù a destra il doppio isolotto di Oaret el Himeimat galleggiante sul tremolio della sabbia infocata. Più lungi, verso oriente le alture azzur­rine di Samara annegate in una bassa coltre di caligine.

E ovunque il riverbero color ocra della crosta disseccata di questo mondo più eterno della vita. In quattro giorni si sono qui scannati uomini a migliaia, s'è speso in esplosivo e in piombo quanto basterebbe a edificare una borgata; duemila milioni di esseri umani, l'intera popo­lazione del globo, seguono con ansia le vicende di questo fronte e il deserto se ne frega. Se ne frega: dico. Ha l'aspetto indifferente di tutti i giorni. Luce, cani­cola, miraggi, arsura, mosche: come ieri, come cent'an­ni fa, come tra dieci secoli. lo e tu potremo morire o sopravvivere. Mia moglie e tua madre dovranno forse vestire gramaglie. La guerra si protrarrà per un mese o per dieci anni: il deserto se ne frega. Si sente superiore ed estraneo alle vicende dell'umanità: questo pulviscolo di microbi che s'agita oggi nel suo grembo, non più im­portante dei granelli di sabbia che solleva a turbine una folata di ghibli. Rossi, Pescuma, Patella, Visconti, Carta, Lieber, Mascarin: granelli di sabbia, null'altro che sabbia.
Provo sulla fronte un senso di frescura. È la mano di Vagliasindi.
« Tu scotti », sento che dice. « Devi avere la febbre. Forse è un principio di insolazione. Vieni a riposarti. »
Mi aiuta a rialzarmi e, sorreggendomi, mi guida verso la tenda. Ho i muscoli d'improvviso illanguiditi e mi reggo a stento. Forse è la febbre, forse è l'oscuro male­ficio di questa terra senza vita.
Incontriamo due uomini che ne sorreggono un terzo che cammina rigido, a passi incerti come me. Ma non è febbricitante. Ha il volto rigato di sangue e lo sguar­do vuoto, come assorto nella visione di qualcosa di assai lontano ch'egli solo scorge.
Ci fermiamo a interrogare i ragazzi che accompagna­no il ferito. Vengono dalla linea. Questa notte si sono scontrati corpo a corpo con un gruppo di assalitori ne­mici. Lotta a ferro freddo. Il ferito ha avuto due o tre pugnalate al capo che gli hanno reciso i nervi ottici. E cieco.
Un improvviso senso di orrore mi prende all'idea di questo ragazzo i cui occhi si sono spenti sullo spetta­colo del deserto di El Alamein. L'ultima visione delle cose del mondo ch'egli serberà nella retina senza luce è que­sta rovente distesa di sabbie che gli ha arso la vista come per fuoco maligno. Null'altro più vedrà nel buio della memoria che un gammeggiare color ocra, cosparso di fagotti umani già fetidi; Qaret el Himeimat; la nube nera d'una granata; il luccicore d'una lama di pugnale alla luce lunare. Null'altro.
Stringiamo la mano al cieco, con qualche parola di conforto. Egli ci sorride (e il sangue secco del volto si raggrinza componendogli una maschera macabra) e dice:
« Noti mi dispiace d'essere cieco. Ho potuto vedere la ' Folgore ' vittoriosa. Mi basta. » E se ne va, con lo sguardo che par vuoto e non lo è, ‑tra i due compagni che ne guidano i passi.
Con Vagliasindi ci guardiamo senza far parola. Mi dico: « Che lezione, amico mio, che lezione per la tua sensibilità a fior di pelle da donnicciola isterica! Questo ragazzo ha visto la vittoria e n'è pago per la vita. Non El Alamein ricorderà ma la ' Folgore ', non l'orrore dei luoghi ma l'esaltazione del momento: urla d'assalto e schiene di nemici in fuga. Avrà negli occhi spenti una luce più abbagliante di questo sole: la fede. Che val­gono le tue pupille vive se quella luce non la vedono? Il cieco sei tu, idiota, e non lui ».
Quando riprendiamo il cammino ho vergogna della mia febbre e ricuso il sostegno del braccio di Vaglia­sindi.)

