domenica 11 maggio 2008

Prospero Freri Papà del Paracadute


Una cartolina del gruppo aerostieri del Genio: si nota la presenza di un contenitore per paracadute agganciato alla cesta dì vimini del pallone e collegato alla speciale imbragatura indossata dall'osservatore.
Caproni Pomilio 6 utlizzato nel settembre 1918 per il primo lancio di Guerra della storia del Pracdutismo mondiale


PROSPERO FRERI IL PAPA’ DEL PARACADUTE
Il 1926 può essere considerato un anno importante, se non storico, per l'aviazione militare italiana: fu infatti in quell’anno che la Regia Aeronautica omologò e rese obbligatorio il paracadute ”Salvator”. Con questo nome era stato realizzato il più compatto e sicuro paracadute italiano e forse del mondo, ad opera di un coraggioso ufficiale pilota: Prospero Freri. E’ universalmente riconosciuto che si deve soltanto alla tenacia di Freri, al suo coraggio, alla sua capacità di effettuare nel corso della carriera oltre 150 lanci con il paracadute, alcuni dei quali in condizioni veramente pericolose, se la Regia Aeronautica accelerò i tempi di adozione del paracadute per tutti i suoi equipaggi: infatti, omologato nel 1926, il "Salvator" B divenne il modello regolamentare richiesto dal ministero dell'aeronautica. Fu distribuito a tutti i reparti a partire dalla metà del 1928, e fu in quell’anno che si registrarono appunto i primi salvataggi di vite umane.


Prospero Freri era nato a Napoli il 25 marzo 1892 ed era diventato ufficiale dei bersaglieri nel 1912; successivamente aveva seguito un corso di pilotaggio e cominciò la grande guerra quale pilota di Farman, nel maggio del 1915. Due anni dopo era trasferito alla caccia, e, dopo un periodo alla Malpensa durante il quale imparò a pilotare praticamente tutti i tipi di velivoli da caccia esistenti, era trasferito in novembre in Macedonia, come tenente pilota, restandovi fino a tutto il 1918. Ed avvenne proprio in Macedonia l'episodio che lo colpì e sul quale avrebbe rimuginato per anni. Lo prendiamo dal suo libro Scendendo dal cielo: ”Al paracadute, sinceramente, non avevo mai pensato! Volavo così entusiasmato a tal punto, che mi sembrava impossibile di cadere e, quindi, l'idea del paracadute passava per la mia mente come poteva passarvi quella di farmi frate. Ma un giorno, un brutto giorno, in Albania un mio pilota veniva abbattuto dal nemico, e col velivolo incendiato precipitò da 2.000 metri sino a circa 300; qui, col gesto della disperazione per le fiamme divoratrici che lo avvolgevano, si gettò dall'ardente rogo e orribilmente cadde al suolo sfracellandosi. Se avesse avuto il paracadute! Da allora, vi pensai... “.

L'avvenimento decisivo capitò, tuttavia, quattro anni più tardi. Il 17 maggio 1921, nel cielo di Capodichino, Freri stava volando a bordo di un vecchio bimotore Caudron G4, insieme ad un motorista; ed ecco, di colpo a 1000 m di quota, l’aeroplano, forse per una rottura ai comandi del timone, cominciò a precipitare in vite. Non c'era stato alcun segnale premonitore dell'incidente e Freri si trovò di colpo ad agire disperatamente sul volante, sulla pedaliera e sugli altri comandi per cercare di rimettere in linea il Caudron; ma non fu possibile, ed il velivolo andò a fracassarsi in un bosco. Il motorista morì nell’incidente, e Freri, ferito in modo grave, decise durante la degenza di dedicarsi a studiare un tipo efficace di paracadute. «Perché» si ripeteva continuamente “se io e il motorista avessimo avuto un paracadute, avremmo potuto cavarcela”.



