venerdì 18 maggio 2007

IO I MIEI CARNEFICI LI HO GUARDATI NEGLI OCCHI


PER QUESTO

NON POSSO NON ODIARE
I COMUNISTI

ESTRATTO DA "CAINO E CAINO"
. DI GIANMARIA GUASTI
CHE NE FA OMAGGIO PERSONALE

INIZIO DELLA FINE ‑ 24/04/45 –


Erano circa le ore 14 quando ricevetti l'ordine di abbandonare la postazione Marina III^ per raggiungere, con i miei soldati, il concentramento di forze a Chiavari. Già dalla sera precedente, ma soprattutto dal primo mattino attendevo ordini. Era maturata un'atmosfera di brande tensione e la notte non avevamo quasi dormito. Rumori e movimenti da parte della popolazione, passaggio sul lungomare di automezzi e cingolati provenienti da Sestri Levante e diretti verso ovest, ai quali eravamo demandati a dare sicurezza nell'ambito del settore di nostra competenza territoriale, ci avevano concesso solo dei brevi sonnellini fra un turno e l'altro. Io in particolare, per la responsabilità del comando e l'iper­tensione dell'eccezionale momento senza ancora saperne i motivi. quasi non avevo chiuso occhio. Avevo cercato, in più occasioni, di sapere da qualche componente della colonna motorizzata notizie relative,a tanto movimento ma senza esito, nessuno sapeva niente di preciso. Conoscendo la lingua tedesca. retaggio di due anni di studio a Zuoz in Engadina, provai con i tedeschi mischiati alla colonna ma nemmeno da loro riuscii a sapere nulla di preciso.
Tutti erano tranquilli e calmi per cui reputavo trattarsi di un normale se pur grande spostamento di forze e di mezzi fatto in notturna per evitare il pericolo di attacchi aerei. Oltre tutto, a quei tempi, vigeva la regola del "Taci! II nemico ti ascolta" per cui era normale non commentare le cose. All'alba il movimento era sensibilmente diminuito limitandosi al passaggio di pochi reparti a piedi. Avevo notato divise di ogni genere. Alpini, Decima Mas, Granatieri, Brigate nere, G.N.R. alternati a vari reparti tedeschi. Schulz, ed il caporale con lui, verso le 9, a seguito di disposizioni dal loro comando, lasciarono la postazione diretti a Chiavari.
Schulz non precisò se si trattasse di soluzione provvisoria o definitiva. Ci salu­tammo cordialmente come dovessimo rivederci prima di sera. Verso le 10 Abate, incaricato di vedetta sul tetto, mi riferì di aver notato con il binocolo movimento di civili, forse partigiani, sulle montagne verso Santa Giulia. Considerai che, con tutto lo spiegamento di forze notturno sulla litoranea, probabilmente irregolari, renitenti o anche solo civili dei paesi a mare. impauriti dal movimento delle truppe si fossero rifugiati sul monte.
Nulla faceva presagire quanto di li a poco sarebbe maturato. Da oltre un'ora era cessato qualsiasi movimento di forze sulla litoranea. Nessuno più era passato dal nostro posto di blocco. Poco dopo mezzogiorno improvvise alcune raffiche di mitragliatrice arrivarono sulla nostra postazione dalla boscaglia ad un centi­naio di metri da noi verso monte. Non fecero alcun danno fisico limitandosi a scheggiare il muro. Presi immediatamente provvedimenti allertando la squadra. Ero abbastanza tranquillo perchè tutta la striscia di terreno libero a monte, cin­tata con filo spinato e con vistosi cartelli "Terreno minato", ci garantiva che nessuno avrebbe osato attaccare da quella parte. Il mio trucco delle finte mine funzionava.
Feci sparare dal terrazzo superiore delle raffiche nel folto del bosco e da quel momento tutto tornò tranquillo. Successivamente giudicai quella scaramuccia come un tentativo di qualche gruppo partigiano di avvicinarsi a Chiavari. Praticamente ed inconsapevolmente Marina III° era rimasto l'ultimo baluardo dalla Repubblica Sociale verso Sestri Levante. La nostra reazione aveva consigliato prudenza ed attesa. Quando poco dopo, verso le 14, lasciai Marina IlI° con le dovute precauzioni di difesa, mi resi per la prima volta conto che qual­cosa di grave stava accadendo. Con il binocolo vedevo nettamente gruppi parti­giani che avanzavano occupando la zona e la strada che noi avevamo lasciata alle nostre spalle poco prima. Probabilmente, ormai sicuri del nostro ritiro, ave­vano atteso evitando lo scontro armato. La verità, che diventò immediatamente reale, fu che stavamo ritirandoci e che, per qualche motivo che ancora non conoscevo, abbandonavamo la Riviera di Levante. A Chiavari una ridda di noti­zie si accavallarono da "Radio scarpone" (così chiamavamo le notizie che ci arrivavano di bocca in bocca). Appresi che il fronte in Toscana aveva ceduto e che le truppe Anglo‑Americane erano già arrivate a La Spezia. Fui aggregato alla Compagnia Comando con il capitano Scattolin e, dopo una breve sosta di assestamento e riorganizzazione, prendemmo la via verso Rapallo. Facevamo oramai parte di una grande colonna in ritirata che procedeva a passo d'uomo. Nei pressi di Zoagli prendemmo posizione sul fianco del monte sovrastante. Non fu una sosta tranquilla, tutt'altro. Verso le 18 cominciarono ad arrivare le prime granate che esplosero attorno a noi nel bosco. Il bombardamento conti­nuò a bordate fino alle 20.30 circa, solo tre o quattro bombe caddero a qualche decina di metri da noi e per fortuna ne uscimmo illesi. Il bombardamento ripre­se verso le 22. La notte passò nel timore di essere colpiti.
