"Uomini Gamma" e "Siluri umani" all'attacco nel porto di Algeri
‑ Fulvio Candia ‑
I1 4 dicembre 1942 il sommergibile "Ambra", al comando del tenente di vascello Mario Arillo, salpava da La Spezia per un'azione sulla base inglese di Gibilterra. Questa la notizia, che ad arte era stata fatta trapelare per ingannare la sempre attenta osservazione inglese, accuratamente informata dall'efficiente rete diretta dal nostro ammiraglio Franco Maugeri, capo del Servizio Segreto Italiano per la Marina (in seguito scoperto ed a fine guerra processato). Venivano cosi consegnati al nemico i piani di navigazione e di attacco delle nostre navi.
L' "Ambra", secondo le istruzioni ricevute, lasciò gli ormeggi portandosi in mare aperto, in attesa delle segnalazioni via radio che non tardarono ad arrivare: venne comunicato che ad Algeri era fermo in porto un grosso convoglio pronto a riprendere il mare. Bisognava far presto. Arillo ordinò subito la massima velocità con rotta su Algeri. Per guadagnare tempo navigava in emersione di notte ed in immersione di giorno.
Alla partenza aveva imbarcato sedici elementi in più: dieci "uomini‑gamma" e sei piloti dei "siluri umani" (detti "maiali") per un'azione combinata. 1 tre "maiali" erano stati sistemati in coperta, chiusi in robusti contenitori ben fissati allo scafo.
Nella notte tra 1'8 ed il 9 dicembre, il battello venne investito da una furiosa tempesta che produsse notevoli e gravi danni agli strumenti di bordo e, come si constaterà dopo, anche ai delicati congegni ed ai manometri dei "maiali" che in coperta venivano investiti da enormi ondate. In quelle condizioni, la navigazione diventava particolarmente difficile e con l'idrofono fuori uso non era possibile rilevare la presenza di navi in superficie.
Ma Arillo non se ne dette per inteso e continuò la rotta mantenendosi a quota periscopica, appena in tempo per accorgersi di un caccia nemico a poca distanza che puntava nella sua direzione. L'immersione rapida portò il battello sul fondo, mentre il caccia gli passava sopra senza sganciare le bombe di profondità: 1' "Ambra" non era stato avvistato.
All'alba del giorno successivo, in vista di Algeri, Arillo fece ridurre la velocità al minimo, proseguendo in immersione. Si sapeva che la rada era protetta da un ampio sbarramento di mine di cui non era nota la zona. Il rischio era notevole e bisognava avanzare molto lentamente, privi del prezioso ausilio dello scandaglio ultrasonoro andato in avaria per la tempesta. Bisognava procedere quindi in assoluto silenzio con l'orecchio teso ad ogni sonorità, con particolare attenzione ai rumori prodotti dal vorticare delle eliche delle navi che passavano sopra. Era in atto una stretta sorveglianza aeronavale in funzione antisommergibile: impossibile tentare di infiltrarsi a quota periscopica ed altrettanto rischioso navigare a poca profondità.
Arillo non se ne preoccupò e si buttò in profondità fino a toccare il fondo, sul quale s'impattò di colpo con violenza. Era a 90 metri. L'urto improvviso mandò tutti a gambe all'aria. L'incidente per fortuna non provocò danni. Erano le 17,00. Per il comandante ci fu una sola soluzione: strisciare a lento moto sul fondo, risalendo alla cieca lo zoccolo costiero sino ad una profondità tra i 15 ed i 20 metri, quella necessaria per consentire la fuoriuscita degli assaltatori.
Così fu fatto, ed Arillo portò lo scafo a fermarsi su un fondale di 18 metri. Ma era una profondità a rischio di essere scoperti. Era necessario rendersi conto della situazione in rada. Mandò in superficie il tenente di vascello Jacobacci ed il suo secondo, chiusi in una tuta di gomma, con l'autorespiratore e con un microfono collegato con la camera di manovra. Dopo aver scrutato l'orizzonte per 360 gradi, comunicarono che intorno c'era solo mare desolatamente deserto.
Ad Arillo non rimase che proseguire alla cieca continuando a strisciare "sul fondo come un verme" ‑ così come ebbe a scrivere in proposito l'ammiraglio Virgilio Spigai ‑ assistito di tanto in tanto da un'emersione di Jacobacci. In una di queste puntate in superficie, Jacobacci sorpreso urlò al microfono: "Comandante, ci troviamo nel bel mezzo del convoglio. Ci sono numerose navi all'ancora e vi è un gran movimento di imbarcazioni. Credo che dovremmo agire subito!". Jacobacci ne contò sei e di grande tonnellaggio. Si capiva che erano pronte a partire. Rientrato Jacobacci, il comandante Arillo impartì ordini immediati. Fece uscire subito i dieci uomini gamma (che nel frattempo si erano preparati) al comando del sottotenente delle armi navali Agostino Morello. Subito dopo fece uscire i piloti dei "maiali" che, sganciati i loro mezzi (detti S.L.C., cioè siluri a lenta corsa) si avviarono alla caccia di navi di grande tonnellaggio, incrociatori ed eventuali portaerei presenti in rada.
