sabato 29 settembre 2007


Da Area Novembre 2002



A sessant’anni da El Alamein, l’Italia onora i suoi caduti
A volte il deserto è un posto bellissimo


Sono trascorsi sessant’anni da quell’epico scontro. Solo oggi, finalmente, la Patria che tanti soldati onorarono si ricorda degnamente di loro, contrariamente ai nemici di un tempo che subito riconobbero il valore degli avversari



di
Marco Cimmino

El Alamein, le due bandiere: chissà quale oscuro episodio della complessa e caleidoscopica storia egiziana determinò questo toponimo, che indica sabbia e sassi e (antica tomba di uno sceicco, a breve distanza da un mare tanto azzurro che si confonde col cielo, in mezzo ad un deserto di sabbia, sassi e rocce lisciate dal vento?
E chissà cosa pensarono i primi, sparuti, reparti d'avanguardia dell'annata italo‑tedesca, quando, in quella torrida estate del 1947, giunsero in vista della grande depressione di Qattara, ubriachi di pista e di ghibli, e di vittoria e di frenesia dell'inseguimento?
Pensarono, forse, al miraggio vicino, eppure lontanissimo, del Delta, di Alessandria, nella cui rada sonnecchiavano come leviatani le corazzate di Cunningham, indenni ancora della pugnalata ardita di Durand de la Penne. O forse pensa rotto al miracolo di Rommel, che dalla Cirenaica pietrosa h aveva catapultati a Tobruk e oltre, avanti ancora, avanti. Oppure, più probabilmente, mentre si ripulivano gli occhialoni e si levavano i caschi incoronati di sudore e polvere ingrommata, non pensarono a nulla di epico: tanti compagni, tra loro, erano solo ombre evanescenti, che li avevano accompagnati, dopo aver lasciato i corpi martoriati, troppo grevi ed ingombranti per una cavalcata così sfrenata, nelle buche scavate a lato delle piste, a Bir el Gobi, a Fuka, lungo la Balbia bollente.
Si accesero una "Macedonia" o una "Jno”' e aspirarono il forte tabacco turco a lente boccate, guardando l'orizzonte segnato di polvere e di fumo: (Ottava armata scappava, lasciandosi alle spalle cadaveri di uomini e carri, tanti, tanti carri.
I soldati, forse, potevano credere che fosse fatta: che il nemico fosse battuto e che la vittoria (l'immancabile vittoria) fosse lì, a portata di mano, pronta ad essere colta, in un tripudio di baionette e di spade dell'Islam. Ma Rommel e i più avvertiti tra i comandanti, sapevano benissimo che il leone era solo ferito; e, perciò, era tanto più pericoloso. Bisognava fare in fretta: andare avanti con quello che c'era; con i brandelli di divisioni, con gli avanzi dì reggimenti: avanti, prima che Montgomery radunasse il suo immenso potenziale di riserva, avanti, con quel poco che riusciva a passare il canale di Sicilia, sotto il martello implacabile degli aerei che decollavano da Malta e dei 381 delle navi da battaglia.
Così, l'Asse tentò il balzo, ma fu balzo zoppo: i carri tedeschi s'impastoiamo no in nuovi campi minati, non segnati sulle carte, i bersaglieri non potevano correre più delle camionette del Desert long Range; sfiatati, come un pugile che ha dato l'ultimo pugno, italiani e tede­schi passarono alla difensiva, e attesero il colpo.
Venne il colpo, e fu colpo terribile: il maresciallo, segaligno e miserello di cor­po e d'anima, aveva un diabolico talento nel radunare forze imponenti e scatenarle contro un nemico quattro, dieci, venticin­que volte inferiore per numero e mezzi.
Di nuovo le due bandiere sventola­rono a venti di battaglia, e il mondo imparò un nome che sarebbe stato desti­nato a restare nella storia e, per alcuni, nella leggenda: El Alamein.
Sotto l'uragano delle artiglierie, a nord, a sud, lungo la palificata, nella grande depressione e ai suoi bordi, avanzarono gli indiani, gli Anzacs, i Cameronians l'Impero di Sua Maestà Britamtica rovesciava sulle deboli trin­cee dell'Asse tutto il sangue delle sue molteplici vene. E dalle acciaierie di Sheffield, dai magli di Liverpool, sferra­gliavano sui sassi e sui magri reticolati i Matilda e i Centurrion, e i Grant, deformi e poderosi, figli di altre acciaierie,che ave­vano passato l’oceano stivati nei cargo a stelle e strisce.
Era un’ondata di ferro e dì fuoco, lenta e sicura della propria potenza: di là aspettavano nei centri di fuoco devastati, nelle buche spianate, nei carri da tredici tonnellate con la targa "RE", i figli migliori d'Italia, spalla a spalla con i gra­natieri corazzati ed i fanti leggeri dell'A­frika Korps. Alcuni avevano vent'anni, e la camicia strappata, con le mostrine sbiadite della Trieste, della Folgore, dell'Ariete, della Brescia; altri avevano già visto albe di morte e di battaglia, nelle trincee di Plava e del Podgora: morirono insieme, tutti giovani, per l'eternità. Pri­vilegio che tocca solo agli eroi.