Nel buio non avevamo idea da dove provenissero le granate. Più tardi ci dissero che eravamo stati cannoneggiati dal mare da navi alleate. Nella relativa calma sopravvenuta nel primo mattino del 25 aprile vennero riorganizzati i reparti e ci giunse notizia di morti e feriti colpiti nella notte. dalle granate in altri settori. Riprendemmo la marcia verso ponente con destinazione Recco dove si trovava già il grosso delle nostre forze. La situazione era abbastanza caotica. Notizie si accavallavano a notizie e tutte in contraddizione fra loro. Prima ci dissero elle eravamo diretti a Genova; poi nel pomeriggio giunse notizia elle forse gli Alleati erano sbarcati proprio a Genova e che la nostra destinazione era Novi Ligure passando dal Passo della Scoffera. Intanto la marcia proseguiva senza inconvenienti. L'unico incidente di cui venimmo a conoscenza fu che un reparto della Decima fece un'incursione a Santa Margherita Ligure dove, dal balcone di un Albergo, sventolava una bandiera rossa appaiata ad una bandiera spagnola. Si trattava di una cantonata da parte di un colonnello spagnolo antifranchista che, con intempestiva decisione e probabilmente male informato, aveva antici­pato i tempi. Pensando di essere oramai al sicuro, aveva esternato la sua idea di parte esponendo le bandiere con il risultato di vedersele bruciare e di diventare a sua volta prigioniero proprio dei suoi specifici nemici. Che fine abbia l'atto nel caos di quei fatidici giorni non l'ho mai saputo. Giungemmo a Recco verso mezzogiorno. Il paesaggio era una distesa di macerie e case distrutte. II viadotto ferroviario che attraversava con alte arcate la valle sopra l’agglomerato urbano aveva provocato una serie di bombardamenti aerei tesi ad interromperne l'utiliz­zazione ma contemporaneamente ne aveva fatto le spese l'intera città.
Ci assestammo un paio di chilometri oltre sulla strada per Uscio.
Una strana pace era sopravvenuta intorno a noi ma si percepiva un'atmosfera densa di incognite. Nel pomeriggio ci raggiunsero finalmente notizie sicure ed altrettanti ordini. Genova era stata occupata e la destinazione era verso Nord dove avremmo dovuto riunirci al grosso dell'Esercito Repubblicano per orga­nizzarne il nuovo fronte di guerra nella zona di Serravalle Scrivia. Al reparto a cui appartenevo venne assegnato il compito di retroguardia. Assistemmo al pas­saggio di tutte le forze componenti la colonna in ritirata verso Uscio. Si trattava in tutto di circa 12.000 uomini di varie armi, tedeschi compresi. Molti automez­zi e pezzi di artiglieria leggera distribuiti lungo tutta la colonna.
Mi meravigliò il fatto che l'aviazione alleata non intervenisse con bombardamenti dal cielo. Noi avevamo impiegato il pomeriggio ad assestarci su una linea di eventuale difesa verso ipotetiche forze nemiche che potessero risalire la valle e minacciare il ritiro della colonna. Rimanemmo nelle postazioni assunte in una attenta attesa carica di tensione ma nulla accadde.
Un profondo silenzio ci circondava e solo lontano, verso la costa nella sera, udivamo di tanto in tanto, delle esplosioni segnale evidente che da qualche parte si combatteva. II giorno successivo, 26 aprile. cominciammo a muoverci al segui­to della colonna. Al nostro fianco un plotone di Marò della San Marco si alter­nava a noi nello spostamento. Tutto andò liscio fino alla tarda mattinata poi, improvvisamente, alle nostre spalle un sordo rumore di cingolati in movimento ci fece presagire quello che temevamo. Nell'arco di una mezzora potevamo vedere, nitidamente lungo i tornanti più a valle dietro di noi una fila di carri armati che ci seguivano. Un reparto corazzato alleato era a non più di un chilo­metro da noi. Gli ordini erano perentori. Fermare il nemico ad ogni costo. Un reparto di guastatori della San Marco ci raggiunse con automezzi leggeri trai­nanti carrelli colmi di esplosivi e razzi anticarro tipo Panzerfaust.
La situazione mi eccitava. L'imminenza della battaglia mi galvanizzava e, memore del corso di guastatore fatto alla Nembo, mi misi a disposizione. Dei 12 componenti la mia squadra non tutti erano eroi. Mi resi conto di timori e dubbi da parte di qualcuno e così decisi in proposito. Fermo restando l'obbligo di presenza da parte del mitragliere Bona e del portamunizioni Abate lasciai agli altri la libertà di scegliere chi voleva restare con me. Il fedelissimo siciliano Patetta, il napoletano Moresco, i milanesi Panetti e Tanzarella ed il torinese Barbetta restarono. Gli altri con il caporale Chiapponi proseguirono per rag­giungere la compagnia. Iniziò un'attività frenetica nella scelta delle posizioni da cui far partire i razzi prevedendo nel contempo la possibilità di ritirata. La copertura doveva essere garantita dal mitragliere Bona per cui venne scelto uno sperone dominante sul quale ricavare la piazzola per la mitragliatrice. Distribuii gli altri nei punti strategici della strada e specificatamente ad ogni curva muniti di razzi e bombe a mano.
I guastatori della San Marco provvedevano a minare ogni ponticello o punto critico che potesse bloccare la strada. L'attesa non fu lunga.
Il primo mezzo corazzato sbucò dalla curva precedente una mezzora dopo a circa trenta metri da noi. L'emozione fu fortissima. Non avevo mai visto prima di allora un carro armato così grande. Mi sembrava una casa in movimento. Vidi nitidamente la stella circolata dell'esercito americano ed i numeri di matri­cola scritti sulla corazza. Partirono due razzi ed uno lo prese in pieno nel cingo­lo bloccandolo. Erano circa le ore 13. Non avevamo nemmeno mangiato perchè ci era mancato il tempo ma avevamo avuto il primo successo. La strada era stretta e non permetteva ad altri carri di proseguire per cui, con relativa calma, arretrammo alla curva successiva. La botta forse inaspettata aveva bloccato l'a­vanzata dei carri e ne approfittammo per mangiare qualcosa a turno.
La reazione non tardò. Una serie nutrita di colpi di cannone e di mortaio arrivarono. II dosso ci proteggeva abbastanza. Venne l'ordine di arretrare mentre con­temporaneamente l'esplosione di una mina posta dai guastatori faceva franare a valle un pezzo di strada. Fino oltre le 15 i carri restarono fermi e solo i mortai continuarono a sparare senza danni da parte nostra trovandoci fuori tiro. Nel cielo si profilò una squadriglia di cacciabombardieri che in picchiata sganciaro­no bombe ma ben oltre le nostre postazioni. Probabilmente il loro obiettivo era più a monte verso il grosso della colonna. Altre squadriglie seguirono e per tutto il resto del pomeriggio fu un inferno ma noi eravamo al sicuro. Trovandoci molto vicino alla testa della loro colonna non correvamo il rischio di essere col­piti e le esplosioni avvenivano lontano. Non potemmo fare a meno di considera­re che, scegliendo il maggior pericolo del contatto diretto con le loro forze, fummo invece beneficiati dai bombardamenti.
