Le forze armate nel dopoguerra
Amnistie, amnesie e ricostruzione
Nel dopoguerra ci sono anche numerosi episodi di "resistenza" allo strapotere degli Alleati episodi obliati a causa dell'ostile clima ideologico che però indicano il radicamento del sentimento nazionale
di Dan& Lloyd Thomas
Il rinnovato ruolo delle forze armate,acquisito negli ultimi anni, suggerisce qualche riflessione sulla genesi dell'attuale assetto, che risale al periodo tra il 1943 e il 1947. Si tratta di una fase caratterizzata da un complesso intreccio di vicende operative, politi che, organizzative ed anche giudiziarie; infatti, Giorgio Rochat, uno dei massimi studiosi di storia militare, ha posto l'accento la natura interdisciplinare del proprio campo di ricerca.
In quegli anni l'istituzione militare subisce un vero e proprio fuoco incrociato sul versante politico e ideologico: da una parte, la sinistra (oltre agli angloamericani, seppure con accenti diversi) stigmatizza la «complicità con il fascismo», mentre, dall'altra, i sostenitori di Salò lanciano accuse, in qualche modo speculari, di «tradimento badogliano». A distanza di oltre mezzo secolo potrebbero sembrare paradossali tali condanne. Nessuna delle due riassume, infatti, la complessa realtà di quelle vicende che hanno coinvolto, nel bene e nel male, milioni di italiani. Occorre pertanto mettere da parte quelle forme di massimalismo per esaminare altri processi.
Nella fase di ricostituzione delle forze armate si scorgono propositi, tra mille difficoltà, di assicurare una certa continuità con la tradizione; ciò nonostante i tentativi (controversi ed approssimativi, ma pur sempre inevitabili) di affrontare le conseguenze della frattura civile, morale ed organizzativa dell'8 settembre 1943. Si avviano quindi due processi distinti ma paralleli: quello politico della "defascistizzazioné" e quello meno noto operato dalla "Commissione per l'accertamento del comportamento dei militari all'atto e dopo la proclamazione dell'armistizió". È in tali ambiti si che si cerca di ripristinare le regole della disciplina militare, nel contesto del nuovo assetto politico.
Il controllo angloamericano sulle forze armate italiane risale all'Atto di Resa (detto "armistizio lungo") del 29 settembre 1943, firmato a Malta dal generale statunitense Dwight D. Eisenhower e dal maresciallo d'Italia Pietro Badoglio. Le forze armate dovevano assicurare la massima disponibilità nei confronti delle Nazioni Unite; coalizione di cui fanno parte anche l'Urss, nonostante l'esclusione di fatto della presenza sovietica (almeno quella ufficiale). Nel protocollo di modifica al 1° articolo, sottoscritto da Badoglio e dal generale inglese Noel Macfarlane il 9 novembre 1943, la dicitura originale «resa incondizionata» venne mitigata, eliminando la parola «incondizionata».
Nonostante la sconfitta e l'occupazione, si manifestano nelle varie forze armate del Regno (dalle quali, appunto, nasce in sostanza l'odierno assetto militare) tentativi di mantenere una certa autonomia. Nell'Esercito si cambia persino il colore delle divise, passando al color kaki degli inglesi, adducendo come motivo la maggiore facilità di approvvigionamento.
Nell'immediato dopoguerra, ci sono anche numerosi episodi di "resistenza" allo strapotere dei nuovi alleati; episodi, oggi dimenticati a causa del già citato "fuoco incrociato" ideologico, che indicano tuttavia il radicamento del sentimento nazionale. A titolo di esempio, si potrebbe ricordare la querelle sorta in relazione alla pretesa di assicurare l'impunibilità dei militari italiani imputati di collaborazionismo a favore delle potenze alleate prima dell'8 settembre. Infatti, nell'articolo 16 del Trattato di Pace del 1947 si afferma: «L’Italia non incriminerà né altrimenti perseguirà alcun cittadino italiano, specialmente gli appartenenti alle forze armate, per avere tra il 10 giugno 1940 e la data dell'entrata in vigore del presente trattato, espresso la loro simpatia per la causa delle Potenze Alleate o aver condotto un'azione a favore di detta causa».
Come si arriva ad un provvedimento a dir poco incredibile, atto a delegittimare l'assetto disciplinare dell'apparato militare? Peraltro, si parte dalla data della dichiarazione di guerra alla Gran Bretagna ed alla Francia, trascurando invece le "guerre fasciste" in Abissinia, Spagna e Albania... Mentre l'accettazione di tale pretesa, nonché di altre norme dello stesso Trattato, nasce in parte dal pragmatismo della nuova classe politica, intenzionata a chiudere in fretta i contenziosi con il passato, si evince allo stesso tempo un'arrendevolezza talmente forte da destare meraviglia anche tra gli stessi vincitori.