Vennero i carri, e furono respinti.
Tornarono, e di nuovo furono respinti.
Ma ne venivano sempre: parevano infiniti scarafaggi vomitati dal deserto; e i reparti venivano liquefatti, come ghiac­cio su di una lama arroventata: svaniva­no le compagnie e i battaglioni.
Ottobre declinava, e la battaglia grande continuava ad ardere: si sacrifi­carono le divisioni esauste, i brandelli della vecchia Sabratha, di cui non si parla mai, i genieri guastatori, gli artiglieri da 152, che sparavano a zero come con dei settantacinque. Un po' alla volta, la marea sommerse le linee e gli uomini, che, ormai, erano poco più che fantasmi allucinati, ma una voce passava tra i reparti esausti: la Folgore non rolla!
Nelle buche, nei fortini di sabbia, i paracadutisti, trasformati in fanti d'arresto, combattevano
ancora, invitti, invincibili: lan­ciavano bottiglie incendiarie, con­trassaltavano con le bombe a mano, balzava­no veloci, per ritirarsi indenni. E lì, dove c'ero la Folgore, il mare­sciallo non pas­sò: non gli basta­rono i carri for­giati a Sheffield, non tu sufficien­te dominare il cielo, la terra ed il mare. Lì, dove c'era la Folgore, non c'erano tedeschi per fornire una giustifi­cazione alla boria di Monty di fronte alla battuta d'arresto: erano tutti italiani quelli che si piantarono davanti all'ar­mata inglese e proclamarono, come gli alpini del Pasubio, come i fanti del Piave: «Di qui non si passa!».
Poi, finirono le munizioni, finì la ben­zina, finirono gli uomini; inevitabilmen­te, finì anche la battaglia grande.
Dal novembre 1942 al maggio del 1943 fu storia di ritirate e, talvolta, di fughe; storia di resistenze disperate e di vergognose rese: Kasserine, Enfidaville... i resti delle troppe africane, i reduci di El Alamein, lasciarono l'Africa, mentre la guerra volgeva al suo epilogo inevitabile.
Restarono di guardia gli spettri, lag­giù, alle Due bandiere, nel deserto nero di rottami. Guardavano ancora verso Alessandria, dritti nel vento che viene dalla Siria, col piumetto scosso dalle fola­te, con la fiamma folgorina di nuovo lucente, come alla scuola lanci, in Italia.
Uno tornò, uno dei migliori, dei "veci", si chiamava Sillavengo, ed era tenente colonnello di quel 31° Guastatori d'Africa, che gareggiò con la Folgore in valore, combattendole accanto: lo accom­pagnava un altro alpino africano e, insie­me, cominciarono a girare per il deserto. Girarono per quasi vent'anni, e raccolsero ossa tra le mine, crearono un bellissi­mo cimitero, scavarono e guidarono scrissero e meditarono, in mezzo a quel silenzio fragoroso, pieno di nobiltà e di memorie. Poi, Sillavengo, eh, era ingegnere, e dei migliori progettò un sacra­rio: nacque "Quota 33', che ebbe la sua bandiera e, faticosamente, il proprio rico­noscimento. Le due bandiere sventolavano ancora, stracciate e scolorite, ma sem­pre orgogliose.
Dieci anni fa, Sillavengo morì, dopo una vita piena di dignità e di coraggio, ignorato dai più, pianto da chi lo cono­sceva e ne conosceva la grandezza dì uomo e di italiano.
Oggi, la figlia di Sillavengo, Anna, è la curatrice, a Milano, la sua città, di una bella mostra su El Alamein, con tanto materiale del padre, che fu, senz’altro, il più esperto conoscitore di ogni piega di quella battaglia eroica e sfortunata. E, naturalmente, non sono mancate le vìlissime polemiche, che non meritano altra, risposta che quella della nobildonna: “Sono dei cretini!”, Credo sia esattamen­te quello che avrebbe commentato suo padre, stringendo con aria ironia la pipetta tra i denti, col suo cappello alpino stazzonato e pieno di "pacche” : sono dei cretini, e basta.
A dieci armi dalla sua morte, Paolo Caccia Dominioni di Sillavengo è stato decorato di Medaglia d'oro al valor mili­tare: si tratta di una medaglia del tutto meritata, che onora la memoria di un uomo valoroso, nelle opere di guerra come ìn quelle di pace.
Ma mi piace pensare che questa medaglia Sillavengo se la porterà die­tro, alla sua "Quota 33", in mezzo a tutti quei vecchi amici: si siederà con aria scanzonata su di un muretto bianco di calce e d'acqua di mare e la tirerà fuori dalla tasca, in mezzo ad un cappannello di bersaglieri e di arti­glieri, di fanti e di paracadutisti, di genieri e di carristi, allegri ed irriden­ti: guardate un po' qua, figlioli...
A volte, il deserto è un posto bel­lissimo.