***

« ...Nel corso del giorno 27 il nemico, efficacemente contrastato sul nuovo fronte di difesa di Munassib, ten­tava un ultimo attacco contro la compagnia Simoni con elementi degaullisti rincalzati da un battaglione del Queen's Royal Regiment. La immediata, decisa reazione del presidio e il tempestivo intervento dei gruppi di arti­glieria stroncavano l'attacco. Il nemico veniva rigettato con gravi perdite. Durante un contrassalto cadeva valo­rosamente alla testa dei suoi uomini il comandante della compagnia tenente Gastone Simoni ».
(Aveva venticinque anni, la sensibilità delicata d'un fanciullo e l'entusiasmo schietto di chi non è guasto dalla vita. Era un puro.)
« Non migliore risultato ottenevano altri rabbiosi at­tacchi condotti con forze corazzate sul fronte del 186°. Ovunque il nemico si urtava a una resistenza di tale saldezza da fargli perdere ogni speranza di progresso; del che esso si rivelava a tal punto sconcertato da com­piere gli ultimi tentativi offensivi senza convinzione né mordente aggressivo. Un ufficiale superiore inglese pri­gioniero, nel presentarsi a un nostro comandante di reg­gimento ebbe a dichiarare testualmente: ' Credevamo di dover batterci contro degli uomini, per quanto famosi, e ci siamo urtati a dei macigni. Ogni vostro soldato, si­gnore, è un eroe '.
« Durante la giornata del 28 il nemico, esausto, non rinnovava i suoi attacchi limitandosi a battere le nostre posizioni con violenti tiri d'artiglieria e di mortai. Ve­niva mortalmente colpito in tale circostanza il maggiore d'artiglieria Vagliasindi, che aveva sostituito, nel co­mando di un battaglione a Munassib, il comandante di reparto ferito.
Il maggiore Vagliasindi decedeva più tardi all'ospe­daletto da campo, chiedendo al cappellano che gli mo­strasse una bandiera, sì da spirare con l'ultima visione della patria innanzi agli occhi.
« Il giorno 29, dopo qualche scontro locale, il nemi­co rinunciava definitivamente a ogni velleità offensiva. Ritirava le sue forze corazzate, lasciando a contatto con le nostre linee unità di fanteria che iniziavano lavori di rafforzamento. Nei giorni successivi gli opposti fronti si stabilizzavano e si iniziava una nuova fase di attività a carattere di guerra di posizione.
« L'offensiva tentata dal nemico contro la ' Folgore ' era in sostanza sanguinosamente fallita dopo sei giorni di accaniti e inutili attacchi. Gli inglesi avevano lasciato sul terreno 69 carri, più di 600 caduti e 197 prigionieri tra cui 23 ufficiali. Le perdite della divisione, secondo le cifre pervenute nei primi giorni, e purtroppo di gran lunga inferiori alla realtà, erano di 23 ufficiali e 350 sottufficiali, graduati e paracadutisti caduti; di 16 uffi­ciali e 210 sottufficiali e uomini di truppa feriti.
« Particolarmente glorioso il tributo di sangue offerto dagli ufficiali superiori. Su 12 comandanti di battaglione e di gruppo d'artiglieria, presenti in linea nel mese di luglio, 8 erano caduti e 2 feriti ».

