sabato 29 settembre 2007


Le forze armate nel dopoguerra
Amnistie, amnesie e ricostruzione

Nel dopoguerra ci sono anche numerosi episodi di "resistenza" allo strapotere degli Alleati episodi obliati a causa dell'ostile clima ideologico che però indicano il radicamento del sentimento nazionale

di Dan& Lloyd Thomas

Il rinnovato ruolo delle forze armate,acquisito negli ultimi anni, suggeri­sce qualche riflessione sulla genesi dell'attuale assetto, che risale al periodo tra il 1943 e il 1947. Si tratta di una fase caratterizzata da un comples­so intreccio di vicende operative, politi che, organizzative ed anche giudiziarie; infatti, Giorgio Rochat, uno dei massimi studiosi di storia militare, ha posto l'ac­cento la natura interdisciplinare del pro­prio campo di ricerca.
In quegli anni l'istituzione militare subisce un vero e proprio fuoco incrociato sul versante politico e ideologico: da una parte, la sinistra (oltre agli angloamericani, seppure con accenti diversi) stigmatizza la «complicità con il fascismo», mentre, dall'altra, i sostenitori di Salò lanciano accuse, in qualche modo speculari, di «tradimento badogliano». A distanza di oltre mezzo secolo potrebbero sembrare paradossali tali condanne. Nessuna delle due riassume, infatti, la complessa realtà di quelle vicende che hanno coinvolto, nel bene e nel male, milioni di italiani. Occorre pertanto mettere da parte quelle forme di massimalismo per esaminare altri processi.
Nella fase di ricostituzione delle forze armate si scorgono propositi, tra mille difficoltà, di assicurare una certa continuità con la tradizione; ciò nonostante i tentativi (controversi ed approssimativi, ma pur sempre inevitabili) di affrontare le conseguenze della frattura civile, morale ed organizzativa dell'8 settembre 1943. Si avviano quindi due processi distinti ma paralleli: quello politico della "defascistizzazioné" e quello meno noto operato dalla "Commissione per l'accertamento del comportamento dei militari all'atto e dopo la proclamazione dell'armistizió". È in tali ambiti si che si cerca di ripristinare le regole della disciplina militare, nel contesto del nuovo assetto politico.
Il controllo angloamericano sulle forze armate italiane risale all'Atto di Resa (detto "armistizio lungo") del 29 settembre 1943, firmato a Malta dal generale statunitense Dwight D. Eisenhower e dal maresciallo d'Italia Pietro Badoglio. Le forze armate dovevano assicurare la massima disponibilità nei confronti delle Nazioni Unite; coalizione di cui fanno parte anche l'Urss, nonostante l'esclusione di fatto della presenza sovietica (almeno quella ufficiale). Nel protocollo di modifica al 1° articolo, sottoscritto da Badoglio e dal generale inglese Noel Macfarlane il 9 novembre 1943, la dicitura originale «resa incondizionata» venne mitigata, eliminando la parola «incondizionata».
Nonostante la sconfitta e l'occupazione, si manifestano nelle varie forze armate del Regno (dalle quali, appunto, nasce in sostanza l'odierno assetto militare) tentativi di mantenere una certa autonomia. Nell'Esercito si cambia persino il colore delle divise, passando al color kaki degli inglesi, adducendo come motivo la maggiore facilità di approvvigionamento.
Nell'immediato dopoguerra, ci sono anche numerosi episodi di "resistenza" allo strapotere dei nuovi alleati; episodi, oggi dimenticati a causa del già citato "fuoco incrociato" ideologico, che indicano tuttavia il radicamento del sentimento nazionale. A titolo di esempio, si potrebbe ricordare la querelle sorta in relazione alla pretesa di assicurare l'impunibilità dei militari italiani imputati di collaborazionismo a favore delle potenze alleate prima dell'8 settembre. Infatti, nell'articolo 16 del Trattato di Pace del 1947 si afferma: «L’Italia non incriminerà né altrimenti perseguirà alcun cittadino italiano, specialmente gli appartenenti alle forze armate, per avere tra il 10 giugno 1940 e la data dell'entrata in vigore del presente trattato, espresso la loro simpatia per la causa delle Potenze Alleate o aver condotto un'azione a favore di detta causa».
Come si arriva ad un provvedimento a dir poco incredibile, atto a delegittimare l'assetto disciplinare dell'apparato militare? Peraltro, si parte dalla data del­la dichiarazione di guerra alla Gran Bretagna ed alla Francia, trascurando invece le "guerre fasciste" in Abissinia, Spagna e Albania... Mentre l'accettazione di tale pretesa, nonché di altre norme dello stes­so Trattato, nasce in parte dal pragmati­smo della nuova classe politica, intenzio­nata a chiudere in fretta i contenziosi con il passato, si evince allo stesso tempo un'arrendevolezza talmente forte da destare meraviglia anche tra gli stessi vincitori.