Quando i ragazzini del collegio salesiano di Ismailia cercarono di raggiungere El Alamein
I ragazzi della via Negrelli



II 10 giugno 1940 nell'oasi d'Ismailia, dopo due anni di ginnasiale paramilitare al "Littorio" di Alessandria, ricostituivamo la banda del collegio salesiano. I nostri genitori, i nonni, gli zii e t 'fratelli maggiori erano stati rinchiusi dietro i reticolati d'internamento nel deserto "inglese". E noi sognammo di liberarli tutti”


di Aldo De Quarto

Batte forte il cuore, riandando col pensiero in quel Canale di Suez che ci vide un glomo, tra il 1925 e il1930, nella cittadina nevralgica di Ismailia, bagnata dal lago Timsah perla verdeggiante per mano italia­na, e tutto intorno il deserto nilotico e sinai­tico, separati dalla chiusura lampo di de Lesseps. Oggi, dopo tanti ghibli e hamsin che ci hanno scarpigliato imbiancando le nostre tempie, non dimentichiamo che, quando aprimmo gli occhi al sole africano, oltre il seno matemo intravedemmo i ritratti di un nonno e di un padre in uniforme. Sin da quando leggevamo il Corriere dei Piccoli, prima di passare allo stadio più avventuroso con L'Intrepido, Cino e Franco, La pattuglia dell’avorio, Il deserto del Balilla, nel nostro villino ‑ come in tante altre dimore italiane – C’era l'alza­bandiera Tricolore. “Me ne andavo una mattina a spigolare, quando vidi una barca in mezzo al mare / una barca che andava,, motore e innalzava una bandie­ra tricolore”... La poesia risorgimentale ci accompagnava poi nelle corse in bici a salutare le navi tricolori nel Canale. Corse che diventeranno quotidiane, quando gli stessi Salesiani della scuola "Luigi NegrelIï' c’inquadravano per incoraggia­re i soldati sulle navi, due cantavano lo ti saluto vado in Abissinia. El Alamein ‑ per noi "ragazzi della via Negrellï", l'arteria principale d'Ismailia ‑ era cominciata e non lo sapevamo ancora.
10 Giugno 1940
Come eredi dei "ragazzi della via Paal", noialtri della "via Negrellï" ‑ come quelli di "Campo Cesare" ad Alessandria d'Egitto, rafforzati poi dai "ragazzi del Collegio Littorio" ‑, anche se con diversa dimensione, in un Egitto dalle tante nazionalità, fraternizzavamo con i piccoli fellaim, e i figli del masri effèndi che amava­no el aulad tuliani... i ragazzi italiani che parlavano, leggevano e scrivevano la loro lingua araba, senza complessi e con spon­taneità amichevole... ragazzi scalzi e abbronzati, a differenza dei bianchicci british boys o enfants des Frères, che non sapevano nemmeno chi era Gavroche.
L'orologio del sogno squillò alle venti
del 10 giugno 1940. Rientrato di poche settimane nell'oasi d'Ismailia, dopo due anni di ginnasiale paramilitare al "Litto­rio' di Alessandria, si ricostituiva la ban­da dei "ragazzi di via Negrellï" privi di padri, zii, nonni e fratelli maggiori, tutti rinchiusi dietro ì reticolati d'intemamento nel deserto circostante. Dai 18 ai 78 anni all the ltalians in the prisoner's camps Mo­ascar, Geneifa, Fayed, Ansari. I più anziani ancora, negli ospedali e negli istituti scolastici italiani, requisiti rnanu militari sotto lo sguardo impotente dell'esercito egizia­no, amico nostro, quello stesso che poi sfornerà i Nasser, Sadat e Mubarak. II mio orologio segnava: anni tredici. Sento ancora la voce ferma di mio nonno, dei miei zii e di mio padre; “Da adesso, siete gli uomini della famiglia”.
Reticolati nel deserto
L'Italia è in guerra, e la guerra è vicinissi­ma a noi che siamo in territorio nemico. Non ci avevamo mai pensato: da tre, quattro generazioni eravamo di casa da quelle parti. Il deserto era diventa­to verdeggiante gra­zie alla stirpe cala­bra dei Tirioli, l'ulti­mo dei quali, Nicola, mio nonno materno, era stato "disgra­ziatamente”, segretario del Fascio, oltre ad essere Cavaliere del Regno d'Italia e Gran Croce dell'Ordine del Nilo. Lo conoscevamo bene, quel deserto.
Illusioni e realtà
Questo il contesto nel quale i "ragazzi di via Negrelti" si accingevano ad affron­tare una vita di adulti precoci.