Tracciamo qualche antefatto di questa norma. L’ art. 32 B dell'accordo del 29 settembre 1943 richiede la scarcerazione, nonché la rimozione di ogni pregiudizio giuridico (legal disabilities), nei confronti dei militari accusati di contatti con gli angloamericani. Questa norma, piuttosto vaga, è seguita, nel accordo segreto Badoglio‑Macfarlane del 1944, con l'impegno di «non perseguire i reati di diserzione verificatisi nel periodo 10 luglio‑8 settembre 1943» (ossia a partire dalla data di invasione della Sicilia).
Passiamo al mese di maggio 1945: la guerra si è ormai conclusa, e il governo di Ivanoe Bonomi vara un decreto legge di «amnistia ai disertori». La Commissione alleata aveva auspicato un provvedimento ampio e immediato, soprattutto con il proposito di "condonare" i collaboratori filoalleati. Tuttavia, tra i vertici militari l'opposizione è forte: si rischierebbe di vanificare ogni tentativo di ristabilire la disciplina militare. Sono in corso migliaia di procedimenti ‑ gran parte dei quali a carico di ufficiali e sottufficiali ‑ per diserzione ed altri reati. Per complicare la situazione, i tribunali alleati si sono riservati di perseguire gli imputati di sabotaggio e di spionaggio. Si discute, peraltro, del problema della validità o meno del giuramento prestato al Re o alla Repubblica sociale (per molti, da ambedue le parti, il giuramento non rappresenta un mero atto formale ma qualcosa che scaturisce dal concetto di onore.. . ).
Riguardo alle proposte di amnistia, la reazione del capo di Stato maggiore generale, il generale Trezzani, è assai dura. In una lettera dell'8 ottobre 1945, indirizzata al nuovo primo ministro, Ferruccio Parri (in "Acs, pres. Cons. ministri"), egli fa alcune considerazioni, anche di tipo storico e geopolitico, che vale la pena di citare:
«L'amnistia concessa ai disertori dopo l'altra guerra fu, dal punto di vista morale e militare, errore gravissimo, in quanto diede a tutti la convinzione dell'impunità a chi si sottraeva al dovere fondamentale di ogni cittadino: combattere per la propria Patria. Le conseguenze di questa convinzione si sono rese manifeste in questa guerra, quando l'esercito alla notizia dell'armistizio si sentì autorizzato a sbandarsi in massa, e con i successivi 200.000 disertori, di fronte ai quali il Governo si sente impotente.
Al termine di ogni guerra si diffonde sempre la convinzione che essa sia l'ultima, mentre con ogni trattato di pace si sono sempre create le basi e le ragioni della guerra futura. Sono profondamente convinto che, pur cambiando modi e forme, le guerre continueranno finché durerà l'umanità, e che l'Italia, non fosse altro che per la sua posizione geografica, sarà coinvolta in ogni guerra europea. La concessione dell'amnistia ai disertori anche al termine di questa guerra finirà per convincere ogni italiano che combattere non è un obbligo ma una facoltà... Dovrebbe perciò essere costituita una Commissione nella quale siano presenti tutti gli organi interessati ...al fine di non sancire ancora una volta di più la norma per cui i responsabili delle cattive soluzioni dei problemi militari sono sempre i militari, e solo questi».
In un'altra missiva, lo stesso Trezzani propone una soluzione: «Disertori e collaborazionisti cogli alleati pel periodo 10 luglio‑8 settembre: applicare gli accordi Badoglio‑Macfarlane dicendo esplicitamente che ciò avviene non per libera volontà nostra ma per imposizione degli alleati».
Alla fine, è stata effettivamente la politica ad offrire una "cattiva soluzione, nel fattispecie del Trattato del 1947. Il "condono" ai collaborazionisti alleati si estende addirittura al 1940; ciò probabilmente per motivi più prettamente politici (ossia il disconoscimento retroattivo della sovranità del governo nazionale) che non per il numero, a quanto pare assai contenuto, degli accusati.