Tracciamo qualche antefatto di que­sta norma. L’ art. 32 B dell'accordo del 29 settembre 1943 richiede la scarcerazione, nonché la rimozione di ogni pregiudizio giuridico (legal disabilities), nei confronti dei militari accusati di contatti con gli angloamericani. Questa norma, piutto­sto vaga, è seguita, nel accordo segreto Badoglio‑Macfarlane del 1944, con l'im­pegno di «non perseguire i reati di diser­zione verificatisi nel periodo 10 luglio‑8 settembre 1943» (ossia a partire dalla data di invasione della Sicilia).
Passiamo al mese di maggio 1945: la guerra si è ormai conclusa, e il governo di Ivanoe Bonomi vara un decreto legge di «amnistia ai disertori». La Commis­sione alleata aveva auspicato un provvedimento ampio e immediato, soprattutto con il proposito di "condonare" i colla­boratori filoalleati. Tuttavia, tra i vertici militari l'opposizione è forte: si rischie­rebbe di vanificare ogni tentativo di ristabilire la disciplina militare. Sono in corso migliaia di procedimenti ‑ gran parte dei quali a carico di ufficiali e sot­tufficiali ‑ per diserzione ed altri reati. Per complicare la situazione, i tribunali alleati si sono riservati di perseguire gli imputati di sabotaggio e di spionaggio. Si discute, peraltro, del problema della validità o meno del giuramento prestato al Re o alla Repubblica sociale (per molti, da ambedue le parti, il giuramento non rappresenta un mero atto formale ma qualcosa che scaturisce dal concetto di onore.. . ).
Riguardo alle proposte di amnistia, la reazione del capo di Stato maggiore generale, il generale Trezzani, è assai dura. In una lettera dell'8 ottobre 1945, indirizzata al nuovo primo ministro, Ferruccio Parri (in "Acs, pres. Cons. ministri"), egli fa alcune considerazioni, anche di tipo storico e geopolitico, che vale la pena di citare:
«L'amnistia concessa ai disertori dopo l'altra guerra fu, dal punto di vista morale e militare, errore gravissimo, in quanto diede a tutti la convinzione del­l'impunità a chi si sottraeva al dovere fondamentale di ogni cittadino: combat­tere per la propria Patria. Le conseguenze di questa convinzione si sono rese mani­feste in questa guerra, quando l'esercito alla notizia dell'armistizio si sentì auto­rizzato a sbandarsi in massa, e con i suc­cessivi 200.000 disertori, di fronte ai qua­li il Governo si sente impotente.
Al termine di ogni guerra si diffonde sempre la convinzione che essa sia l'ulti­ma, mentre con ogni trattato di pace si sono sempre create le basi e le ragioni della guerra futura. Sono profondamen­te convinto che, pur cambiando modi e forme, le guerre continueranno finché durerà l'umanità, e che l'Italia, non fosse altro che per la sua posizione geografica, sarà coinvolta in ogni guerra europea. La concessione dell'amnistia ai disertori anche al termine di questa guerra finirà per convincere ogni italiano che combat­tere non è un obbligo ma una facoltà... Dovrebbe perciò essere costituita una Commissione nella quale siano presenti tutti gli organi interessati ...al fine di non sancire ancora una volta di più la norma per cui i responsabili delle cattive soluzioni dei problemi militari sono sempre i militari, e solo questi».
In un'altra missiva, lo stesso Trezza­ni propone una soluzione: «Disertori e collaborazionisti cogli alleati pel periodo 10 luglio‑8 settembre: applicare gli accor­di Badoglio‑Macfarlane dicendo esplici­tamente che ciò avviene non per libera volontà nostra ma per imposizione degli alleati».
Alla fine, è stata effettivamente la politica ad offrire una "cattiva soluzio­ne, nel fattispecie del Trattato del 1947. Il "condono" ai collaborazionisti alleati si estende addirittura al 1940; ciò probabilmente per motivi più prettamente politici (ossia il disconoscimento retroat­tivo della sovranità del governo nazio­nale) che non per il numero, a quanto pare assai contenuto, degli accusati.
In seguito le polemiche si sono asso­pite: un po' perché gli atti sono rimasti a lungo sepolti negli archivi e un po' per l'amnistia, voluta da Palmiro Togliatti, a favore degli accusati di "reati fascisti" (concessa, a quanto pare, in cambio del voto referendario per la Repubblica, garantito dall'accordo con Pino Romualdi, quale "vendetta" contro i Savoia). E intanto, nei lunghi anni della Guerra fredda, ogni critica al Trattato del 1947 è relegata rigorosamente alle "estre­me", di destra e di sinistra. Oggi, final­mente, si può ragionare serenamente su queste vicende. Che il proposito del ritorno, nell'Esercito, alla divisa grigio­verde, sia il simbolo di una ritrovata dignità storica (e quindi anche morale)?