Una mattina, Lidia e Liliana, rosse d'emozione, ci dissero :”C'è un treno pie­no di nostri soldati con il 2 fez rosso; sono malconci e hanno fame!”. La banda parti­va per la sua prima azione contro una barriera che recava la scritta: Bewarre, do not approach! War prisoners! Raccolti pane, formaggio e frutta, in tre riuscivamo a raggiungere il binario cercando di distri­buire tutto ai primi prigionieri che vedevamo sorridenti, sebbene stremati, fre­gandocene delle sentinelle british, baionetta in canna, che strepitavano minaccio­se e incredule get out! Non avemmo nem­meno il tempo di udire il grido d'allarme di mia madre, che il calcio del fucile di un highlander per poco non ci spezzava la spina dorsale mentre i bersaglieri si getta­vano dal treno sui soldati di Sua maestà britannica. Comunque, noi ragazzi ne uscimmo indenni dietro le dune di Tell­-el‑Kebir, che conoscevamo meglio del nemico.
Ma, più che il dolore fisico, fu quello morale. Quei prigionieri non erano che l'avanguardia che aveva occupato Sidi el Barravi, Bug Bug, El Maktila, Alam el Nibewuia, dove cadde il generale Malelti in una lotta corpo a corpo. Nomi di sangue, ore tragiche, che segnarono incredibilmente per noi – che nottetempo clandestinamente il bollettino dell’Eiar - Io sfacelo dell'amata di Graziani, il leone di Neghelli, il nostro idolo del 1935. Idolo infranto dall'inettitudine dei capi riusciti a coprire di umiliazione 40.000 italiani che non lo meritavano e che, in altre mani, avrebbero onorevol­mente affrontato la loro odissea.
Tra beffe e sogni
I "ragazzi di via Negrelli" non imma­ginavano nemmeno il numero dei caduti che giacevano sotto quelle sabbie egizie, allineati come in parata, ma orizzontalmente, non lontano dalle due divisioni libiche distrutte e dal raggruppamento Maletti. Sarebbe, inoltre, stata una stonatura parlare di rovesci nella felice euforia della gioventù spensierata, anche in faccia ad una realtà difficile a capire. Ma il tem­po correva veloce nel mondo dei ragazzi che si ritrovarono, improvvisamene, immersi nel calendario 1942, ormai quin­dicenni.
I due primi anni di guerra, in Africa settentrionale, registravano quattro flussi di mille e più chilometri ciascuno. Vittoria di O'Connor su Graziani, rivincita di Rommel su Wavell e O'Connor, sconfitta di Rommel su Auchinleck e Ritchie e la riconquista di Derna, Tobruk e Morsa Matruh. Durante questo tempo difficile, per noi ragazzi restava un'altra sfida: entrare come talpe nel campo di concen­tramento di padri, zii, fratelli maggiori e cugini: li violammo ripetutamente, bef­fando gli inglesi, i greci e i ciprioti, quand'erano loro di guardia sulle garrite, ma usufruendo del cavalleresco "chiudo un occhio' degli scozzesi e degli egiziani accampati nei dintorni.
Quell'alt a 111 chilometri
Finalmente, all'alba di uno di quei giorni felici, il tam tam arabo ci faceva sapere, prima ancora di Radio Roma, che il 7° bersaglieri aveva raggiunto il fatidico "chilometro 111" da Alessandria, sotto un fuoco tenace degli inglesi, in disordinata ritirata. Un balzo ancora dì poche centinaia di chilometri, verso il Cairo e il Canale di Suez, e i piumati sarebbero stati accolti da migliaia di bandierine tricolori, che le donne egiziane e italiane avevano cucito durante i combattimenti tra Tobruk e Marsa Matrut tale era la fervente atesa, degli arabi per i liberatori italiani. I pri­missimi caduti, alle porte della città di Cesare e Cleopatra, erano due bersaglieri: Giovanni Pasquazzo ed Emesto Droghi, le prime due croci lungo la Litoranea egi­zia, prolungamento della Balbia libica. Rommel, come al solito, non era lontano dalle punte avanzate e, probabilmente, pensò che si trattava di un osso duro. For­se avrebbe potuto andare oltre, tralasciando El Alamein, che sarebbe poi caduta da sola. Forse, il momento propizio era pas­sato. Tutto ciò lo sapemmo dopo. E nostro angosciato interrogativo era uno solo, semplicistico come può essere quello di un quindicenne: .”.Ma perché si sono fermati? Aspettano il grosso dei mezzi corazzati?”.
Non avevamo preso in considerazio­ne che gli inglesi avevano alle spalle vasti serbatoi di forza - Egitto, Siria e Palestina­ con uomini di tutto il Commonwealth, mezzi e carburante, che non cessavano di affluire via aerea e via mare. I nostri ave­vano alle spalle un deserto vuoto e lungo duemila chilometri sino a Tripoli, dove, purtroppo, di carburante proveniente dall'Italia ce n’ era ben poco. Due altriinterrogativi ci arrovellavano: perché non fare appello agli uomini della Decima Mas per far saltare tutti i ponti sul Nilo, come distrussero ad Alessandria le due corazzate inglesi? E perché i paracadutisti della Folgore e della Ramcke, invece di espugnare Malta dal cielo, erano stati mandati a morire nella sabbia?