(1 nostri caduti li avevamo ricuperati, ne avevamo composte le salme con amore, avviandole quindi al ci­mitero della « Folgore » onde avessero riposo fra gli altri ragazzi ivi sepolti. Ma i suoi morti il nemico ce li aveva lasciati allo scoperto, dinanzi alle linee; e co­spargevano il deserto, già verminosi dopo due giorni. Sia per il lezzo che ammorbava sia per pietà cristiana, uscì una sera all'imbrunire un nostro cappellano con quattro uomini inermi e si dié a seppellire quei miseri resti in vista delle linee nemiche. Da queste occhieggia­rono e ne uscì un pattuglione armato: un ufficiale e dieci uomini. Si avvicinò cautamente ai nostri, con i fu­cili puntati.
« Cosa fate? » chiese l'ufficiale nemico.
« Lo vedete. Do sepoltura ai vostri », rispose il cap­pellano. « Ho anzi raccolto i piastrini dei caduti e ve li consegno onde avvertiate le famiglie. »
« I see », fece l'inglese, sconcertato, e dopo una pau­sa aggiunse: « Grazie ».
« Ma il lavoro è lungo e dovrò proseguirlo anche do­mani! » riprese il cappellano. « Siatene edotti se mi ve­drete nuovamente intento a quest'opera. »
« Ne avvertiremo il nostro Comando », fece l'inglese.
« Farò altrettanto col mio » , rispose il prete.
L'indomani il maresciallo Rommel ordinava che fra Munassib e Qaret el Himeimat si sospendesse il fuoco per consentire al cappellano di riprendere la sua opera pietosa. Ma allorché questi uscì e fu avvicinato dalla solita pattuglia nemica si sentì dire che il generale Mont­gomery non permetteva l'inumazione. L'ufficiale inglese, arrossiva di vergogna nel dirlo, era quindi costretto a pregare il cappellano di rientrare nelle linee ché altri­menti le batterie gli avrebbero sparato contro. Disse proprio così: « Otherwise our guns will shot ». Ma ag­giunse: « I apologize. I'm nothing but a reporter. » Mi scuso, non sono che un messo. E pareva aggiungere: Chiedo venia per la barbara stupidità dei miei Co­mandi.

Fu così che un centinaio di morti nemici rimasero in­sepolti sul fronte della « Folgore ». E il ghibli, più pie­toso dei Comandi britannici, ricoprì i corpi d'un sudario di sabbia e ne livellò lentamente le forme fra le dune marezzate. Dopo qualche giorno il deserto li aveva in­ghiottiti. Se centinaia di famiglie britanniche piangono oggi dinanzi a tumuli vuoti né potranno mai darvi rico­vero alle ceneri dei loro caduti, sanno chi. ringraziare.)

« ...Impegnati con ogni energia nella durissima lotta, i ' ragazzi della Folgore ' avevano in quei giorni presta­to scarsa attenzione agli avvenimenti svolgentisi più a nord, ove, dal 24‑25 ottobre, andava combattendosi sul fronte del XXI Corpo di Armata e delle unità di fanteria germaniche un'altra aspra battaglia, con alterne vicende. Le riserve inizialmente spostate dal Comando d'Armata sul tergo della ' Folgore ', durante i giorni in cui questa era più duramente impegnata, erano state riportate ver­so la costa non appena accertato che i nostri paracaduti­sti, sia pure miracolosamente, erano in grado di resiste­re con successo alla pressione avversaria. Fra il 28 e il 30 ottobre anche il nemico ebbe evidentemente ad avve­dersi che, se nessun serio risultato si poteva ottenere a sud, qualche speranza di successo andava invece deli­neandosi a cavallo della rotabile costiera. Ritirò allora i resti delle truppe corazzate accanitesi invano contro la ' Folgore ' e li scagliò ad alimentare la battaglia infu­riante a nord. Fra il 1° ed il 3 novembre si combatte­rono lassù, fra le opposte unità corazzate, le giornate de­cisive della grande battaglia. Di fronte alla schiacciante superiorità in numero e in mezzi dell'avversario, nella notte sul 3 novembre veniva ordinato il ripiegamento generale dell'Armata.
« Alle ore 23 il Comando della 'Folgore ' veniva tele­fonicamente avvisato ch'era d'uopo far arretrare nella notte la divisione sulla linea di Gebel Kalak (venticin­que chilometri più addietro). L'ordine, che doveva ave­re esecuzione immediata, giungeva fra i paracadutisti come fulmine a ciel sereno ché, ancora presi dall'euforia dei combattimenti vittoriosi dei giorni precedenti, non ritenevano particolarmente preoccupante la situazio­ne del settore costiero.
« Il ripiegamento della divisione, effettuato in quelle circostanze, appariva estremamente arduo. Occorreva abbandonare le posizioni in due ore (prima dell'alba) senza che il nemico se ne avvedesse. Per mancanza di !vezzi di trasporto l'intero armamento doveva essere trai­nato a braccia o trasportato a spalla. Agli uomini, logori da malattie e da quattro mesi. di vita in buca, si offriva la.prospettiva di una improvvisa marcia celere di venti­cinque chilometri, nella sabbia e sotto il fardello di ca­richi eccezionali. Ma non ciò li costernava, bensì il dolore di dover volgere le spalle a quel nemico da essi costantemente battuto; e si dové far opera di paziente persuasione per convincerli della necessità di evacuare 'e posizioni.
« II ripiegamento notturno, intrapreso dopo aver si­lenziosamente distrutto e inutilizzato tutto ciò che po tesse riuscire utile all'avversario, fu tristissimo e fatico so. Nella notte oscurissima gli uomini marciavano peno­samente, affondando nella sabbia, senza far parola. Gli artiglieri portavano seco gli otturatori dei pezzi abban­donati in linea perché intrasportabili. Le artiglierie mo­bili venivano invece trainate a braccia, faticosamente, da mute di paracadutisti alternantisi ad ogni centinaio di metri. Altre mute trasportavano su barelle improvvisate i feriti. Un attendente recava sulle spalle la salma del suo ufficiale onde non rimanesse insepolta fra gli avversari.
« Al sorgere del sole del giorno 3 novembre i primi scaglioni della divisione raggiungevano, esausti, ma in mirabile ordine, le posizioni prestabilite. II nemico, te­nuto a bada da retroguardie, non aveva disturbato ec­cessivamente il movimento. Assai grave si delineava per altro la nuova situazione logistica poiché gli uomini, ca­richi di munizioni, avevano potuto recar seco una sola giornata di viveri e di acqua; il resto era stato distrutto. Se, come in effetti avvenne, le comunicazioni con la co­sta fossero state interrotte, la ' Folgore ' avrebbe avuto possibilità di vita per poche ore,