Storia del generale Gioacchino Solinas, granatiere, sciarpa littorio, "resistente" e repubblichino

Il Fascista che difese la città aperta

Dopo l'otto settembre, e la fuga del Re, Roma viene difesa dall'entrata dei tedeschi: alla battaglia di Porta San Paolo giurano di aver partecipato tutti i futuri "padri" partigiani. Ma alla testa dei soldati schierati c'era un ufficiale che poi aderirà alla Rsi

di Emanuele Tonti

Nel settembre '43 a difendere Roma dai tedeschi furono i gra­natieri di Sardegna. Li comanda­va un ufficiale che poi aderirà alla Rsi, il generale Gioacchino Solinas. Questa scomoda verità, a quasi sessant'anni di distanza, è anco­ra sottaciuta per non rovinare la vul­gata che vede nelle giornate della bat­taglia di porta San Paolo l'inizio della "resistenza". Ma qualcosa sta cambiando: sono gli stessi granatieri a pro­muovere incontri per fare chiarezza attorno ad un momento così dramma­tico della nostra storia patria.
In quei frenetici giorni di fine esta­te, mentre Vittorio Emanuele III assieme al maresciallo Pietro Bado­glio, al governo e agli alti comandi dell'esercito fuggiva ignominiosamen­te a Pescara ‑ dimenticando l'illustre prigioniero sul Gran Sasso o forse barattandone la liberazione con un tacito lasciapassare fino a Brindisi ‑, i granatieri salvavano l'onore delle armi del nostro esercito. Mentre una nazione stava andando allo sbando e il "tutti a casa" era diventata la parola d'ordine, il generale Solinas tenne testa all'a­vanzata dei tede­schi. I suoi 12mila uomini, schierati su un semicerchio di circa 30 chilo­metri dalla Cassia alla Casilina in 13 capisaldi, fecero tutti il loro dovere fino all'ultimo. A fianco a loro i Lan­cieri di Montebel­lo, il V battaglione Genio guastatori, un battaglione di carabinieri, uno di bersaglieri, uno della Polizia Afri­ca Italiana, una compagnia di Arditi e qualche civile che aveva preso spontanea­mente le armi. Niente di più.
E pensare che per la difesa di Roma oltre alla divisione Grana­tieri, l'esercito ita­liano avrebbe potuto impiegar­ne altre cinque, a fronte di due divisioni di para­cadutisti tedeschi.
L'apporto alla battaglia delle due divi­sioni corazzate Ariete e Centauro, della divisione motorizzata Piave, della Pia­cenza e della Sassari fu molto limitato soprattutto per il totale caos che regnava nelle istituzioni, a partire dal ministero della Guerra. In via XX set­tembre un colonnello così rispose a chi gli chiedeva ordini per telefono: «Sono rimasto solo, qui sono scappati tutti e ora me ne vado pure io, arrangiatevi». Alle 19 e 45 di quello sciagurato 8 set­tembre, Badoglio dette l'annuncio del­l'armistizio con gli Alleati – firmato cinque giorni prima a Cassibile ‑ e con sublime ipocrisia ordinò ai soldati di «reagire contro eventuali offese da qualunque parte esse fossero pervenu­te». Nel giro di poche ore fu battaglia che durò quasi ininterrottamente fino al pomeriggio del 10 settembre, quan­do venne firmato l'armistizio con i tedeschi: Roma divenne "città aperta" e sarebbe rimasta tale fino al 4 giugno 1944, data dell'arrivo degli americani.
I granatieri si batterono con valore ma dovettero progressivamente arre­trare sulla via Ostiense fino a porta San Paolo. Là ci fu l'episodio più noto dello scontro che fruttò al corpo due Ordini militari d'Italia, tre Medaglie d'oro e sette Medaglie d'argento al valor militare e 25 Croci al merito. Ancora oggi qualcuno cerca di contrab­bandare l'evento come il primo fatto d’armi della "resistenza popolare con­tro l'invasore nazifascista", sottovalu­tando il ruolo di chi sopportò quasi interamente il peso della difesa di Roma. Riprova ne sono le annuali cele­brazioni dell'evento. Lo scorso 8 set­tembre, ad esempio, a porta San Paolo c'è stata una commemorazione a metà. Quel giorno addirittura Walter Veltro­ni ha speso qualche buona parola per chi al tempo della guerra civile fece la scelta "sbagliata": «Chiunque abbia perso la vita combattendo merita rispetto. Onore a lui», ha detto il sinda­co di Roma. Filippo