Sui passi degli Ascari
Intanto, nei dintorni d'Ismailia., il tam‑tam arabo diceva che una dozzi­na di ascari libici erano evasi dal loro campo di prigionia, per una dispe­rata fuga verso El Ala­mein. Erano stati catturati il 10 dicembre 1940, a Sidi El Barrani, dopo la distru­zione delle due divisarmi libiche. Durante due anni. erano stati maltrattati e sottomessi a pressione affinché si arruolassero nelle forze coloniali ingle­si. Ma quasi tutti non cedettero, pensando solo a evadere per passare le linee. Tre di essi riusciranno a raggiungere la depressione di Quat­tara e un caposaldo dei IV Folgore. L’a­scaro che li aveva guidati si chiamava Ahmed Grithia, tripolino, sergente del III°m batt. libico dei tiratori scelti, medaglia d'argento, croce al valor militare.
E se noi "ragazzi di via Negrelli", con alcuni compagni del Cairo, avessimo fat­to lo stesso? Raggiungere i "nostri" e con loro ritornare al Cairo e sul Canale per liberare padri, nonni, zii e fratelli maggiori? Un sogno pieno di brividi, malgrado il possesso di una cartina militare britanni­ca, scoperta in un baule il cui contenuto mi rivelò le segrete missioni paterne. Somigliavamo, bruni e abbronzati di natura, a dei giovani egiziani. Potevamo mangiare e parlare come loro... Deci­demmo di tentare. Lascio le peripezie per un eventuale libro e vengo al sodo. Giunti ad Alessandria e ridotti a cinque, mischia­ti in un treno popolare con migliaia di barracani e galabieh avemmo la pessima idea di nasconderci nel cimitero cattolico di Chatby, adiacente al nostro Collegio Littorio, chiuso da tre anni. La notte e l’orizzonte rosso di bagliori di fuoco, ci fece capire che la battaglia d'ottobre infuriava a El Alamein. Troppo tardi per i ragazzi in uniforme beduina, scoperti e traditi dai
custodi, non più italini , del cimitero, dal­le cui grinfie riuscimmo a sfuggire (alla Gil, la Gioventù italiana del Littorio all'e­stero, oltre la mente, avevamo sportiva­mente coltivato il corpo). Rientrati inden­ni al Cairo, nessuno badò a noi, a parte mia madre, appena liberata dalla “prigio­ne per donne italiane”, dove sì trovava per non aver mai voluto rivelare il nome di colui che trasmetteva i suoi messaggi al consorte internato: iI fedele amico, allo­ra capitano della polizia egiziana, Ali Abdalla, che poi si unirà agli ufficiali libe­ri di Nasser., senza mai privarci della sua amicizia.
Dieci anni dopo, nel i 1952, i "ragazzï” dispersi e separati dalle circostanze ‑ chi mi leggerà, tra le migliaia di coetanei connazionali d'Egitto, residenti in Italia, ricorderà ‑ il ritorno a El Alamein, laddo­ve un certo Caccia Dominioni tornava tra le mine a rischio della propria vita e della sua èquìpe, per ritrovare migliaia di resti grigioverdi che il deserto è sempre avaro nel restituire. Fui anch'io di questa partita., armato della sola "Lettera 32", la mia mac­china da scrivere. Molti dei "ragazzi della via Negrelli" si trasformeranno anch'essi in pellegrini di quella Quota 33 ‑ El Alamein, ormai e per sem­pre "terra d'Italiá'.
E, ancora oggi, quando dei militari egiziani sfiorano il cip­po della rimembranza, al "chilometro 111" da Alessandria, portano spontaneamente la mano tesa a destra dell'elmetto.