Il volume delle esplosioni e del fuoco contraereo che si udiva ci faceva presagi­re l'intensità della battaglia che avveniva. Da parte nostra continuò il lento ripiegamento continuando a minare ed a far saltare ogni punto idoneo della stra­da. Fu solo verso le 16 che riudimmo i motori dei mezzi corazzati in movimen­to. Non era facile avanzare.
I danni provocati da noi alla strada erano gravi e potevamo stare abbastanza tranquilli inoltre, la botta ricevuta, sicuramente consigliava loro la prudenza. Nessun movimento di fanteria a piedi era segnalata dalle pattuglie nel bosco fuori strada ed il resto del pomeriggio trascorse per noi positivamente.
L'incognita era il sopravvento del buio per cui, oltre una valletta che ci dava il vantaggio della posizione, scavammo delle postazioni preparandoci a pernottare con i lanciarazzi a fianco. Le ondate dei cacciabombardieri cessarono all'im­brunire. Le notizie che ci pervennero dal Comando erano gravi. Il bombarda­mento era stato pesante ed i danni subiti rilevanti con un numero imprecisato ma alto di vittime. Alcune ore trascorsero nella relativa calma che ci permise persino un po' di riposo e di sonno. Purtroppo, verso le 23, il bombardamento riprese. Erano cannoni che sparavano con un volume di fuoco spaventoso. Sopra le nostre teste era continuo il sibilo dei proiettili di artiglieria che andava­no a colpire oltre le nostre postazioni. L'inferno di fuoco senza interruzioni con­tinuò fino alle prime luci dell'alba successiva. Per. tutta la notte non furono pos­sibili contatti con il comando a causa dell'intensità del fuoco d'artiglieria ed il fumo acre delle esplosioni ci prendeva la gola.
Verso le 6 del mattino del 27 aprile mandai Moresco al comando per riferire ed avere eventuali ordini. II tempo era uggioso e grigio, nuvole basse avvolgevano il paesaggio 'riducendo la visibilità a poche centinaia di metri, un'umidità inten­sa impregnava gli indumenti ed arrivava fino alla pelle facendoci rabbrividire ma in compenso ci garantiva una certa immunità non potendo essere visti dai ricognitori. La calma era assoluta e, dopo l'inferno del bombardamento nottur­no, persino quasi irreale.
Una sensazione di timorosa apprensione catalizzava i miei pensieri e mi incute­va un senso di attesa di qualcosa di indefinito.
Mi dedicai al controllo delle armi dei miei soldati parlando cordialmente e scambiando con loro le varie impressioni del momento. Il morale era alto ma in tutti esisteva una certa preoccupazione per l'immediato futuro. Approfittando del turno di guardia a cura dei Marò ci preparammo la frugale colazione con i viveri di conforto personali. A Chiavari, in previsione della marcia di trasferta, erano state distribuite le razioni individuali e per svuotare i magazzini ed alleggerire il carico degli scarsi automezzi. le dotazioni furono abbondanti. Coperti dalle nuvole potemmo persino accendere un bel fuoco per scaldarci e su cui preparare quello che chiamavamo caffè ma che in realtà era surrogato d'orzo. Verso le ore 7 Moresco tornò con cattive notizie, gravi oltre ogni possibile pre­visione. Il bombardamento aveva decimato il contingente preso in pieno da ore di fuoco e senza ripari validi. La conca di Uscio era diventata la tomba per molti nostri compagni che, in una notte di concentrazione di centinaia, forse migliaia di tiri di artiglieria, non avevano avuto scampo.
I reparti si erano sbandati ed il caos era generale. Aveva rintracciato solo un Tenente della Compagnia Comando che però non poteva dare disposizioni essendo in corso un tentativo di riorganizzazione. In attesa di nuovi ordini la responsabilità era sulle mie spalle ed a me spettavano le decisioni. Le notizie si accavallavano di momento in momento e tutte pessime. Appena arrivava una notizia, prima di ogni e qualsiasi decisione ne giungeva una nuova. Dai Marò della San Marco arrivò la più grave. Davanti a noi, verso la valle Scrivia dove eravamo diretti, il territorio era già occupato da truppe nemiche e per proseguire dovevamo aprirci la strada combattendo. Anche dalla parte della vai Trebbia le informazioni erano simili tanto che prese forma la realtà del momento "Eravamo circondati!" La parola "resa" non faceva parte del nostro vocabolario ed inoltre, fra le varie notizie, ci era giunta anche quella che, oltre il Po, la Repubblica Sociale era ancora compatta e dovevamo tentare di arrivare là. Ordinai ai ragazzi di tenere pronti gli zaini affardellati per ogni e qualsiasi deci­sione di spostamento urgente e decisi di recarmi personalmente al Comando. Giunsi nel posto dove doveva trovarsi il Comando verso le 8.30 chiedendo informazioni ai vari reparti incontrati. Alcuni alti ufficiali erano raccolti in un boschetto in Consiglio.
II tempo era ancora pessimo ed aveva ripreso a 'piovere. Mi presentai al tenente Steiner che, malgrado il suo cognome tedesco, era italianissimo: parlava con la erre moscia e con un forte accento bresciano. Da lui seppi che, fin dal primo mattino, dalla parte del Passo della Scoffera vi era stato un contatto di trcaua con le forze nemiche americane che ci avevano proposto la resa. Capii il perchè di quella calma, prima inspiegabile, elle regnava intorno. L'idea della resa non voleva proprio entrarmi nel cervello. Un senso di rivolta e di rabbia mi prese e cominciai a pensare a cosa fare per non arrendermi. Non ne ebbi il tempo. Quasi immediatamente giunse l'ordine generale di tregua e che non si dovesse assolutamente sparare in attesa di nuovi ordini. Occupai il tempo facendo un giro di ricerca di Chiapponi e degli altri rna senza esito. Gruppi misti di mostrine e divise diverse si alternavano ma tutte facce sconosciute. Molto movimento da parte dei reparti della Sanità occupatissimi a fasciare ferite sotto improvvisa­ti ripari di teli da tenda tesi a riparare dalla pioggia. Eventuali morti erano evi­dentemente già stati raccolti perchè noti ne vidi in evidenza ma comunque la visibilità intorno era scarsissima. 11 terreno era un continuo susseguirsi di crateri di bombe ed alberi tranciati e scomposti a terra. Mi resi conto di quale inferno doveva essere stata la notte precedente.