« Il giorno 3 fu trascorso assestandosi sulle nuove posizioni, prive per altro di ogni preesistente sistemazio­ne difensiva. I paracadutisti scavarono con i pugnali ru­dimentali trincee e vi sistemarono le armi portate seco. Nel corso della giornata sopraggiunsero tre autobotti par­tite dai pozzi della costa poco prima che le avanguardie avversarie vi giungessero e sfuggite miracolosamente ai mitragliamenti dell'aviazione avversaria che martellava le piste e i valichi. Ciò valeva ad aumentare d'una gior­nata di acqua le riserve. Ma dalla mattina del 4 ogni ulteriore comunicazione con le basi fu definitivamente interrotta. La ' Folgore ' era isolata nel deserto.
« Giova ricordare che la divisione occupava nello schieramento dell'Armata la posizione più meridionale. Era difatti l'unità più addentro nel deserto e, come tale, la più difficilmente ricuperabile. Non potendo più ripie­gare verso il mare perché già sopravanzata dalle forze nemiche (che in quel giorno erano alle porte di Fuka) la sua sorte era segnata: ché il tentare di ritirarsi verso la Cirenaica a piedi, attraverso ottocento chilometri di deserto, in zone totalmente prive di pozzi, era eventua­lità apparentemente impossibile. Ma la ' Folgore ' decise di tentare ugualmente.
« Solo nel tardo pomeriggio del 3 le truppe nemiche fronteggianti le primitive posizioni della divisione s'era­no avvedute che questa aveva evacuato la linea. Messesi sulle piste dei paracadutisti (con molta cautela, ché il timore che ne avevano faceva temere loro qualche tra­nello o ritorno offensivo) esse giunsero a contatto con le nuove posizioni della ' Folgore ' nella mattina del 4. Vi trovarono solo delle retroguardie, assai aggressive. La divisione, ridotta a poco più di tremila uomini, aveva nella notte effettuato un altro balzo indietro e marciava penosamente per tentare di raggiungere il meridiano di Fuka. Lo stesso giorno, però, altre colonne meccanizza­te nemiche provenienti dalla costa apparivano sul suo fianco. Il cerchio andava chiudendosi. Nella mattinata successiva il nemico sferrava da più direzioni puntate di autoblinde sulla colonna ripiegante. Veniva respinto. 1 nostri uomini, esausti, febbricitanti, privi d'acqua e di viveri da ventiquattro ore, reagivano rabbiosamente, con urla rauche, agli attacchi. Il calare della sera trovò i paracadutisti sfiniti, ma vigili, intenti a sistemare le loro posizioni. Un ufficiale del Corpo d'Armata, riuscito for­tunosamente a prendere contatto con la colonna dei pa­racadutisti, così scriveva al suo comando: ' Ho percorso tutta la linea della ' Folgore '. È commovente vedere questi ragazzi scarni, affaticati, dagli occhi lucidi, sca­vare buche, pulire i fucili mitragliatori e prepararsi al­l'estrema resistenza. È la più bella prova del dominio della volontà. È manifestazione di virtù incompara­bile ' ».