Solenni celebrazioni in Egitto e in Rai


Se è per la Patria non si sbaglia mai


Le celebrazioni per il Sessantesimo anniversario della battaglia di El Alamein hanno avuto tratti unificanti d'inedita ampiezza nel ricordare con orgoglio l'e­roismo dei nostri soldati. Non si è trattato tuttavia, in assoluto, d'una novità. Sin dal 1953 Randolfo Pacciardi, ministro della Difesa e ricostruttore delle Forze Armate democratiche dallo sfacelo materiale e morale della sconfitta, aveva iniziato il rito dei pellegrinaggi a El Alamein dopo aver fatto finanziare la realizzazione del Sacrario ad opera di Caccia Dominioni. Sarebbe una bestemmia, ancor prima che un errore, attribuire significati di parte a simili occasioni d'unione nazionale. E tuttavia tre fattori contingenti hanno contribuito a imprimere lla’anniversario eccezionale rilevanza. Uno è la cifra tonda: sessant'anni. Ascoltiamo con emozione i reduci, vecchi e fieri, Poi c'è Ciampi, il Presidente che ama canti e sim­boli del valore militare: intorno a lui si son potute mobilitare le televisioni. Mettia­mo da ultimo il governo di centrodestra, col ministro Martino che ha sentito il bisogno di balbettar sciocchezze sulle parti sbagliate e il ministro Tremaglia. che l'ha messo a posto dicendogli: “Obbedendo al richiamo della Patria non si sbaglia mai!”,
Sono capitati a tutti degli alleati imbarazzanti: a chi Hitler (senza che ciò togliesse nulla al valore dei nostri alleati tedeschi con Rommel), a chi Stalin. E non eravamo i soli con qualche scheletro nell’armadio. Gli inglesi in India massacrava­no i ribelli legandoli alle bocche dei cannoni. L'America è una grande democrazia cresciuta sul genocidio dagli indiani: ha combattuto battaglie interne contro le discriminazioni razziali con Kennedy una ventina d'anni dopo, mentre i sudafri­cani che ci vennero a occupare praticarono l'apartheid sino a pochi anni fa.
Ma non turbiamo il clima cavalleresco di El Alamein, dove tutti i rappresentanti degli eserciti in lotta si sono ritrovati, rinfacciandoci a vicenda i fantasmi della storia.


