lunedì 22 ottobre 2007


Fronte all'Italia,
all'invito del Colonnello tutti lanciarono l'ultimo grido in libertà:
« Viva l'Italia ».


« Non possiamo continuare a batterci senza armi, munizioni, acqua. Voi avete una mamma, una sposa, figli per i quali ho il dovere di salvare la vostra vita. Potrete ancora essere utili alla nostra Patria. II vostro sacrificio nelle attuali n/s disperate condizioni è inutile, delittuoso. Sono !o che vi ordino di deporre le armi e sono pronto a rispondere a chiunque del mio e dei vostro operato. Siate convinti ed orgogliosi del dovere compiuto oltre i limiti di ogni possibilità umana»
Con queste parole, il colonnello Camosso, alle ore 14 dei 5 novembre 1942, rispondeva ad alcuni paracadutisti del suo Reggimento « Folgore », che gli avevano chiesto perché mai avesse ordinato la resa.
Stava per calare il sipario, un grigio sipario di sofferenze e di delusioni, su l'ultimo atto della sovrumana resistenza dei « leoni della Folgore » (W. Churchili ai Comuni), una battaglia senza speranza, alla quale si è più volte accennato, senza peraltro scendere nei particolari di quelle ore e momenti drammatici, che noi riteniamo rappresentino la pagina più bella della breve ma intensa storia della Divisione Paracadutisti.
Parlare, oggi, di quei tempi, di soldati che rifiutavano di arrendersi dichiarando di preferire la morte alla resa, si rischia la solita accusa di « retorica », se non peggio; e quegli Uomini, con la U maiuscola, non possono che essere considerati dei pazzi, ora che l'obiezione di coscienza è di moda e riuscire ad evitare il servizio militare un vanto da sbandierare nei bivacchi delle scalinate romane di piazza di Spagna.
Ma noi che non abbiamo ancora versato cuore e cervello all'ammasso del dilagante opportunismo e materialismo, vogliamo ricordare quei fatti e quei soldati nell'anniversario della memorabile epopea; non per esaltare la guerra non per giustificare il sacrificio di tante vite, ma soltanto perché tutta la vicenda assume, ancor più a distanza di tempo, una prospettiva umana di enorme valore spirituale, una conferma come i veri soldati non fecero mai questione di guerra sentita o non sentita (distinzione di cui si compiacciono oggi molti storici, bramosi di guadagnare i favori di chi vorrebbe cancellato ogni ricordo dell'ultimo conflitto).
Né, quindi, per narrare così alta dimostrazione non solo di dedizione all'Onore militare, ma anche e soprattutto di carattere e di personalità tipicamente paracadutistica, abbiamo attinto alle tante storie scritte, sia pure quelle di fonte sicuramente serena ed obiettiva; anche perché le ansie, le volontà, il comportamento di quel pugno di uomini, sono verità che rifuggono da relazioni scritte o documentazioni. Solo chi ha vissuto attimo per attimo le allucinante ritirata dei resti della « Folgore », solo chi ha visto e sentito e sofferto. può darci col vivo racconto una idea della reale configurazione di un episodio, facendocelo come rivedere in un vecchio film di cineteca.
Sorprende, da parte di chi fu attore di quella indimenticabile rappresentazione, la modestia e la naturalezza della narrazione. Difficoltà enormi, resistenza sovrumana al nemico, ma soprattutto alla stanchezza, alla fame, alla sete, al sonno; propositi di resistere ancora in quelle condizioni morali e materiali; volontà di essere ancora e sempre se stessi, .proprio quando l'unica speranza era quella di morire al più presto, vengono raccontati con la semplicità di chi ritiene di non aver compiuto altro che il proprio dovere!
Correva, lenta, la notte tra il 2 e il 3 novembre 1942: il Ten. Col. Bechi Luserna, già Comandante Interinale del Reggimento, e destinato a rientrare in Italia per la costituzione della « Nembo », aveva voluto portare lui stesso l'ordine di ripiegamento, missione dolorosa per chi, come lui, conosceva lo spirito della Folgore. E aveva telefonato per recare il suo saluto al IX, il suo incoraggiamento, la sua parola di paracadutista a paracadutisti, proprio nel momento senza dubbio più doloroso per chi non aveva neppure previsto ‑ nel vocabolario delle sue azioni o intenzioni ‑ il verbo « ritirarsi ».
