mercoledì 26 settembre 2007

Pagine di Storia

EL ALAMEIN 1942

TOMMASI MELCHIORRE ALFREDO

Presagio di morte e di gloria


Luglio 1942. Siamo in Africa Settentrionale, in Egitto, ad El Alamein, a 140 kilometri da Alessandria, sulla gola di terra che va dal mare alla depressione di El Qattara.

Qui si sono attestate le truppe italo‑tedesche dopo una folgorante avanzata, al comando del leggendario generale Rommel, per compiere il balzo su Alessandria.

Uno dei capisaldi è comandato da un giovane ufficiale siciliano, il messinese Tommasi Melchiorre Alfredo, ventisettenne sottotenente del1l86` Reggimento Fanteria della Divisione Sabrata. Tommasi è in Africa volontario. Erano due anni che chiedeva di essere inviato al fronte. A Messina era insegnante elementare e studente universitario. Suo zio, cav. Guglielmo Cocco, era esponente di primo piano del Fascismo messinese. Tommasi, come tanti altri giovani, era stato educato ai doveri civici ed al culto della Patria e degli ideali che la rappresentavano. Poteva fare lo studente universitario a carico della famiglia ‑ e se lo poteva permettere ‑ invece, contemporaneamente, insegnava e lavorava, aveva cariche nel Gruppo Universitario Fascista (Guf), teneva conferenze ed era fra i primi nelle diverse manifestazioni patriottiche. Ai suoi alunni, alla Scuola «Principe di Piemonte», ed ai carcerati (insegnava anche nelle carceri) indicava la via dei valori che fanno un buon cittadino e un vero italiano.

Nel 1940, allo scoppio della guerra, coerente con i principi che predicava, chiese di servire in armi la Patria. Nel 1941, in febbraio, è al Corso Ufficiali di Palermo, concluso brillantemente il quale chiede di far parte di un Reggimento destinato in Africa Settentrionale. E' assegnato al 16" Reggimento Fanteria Cosenza. Esuberante, generoso, irruente, è impaziente: vuole subito arrivare al fronte. A due sorelle, Lilla e Franca Martelli, amiche di famiglia, scrive: «La mia partenza non arriva, mi vergogno quasi dinanzi ai miei concittadini che pensano forse che io schivi questa stessa partenza».

Finalmente, nel mese di maggio del 1942, gli si concede un breve permesso per recarsi dai familiari prima di raggiungere il comando tappa di Napoli, preludio alla partenza per l'Africa. Alle sorelle Martelli scrive da Napoli: «Piccole amiche, scrivo a voi la lettera del distacco: l'ultima che riceverete dal bel suolo d'Italia. Tra poche ore sarò lontano, andando verso il mio destino, verso il mio fato. Quale sarà esso? Solo l'Artefice Massimo può saperlo. Quante scene, quanti atti mi farà recitare? A me non resta che immaginare. Sarò anch'io tra breve il protagonista di questo dramma che ha l'impronta del secolo che volge. Alla testa dei miei uomini o in servizio isolato, avrú sempre la strada tracciata dalle piccole croci dei miei compagni che mi hanno preceduto. Il ricordo dei miei cari mi segue, il pensiero degli amici mi conforta. La visione di mia madre è accanto a me e la sua benedizione mi accompagna nella dura prova che ho chiesto. Arrivederci alla Vittoria, mie care».

All'alba del 28 maggio sbarca a Bengasi. E' arrivato con il piroscafo «Città di Napoli». Il primo giugno è in prima linea. E' felice. Il 30 invia alle due sorelle la seguente strofa di rime:


«Il sole scotta, l'acqua è chimera
Piango e sospiro il bar Irrera
Penso a quei tavoli posti in piazza
Dove di birra c'era la bazza
Qui manca l'acqua a tutte le ore
Chi se ne frega, noi siamo all'ombra del Tricolore».


Durante un'azione cattura diversi ufficiali inglesi. E' proposto per una medaglia d'argento al valore, gli viene concessa una croce di guerra perché ha poca vita operativa.

In giugno scrive un racconto: «Il ritorno di un fante». E' presago:

«Disse la madre: «lasciate la porta socchiusa ch'Egli verrà». (Fu lasciata socchiusa la porta).

Egli entra, disceso dall'eternità.

Per strade di sabbia e d'arbusti, gli fu guida la stella in cammino.

Riaccosta l'uscio in silenzio, appende al gancio il mantello (fori e bruciacchi di proiettili nella sahariana ridotta un brandello). Ma ben calca sugli occhi l'elmetto, che la fronte non sia veduta, e siede, al suo posto, nel cerchio della famiglia pallida e muta.
«Mamma, perché non ti vedo la veste di raso dal gaio colore...?».
«E' in tomo all'armadio, è in fondo all'armadio, domani la metto, mio dolce amore».
«Sorellina dal tono leggero, perché un nastro nero, sulla testa tua bella?».
«T'inganni, ha il colore del Cielo, della sabbia che fu tua sorella».
Intanto dalle campane di Casa Littoria rintocchi e squilli s'odon per la vittoria. Ed ecco, allora, drizzarsi nell'alta e sottile persona il soldato, togliendo dal capo l'elmetto, piamente, con gesto pacato. Scoperta ardeva in mezzo al fronte l'ampia sommata sanguinosa, corona di re consacrato, fiamma eterna, divina rosa. Ma sotto il diadema del sangue egli il capo reclinerà, come chi nulla ha dato, come chi nulla avrà>.
Il 16 luglio, alle ore 5, scrive a suo zio:
«Sono in riva al mare, fra poco balzerò avanti. Sono calmo, sereno, fiducioso, come tutti del resto. Ti prego di tranquillizzare la mamma, se per un certo periodo di tempo non dovesse arrivare posta, date le circostanze. Sono sicuro che tutto andrà bene, ma, se dovessi pro­curarvi un dolore, perdonatemi. Ti raccomando la mamma. Davanti a noi c'è l'Italia».
Qualche ora dopo, «Animoso ufficiale partecipava volontariamente alle missioni più rischiose dando ripetute prove di ardimento e sprezzo del pericolo. Nel corso di un attacco in cui il nemico, preponderante per numero e per mezzi, era riuscito a sopraffare l'indomita resistenza del caposaldo, si poneva da solo ad una mitragliatrice, continuando a far fuoco malgrado che elementi nemici lo serrassero da vicino e gli intimassero la resa. Ferito da pallottola al fianco, continuava a sparare, finché, colpito da baionetta alla schiena, si abbatteva sull'arma, suggel­lando col supremo sacrificio il giuramento reso alla memoria del ge­nitore» (motivazione della proposta di medaglia d'oro tramutata in medaglia d'argento).

Spirito eletto, aveva avuto il presagio della morte e della gloria. E i suoi resti non furono più trovati. Tommasi è come gli Eroi mitolo­gici che restano nella storia non soltanto di un popolo, poiché il loro sacrificio cosciente è una lezione di particolare valore morale e sociale agli uomini, a tutti gli uomini.
Ho voluto ricordare questa vicenda perché riflettano certi eroi da bidoni d'immondizie e tanti giovani con gli occhi e la mente offuscati e il corpo consunto dalla droga; perché riflettano certi «onorevoli» per niente onorevoli, certe nullità assurte a pontefici nella vita vuota di oggi.

Giuseppe Mugnone

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