Nicola Ponte



Trent'anni fa così veniva rievocata la battaglia delle due Bandiere sul Giornale d'Italia


"El Alamein, 30 anni dopo"
di
Giovanni Scantaburlo

Finalmente la Patria si ricorda degnamente di loro, sì. Ma, a distanza d, 30 anni, non si può non condividere l'amarezza, per noi ancora viva, espressa da monsignor Scantaburlo, che fu tenente cappellano della "Folgore" ad El Alamein, in un articolo apparso allora sul Giornale d'Italia


El Alamen, ottobre 1972. Siamo tor­nati tra queste dune sconsolate, in questo deserto bruciato e secco, in questa sabbia arida e maledetta, dopo trent'anni. Trent'anni! Sono tutta una vita, tutta una generazione, tutta un'epoca! Potremmo dire anche, senza essere smentiti, che sono tutta una civiltà perduta. Veramente, noi che sia­mo tornati qui dopo trent'anni, coi nostri capelli bianchi, col cuore devastato da tante amarezze e disinganni, con lo spiri­to inaridito ed avvilito da tanti compromessi e cedimenti ammassatisi su di noi come macerie sfatte, come foglie di un tramonto inglorioso e vile, se ripercorria­mo a ritroso, lentamente e pensosamen­te, passo dopo passo, giorno dopo gior­no, anno dopo anno, questi trent'anni, ci accorgeremo che abbiamo perduto un mondo, uno stile di vita, un patrimonio di ideali, di costumi, di cultura, di idee e di tradizioni ‑ ed anche di dignità e di virile umanità.
Siamo tornati qui, dopo trent'anni, con molta umiltà e con molta umiliazione , come ad una nuova Canossa, alla ricerca di una civiltà e di una realtà. per­duta, alla ricerca di un punto di parten­za, sicuro cd intramontabile, per una nuova strada di purificazione e di risu­rrezione. E qui, fra queste dune sconsola­te, in questo deserto bruciato, rievochia­mo i nostri ragazzi che si sono immolati a migliaia e ci par quasi di ritrovarli intatti, nella loro prorompente e sana giovinezza nel loro cuore pieno di gene­rosità, di dedizione e di coraggio, nei loro occhi fieri e limpidi di nobiltà e di eroismo. Ci avvolgono e ci stringono da tutte le parti, sorgendo dalle dune, dai caranchi, dagli uadi, dalle colline, dalle buche, da ogni piega di questo immenso e bruciato deserto, da ogni luogo dove hanno combattuto e versato il loro sangue ed immolata la loro vita; e vengono in lunghe interminabili processioni, ven­gono a noi come ad un appuntamento fatale ed indifferibile, come ad un incon­tro di speranza.
Loro non sono mutati, noi sì. Ci han­no aspettato trent'anni, in questa immensa, tragica e gloriosa ara, ci hanno aspettati puri e generosi come allora, perché non sono mutati, loro; perché trent'anni, per loro, non sono nulla; per­ché, fissati nella glorificante eternità del supremo sacrificio, per loro il tempo non conta. Ora sono tutti qui intorno a noi ‑ in noi ‑ per rimproverarci, perché abbia­mo disatteso, ed anche a volte tradito, il loro sacrificio e lo scopo della loro immolazione; per insegnarci ed ammo­nirci che i loro valori, le loro realtà sono validi e vitali ancora oggi; per incoraggiare, e spronarci a riprendere la strada che ci hanno indicato con la loro vita e la loro morte trent’anni fa; per dirci, in una parola, che il come ed il perché loro sono vissuti e sono morti, deve essere il come ed il perché della nostra vita e della nostra morte.
Per dirci che, se vogliamo risorgere a nuova e nobile vita, ad imprese gloriose e civili, nel solco e nella tradizione di tut­ta la nostra civiltà latina e cristiana, noi dobbiamo superare, questi trent'anni amari, afferrare dalle loro mani la fiacco­la dell'amore a Dio, alla Patria. al prossi­mo e portarla avanti e sempre più in alto, con nobiltà, coraggio e dedizione.
Solo così, questi nostri giovani eroi, ancora spiritualmente vivi, sentiranno di non avere versato inutilmente il loro sangue, di non avere immolato inutilmente la loro vita.



