sabato 7 giugno 2008

Da Aviatori Italiani di Franco Pagliano "I TRECENTO DI GEBEL ABIOD"


AVIATORI ITALIANI
di Franco Pagliano


Ricordate questi nomi? Graziani, che combatté per cinque anni con una pallottola nella spina dorsale; Buscaglia, che era andato all'attacco di navi nemiche per trentun volte; Erasi, che colpì i due incrociatori Liverpool e Glasgow; Gorrini, che abbatté due quadrimotori nella stessa azione; Botto, che volava e combatteva con una gamba amputata; i due paracadutisti Daprocida e Cargnel, che in una sola azione danneggiarono numerosi quadrimotori su un campo avversario. Forse sì. ma le loro vicende appassionanti non erano mai state finora narrate o, per altri motivi, veni- vano addirittura poste sotto silenzio. Ora, tra il fiorire di tanti libri su assi della caccia o intrepidi bombardieri di altri paesi, ecco finalmente questo libro che raccoglie le rapide biografie e i momenti più drammatici dei nostri piloti, spesso usciti da duelli cruenti soltanto grazie a quella maestria che permetteva di trasformare aerei infe- riori a quelli del nemico in armi micidiali. Abbiamo, dunque, in questo libro, per la prima volta, una grande testimo- nianza del valore italiano nei cieli, nell'ultimo conflitto mondiale. L'autore, figlio di un eroico pilota della prima guerra mondiale, ha a sua volta trascorso nell'aviazione pprte della sua vita, conoscendo tutti gli uomini qui citati. 'talvolta anzi addirittura riuscendo ad essere testimone delle vicende rievocate. Le sue notizie sono tutte di prima mano e lo si avverte; ma si avverte anche in queste pagine lo scrupolo dell'autore per l'esattezza la tendenza alla ricerca minuziosa e il gusto del particolare. che gli hanno consentito di ricostruire sin nei dettagli vicende belliche ignorate o delle quali si era parlato vagamente



I TRECENTODI GEBEL ABIOD


CHI il 16 novembre 1942, si fosse trovato nel porto di Biserta, avrebbe potuto assistere ad una scena in­consueta.
Da due piroscafi arrivati in mattinata e accolti su­bito da un bel bombardamento, stavano sbarcando alcune centinaia di paracadutisti che, sotto il giubbotto mimetizzato, indossavano l'uniforme di panno grigio- azzurro dell'aeronautica italiana. Quando furono tutti inquadrati sulla banchina, un ammiraglio italiano salì su un bidone di benzina e rivolse loro pochissime parole che suonavano così: « Ragazzi, qui tutti ci guardano: italiani, tedeschi, francesi, inglesi, americani e tunisini.
E' una buona occasione per farvi onore. Sotto, dunque, e viva l'Italia! »
Questi sono i discorsi che ai soldati piacciono di più; in particolare poi piacevano laggiù, perché con i bom­bardieri avversari che potevano tornare da un mo­mento all'altro, meno si stava in porto e meglio era. Tanto più che il reparto era uno dei pochi che erano stati avviati a Biserta per tentar di costituire una prima linea di difesa contro le forze anglo-americane che, sbarcate in Marocco e in Algeria, stavano avanzando velocemente verso il confine tunisino.
Malgrado il sistema caotico col quale, sotto l'assillo dell'urgenza, furono inviati laggiù i reparti destinati al­l'azione di tamponamento, una linea poté essere imba­stita e, una volta rafforzata, ci consentì di prolungare di sei mesi la nostra resistenza in Africa. Si trattò di una azione improvvisata, ma così importante nei risultati, che non c'è memorialista che la trascuri. Ma, al solito, nessuno ricorda il nostro apporto che fu determinante.
Cominciamo da Churchill; nella parte quarta delle sue memorie troviamo scritto: « Altre unità di para­cadutisti furono lanciate sull'aeroporto di Souk-el-Arba; di qui avanzarono su Béja, poco oltre la quale urtarono nelle posizioni occupate dai tedeschi. La XXXVI brigata, avanzando rapidamente per via di terra, penetrò in Tunisia, scontrandosi il 17 novembre con reparti te­deschi a Gebel Abiod ».