Gli operatori agli S.L.C. erano: il tenente di vascello Giorgio Badessi, con il sottocapo palombaro Carlo Pesel, il tenente del genio navale Guido Arena, con il sottocapo palombaro Ferdinando Cocchi e il guardiamarina Giorgio Reggioli con il sottocapo palombaro Colombo Pamolli.
Poco dopo le ore 24, l'intero gruppo era partito all'assalto. L' "Ambra" avrebbe atteso il ritorno in immersione, adagiato sul fondo, ma con Jacobacci in superficie per indicare il punto del rientro al ritorno degli operatori. Dopo un po' gli ancoraggi andarono in allarme: razzi, fasci luminosi dei riflettori frugavano nelle tenebre la superficie del mare; scoppi di cariche di profondità, raffiche di mitragliatrice. Gli assaltatori dovevano essere stati scoperti e si era scatenata la caccia.
La situazione dell' "Ambra" in bassi fondali e con gli apparati di scandaglio in avaria diventava sempre più pericolosa e precaria. L' "Ambra" sarebbe rimasto in attesa fino alle ore 1,00 per il recupero degli operatori. Passò l'ora fissata ed Arillo decise di prolungare l'attesa di qualche ora, ma fino alle 2.30 nessuno rientrava. Jacobacci in superficie aveva udito delle voci, ma queste ebbero solo l'effetto di mettere in allarme la nave più vicina. Arillo trepidava, preso dal desiderio di non abbandonare i suoi uomini e attendere ancora al di là degli orari fissati, e la coscienza del dovere di provvedere in primo luogo alla sicurezza del sommergibile e dell'equipaggio.
Vennero le 2.45 e 1' "Ambra" era sempre lì ad attendere, mentre in superficie era tutto un incrociarsi di unità navali a caccia degli assaltatori e dei loro mezzi. Alle 2.54, dopo circa due ore di attesa, Arillo dovette cedere: il suo dovere di comandante glielo imponeva. Con rammarico, sempre strisciando sul fondo lentamente iniziò il ripiegamento con molta difficoltà, aggravata dalla mancanza di quegli strumenti per l'orientamento andati in avaria a causa della tempesta che aveva dovuto affrontare in rotta di avvicinamento.
Procedendo alla cieca, il momento più drammatico si ebbe quando il battello andò a scontrarsi contro un relitto sommerso. Ma l'abilità ed il sangue freddo del Comandante ebbero la meglio e 1"'Ambra" potè raggiungere il largo da dove prese la rotta verso casa.
Alle 19.45 il sommergibile emerse dopo essere stato immerso per ben 36 ore in condizioni difficilissime.
Dopo tre giorni 1' "Ambra" si ormeggiò alla banchina sommergibili dell'Arsenale di La Spezia.
In quella impresa emerse la perizia marinaresca, l'abilità di comando, il coraggio del comandante Arillo.
L'Ammiraglio Spigai (divenuto poi Capo di Stato Maggiore della Marina) descrisse e portò alla luce la coraggiosa ed incredibile impresa: affondate tre navi per 16.000 tonn. Una da 7000 tonn. danneggiata. I "gamma" partiti prima trascinandosi dietro i bauletti esplosivi, non disponendo di molta autonomia, puntarono sulle navi più vicine alle quali "ebbero cura" di applicare i "bauletti" ed innestare il congegno a tempo per l'esplosione: la conseguente, inevitabile confusione tra il naviglio nemico avrebbe favorito il transito dei "maiali" diretti alle navi di maggiore tonnellaggio.
I "maiali" (S.L.C.) partiti in formazione riuscirono a superare indisturbati le prime navi destinate all'attenzione dei "gamma", quindi si separarono ognuno alla ricerca dell'ambita preda. Mala navigazione si presentava molto difficile: gli apparecchi avevano subìto sensibili danni durante la furiosa tempesta incontrata. 1 manometri non funzionavano ed i congegni non rispondevano ai comandi. Arena, colto da malore, con grande sforzo di volontà riusciva a governare il siluro che non rispondeva ai comandi. Non volle mollare. Nell'impossibilità di proseguire, puntò verso le navi più vicine, mentre gli altri due equipaggi, cercando di evitare l'accurata vigilanza. procedevano verso le altre navi.