Le celebrazioni a Roma organizzate dall’ANPd’I
Moffa: « È un dovere onorare i nostri soldati caduti in Africa»



«Commemorare El Alamein vuol dire onorare, con i soldati italiani cadu­ti in Africa, tutti i militari italiani. Ai giovani il compito dì preservare la memoria storica di un evento che, pur nella sconfitta, celebra l’'eroi­smo e il coraggio. È opportuno portare nelle scuole il ricordo di questo episodio, andando finalmente oltre ogni pregiudizio ideologico... È quanto ha affermato il presidente della Provincia di Roma Silvano Moffa inter­venendo alla cerimonia del 60° Anniversario della Battaglia dì El Alamein, orga­nizzata presso il cinema Barberini dalla Provincia di Roma con la sezione romana dell'Associazione nazionale paracadutisti d'Italia (Anpdl) alla presenza di tanti reduci e di autorità civili e militari. «Il riconoscimento del valore dei soldati dì El Alamein». ha proseguito Moffa, ..da parte del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, dev'essere il punto di partenza per rinsaldare il rapporto delle istituzioni con questa data così importante per la storia patria. Lo spirito di sacrificio dei soldati di allora, che smentisce un falso e ridicolo pregiudizio che vuole i nostri militari pavidi e non adatti aI combattimento, sia patrimonio delle nuove generazioni chiamate a rafforzare la vocazione di pace del nostro l'asse. Ancora oggi abbiamo tanti italiani nel mondo impegnati in varie missioni. Difen­diamo il soldato italìano onorarlo è un dovere, ovunque combatta. Non voglio riaprire una pagina chiusa né cambiare le storici. Ma ad El Atarneìn sono stati compiuti gesti eroici e sono questi che dobbiamo ricordare. Ho accolto con grande soddisfazione» ha infine ricordato Moffa, «il riconoscimento del valore dei nostri soldati da parte del sindaco di Scopje, in Macedonia, che ha apprezza­to nei nostri militari soprattutto la capacità dì presidiare quei luoghi come, nes­sun altro militare...


FDR



Un riconoscimento al miglior tema sulla battaglia
La provincia di Milano indice un Premio


Giovedì 3 ottobre, a Milano, l'assessore Provinciale all’istruzione e all'Edilizia scolastica, Paola Frassinetti, ha presentato alla stampa il concorso indetto nelle scuole della Provincia di Milano in occasione del 60° anniversario della Battaglia di El Alamein, un'iniziativa direttamente colle­gata alla Mostra interattiva II deserto e i leoni. El Almnein„ 23 ottobre 1942 che si tiene nelle Serre di Palazzo Dugnani, a Milano fino al 13 novembre e che è stata inaugurata il 20 ottobre con uno spettacolare lancio di paracadutisti della Brigata Folgore in piazza del Duomo.
II concorso bandito dalla Frassinetti è dedicato al tema del valore e del sacrifico del soldato italiano in terra d'Africa, è aperto a tutti gli studenti delle scuole medie superiori di Milano e provincia e riguarda quattro categorie, un elaborato scritto, uno artistico, uno informatico e infine una ricerca, riservata ai docenti. La Commis­sione giudicatrice è presieduta da Anna Caccia Dominioni, figlia del celebre comandante del 31° Battaglione Guastatori d'Africa, architetto dello splendido Sacrario Militare Italiano di El Alamein, famoso anche per la pietosa, e rischiosissima, opera di ricerca delle salme dei caduti nei campi minati della battaglia. La giuria è completata tra gli altri da un ex ufficiale della Divisione Folgore, Renato Migliavacca, storico e giornalista, di cui esce per la casa editrice Auriga l'ultimo libro su quelle vicende dal titolo Nel vivo della battaglia”, e da Marco Mantovani, uffi­ciale in congedo della Brigata Folgore e presidente del Centro Studi El Alamein.
I lavo­ri più significativi per ognuna delle categorie elencate saranno premiati con un viaggio in Egitto e con una visita presso i luoghi della battaglia.
Una testimonianza doverosa al valore e al coraggio sfortunato dei nostri soldati. E un occasione per ricostruire una memoria nazionale troppo spesso negata.


Di Gianfranco Peroncini

Nessun commento:

Posta un commento