Seguiamo con Kesselring. Dopo aver attribuito, con un candore davvero divertente per un uomo della sua levatura, la mancata collaborazione delle forze francesi all'avvenuto atterraggio di un nostro reparto da caccia sul campo di Tunisi, egli scrive: « Nonostante ogni difficoltà riuscimmo a costituire una testa di ponte con deboli forze tedesche alle quali si unì qualche unità di artiglieria contraerea ».
Il maresciallo Messe, nel suo libro Come finì la guerra in Africa, riferendosi all'arresto degli anglo­americani scrive: « Ma il giorno 16 novembre, a un centinaio di chilometri ad occidente di Tunisi si scon­travano in una resistenza sufficientemente robusta per arrestare il loro slancio offensivo ». E in un'altra rela­zione riferentesi a quel periodo troviamo: « Nella gior­nata del 18 novembre le avanguardie inglesi raggiun­gono Gebel Abiod. Qui però vengono fermate dalle truppe dell'Asse ».
Per trovare un riferimento preciso al concorso ita­liano in quell'azione, si è dovuto attendere che uscisse il secondo volume sulle operazioni italo-tedesche in Tunisia, compilato dal generale Sogno ed edito a cura dell'Ufficio Storico dell'Esercito. In questo volume si legge, infatti, che il primo reparto che si spinse oltre Mateur era costituito da una formazione di paracadu­tisti tedeschi comandata dal maggiore Witzig, resosi celebre nel 1940 per la conquista del forte belga di Eben Emael, appoggiata da alcuni carri armati, da una batteria da 105 e da un nostro reparto, la II Compagnia
123 del CXXXVI battaglione controcarri da 47/32, sbarcata a Biserta il 12 con la prima aliquota di forze italiane.
Le punte più avanzate del gruppo misto Witzig erano giunte il 17 a contatto con le avanguardie inglesi a Gebel Abiod e qui, in una posizione particolarmente esposta, furono raggiunte dal I Battaglione Paracadutisti della Regia Aeronautica, un reparto formato esclusivamente da volontari che erano stati preparati ed addestrati per partecipare all'azione di Malta.
Ben duemila aviatori di tutti i gradi e di tutte le categorie avevano chiesto di arruolarsi in questo reparto che offriva a tutti, anche a quelli che non volavano, la possibilità di combattere. Ne erano stati scelti cinque- cento che avevano compiuto un severo addestramento comprendente lanci, tiri, marce, combattimento terre- stre, corso guastatori e corso cacciatori di carri.
Molto opportunamente il capo di stato maggiore del- l'aeronautica, generale Fougier, che proveniva dai bersaglieri, aveva affidato il comando di questo reparto ad un ufficiale che era entrato in aeronautica dopo aver a sua volta combattuto per tre anni nel Carso e sul Sabotino: si trattava del tenente colonnello pilota Edvino Dalmas, un dalmata che nel 1915 era accorso volontariamente sotto la nostra bandiera e si era fatto onore sia nell'artiglieria da montagna, sia in trincea come ufficiale di collegamento e come Ardito. Era an- che entrato nel Battaglione Aviatori ma non era riuscito a rimanervi per... eccesso di esuberanza derivantegli dall'età e dall'abitudine alla vita in prima linea: comunque si era rifatto dopo la guerra entrando in aeronautica e raggiungendo con gli anni e i meriti il grado di tenente colonnello.
Il tipo di reparto che gli avevano affidato era di quelli che gli piacevano: se l'era forgiato giorno per giorno con passione, rivivendo nella severità dell'addestramento i duri anni della sua giovinezza e sognando di portare i suoi ragazzi al fuoco, pronti nello spirito e nel fisico. Il rinvio dell'azione su Malta lo aveva pro­fondamente amareggiato perché, nei reparti tenuti alla mano e galvanizzati, la caduta di tensione è quanto mai deleteria. Aveva tenuto impegnata la gente perfezio­nando l'addestramento e continuando i lanci; ma quando, attraverso un trasferimento del Battaglione sul­l'aeroporto di Arezzo, capì che per Malta non c'era più nulla da fare, chiese di poter mandare la gente a trascorrere a turno qualche giorno a casa. Anche quello, in mancanza di meglio, è un sistema adatto a tener su il morale dei soldati.