« Erano le ore 23,10 del 2 novembre ‑ racconta Chieppa ‑ quando fui chiamato dal Colonnello.
Sedeva sul lettino da campo: guardava la carta topografica della zona.
« Fra un'ora lascerai col Battaglione le posizioni e raggiungerai q. 115 del Gebel Calak. Tutte le armi e le munizioni, nella maggior quantità possibile, siano portate al seguito. Sacchi, effetti personali e le munizioni, non trasportabili, interrate. Coraggio: una rettifica di linea ».
Sapeva di non dire la verità. Era necessario.
Rientrai al Comando di Battaglione. Trasmisi gli ordini ai Comandanti di Compagnia, con qualche consiglio, qualche avvertimento.
Quale delusione per tutti! Però, in fondo, si nutriva la speranza che si trattasse realmente di rettifica della linea e che presto saremmo ritornati su quelle posizioni a prezzo di tanto sangue mai cedute.
Chi poteva pensare che le nostre linee fossero state infrante? Chi dubitare sull'esito finale della battaglia? Chi credere che ci saremmo trovati nel deserto, senz'acqua, viveri e soprattutto senza la possibilità di vendere a carissimo prezzo la nostra libertà e l'onore delle nostre armi?
Le artiglierie nemiche, su tutto il fronte, tacevano. Silenzio, grande silenzio in quella notte dal 2 al 3 novembre 1942 su tutta la linea, in tutti i settori. Alla 1,15 muoveva la 26a Compagnia, seguita dalla 25a e dalla 22a Guastatori, aggregata al IX Battaglione, e dalla 27a.
Alle prime luci si raggiungeva il Gebel Calak. Aerei da ricognizione e da caccia inglesi volteggiavano sul nostro cielo come avvoltoi che seguono, tengono d'occhio la preda, già sicura vittima. Tutta la « Folgore » era li con i suoi uomini: scarni, con uniformi a brandelli: pallidi, con barbe lunghe di settimane, mesi, I fisici atletici, i volti bronzei di quel fior fiore della gioventù sportiva italiana non esisteva più.
Incontrai il V Battaglione. Era il mio Battaglione di provenienza. Tutti corsero a salutarmi, a farmi festa, a chiedermi « Dove si va? che succede? ». « Come sei pallido ‑ dissi ad un sottufficiale ‑ stai male? ».
« Comandante, scusate la mia sincerità, siete più mal ridotto di me. Siete irriconoscibile ». « Esagera » ‑ pensai, ma dopo qualche giorno, allorché controllai il mio peso in un campo di prigionia, gli diedi ragione.
II 3 ed il 4 si trascorsero nella febbrile preparazione delle nuove posizioni che mai più ‑ ci dissero ‑ sarebbero state abbandonate. E, nel pomeriggio del 4, autoblindo nemiche si avvicinarono. Fermatesi al di là della zona minata, a mezzo altoparlanti ci invitarono alla resa: « Eroi della " Folgore " vi concediamo la resa con l'onore delle armi ». « Folgore fuoco » si gridò da tutti, ed i pezzi anticarro aprirono il fuoco. Fu la risposta dei « Folgorini ».
AI tramonto del 4, ordine di ripiegamento: « Puntate ad Ovest, raggiungere il parallelo di Fuca ». Si cominciò a temere la rotta e a nutrire poca speranza sulla manovra tattica del Maresciallo Rommel.
Benché al limite delle forze umane, assetati ed affamati, con le armi in spalla, inquadrati, si marciò tutta la notte, il giorno seguente e la notte ancora.

«Deserto! deserto! deserto! Sabbia, pietre! non un aereo italiano...! Con le gole arse, la bocca amara si camminò ».