(Gli uomini non sono però in condizioni di riprendere il cammino. Da due giorni non hanno nutrimento alcu­no e si dissetano con poche gocce di guazza notturna. Quasi tutti hanno i piedi insanguinati. La temperatura, gelida di notte e torrida di giorno, sfibra anche i più validi. Appare impossibile il proseguire. Non altre so­luzioni restano che la resa o il battersi sino all'esauri­mento. I paracadutisti, senza eccezione alcuna, decidono di resistere ad oltranza. Si schierano ad anello, col Co­mando della divisione al centro, ed attendono.
All'alba dell'indomani, con batterie affluite da ogni direzione, il nemico inizia il martellamento concentrico delle groppe desertiche ove s'era asserragliato quel grup­po di eroi.
Da quel momento le vicende della « Folgore » cessa­no d'essere storia e divengono leggenda. Dai bollettini avversari si sa che tre giorni dopo essa combatteva an­cora.
Il giorno 8 il nemico comunica dal Cairo: « La re­sistenza opposta dalla divisione di paracadutisti ' Fol­gore ' è invero ammirevole ». Il giorno 11: « 1 resti del­la divisione italiana ' Folgore ' hanno resistito oltre ogni limite delle possibilità umane ». Ed infine (Londra, B.B.C., 3 dicembre): « Gli ultimi superstiti della ' Fol­gore ' sono stati raccolti esamini nel deserto » .
La « Folgore » è caduta con le armi in pugno...

V'è in un certo punto del deserto di El Alamein, al km. 42 della « pista dell'acqua », un cimiterino, nudo, senza pretese architettoniche né steli votive; tanti tumuli allineati, delle croci di abete, dei nomi: tutto qui. Ma v'ha nel mezzo una semplice scritta che vale più d'un'in­tera epigrafe: FOLGORE. A chi la capisce essa dice: « Fra le sabbie non più deserte son qui di presidio per l'eternità i ragazzi della ' Folgore ': fior fiore d'un po­polo e d'un esercito in armi. Caduti per un'idea, senza rimpianto, onorati nel ricordo dello stesso nemico, essi additano agli italiani, nella buona e nell'avversa fortuna, il cammino dell'onore e della gloria. Viandante, arresta­ti e riverisci. Dio degli eserciti, accogli gli spiriti di que­sti ragazzi in quell'angolo di cielo che riserbi ai martiri ed agli eroi ».'

QUI FINISCE II. TESTO DI ALBERTO BECHI LUSERNA

' Questa iscrizione, finalmente materiata in marmo, orna dal 1954 la Corte d'Onore del Cimitero Militare Italiano di Quota 33 presso El Alamein e dal 1969 la Cappella « Folgore » di Castro Marina, tra Leuca e Otranto, in una posizione altamente sug­gestiva. L'opera è stata eretta dalla pietà memore e generosa di un grande mutilato della « Folgore », Nino Starace, medaglia d'oro, che fu sottotenente paracadutista, già privato d'un brac­cio, ad El Alamein, e vi fu nuovamente ferito. Il culto dei Morti in guerra, oggi apertamente osteggiato dalle autorità politiche dello Stato, è così lasciato all'iniziativa dei privati (Nota del curatore del volume, Paolo Caccia Dominioni).

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