Quando arrivò la notizia dello sbarco anglo-americano nell'Africa Settentrionale francese, su una forza di trecentotto paracadutisti il Battaglione ne aveva circa un terzo in licenza. Tra la diramazione dei telegrammi di richiamo, la preparazione dell'equipaggiamento e la solita doccia fredda degli ordini e dei contrordini, tra­scorsero una trentina di ore febbrili; ma al momento della partenza trecentotto voci avevano risposto all'ap­pello con uno squillante « presente ».
Purtroppo non si era trattato della partenza sognata, quella a bordo degli aerei, col paracadute ben stretto al dorso dalle cinghie, le ginocchiere di protezione alle gambe e i caricatori dei mitra nelle guaine del giub­botto. La situazione che si era determinata in Tunisia tra l'otto e il 15 novembre 1942 era troppo confusa perché si potesse pensare ad un lancio. I primi ven­tinove Macchi 202 che avevano atterrato sul campo di Tunisi il 10 novembre avevano sollevato le proteste dei francesi che miravano a guadagnar tempo fingendo di voler collaborare coi tedeschi.
Questi in un primo tempo avevano creduto alla fin­zione, e avevano chiesto il ritiro del nostro reparto, ma poi si erano visti sparare addosso dai francesi e avevano dovuto rispondere. Il 12, due piroscafi e cinque caccia-torpediniere italiani avevano sbarcato a Biserta un migliaio di uomini, appartenenti al 10° Bersaglieri, al 92° Fanteria, LDVI I gruppo semoventi da 75/18, CI e CXXXVI Battaglioni carro da 47/32 e 1800 tonnellate di materiale, occupando la base, ma nello stesso giorno forze nemiche erano sbarcate senza contrasto alcuno a Bona, e si erano subito spinte avanti.
In quella situazione sarebbe stato assurdo mandare allo sbaraglio i paracadutisti, perché in pratica non si sapeva dove lanciarli. Quindi il I Battaglione fu avviato in Sicilia per ferrovia, raggiunse Trapani il 15, quando la situazione §i era un po' delineata, si imbarcò la sera stessa su due vecchie « carrette » e l'indomani a mezzogiorno sbarcò a Biserta, giusto in tempo per assaporare il primo bombardamento.
Tutto si era svolto in maniera totalmente diversa da quella sognata, ma ormai in zona d'operazione c'erano e lo si capiva a prima vista. L'ammiraglio Biancheri, con le brevi parole che aveva rivolto loro sulla banchina, lo aveva confermato: la situazione era tale da non consentire ordini di operazioni elaborati e direttive precise. Bisognava farsi onore e l'occasione era buona.
La verità è che si sapeva poco; ma poiché quel poco bastava per comprendere che non c'era tempo da per- dere, i paracadutisti furono avviati verso il nodo stradale di Menzel Djemir, situato a sei chilometri a sud-est di Biserta, con un compito quanto mai semplice: se vedevano carri armati nemici dovevano trovare il modo di fermarli, se no la Tunisia era perduta e la morsa si sarebbe chiusa sulle forze italo-tedesche che ripiegavano dall'Egitto.
Mai consegna era stata più chiara. Il reparto raggiunse il settore che gli era stato assegnato e si attestò a difesa come era stato ordinato. In verità Dalmas trovava assurdo che in una situazione come quella, impostata su una gara di velocità tra noi che tentavamo di imbastire una linea di difesa e Pavversario che pun­tava disperatamente verso i porti tunisini, ci si dovesse fermare ad attenderlo. Ma non poteva prendere inizia­tive senza aumentare la confusione che tra italiani, tedeschi e francesi era già 'notevole. Per fortuna il 17, dopo un incontro tra il generale Benigni, il generale Nehring, l'ammiraglio Biancheri e un rappresentante francese, il Battaglione ebbe l'ordine di requisire qual­che camion e di portarsi a sud-ovest di Biserta per af­frontare le colonne avversarie che si stavano minaccio­samente avvicinando alla base.