A quell'epoca i paracadute non erano un “oggetto misterioso”; ciò va chiarito, tanto per dare un senso alle ricerche di Freri. Il sistema di funzionamento era ben noto, e in molti casi i paracadute venivano usati con successo. All'estero molte nazioni lo avevano adottato o comunque lo stavano facendo, e, del resto, durante la guerra gli osservatori dei "palloni‑drago" disponevano di paracadute; erano ingombranti e pesanti, ma poco importava; essenziale era che ci fosse, appeso alla navicella o alla cesta di vimini. L’osservatore vi si imbarcava con lunghe cinghie e, nel caso che un caccia nemico fosse comparso improvviso ad innaffiare il pallone di proietti incendiari, si saltava fuori bordo. Ed in genere andava bene. Uscito dalla clinica, Freri si congedò dall'esercito e, trovatosi un socio, un certo Maddaluno, anche lui napoletano, costruì il primo paracadute, battezzato « aerodiscensore ». Era però un aggeggio ingombrante, difficile ad usarsi, che per di più doveva essere appeso all'aeroplano (nel caso in questione era un vecchio SVA biposto che Freri aveva acquistato con i suoi risparmi e rimesso in sesto).
L' “aerodiscensore” funzionava, certo, tuttavia il suo uso risultava troppo complicato; ma Freri continuò imperterrito a presentarlo in giro, esibendosi su campi d'aviazione ed alle manifestazioni aviatorie, e vincendo anche premi, sia lui che il socio. Con lo stesso tipo di dispositivo si lanciò nel vuoto, il 13 maggio 1923, anche una donna, la signorina Alba Russo, probabilmente la prima italiana paracadutista.
Sebbene nelle sue memorie Freri sorvoli sulla questione dei dissapori intervenuti con il socio Maddaluno, sta di fatto che ad un certo punto i due si separarono e l'ex‑pilota fu costretto a cercarsi un nuovo collaboratore che gli assicurasse la parte, diciamo così, pratica, della collaborazione. Lo trovò in un ingegnere oriundo polacco, Giuseppe Furmanik, che lo stesso Freri definisce “coinventore” del “Salvator”. Anzi, cedendo allo stile pomposo dell'epoca, Freri lo descrisse così: “Polacco di origine egli possiede la qualità fattiva e creativa del latino e la ferrea tenacia del popolo del Nord. Oggi è cittadino italiano, e con vero entusiasmo, fascisticamente svolge la sua attività nel campo delle ricerche e delle costruzioni”.

Il primo “ Salvator “, denominato poi tipo A, era simile ai paracadute già sperimentati; veniva assicurato alla fusoliera dell'aeroplano, ma, obiettivamente, le condizioni d’impiego non miglioravano. I due inventori decisero allora di studiare un modello più comodo: nacque così il tipo B, di peso ridotto (solo 6 chili e 300 grammi) che si portava imbracato sul dorso. Ogni problema era allora superato e il pilota o chiunque altro a bordo, indipendentemente dall'assetto dell'aereo, potevano lanciarsi senza difficoltà. Una fune di svincolo collegata all' aereo permetteva l' apertura automatica del paracadute dopo due secondi e mezzo, ma esisteva anche la possibilità di comandare l'apertura a mano.
Con il «Salvator» B, Freri e Furmanik si resero conto di avere in mano ciò che stavano cercando, tuttavia non fu così facile come credevano persuadere le autorità. Le esibizioni e i lanci dovettero moltiplicarsi e numerosi furono i concorsi cui parteciparono con successo sia in Italia che all' estero. Tra l'altro compirono perfino esperimenti di lancio di posta su navi da guerra da bordo di idrovolanti.

Finalmente nel 1926 l’aeronautica militare accettò il “Salvator” B e risolse il problema del salvataggio degli uomini in volo in caso di difficoltà; non cessarono però le ricerche di modelli più perfezionati e seguirono poi il C ed il D. Numerosi furono gli equipaggi salvatisi, ma ci furono anche incidenti: in uno di questi morì il generale Guidoni, che voleva sperimentare il “Salvator” e apportargli talune modifiche. Secondo Freri l' incidente fu causato da una errata manovra di Guidoni, che si aggrappò al fascio di corde chiudendolo in parte ed impedendo la normale apertura della calotta. Le polemiche che seguirono non influirono comunque sul futuro del “Salvator”, che per lunghi anni restò la garanzia più sicura per migliaia di aviatori, non soltanto italiani. I rifornimenti alla famosa “ tenda rossa “, dove si trovava Nobile, furono lanciati con paracadute dei due inventori.

Freri non sparì dalla scena. Durante la seconda guerra mondiale partecipò alla realizzazione della motobomba FFF, così chiamata dalle iniziali dei nomi dei tre realizzatori (Freri, Fiore e Filpa). “Quest'arma, veramente geniale” scrisse Igino Mencarelli in un suo libro dedicato a Freri “era munita di un grande paracadute. Appena toccata l'acqua l'ombrello si liberava automaticamente; nel contempo si metteva in moto un apparato propulsivo ad elica e l'arma percorreva in immersione, alla giusta profondità, una spirale allargata, rendendo così inevitabile l' urto contro navi od opere portuali. A distanza di un' ora dal lancio, se non aveva incontrato ostacoli, si distruggeva da sola. La motobomba venne impiegata con successo nell’ultimo conflitto contro il porto d'Alessandria d'Egitto, nel porto e nella rada di Gibilterra e contro un convoglio britannico.... su altri scacchieri bellici la usarono i tedeschi”.



Per gentile Concessione di Guglielmo Ribolla - mail to wiribolla@libero.it

1 commento:

  1. Hello! My name is Ioana, and I am a young skydiver prom Romania.
    I have decided to make a project based on the history of skydiving in Italy, concerning the evolution of parachutes as well.
    I tried to read your post on the "Salvator" parachute and his inventor, but it comes a bit difficult because it is in Italian.
    My id is mere7_mmpooc and I am waiting for an answer.

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