Berselli, sottose­gretario alla Difesa ha pronunciato un toccante discorso ‑ nel quale, evento eccezionale nella storia repubblicana, hanno trovato posto i martiri delle foi­be e i fratelli Govoni ‑ che si è concluso con le stesse parole dell'orazione del­l'anno precedente tenuta da Carlo Aze­glio Ciampi: «Viva l'Italia». Ma il gene­rale Luigi Franceschini, uno dei grana­tieri del 1943, non l'hanno fatto parlare nonostante il suo intervento fosse stato precedentemente concordato. In com­penso a un diciassettenne è stato fatto leggere ‑ da chi? A che titolo? ‑ un proclama con tono saccentello in cui si disquisiva di «nazifasci­smo», di etica, di storia e di filosofia. Veramente irritante.
D'altronde, che la bat­taglia di Roma non sia mai terminata, ne sono lampante dimostrazione le memorie del generale Solinas, nelle quali l'uffi­ciale, a venticinque anni di distanza dagli eventi bellici, si propose di ristabilire la verità. Solinas nei suoi scritti dimostra che fu vera battaglia e la difesa della capitale non fu "mancata" come qualcuno ha poi sostenuto. Solinas, dopo la proclamazione di "Roma città aperta", andò ad ascoltare il generale Rodolfo Gra­ziani al teatro Adriano e decise di seguirlo nella RSI. Considerato che Paolo Monelli nel suo Roma 1943 ricor­da Solinas come «Sciarpa Littorio, squadrista, fascista convinto», non fu certo una sorpresa. Al Nord il generale divenne prima comandante del "Cen­tro Costituzione Grandi Unità" a Ver­celli e successivamente fu nominato comandante della regione militare Lombardia. «Secondo me la sua non fu una scelta ideologica» dice il generale Antonino Torre, direttore del museo storico dei granatieri di Roma, «innanzi tutto Solinas era un militare valorosis­simo, la sua carriera parla chiaro. In quelle ore convulse rispettò le conse­gne e lo fece con decisione, coraggio e decoro. Gli altri no. Si può ipotizzare che la delusione lo portò ad aderire alla Rsi. Oltretutto, a guerra finita, dovette subire le critiche di chi era scappato e il tentativo da parte di civili e di altri militari di appropriarsi del merito della difesa di Roma. Come se non bastasse il suo nome quasi non figura nei libri di storia». Certo, un fascista che dà il via alla resistenza non sta bene. Quegli stessi manuali però ricordano che a porta San Paolo erano presenti Luigi Longo, Antonello Trombadori e Fabrizio Onofri del Pci, Emilio Lussu e Ugo La Malfa del Partito d'Azione, Sandro Pertini, Eugenio Colorni, Mario Zagari del Psiup, Romualdo Chiesa e Adriano Ossicini del Movimento dei cattolici comunisti. Considerate le frequenti esagerazioni della retorica antifascista ci permettiamo di dubitare.
Proprio per fare chiarezza su questa importante vicenda della nostra storia, lo scorso dicembre l'Associazione mili­tari in congedo e lo Stato Maggiore del­l'Esercito anno organizzato il conve­gno Là dove sofferto presso il museo sto­rico dei granatieri. Tra gli intervenuti, lo storico e giornalista Giano Accame, Massimo Coltrinari della Società di storia militare e Piero Ostilio Rossi, professore della facoltà di Architettura alla Sapienza. Accame ha sottolineato la grandezza di Solinas: «Un ottimo comandante che probabilmente, a un certo punto, non ha capito nemmeno bene quello che stava succedendo. Soli­nas si è trovato in un gioco più grande di lui e si è comportato da uomo corag­gioso». Secondo Accame «l'obbedienza del generale e dei suoi granatieri rap­presentarono la continuità istituzionale, malgrado fosse già crollato tutto. È come la coda della lucertola che conti­nua a muoversi dopo che è stata recisa».
Il professor Rossi ha raccontato la battaglia tramite lo studio e la rico­struzione di ventidue luoghi simbolici della città. Lo studioso ha evidenziato come legare la storia alla geografia permetta «una ricostruzione più fede­le dell'accaduto» e aiuti «a formare quella memoria collettiva che ancora oggi è carente e controversa sulla difesa di Roma e su troppi episodi della nostra storia».

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