Infatti, passato Mateur e raggiunta la zona collinosa di Gebel Abiod, arrivarono le prime cannonate e i no­stri incontrarono il piccolo reparto del maggiore Witzig attestato con due carri armati davanti al villaggio oc­cupato dagli inglesi. Ce n'era voluto per arrivare sino a lì; tradotta, piroscafo, « piote », camion, tutto fuorché l'aeroplano e il serico ombrello del paracadute. Però, in compenso, la situazione era quanto mai adatta per paracadutisti: armamento leggero, anzi leggerissimo; mancanza pressoché assoluta di equipaggiamento e di viveri; nemico davanti e nemico dietro perché anche i francesi, come si è detto, avevano cominciato a spa­rare. E su tutto una bella carica di emozione e una salutare voglia di menar le mani, acuita ed esasperata dalla lunga attesa.
Dalmas e Witzig si intesero subito; appreso dall'uf­ficiale tedesco che gli inglesi erano appoggiati da molti pezzi di artiglieria, il colonnello Dalmas fece attestare il suo battaglione su una collinetta antistante il villaggio di Gebel Abiod, avendo cura di suddividere gli uomini a due per due in buche distanziate di una ventina di metri l'una dall'altra. Infatti, non essendovi la possi­bilità di controbattere il tiro avversario, questo era il solo sistema atto a limitarne le conseguenze.

La situazione, data l'esiguità del reparto e il suo totale isolamento, era quanto mai precaria; ma i nostri, pur non sapendo allora che le forze che li fronteggia- vano avevano fatto una lunga tirata da Bona a lì ed erano state raggiunte soltanto da un nucleo dei paracadutisti che erano stati lanciati sul campo di Souk-el- Arba, ebbero la sensazione che anche gli inglesi avessero il fiato grosso. Perché non approfittarne per tentare di occupare il villaggio e trasformarlo in un caposaldo difensivo?
I due comandanti, l'italiano e il tedesco, avevano lo stesso temperamento e la mancanza di ordini non costituiva un motivo per rimanere passivi. Il 21, a sud della posizione da loro occupata, un altro .reparto italo- tedesco aveva preso contatto con pattuglie avversarie provenienti da Béja; quindi non c'era tempo da perdere e si decise di attaccare nella stessa notte: tre nostri plotoni per conquistare tre collinette che fiancheggiavano il paese, mentre i tedeschi dovevano puntare direttamente sull'abitato.
I preparativi avvennero nel massimo silenzio; la luna calante irradiava sul terreno una luce spettrale accentuata dalla foschia che smorzava i contorni delle cose. Queste condizioni di visibilità favorirono il raduno delle squadre e la loro discesa nel valloncello che separava le due posizioni. La manovra di avvicinamento ripeteva un tema già fatto più volte da tutti durante la lunga fase addestrativa. Si erano preparati per questo momento e lo avevano atteso e sognato per mesi, anche se lo avevano immaginato diverso, senza quel groppo alla bocca dello stomaco e quel battito così violento al cuore; ma anche così, tutto presentava il fascino di un gioco avvincente che aveva per posta la vita. I minuti erano lunghissimi e l'avvicinamento sembrava svolgersi con una lentezza esasperante e irreale che acuiva in tutti l'ansia di rompere quella tensione in una corsa e in un grido.
Prima che l'alba sbiancasse il cielo, i tre plotoni scattarono contemporaneamente e sorpresero l'avversario le cui posizioni furono conquistate d'impeto, senza che quello facesse in tempo ad abbozzare un tentativo di resistenza; un centinaio di prigionieri, tra i quali un capitano, furono catturati ed avviati verso le nostre posizioni. Ma i paracadutisti stavano ancora rastrellando il terreno quando la reazione nemica si scatenò con una violenza indicibile.
Evidentemente l'artiglieria era stata avvertita e un uragano di fuoco si scatenò contemporaneamente sulle nostre posizioni di partenza, su quelle conquistate e sull'avvallamento intermedio, dove i tedeschi rimasero bloccati senza poter avanzare verso l'abitato.