Ritornai sui miei passi per non perdere l'orientamento fra la nebbiolina, la piog­gia ed il fumo di invisibili fuochi di ristoro. Anche un forte odore di cordite delle esplosioni regnava ancora sospeso nell'aria. Quando arrivai nuovamente dal Tenente appresi anche i nuovi definitivi ordini. Dopo due incontri fra' parla­mentari delle opposte forze, gli americani ci avevano concesso la resa con l'o­nore delle armi ed il nostro Comando aveva accettato. Nessuno e per nessuna ragione doveva agire impulsivamente perchè ciò avrebbe pregiudicato la vita di tutti. Avevamo avuto molte perdite e tantissimi feriti, non c'era altra alternativa che la resa con onore. lo personalmente mi sentivo molto umiliato e non riusci­vo a rendermi conto della realtà. II prossimo futuro era un'incognita che non prendeva alcuna forma come se al di là della corta visuale ci fosse il vuoto. Ritornai dai miei ragazzi quasi vergognandomi di dover riferire loro le estreme decisioni. Fui favorito dal fatto che ne erano già venuti a conoscenza dai Marò. Gli ordini erano di non sparare per nessuna ragione ma di tenere le armi. Raccolti gli zaini ci avviammo verso la conca in silenzio. Poche parole vennero scambiate nel tragitto anche perchè non si sapeva cosa dire. Ci aggregammo ad un reparto di artiglieri alpini comandati da un capitano e con loro proseguimmo la marcia. Non c'era possibilità di rintracciare la nostra compagnia. Nella tarda mattinata giungemmo ad uno spiazzo dove alcuni ufficiali disponevano i vari reparti alla resa. Ci dissero di tenere le armi ma di renderle inutilizzabili rom­pendo i percussori o deformando, con colpi di pietra, il settore di caricamento o la canna. Procedemmo a questa operazione secondo gli ordini ma confesso che un grosso nodo di pianto mi gonfiava la gola. Quelle armi, sempre tenute così pulite, ora venivano violentate da noi stessi. Era inconcepibile ma reale. Il mio mitragliatore prima e la pistola poi, vennero resi inutilizzabili. Che pena. quella pistola, una P.38 assegnatami con la nomina a sergente, non mi aveva mai lasciato.
Era tanto per me. Un simbolo, la sicurezza; l'emblema del comando. tutto! Quel che restava era solo una profonda tristezza piena di incognite. Ne approfit­tai per salutare i miei ragazzi. E' vero. Li avevo sempre chiamati ragazzi e non uomini anche se, come Patetta, avevano quasi il doppio della mia età. Erano diventati la mia famiglia. i miei fratelli, ci volevamo bene. Ci abbracciammo tutti ed in quell'abbraccio stretto. commovente e profondo sentii tutto il rispet­to e l'affetto che mi avevano sempre portato con ubbidienza e disciplina. Sentii la stima ed il ringraziamento per non averli mai rimbrottati nè richiamati con cattiveria ed alcune lacrime dicevano anche molto di più.

QUANDO I DELINQUENTI ASSURGONO AL POTERE

Fummo inquadrati in ranghi ordinati e passammo davanti ad un reparto ameri­cano schierato che ci onorava presentando le armi. Subito dopo buttammo le nostre armi in una valletta alla rinfusa sotto gli occhi vigili di controllori milita­ri americani. Era la prima volta che mi trovavo faccia a faccia con uomini con divise tanto diverse dalle nostre e soprattutto con una maggioranza di uomini di colore. Mi sembrava irreale, incredibile, eppure era vero, quegli uomini ci ave­vano vinti. Non li avevo mai immaginati così i nemici ma soprattutto non avevo mai pensato che potessero vincere. Non ebbi molto tempo per fare delle consi­derazioni. Pochi metri oltre il punto dove avevamo buttato le armi un folto gruppo di energumeni di colore ed in divisa, con la minaccia di una pistola, si impossessarono di orologi, catenine e qualunque oggetto di valore avessimo e poi, un secondo gruppo, ci strappava dalle spalle gli zaini che venivano ammuc­chiati su degli autocarri senza darci né il tempo né la possibilità di recuperare eventuali oggetti personali contenuti in essi. Ma forse era proprio questo che volevano; impossessarsi di eventuali valori. Quei vincitori esercitavano l'incivi­le medioevale diritto di preda. Fu un tremendo "choc" per tutti. Il modo violen­to usato e l'appropriazione barbara di cose a noi care fecero nascere in ognuno di noi un violento odio per quegli uomini. In un attimo fu distrutto il rispetto per quella divisa, rispetto che era sorto nel momento dell'onore delle armi e con esso veniva meno anche l'orgoglio, la fede e l'onore lasciando posto ad una profonda e sordida rabbia. A distanza di tempo penso che l'immagine della civile America, in quei momenti, abbia perso molto vanificando anni di propa­ganda democratica. Quello che era avvenuto era una vera e propria rapina, vio­lenta ed incivile, che richiamava alla mente lo storico "Vae victis" in versione peggiore perchè almeno Brenno era un barbaro e non aveva, pretese di portatore di civiltà, libertà e giustizia. Da quel momento iniziava iI nostro calvario. Le violenze ed i soprusi erano senza limiti, venivamo considerati solo bestie e come tali trattati. Non avevamo mangiato nulla dal mattino ed erano forse le prime ore pomeridiane. Eravamo ammucchiati in uno spiazzo fangoso, sotto la fitta pioggia, guardati da soldati armati con tutta l'aria di sparare al minimo segno di rivolta. Le armi, tenute pronte con due mani e sempre puntate su di noi non lasciavano dubbi in proposito. Forse un'ora più tardi, evidentemente finite le operazioni di resa, venimmo incolonnati ed iniziò la marcia che, nel tardo pomeriggio per il gruppo a cui appartenevo, si concluse nel campo sportivo del paese di Ferrada. Evidentemente, dato l'alto numero dei prigionieri, eravamo stati divisi in vari gruppi. .