II IX era di retroguardia; come dire, in quella situa­zione, con iI compito più difficile e delicato. I ricordi di Chieppa assumono quindi il valore del più crudo e dram­matico realismo. Perché ai suoi reparti, a lui che ne ave­va la responsabilità del comando, spettava, da una parte tenere a bada il nemico incalzante, dall'altra raccogliere e rincuorare gli sbandati, i feriti, coloro cui la immane fatica aveva ormai lasciato ben poche energie.
Trovai qualche paracadutista sfinito, abbandonato, ad­dormentato.
« Ehi, che fai? Su coraggio, pochi chilometri ancora ».
« Si, Comandante, mi rispondevano, pochi minuti... e vi raggiungo ».
Nessuno però chiedeva acqua, pane; nessuno confes­sava di non poterne più. Temeva di essere deriso dai suoi compagni e, poi, era legato dalla promessa, dal giuramento di resistere e combattere fino all'ultima goccia di sangue.
Quale disonore non seguire il suo Comandante di Divi­sione, il suo Comandante di Reggimento, i quali ‑ nono­stante gli anni ‑ erano lì: soffrivano le sue stesse soffe­renze, vivevano nella sua stessa .ansia, erano sorretti dalla sua stessa speranza, animati dalla sua stessa fede nel­l'Italia.
Incontrai il paracadutista Votatoro ed un altro. Erano del V Btg. Mi riconobbero. Votatoro aveva la febbre altis­sima: non meno di 40°. « Mi brucia la bocca tant'è l'ar­sura della febbre », mi disse, come se volesse scusarsi.
Era disteso presso un cespuglio; il compagno impugna­va un mitragliatore già pronto a far fuoco, con al suo fianco la cassetta di munizioni .aperta e sei bombe a mano.
« Cosa intendete fare », chiesi. « Difenderci, far pagare cara la nostra vita. Gli ultimi due colpi saranno per noi e così chiuderemo !n bellezza ».
Non acqua, non pane chiedevano: ma di battersi, di trovare bella morte. Li rincuorai, li convinsi a tentare l'ultimo sforzo, caricai le loro armi e proseguimmo.
La marcia sfibrante verso una meta che non esisteva, una linea immaginaria, continuò tutta la notte. Barcolla­vano, sembravano ubriachi!
Alle prime luci dell'alba ecco dei sacchi alpini italiani, tascapani tedeschi e due fusti di acqua semivuoti. Una distribuzione straordinaria di mezzo litro a testa! Ci dis­setammo un po'. Già, sulla nostra destra e sulla sinistra, autoblindo inglesi e mezzi cingolati .iniziavano l'accer­chiamento.
Occorre, a questo punto, interrompere il racconto per dare alcune spiegazioni. II terreno della lotta, la cui natura, assolutamente piatta e priva di ostacoli naturali, favo­riva nettamente l'attaccante. E' nota la lunga resistenza opposta, in Italia, da piccoli nuclei di tedeschi, laddove gli appigli del terreno consentivano loro di tenere in iscac­co un nemico enormemente superiore in numero e mezzi. Vi è da chiedersi quale sarebbe stata la resistenza di uomini tenaci, quali erano i folgorini, se avessero potuto combattere su posizioni naturalmente forti. All'impossi­bilità di sfruttare il terreno, si aggiungeva, negativamente, la facilità per il nemico di percorrere tutta la zona con i mezzi corazzati e blindati.
Si può ricordare, in proposito, che il compianto Zani­novich, ad un certo momento, per tirar su il morale ai commilitoni, si mise a raccogliere piccoli sassi esistenti nella zona, facendo un ridicolo riparo e invitando poi Chieppa a fare altrettanto.
« Due autoblindo nemiche ‑ continua il comandante del IX ‑ entrarono nello schieramento dei reparti e consigliarono alla resa. I paracadutisti aprirono il fuoco degli automatici accompagnandolo con fischi. Le autoblindo si allontanarono. Le unità corazzate nemiche iniziarono, allora, l'accerchiamento in forza. Pochi colpi, gli ultimi, di un pezzo da 105 ritardarono di qualche ora la manovra.
Si iniziava il ripiegamento a sbalzi. Erano le 11,30. Alle 13 eravamo completamente accerchiati, stretti in una morsa di ferro e di fuoco.