In seguito le polemiche si sono assopite: un po' perché gli atti sono rimasti a lungo sepolti negli archivi e un po' per l'amnistia, voluta da Palmiro Togliatti, a favore degli accusati di "reati fascisti" (concessa, a quanto pare, in cambio del voto referendario per la Repubblica, garantito dall'accordo con Pino Romualdi, quale "vendetta" contro i Savoia). E intanto, nei lunghi anni della Guerra fredda, ogni critica al Trattato del 1947 è relegata rigorosamente alle "estreme", di destra e di sinistra. Oggi, finalmente, si può ragionare serenamente su queste vicende. Che il proposito del ritorno, nell'Esercito, alla divisa grigioverde, sia il simbolo di una ritrovata dignità storica (e quindi anche morale)?
Storia del generale Gioacchino Solinas, granatiere, sciarpa littorio, "resistente" e repubblichino
Il Fascista che difese la città aperta
Dopo l'otto settembre, e la fuga del Re, Roma viene difesa dall'entrata dei tedeschi: alla battaglia di Porta San Paolo giurano di aver partecipato tutti i futuri "padri" partigiani. Ma alla testa dei soldati schierati c'era un ufficiale che poi aderirà alla Rsi
di Emanuele Tonti
Nel settembre '43 a difendere Roma dai tedeschi furono i granatieri di Sardegna. Li comandava un ufficiale che poi aderirà alla Rsi, il generale Gioacchino Solinas. Questa scomoda verità, a quasi sessant'anni di distanza, è ancora sottaciuta per non rovinare la vulgata che vede nelle giornate della battaglia di porta San Paolo l'inizio della "resistenza". Ma qualcosa sta cambiando: sono gli stessi granatieri a promuovere incontri per fare chiarezza attorno ad un momento così drammatico della nostra storia patria.
In quei frenetici giorni di fine estate, mentre Vittorio Emanuele III assieme al maresciallo Pietro Badoglio, al governo e agli alti comandi dell'esercito fuggiva ignominiosamente a Pescara ‑ dimenticando l'illustre prigioniero sul Gran Sasso o forse barattandone la liberazione con un tacito lasciapassare fino a Brindisi ‑, i granatieri salvavano l'onore delle armi del nostro esercito. Mentre una nazione stava andando allo sbando e il "tutti a casa" era diventata la parola d'ordine, il generale Solinas tenne testa all'avanzata dei tedeschi. I suoi 12mila uomini, schierati su un semicerchio di circa 30 chilometri dalla Cassia alla Casilina in 13 capisaldi, fecero tutti il loro dovere fino all'ultimo. A fianco a loro i Lancieri di Montebello, il V battaglione Genio guastatori, un battaglione di carabinieri, uno di bersaglieri, uno della Polizia Africa Italiana, una compagnia di Arditi e qualche civile che aveva preso spontaneamente le armi. Niente di più.
E pensare che per la difesa di Roma oltre alla divisione Granatieri, l'esercito italiano avrebbe potuto impiegarne altre cinque, a fronte di due divisioni di paracadutisti tedeschi.
L'apporto alla battaglia delle due divisioni corazzate Ariete e Centauro, della divisione motorizzata Piave, della Piacenza e della Sassari fu molto limitato soprattutto per il totale caos che regnava nelle istituzioni, a partire dal ministero della Guerra. In via XX settembre un colonnello così rispose a chi gli chiedeva ordini per telefono: «Sono rimasto solo, qui sono scappati tutti e ora me ne vado pure io, arrangiatevi». Alle 19 e 45 di quello sciagurato 8 settembre, Badoglio dette l'annuncio dell'armistizio con gli Alleati – firmato cinque giorni prima a Cassibile ‑ e con sublime ipocrisia ordinò ai soldati di «reagire contro eventuali offese da qualunque parte esse fossero pervenute». Nel giro di poche ore fu battaglia che durò quasi ininterrottamente fino al pomeriggio del 10 settembre, quando venne firmato l'armistizio con i tedeschi: Roma divenne "città aperta" e sarebbe rimasta tale fino al 4 giugno 1944, data dell'arrivo degli americani.