Non ricordo chi, successivamente in prigionia a Coltano, mi disse che i super­stiti della conca di Uscio furono 3.500. Eravamo 12.000. Che fine avevano fatto gli altri? Morti? Riusciti a fuggire? Chissà! Nessuno mai si interessò di noi e della nostra odissea. Eravamo solo bestie e, per. i governi d'Italia del primo dopoguerra, anche peggio. Nel campo di Ferrada, poco dopo. il nostro arrivo e con il beneplacito dell'Autorità Militare americana che ci aveva in consegna, entrarono vari gruppi di partigiani con tanto rosso addosso, armati più di odio e malvagità che di armi proprie. Giravano in mezzo a noi scegliendo chissà con quale criterio, alcuni prigionieri in prevalenza ufficiali e graduati. Ebbi la sven­tura di essere scelto, forse perchè sergente; forse perchè li avevo istintivamente guardati con disprezzo. Fummo fatti uscire fra l'indifferenza dei militari di guardia e spinti verso il paese dove, a cura di una moltitudine di uomini ed anche donne, avvinazzati ed ubriachi, subimmo il primo di una lunga serie di linciaggi nel nome della civiltà comunista. Non avevo ancora; venti anni ma da quel momento, e per tutto il resto della mia vita, imparai ad diare profonda­mente i comunisti e visceralmente il Comunismo.

Era questa la nuova Era che si apriva all'umanità? Erano questi i vincitori? Che desolazione! Molto meglio la morte tanto desiderata dall'inizio dell'iniquo castigo a cui ero sottoposto. Per nostra fortuna la giornata era alla fine ed il buio incombeva anticipato dalla giornata piovosa e dal cielo di piombo e con il buio diminuirono anche le violenze e le angherie probabilmente perchè, data l'ora, il gruppo di carcerieri si era ridotto notevolmente. Eravamo nelle mani di una Brigata Partigiana che, mi era sembrato di ,capire, si chiamava Stella Rossa. Alcuni degli uomini che ne facevano parte indossava capi militari, giacche gri­gioverdi camicie e pantaloni alla zuava, ma non erano ex militari. Niente nel loro comportamento denotava un passato inquadramento nell’esercito. Fra loro non notai nessuno che avesse particolare autorità sugli altri, anzi, erano frequenti le intolleranze ed i reciproci insulti e liti. Eravamo rinchiusi in un locale che probabilmente era abitualmente adibito a magazzino. Un forte odore faceva supporre la vicinanza di una stalla ed un fienile. Il pavimento era di spesse assi di legno per fortuna asciutto così da attenuare il freddo ed i brividi che provocava l'umidità dei nostri abiti zuppi di pioggia. Dal mattino eravamo digiuni; nes­suno si era curato di provvedere in merito, ma al confronto delle violenze subi­te, la pancia vuota era il male minore. Stavamo al buio perchè il locale era privo di illuminazione e solo di tanto;in tanto venivamo inquadrati nel fascio di luce di una torcia elettrica che l'addetto alla nostra sorveglianza puntava su di noi attraverso una finestra priva di vetri ma dotata di una robusta inferriata. li buio inoltre ci impediva reciproche conoscenze o scambi di parole.
Solo lamenti ed; imprecazioni ed una cieca ricerca di una posizione sul pavi­mento per riuscire a riposare. Non ci era nemmeno possibile sapere quanti fos­simo. Finiva una giornata, sinceramente la peggiore di tutta la nostra vita passa­ta. Il giorno precedente nessuno,. di noi avrebbe potuto immaginare la tragicità degli avvenimenti che si erano accavallati in tale quantità ed in così breve spa­zio di tempo. Era il 27 aprile dell'anno 1945. Al mattino eravamo uomini, sol­dati, forti sani e dotati di personalità e dignità. Alla sera ci ritrovavamo ridotti al livello di animati torturati, umiliati, privati di ogni diritto in balia di individui barbari e violenti. Alle prime luci dell'alba del 28 aprile il mucchio informe sul pavimento cominciò ad agitarsi. Finalmente potevamo guardarci in faccia e sgranchirci gli arti senza scalciare qualcuno come era successo nelle ore nottur­ne. Qualcuno non aveva dormito per niente ma la maggior parte qualche sonnel­lino era riuscito a farlo. Io avevo alternato il profondo stato di agitazione in cui mi trovavo a brevi periodi di sonno continuamente interrotto dai movimenti dei vicini o dagli interventi di controllo dei nostri carcerieri. II pensiero correva alle cose che in quei particolari momenti avevano acquisito enorme importanza. La famiglia, la mamma, le sorelle, i tempi della scuola ed i volti delle persone che avevano significato qualcosa nella nostra vita. Purtroppo difficilmente riuscivo a completare con l'immaginazione il corso dei ricordi. Qualcosa sempre sopraggiungeva ad interromperli. Mentre, nel primo chiarore del mattino, mi rendevo conto dell'ambiente e delle persone che mi circondavano fui interpella­to da un capitanò della X MAS che mi chiese quanti anni avessi e da dove pro­venissi. Era anche lui lombardo di Pavia e dimostrava circa 40/45 anni. Mi rivolse alcune frasi buone e paternalistiche soffermandosi a notare, con ramma­rico e dispiacerei la mia giovane età alla luce della tragica situazione. Fu allora che mi resi conto come tutti gli individui intorno a me fossero più avanti negli anni. Ero l'unico giovanissimo in quel frangente. Tutti, nelle ore successive, mi trattarono con affettuosità e ciò mi fu di grande consolazione e stimolo.
Con il sopravvento della luce del giorno iniziò un fitto scambio di parole ed opinioni. Era comunque convinzione generale che per noi non esistesse futuro. La sete era generale perchè anche l'acqua mancava. Un sergente della Divisione Littorio, che aveva subito particolari violenze a causa della sua divisa, con il volto tumefatto, un occhio completamente nero gonfio e chiuso e l'altro appena in fessura, al primo apparire di due partigiani venuti a controllare chiese del­ l'acqua ed in cambio ottenne un calcio nella pancia ed una: serie di insulti.
L'ultima acqua che avevamo bevuto era quella della pioggia che ci era arrivata in bocca il giorno prima e le numerose ferite ed ecchimosi di fui eravamo tutti coperti accentuavano la sete. Il capitano di Pavia, che si chiamava Rossetti, prese l'iniziativa di organizzare e mettere un po' d'ordine. Era l'unico ufficiale di grado superiore presente fra noi oltre un sottotenente. Particolare strano che i partigiani entrati nel campo di Ferrada non ne avessero scelti di più ma la spiegazione venne proprio per bocca del capitano. Non ne avevano trovati altri per­chè gli americani avevano dirottato tutti gli ufficiali in un gruppo a parte mentre il capitano Rossetti ed il sottotenente Viale, per loro scelta e disgrazia, rimasero con i loro soldati. Dal breve censimento effettuato risultò che solo una decina di noi, me compreso, erano sottufficiali. Gli altri tutti graduati e truppa con preva­lenza di Milizia, X Mas, e Div. Littorio. Di alpini, oltre a me, solo un caporale della Compagnia Servizi. Analizzando la qualità del gruppo il riscontro era che nessuna personalità di spicco esisteva e si trattava solo di povera gente in divisa.