Granate da 155 esplodevano dappertutto, senza che vi fosse da parte nostra alcuna possibilità di reagire; gli uomini non avevano altra difesa che quella di rimanere rintanati nelle buche, in attesa del contrattacco che si sarebbe certamente scatenato non appena l'artiglieria avesse allungato il tiro. Uno dei primi a morire fu il paracadutista triestino Giovanni Raengo, straziato dall'esplosione di tutte le bombe che aveva nel tascapane. Poi cadde Bargellesi e molti altri furono feriti; tra questi l'aviere paracadutista Giacomazzi, colpito al ventre, morì dissanguato prima che potessero soccorrerlo.
Come c'era da aspettarsi, dopo un lungo e terrificante martellamento, le batterie da 155 allungarono il firo e i reparti inglesi passarono al contrattacco in forze. Fu in questa fase che rifulse il valore del primo aviere Enzo Albertazzi, di Savona: per quanto assegnato al Comando, quando aveva saputo che la sua squadra avrebbe partecipato all'attacco, aveva chiesto di unirsi ai suoi compagni, ed aveva conquistato con loro la posizione avversaria. Quando si profilò il contrattacco, si sistemò al riparo di una roccia e, con brevi raffiche di mitra, abbatté tutti quelli che gli si presentarono a tiro. Poi fu circondato, si difese con il lancio di bombe a mano e fu visto l'ultima volta mentre, impegnato in una lotta a corpo a corpo, si difendeva manovrando il mitra come una clava.
Pari a lui in valore fu il tenente Michelangelo Mes­sina che si batte sino a quando non fu colpito da una raffica al ventre; trascinato al riparo da alcuni com­pagni chiese loro che gli accendessero una sigaretta e poi spirò.
Anche il colonnello Dalmas fu ferito; si era portato in posizione avanzata per osservare meglio lo svolgi­mento dell'azione da una buca occupata da due para­cadutisti: vi arrivò dentro una granata che determinò l'esplosione di una quarantina di bombe a mano e il conseguente ferimento dei tre occupanti. Il tenente Riello, accorso sotto il tiro da una buca vicina per soccorrere i feriti, fu salvato da questo suo atto generoso perché un colpo avversario esplose subito dopo proprio nella buca che lui aveva abbandonato.
Quando la gente seppe che il comandante era stato ferito e portato all'infermeria da campo, vi fu una drammatica fase di sbandamento, coraggiosamente ed energicamente arrestata dal tenente Mario Rinaldi, di Camerino. Con il suo aiuto. dopo la prima sommaria medicazione, il colonnello Dalmas poté ricostituire la linea e continuare la resistenza. In questa fase, altre belle prove di valore furono date dal personale medico del reparto e da molti arabi che appoggiarono sponta­neamente e coraggiosamente l'azione dei nostri soldati.
.. Va ricordato soprattutto il capitano medico Alberto Verona per la decisione, la prontezza e la perizia delle quali diede prova disponendo l'approntamento di una seconda linea di difesa quando fu chiaro che i nostri non avrebbero potuto tenere, sotto l'impeto avversario, le posizioni occupate.
Un altro medico, il sottotenente Franco Bini, già campione italiano di salto triplo, si dimostrò della stessa levatura del suo superiore: vedendo un arabo che, con grande fatica e grande rischio, stava tentando di portare nelle nostre linee un ferito, uscì allo scoperto e, sotto il violento tiro dell'avversario, li portò a salva- mento entrambi.
Il sergente di sanità Francesco Fiumero, colpito durante l'azione di ricupero dei feriti, non rientrò nelle nostre linee e fu creduto morto; lo stesso avvenne per il tenente Emilio Carfagnini, e per i sergenti Manto- vani e Paroni che però rientrarono a guerra finita per- ché, come il Fiumero, erano stati catturati e curati dagli inglesi.
Purtroppo le perdite del Battaglione furono gravi; ciò nonostante il reparto il cui comando fu in seguito assunto dal capitano Aldo Molino, resiste' all'azione nemica per altri sei giorni, dopo di che ebbe l'ordine di ripiegare su Mateur.
Si deve però all'azione di Gebel Abiod se nelle retrovie i reparti fatti affluire in fretta dall'Italia ebbero il tempo di costituire quella linea di difesa che consentì alle forze dell'Asse, passate poi al comando del generale Messe, di resistere in Tunisia sino a metà del maggio 1943.

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