I granatieri si batterono con valore ma dovettero progressivamente arretrare sulla via Ostiense fino a porta San Paolo. Là ci fu l'episodio più noto dello scontro che fruttò al corpo due Ordini militari d'Italia, tre Medaglie d'oro e sette Medaglie d'argento al valor militare e 25 Croci al merito. Ancora oggi qualcuno cerca di contrabbandare l'evento come il primo fatto d’armi della "resistenza popolare contro l'invasore nazifascista", sottovalutando il ruolo di chi sopportò quasi interamente il peso della difesa di Roma. Riprova ne sono le annuali celebrazioni dell'evento. Lo scorso 8 settembre, ad esempio, a porta San Paolo c'è stata una commemorazione a metà. Quel giorno addirittura Walter Veltroni ha speso qualche buona parola per chi al tempo della guerra civile fece la scelta "sbagliata": «Chiunque abbia perso la vita combattendo merita rispetto. Onore a lui», ha detto il sindaco di Roma. Filippo Berselli, sottosegretario alla Difesa ha pronunciato un toccante discorso ‑ nel quale, evento eccezionale nella storia repubblicana, hanno trovato posto i martiri delle foibe e i fratelli Govoni ‑ che si è concluso con le stesse parole dell'orazione dell'anno precedente tenuta da Carlo Azeglio Ciampi: «Viva l'Italia». Ma il generale Luigi Franceschini, uno dei granatieri del 1943, non l'hanno fatto parlare nonostante il suo intervento fosse stato precedentemente concordato. In compenso a un diciassettenne è stato fatto leggere ‑ da chi? A che titolo? ‑ un proclama con tono saccentello in cui si disquisiva di «nazifascismo», di etica, di storia e di filosofia. Veramente irritante.
D'altronde, che la battaglia di Roma non sia mai terminata, ne sono lampante dimostrazione le memorie del generale Solinas, nelle quali l'ufficiale, a venticinque anni di distanza dagli eventi bellici, si propose di ristabilire la verità. Solinas nei suoi scritti dimostra che fu vera battaglia e la difesa della capitale non fu "mancata" come qualcuno ha poi sostenuto. Solinas, dopo la proclamazione di "Roma città aperta", andò ad ascoltare il generale Rodolfo Graziani al teatro Adriano e decise di seguirlo nella RSI. Considerato che Paolo Monelli nel suo Roma 1943 ricorda Solinas come «Sciarpa Littorio, squadrista, fascista convinto», non fu certo una sorpresa. Al Nord il generale divenne prima comandante del "Centro Costituzione Grandi Unità" a Vercelli e successivamente fu nominato comandante della regione militare Lombardia. «Secondo me la sua non fu una scelta ideologica» dice il generale Antonino Torre, direttore del museo storico dei granatieri di Roma, «innanzi tutto Solinas era un militare valorosissimo, la sua carriera parla chiaro. In quelle ore convulse rispettò le consegne e lo fece con decisione, coraggio e decoro. Gli altri no. Si può ipotizzare che la delusione lo portò ad aderire alla Rsi. Oltretutto, a guerra finita, dovette subire le critiche di chi era scappato e il tentativo da parte di civili e di altri militari di appropriarsi del merito della difesa di Roma. Come se non bastasse il suo nome quasi non figura nei libri di storia». Certo, un fascista che dà il via alla resistenza non sta bene. Quegli stessi manuali però ricordano che a porta San Paolo erano presenti Luigi Longo, Antonello Trombadori e Fabrizio Onofri del Pci, Emilio Lussu e Ugo La Malfa del Partito d'Azione, Sandro Pertini, Eugenio Colorni, Mario Zagari del Psiup, Romualdo Chiesa e Adriano Ossicini del Movimento dei cattolici comunisti. Considerate le frequenti esagerazioni della retorica antifascista ci permettiamo di dubitare.
Proprio per fare chiarezza su questa importante vicenda della nostra storia, lo scorso dicembre l'Associazione militari in congedo e lo Stato Maggiore dell'Esercito anno organizzato il convegno Là dove sofferto presso il museo storico dei granatieri. Tra gli intervenuti, lo storico e giornalista Giano Accame, Massimo Coltrinari della Società di storia militare e Piero Ostilio Rossi, professore della facoltà di Architettura alla Sapienza. Accame ha sottolineato la grandezza di Solinas: «Un ottimo comandante che probabilmente, a un certo punto, non ha capito nemmeno bene quello che stava succedendo. Solinas si è trovato in un gioco più grande di lui e si è comportato da uomo coraggioso». Secondo Accame «l'obbedienza del generale e dei suoi granatieri rappresentarono la continuità istituzionale, malgrado fosse già crollato tutto. È come la coda della lucertola che continua a muoversi dopo che è stata recisa».
Il professor Rossi ha raccontato la battaglia tramite lo studio e la ricostruzione di ventidue luoghi simbolici della città. Lo studioso ha evidenziato come legare la storia alla geografia permetta «una ricostruzione più fedele dell'accaduto» e aiuti «a formare quella memoria collettiva che ancora oggi è carente e controversa sulla difesa di Roma e su troppi episodi della nostra storia».
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