Se, come si presumeva, i partigiani ci avevano preso per darsi importanza, per esibizione o per vendetta, il risultato non era certo lusinghiero per loro: avevano fra le mani uomini qualsiasi senza particolari posizioni o colpe. Ma evidente­ mente, come avevano dimostrato sino a quel momento, i nostri carcerieri erano di livello molto basso, sia socialmente che di intelligenza, dimostravano solo ottusità, comportamenti volgari e violenti, grande cattiveria e mancanza assolu­tá di qualsiasi barlume di civiltà. Nessuno di loro aveva cercato un sia pur mini­mo colloquio con noi e da quando ci avevano prelevato non ci‑ era stato dato né cibo, nè acqua ed a quel punto erano trascorse oltre 24 ore dall'ultima frugale colazione. Di tanto in tanto, oltre l'inferriata si affacciava qualcuno, donne e ragazzi in particolare che, dopo un'occhiata curiosa, si allontanavano ridendo.
Non ho mai capito quale ilarità potesse creare la vista di uomini pesti e laceri come eravamo noi. Il tempo era relativamente migliorato, non pioveva ma il cielo era denso di nubi. Qualche breve e debole raggio di sole compariva a tratti subito sopraffatto dal grigiore. Più avanti nella mattinata finalmente qualcuno si fece vivo. Preceduto da particolare animazione e grida la porta venne aperta e con un gruppo di partigiani armati, fece il suo ingresso un tipo che aveva l'aria del capo. Aveva un cinturone da ufficiale ed una pistola nel fodero, era degnato di rispetto dai suoi uomini e, prima di parlare, girò a lungo l'o sguardo su tutti noi. Chiamato, il capitano Rossetti si fece avanti ed iniziò uno scambio di domande e risposte. II colloquio fu breve e freddo, le parole più usate dall'inter­locutore furono: "Fascisti" "Assassini" "Bastardi" ed altro, concludendo con la dichiarazione che eravamo tutti "da ammazzare". L'unico lato positivo di quella visita fu che dopo una mezzora circa. la porta si aprì e ci venne distribuito del pane e dell'acqua. li pane era il classico a trattone nero delle truppe tedesche, probabilmente trovato in qualche deposito. Nelle prime ore del pomeriggio fummo fatti uscire ed incolonnati, iniziò così la marcia verso il basso che, dalle rare indicazioni stradali, era in direzione di Lavagna e Chiavari.
Il primo paese che superammo fu Cicagna e fu anche la prima dose di legnate, insulti e sputi. La cosa si ripeteva ad ogni paese che superavamo ed i nostri accompagnatori non facevano nulla per evitare il linciaggio, anzi, ridevano sod­disfatti alla vista. Lungo la strada giungemmo ad un paese che, mi pare di ricor­dare, si chiamasse Monleone.
Qui ebbi la mia personale reazione di rabbia e disgusto.
Davanti al sagrato della chiesa, circondato da uomini con fazzoletti rossi, stava, tronfio e goduto con un gran sorriso sulla bocca, il prete. Aveva anche lui, sopra la lunga tonaca nera, il suo fazzoletto rosso al collo. Rideva divertito e parlava con i vicini senza il minimo segno di commiserazione per noi, pesti, sanguinan­ti e laceri. I miéi ultimi studi li avevo fatti in collegio dai Salesiani e tonache nere ne avevo viste tante. Non ero mai stato particolarmente docile nè bigotto ma fino a quel momento avevo sempre avuto profondo rispetto per l'abito tala­re. La rabbia mi prese e senza pensare, istintivamente, giunto davanti al sacer­dote feci un passo fuori dalla fila e, guardandolo negli occhi con odio, gridai: "Dio ti stramalédica prete della malora". Non ebbi modo di vedere la sua rea­zione. Uno degli armati di scorta mi appioppò una botta terribile sul capo con la canna del fucile che teneva fra le mani e, prima che potessi rialzare la testa che avevo avvolta fra le braccia per ripararmi, avevo superato il punto di parecchio. Ricordo solo chi, nell'attimo della mia frase, il suo volto era immediatamente diventato pallido, sul suo viso una smorfia di sorpresa muta aveva preso il posto del riso. Un insistente rivolo di sangue mi scendeva sull'occhio sinistro e sulla guancia fino ad infilarsi nel collo. Qualcuno dei miei compagni mi passò un fazzoletto col quale cercai di tamponare la ferita. La marcia proseguì fra le peg­giori angherie che mente umana potesse partorire. Quando, nel tardo pomerig­gio, giungemmo sulla costa, quello che avevamo già subito era nulla in confron­to a quanto dovémmo ancora subire. Ci fecero passare in lunga fila, fra ali di energumeni picchiatoti pieni di cieco furore, vere e proprie forche caudine, noi potevamo solo cercare di ripararci dalle botte che arrivavano senza interruzione ed in ogni parte del corpo. Pugni, calci, colpi con oggetti vari, le donne con gli zoccoli, sputi, insulti feroci, sassate e legnate nelle gambe. Durò forse mezzora quel calvario ma sembrò senza fine. Quando finalmente ci fecero entrare in un campo sportivo finì quell'infernale bolgia. In quel campo esisteva una vasca con un rubinetto che erogava acqua a volontà e potemmo tutti dissetarci e lavare le ferite. Circa un'ora più tardi ci fecero ammucchiare in piedi in un angolo e ricevemmo la sgradita visita di una specie di brutta copia di un commissario bolscevico con tanto di giacca di pelle nera e cinturone. pistola alla vita, mitra a tracolla ed immancabile fazzoletto roso. Con tanta arrogante prosopopea e boria ma con poche parole frammiste ad insulti ci comunicò che il giorno suc­cessivo saremmo stati processati dal popolo e condannati. Mi rimase impresso quello sguardo bieco e cattivo particolarmente perchè si capiva che era una per­sona colta, dalla parola forbita che però contrastava con quéll'aspetto di boia truce che rappresentava. Senza mezzi termini ci annunciò già l'esito della con­danna che sarebbe stata emessa il giorno successivo. Condanna a morte per tutti. Molti anni dopo, negli anni ottanta, seguendo le cronache sulle brigate rosse alla televisione sono quasi certo di averlo riconosciuto nella persona del­l'avvocato Lazagna, coinvolto marginalmente in quell'inchiesta. Quel giorno finì con il nostro trasferimento nella soffitta di una scuola senza minimamente altro cibo.