Tutti. a terra, con le armi individuali pronte e le poche bombe a mano, attendevano l'ordine dell'ultimo attacco, del finale, dei decisivo che avrebbe segnato la fine. II Colonnello, al centro, unico in piedi, scrutava le forze ne­miche e nello stesso tempo conteneva l'impazienza dei suoi uomini.
Tutte le armi di bordo delle autoblindo, dei carri, dei « Bran carrier » aprivano intanto un fuoco intensissimo scaricando su noi, esausti ed inermi, la loro rabbia. Si tene­vano a buona distanza di sicurezza ».
Mai la parola accerchiamento ebbe più esatto signifi­cato. Si trattava infatti di due cerchi concentrici: unica speranza o prospettiva, per chi era rinserrato nel cerchio centrale, poteva essere quello di un'azione di forza notturna, che gli Inglesi, ben conoscendo l'audacia e la deci­sione dei « folgorini », paventavano. Ma non ci fu il tempo né il modo!
Un nostro pezzo anticarro disponeva degli ultimi 16 colpi; e furono sparati nel più drammatico « conto alla rovescia ». Due autoblindo, un carro armato pesante e due leggeri andarono in fiamme, tra le manifestazioni di giu­bilo dei paracadutisti. Ma il fuoco nemico si faceva sem­pre più intenso, il cerchio sempre più si stringeva.
« I primi erano caduti ‑ racconta Chieppa ‑. Resistere, resistere, resistere, morire ». era nel desiderio di tutti.
Alle 14 circa il Colonnello ordinò la resa.
Era pallido: aveva deciso. Quale coraggio!
Ci voleva molto più coraggio ad ordinare la resa che il sacrificio della vita.
Nessuno eseguì.
Più volte ancora ripeté l'ordine, e ‑ nello stesso tempo ‑ invitò gli ufficiali a farlo eseguire ad ogni costo.
Ormai tutto era finito: si convinsero. Cominciarono ad alzarsi e a braccia incrociate stettero li fermi, fissi con lo sguardo verso nord‑ovest. Lontano c'era l'Italia. Nessuno sventolò un fazzoletto.
Il fuoco continuò per ancora venti minuti circa, qual­cuno ancora cadde ».
Fu allora che alcuni paracadutisti chiesero al colon­nello come mai avesse ordinato la resa. Domanda che può sembrare strana, specie da inferiore a superiore, se non si tiene presente che i paracadutisti erano stati preparati spiritualmente, fisicamente e tatticamente al lancio in territorio nemico (sogno infranto per la « Folgore »), con assoluta esclusione quindi della eventualità di arrendersi. Con questa preparazione psicologica, non vi è quindi da meravigliarsi che i « folgorini » non concepissero la resa e ne chiedessero, essi che erano modello di disciplina sentita, ragione al colonnello.
Le parole di Camosso (che abbiamo riportato all'inizio) valsero a dissipare ogni rancore verso il Comandante, ogni dubbio verso la propria coscienza; un abbraccio caldo affettuoso li riaffratellava.
Frantumate le armi (piangevano!) i resti. di quei batta­glioni (IX e VII), inquadrati, si irrigidirono sull'attenti: « 32 ufficiali, 272 paracadutisti » presentò il Maggiore Zanino­vich.
Fronte all'Italia, all'invito del Colonnello tutti lancia­rono l'ultimo grido in libertà:
« Viva l'Italia ».
Grido che solcò i mari, valicò le montagne e raggiunse le più lontane contrade. Le mamme, le spose, i figli senti­rono certamente in quei momento che, anche nella sven­tura, nella avversa sorte, i ragazzi della « Folgore » aveva­no ben meritato.
Erano le 15,20 del 6 novembre: il nemico, sceso dai mezzi, assisteva in ammirato silenzio.
Calava il sipario, per sempre questa volta, sul dramma della . Folgore ». Si chiudeva, su questa pagina tutta d'oro, il libro prezioso, illustrato da immagini di cuori generosi quasi una leggenda scritta dagli « angeli senza ali », nell'arido sconfinato deserto egiziano.
Cesare Simula

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