Reggioli puntò su una grossa nave intorno alla quale vigilava un battello girandovi intorno. Dall'inconfondibile sagoma, capì di trovarsi al cospetto di una petroliera e quella attenta sorveglianza stava a dimostrare che doveva essere ben carica e, perciò, pronta a partire. Reggioli agì d'astuzia, giocando come il gatto col topo. Lasciò passare la vedetta, mantenendosi bene occultato sott'acqua per balzare subito dopo verso la fiancata della nave, in tempo per non essere sorpreso al successivo giro della vedetta..Ma le conseguenze di quella dannata tempesta si manifestarono all'improvviso: i congegni non rispondevano più ai comandi. Fu necessario emergere sotto la fiancata della nave per lavorare in superficie alla riparazione, mentre qualcuno dell'equipaggio fumava in coperta. lasciando cadere la cicca accesa sulla testa dei due operatori.
Il rischio di essere scoperti incombeva e bisognava fare presto. Non appena predisposti gli attacchi, Reggioli si immerse rapidamente seguito dal suo secondo e rimasero sorpresi nel constatare che quella nave non era dotata delle alette di rollio alle quali poter attaccare la carica. Ma non si persero d'animo. In mancanza di meglio, appesero la carica all'elica e, dopo aver attivato la spoletta, si allontanarono in cerca di un'altra preda: rimaneva un'altra carica. Reggioli guardò il cronometro: mancavano solo dieci minuti alla partenza del1"`Ambra", tuttavia non volle desistere: una bella motonave faceva bella mostra di sé. Vi si diresse a tutta velocità, ma una vedetta li sorprese. Puntò su di loro il potente fascio di luce del riflettore e cominciò a sparare intense raffiche di mitragliatrice nella loro direzione (fortunatamente senza colpirli), mentre i due si gettavano sul fondo. Ma il non desiderato incontro aveva bruciato quei residui minuti appena sufficienti per tornare all' "Ambra". Ormai privi di forze, sopraffatti dalla stanchezza, non restava altro da fare che inabissare il "maiale" dopo aver messo in azione il distruttore e nuotare verso la riva dove si lasciarono andare sdraiati sulla sabbia.
All'alba, cinque esplosioni si susseguirono, una dopo l'altra, Colarono a picco cinque navi: due minate dai "maiali"_ una terza dal tenente Arena e due dagli "uomini‑gamma".
L'impresa era riuscita malgrado tutte le difficoltà dovute alle avarie dei congegni.
Gli attaccanti vennero tutti catturati. Concentrati a bordo dell'incrociatore "Maidstone" vennero sottoposti a pressanti interrogatori davanti ad un plotone di esecuzione con i mitragliatori puntati. Ma non diedero alcuna risposta alle loro incalzanti domande, malgrado la minaccia. Vennero quindi trasferiti in campo di prigionia.
A1 comandante Arillo venne conferita la Medaglia d'Oro al VM. e la Medaglia d'Argento a tutti gli operatori.
Questa la motivazione della Medaglia d'Oro al Valor Militare concessa al comandante Mario Arillo:
"Comandante di sommergibile, già distintosi per capacità ed ardire in altre missioni di guerra. Assegnato con la sua Unità alla X a Flottiglia MAS, si dedicava con intelligenza, capacità e tenacia alla preparazione del sommergibile al suo comando, forgiandone un'arma perfetta nello spirito e capacità dell'equipaggio e nell'efficienza del materiale. Si distingueva una prima volta, trasportando con successo un reparto d'assalto destinato ad agire entro un porto nemico del Mediterraneo orientale. Successivamente accoglieva con entusiasmo l'incarico di eseguire analoga missione contro un importante porto del Mediterraneo occidentale. Ostacolato dal maltempo, privo di informazioni esatte, tenacemente attendeva per più giorni nei pressi del porto nemico il momento favorevole finché, sfuggendo alla sorveglianza nemica, portava la sua Unità fino a poche centinaia di metri dal porto nemico e vicinissimo ad Unità da guerra e mercantili ancorate in rada. Poteva così lanciare verso il sicuro successo un grosso reparto d'assalto che riusciva adoperare nell'interno del porto e in rada. Animato da alto senso di umanità e di cameratismo, restava sul posto per molte ore, in fondali bassissimi e quindi impossibilitato a difendersi in caso di scoperta, per tentare il recupero del reparto stesso e desisteva dal generosissimo tentativo solo quando il nemico, avvistati gli assalitori di ritorno, giunti già a pochi metri dal sommergibile, iniziava una violentissima reazione. Con mirabile calma e con la somma perizia, riusciva ad eludere la ricerca nemica c• riportava incolume alla base l'Unità al suo comando. "
(Mediterraneo, maggio‑dicembre 1942)
Fonti: T. Meneghini ‑ "Cento sommergibili non sono tornati" ‑ Ed. C.E.N. G. Giorgerini ‑ "Uomini sul fondo" ‑ Ed. Oscar Storia ‑ Mondadori.
L'ingegner Giorgio Reggioli è stato mio Professore di Tecnologia delle Costruzioni all'I.T.I. L. da Vinci di Firenze (1984-97). Semplicemente "UN GRANDE", come persona, come insegnante: gli devo tanto e gli ho voluto molto bene!
RispondiEliminaSimone Gonnelli