29-4-45 IL CALVARIO DELLA GIUSTIZIA ROSSA

Eravamo stati ammucchiati, la sera precedente. in un sottotetto al secondo piano di un edificio scolastico dopo aver subito le peggiori angherie che esseri umani potessero immaginare. Le violenze minori erano le percosse ricevute da donne che si accanivano a zoccolate sulle nostre teste. Colpi con il calcio dei fucili, calci negli stinchi, e nei testicoli che. oltre al dolore. lasciavano delle profonde abrasioni sull'interno delle cosce. Colpi di coltello che pur frenati dagli indu­menti, lasciavano ferite sanguinanti. Pugni dove capitava e quelli che raggiun­gevano il ventre lasciavano chi li riceveva senza fiato. Così, dopo le forche cau­dine del passaggio fra due ali di folla impazzita ed urlante, eravamo giunti alla relativa pace di quel sottotetto. La notte era trascorsa insonne, nessuno era riu­scito a dormire in:quelle ore che, era ormai certo, erano le ultime che ci restava­no da vivere. Io me ne ero rimasto quasi sempre,rannicchiato con la schiena contro il muro e con i pensieri che correvano a ricordare i momenti più signifi­cativi della mia breve ma intensa vita passata.
Non ricordavo nulla da rimproverarmi o fatti di cui pentirmi. La mia giovinezza era limpida e colma di valori spirituali e di profondo amore per quella Patria che, in quei momenti angosciosi, reputavo ormai finita, preda di traditori, delin­quenti e nemici della civiltà che, come sciacalli, pasteggiavano sui resti di un corpo non vinto da loro ma dalla potenza di altre nazioni. Oramai non esisteva più, per noi, la possibilità di vivere per cui nulla e nessuna speranza albergava nel mio cuore per il futuro.
Davanti a me esisteva solo il vuoto, il nulla. Tutto questo e tante altre conside­razioni mi facevano accettare fatalisticamente e senza recriminazioni la soluzio­ne tragica della morte che, da li a qualche ora, sarebbe sopravvenuta. L'unico pensiero che mi portava alla commozione era quello di mia madre e delle mie sorelle. Mi mancava solo la possibilità di riabbracciarle e baciarle per l'ultima volta e poter rivolgere loro le mie ultime parole d'amore. Ogni qual volta que­sto pensiero mi assillava lo scacciavo per non essere preso dalla debolezza dello spirito. Ero forte e deciso a morire con orgoglio senza mostrare alcun segno di cedimento e con il massimo disprezzo per i carnefici.
La luce del mattino ci annunciava il nascere di un giorno tragico ed il tempo accompagnava ]'imminente tragedia con una pioggerella fitta ed un ciélo plum­beo. Che ora fosse non era possibile sapere perchè nessuno possedeva più un orologio. La rapina subita, dopo la resa, non ci aveva lasciato nulla. Gli pseudo liberatori avevano giustificato tale definizione liberandoci di ogni cosa avesse valore. orologi, catenelle, soldi ed anche indumenti tanto che molti erano preda a brividi di freddo trovandosi con la sola canottiera.
II tempo trascorreva veloce ed ogni qualvolta la porta si apriva il battito del cuore accelerava reputando giunto il momento fatale. Invece quella porta si aprì molto frequentemente per introdurre individui armati con vistosi fazzoletti rossi al collo che ci passavano in rassegna alla ricerca forse di qualche viso noto. II loro comportamento era violento e persecutorio proprio come ricordavo di avere visto al cinema nelle pellicole sulla rivoluzione russa e sulla guerra civile spagnola. Francamente mi meravigliai che nessuno riconoscesse me in partico­lare dato che, per due mesi, ero stato il comandante proprio di "Marina III°` a Cavi di Lavagna ed a Lavagna ero abbastanza noto. Più tardi, nel calvario della piazza. guardandomi riflesso nello specchio che faceva da spalla ad un negozio di barbiere, mi resi conto del perchè. lo stesso quasi non mi riconoscevo. Il viso tumefatto, gli occhi gonfi quasi chiusi, un fazzoletto annodato) sulla fronte per fermare il sangue che colava sugli occhi ed i numerosi lividi mi avevano cam­biato i connotati. Forse questo mi aveva salvato da ulteriori torture da parte di qualche giustiziere di turno, dato che, oltre tutto. ero privo dà giacca e con i pantaloni strappati e, forse, ero talmente conciato da fare pietà anche a dei boia.

L'attesa del peggio si prolungava nella mattinata.

Il tempo era migliorato e non pioveva più. Dall'esterno ci giungevano lontane le urla e gli schiamazzi della folla ed un altoparlante che alternava frasi urlate a musiche da ballo. Dall'unico finestrotto piccolo circolare che' dava un po' di luce al locale si vedevano solo altri tetti. Venne purtroppo il momento che pre­cedeva la nostra fine.
Fra tutte le ipotesi fatte la notte precedente aveva prevalso la convinzione, ester­nata da un ufficiale della X MAS che si era anche preso l'incarico di contarci, che ci avrebbero fucilati probabilmente sulla spiaggia a ridosso della massiccia­ta ferroviaria dove esistevano anche delle fortificazioni antisbarco in cemento. Eravamo esattamente 51. Ci fecero uscire in fila indiana con sghignazzate di scherno, insulti e bestemmie. Scendendo le scale qualche calcio nella schiena faceva rotolare lungo la rampa il malcapitato che lo riceveva. Giunti sulla strada si ripeteva lo spettacolo del giorno prima. Due ali di folla urlante con uno stretto passaggio al centro. In fila indiana si percorreva quel calvario. lo, per caso, fui tenuto fra gli ultimi e questo forse mi risparmiò più forti percosse essendosi, la folla, già sfogata e stancata con i primi. Giunsi così sulla piazza della cittadi­na antistante il mare dove, macabra sceneggiata, alcuni tavoli erano posti al centro e sopra i quali, uno alla volta, veniva fatto salire il malcapitato del momento. Una pseudo giuria composta da individui con camicie rosse, fazzo­letti rossi, armi in mano od a tracolla, senza minimamente conoscere il nome o menzionare accuse chiedeva solo alla folla il giudizio che invariabilmente era sempre lo stesso,; urlato dai presenti. A MORTE! A MORTE!.
Questo era ciò che in seguito fu definito "Tribunale del Popolo". Ma il popolo era veramente quèllo? Nella piazza erano presenti mille forse più persone, tutte con qualcosa di rosso addosso. Ricordo che qualche pezzo di tela rossa rettan­golare sfilacciata su un lato denotava di essere stata strappata da una bandiera tricolore di cui interessava solo la parte rossa. Povera Italia. La folla presente non poteva rappresentare l'Italia ma solo una piccola parte, sanguinaria e colo­rata, che però prevaricava e dimostrava con la violenza e le minacce, la propria appartenenza alla; peggiore ideologia politica.
In quei giorni violenti, il popolo buono, il popolo onesto e civile non scendeva in strada per non essere vittima, a sua volta, della furia rossa. Così fummo, tutti senza eccezioni condannati a morte. Ed ogni condannato, dopo la sentenza, veniva consegnato a due partigiani armati che facevano la fila, a due a due, in attesa del perverso piacere di poter avere il patriottico incarico di uccidere un odiato nemico. Alche nella piazza fui fra gli ultimi a salire sul tavolo senza una specifica ragione. Forse perchè molto giovane e la precedenza veniva data ai più avanti negli anni presumendoli più colpevoli. Mentre si svolgeva il macabro rito ed attendevo il mio turno a suon di ulteriori botte, sputi e violenze, udivo, dalla spiaggia, le detonazioni che significavano la morte di chi mi aveva preceduto. Ogni condanna richiedeva pochi minuti ma, dato il numero, forse erano tra­scorse un paio d'ore e presumo fosse circa mezzogiorno. Per gli ultimi, forse per stanchezza o noia, il tempo di condanna veniva accelerato e si arrivava, pre­sumo, ad un minuto a testa. il successivo veniva fatto salire sul tavolo prima ancora che il precedente fosse sceso ed il grido A MORTE non aveva interru­zione ed era diventato una tragica cantilena. Quando venni spinto verso la panca che faceva da scalino ai tavoli mi resi conto di essere il quartultimo. L'urlo A MORTE gridato per me non mi fece grande impressione, oramai era fatale ed atteso é le spinte ed il brevissimo tempo impiegato per la condanna non mi permisero alcuna considerazione o reazione. Mi presero in consegna per l'esecuzione due partigiani molto diversi fra loro. Uno giovane, muscoloso, pochi anni oltre i miei diciannove. dotato di molta prosopopea e volontà di esi­birsi come eroe giustizialista, lo chiamavano Tino; l'altro di mezza età, magro. taciturno e con uno sguardo indifferente. Forse anche fra i giustizieri i peggiori avevano preso il sopravvento e la precedenza così a me, erano,rimasti i medio­cri. Fui portato verso un angolo della piazza dove il giovane voleva esibire la sua vittima ad alcune ragazze ed amici posando a eroe vincitore ed invitando chi voleva. a sfogare su di tue l'odio verso i fascisti vinti. La sosta in quel luogo si prolungò un poco perchè il più arziano dei due si allontanò dicendo che andava a bere un bicchiere e sarebbe tornato subito lasciandomi in balia del giovane. Non lo vidi più, gli eventi precipitarono di li a poco con la comparsa di un prepotente energumeno, forse ubriaco, assetato di odio e di sangue e pieno di boria che fendendo la folla intorno. mi si parò davanti con un mitra fra le mani urlando "questo lo ammazzo io" e mi puntò violentemente la canna del mitra sullo stomaco facendomi mancare il respiro. Con l'aria del primo attore della commedia mi disse "Hai niente da dire prima che ti ammazzi? In quel momento mi resi conto che era giunta la mia ora e proprio perchè oramai rassegnato ebbi un attimo di debolezza chiedendo di poter scrivere a mia madre. La risposta fu "Ai bastardi fascisti questo non è possibile". Per reazione, mi prese una profonda rabbia e gli urlai tutto il peggio che conoscevo "vigliacco" "porco" "traditore" "bastardo" “figlio di puttana" ed altro aspettandomi la raffica che avrebbe posto fine alla mia vita. Lo vidi diventare paonazzo e tremare di rabbia e forse era veramente un vigliacco o forse temeva, data la vicinanza, di colpire altra gente per cui, sollevato il mitra a due mani, me lo diede in testa con tutta la sua forza. Una botta tremenda. Caddí per terra e lui continuò la sua opera prenden­domi a calci rabbiosi. Ogni calcio sul mento mi faceva battere.la testa contro il muro della casa tanto che ricordo solo i primi calci dolorosi, i successivi li sen­tivo come ovattati nel sonno. Ero svenuto o forse già più morto che vivo. Non so quanti calci presi e quanto tempo passò, presumo non tanto. Quando ripresi i sensi mi resi conto che un militare americano di colore mi sorreggeva e mi caricava su un gippone mentre un suo compagno, pistolone alla mano, teneva a bada gli esagitati minacciando di sparare. Non ho avuto modo di ringraziare i miei salvatori che, senza parlare, nè io riuscivo a pronunciare parole, dopo aver­mi lasciato in un ospedale da campo americano, non vidi più. Venni lavato e medicato e, dopo alcuni giorni, portato al Campo di Concentramento di S. Rossore nella pineta del Tombolo in Toscana. Forse il linciaggio a cui ero stato sottoposto aveva richiamato l'attenzione e la pietà di quella pattuglia americana di passaggio che era intervenuta salvandomi la vita.
Non so e non mi risulta che altri si siano salvati da quella carneficina. Forse io fui l'unico superstite?
Un giornale edito a Genova, in un articolo postumo sulle stragi perpetrate dalle Brigate Partigiane in Liguria, così si espresse: "ma le stragi di maggiore portata si verificarono quasi certamente nella riviera di Levante e nelle Vallate che la congiungono con le regioni circostanti. In quelle valli riposano i resti di centinaia di ufficiali e soldati delle divisioni "Monterosa" e "San Marco", mas­sacrati e sepolti in località rimaste sempre sconosciute".

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