giovedì 18 settembre 2008

RECENSIONI



Libro verità su Ermacora Zuliani presentato giovedì 21 giugno 2012

Un soldato da ricordare. Tra Grande Guerra, Spagna, Russia e Alpini della Repubblica Sociale Italiana. Il Colonnello Ermacora Zuliani, “Mache”. Fondò la prima unità alpina della Repubblica Sociale Italiana.
Magnano in Riviera (Udine - Fvg), 18/06/2012 Trentasei mesi di studio e ricerca per 205 pagine di testo con decine di foto e documenti autentici. Per raccontare la storia vera, mai scritta, di un grande cittadino di Magnano in Riviera (Udine), Ermacora Zuliani detto “Mache”. A voler “rendere giustizia” alla sua memoria lo storico ed editore Giovanni Aviani Fulvio (e il figlio Guido Aviani Fulvio), letteralmente innamorato di quest’indagine, affidata ad Aldo Mansutti, 87enne majanese residente a Udine. Ora quest’anelito di verità si è trasformato in un libro: “Ermacora Zuliani. Mache. Un soldato da ricordare. Tra Grande Guerra, Spagna, Russia e Alpini della Repubblica Sociale Italiana”. 

Il testo, che ha ottenuto il patrocinio del Comune di Magnano in Riviera, sarà presentato giovedì 21 giugno 2012, a Magnano in Riviera, nella Sala polifunzionale, alle 20.30. L’ingresso è libero. Saranno presenti il sindaco, Mauro Steccati, per un indirizzo di saluto e per ringraziare Aviani&Aviani Editori dell’iniziativa; Giovanni e Guido Aviani della stessa casa editrice, per tratteggiare il contenuto della ricerca (per la parte personale e militare di “Mache”); lo psicologo Lucio Costantini, che interverrà in merito al quadro umano di Ermacora; il commendatore Giuseppe Garzoni d’Adorgnano, reggente l’Associazione Reduci Alpini Reggimento Tagliamento, sodalizio che riunisce gli ultimi testimoni, ormai rimasti in meno di 30, tra il FriuliVg e il Veneto.

Chi era Ermacora Zuliani?

Per molti giovani uno sconosciuto. Ma la sua è stata una vita pienamente vissuta, e vissuta animata da un grande amor di Patria.
 

Mache nasce nel 1897 a Magnano in Riviera, ove oggi riposa nel cimitero del capoluogo. Carattere schivo, un po’ introverso, si sposa con Olga e non ha figli. Per un periodo - a soli 26 anni - è sindaco del suo paese e quindi podestà. Fortemente legato alla sua terra, si adopera per migliorarla e per permettere ai concittadini di vivere meglio: a lui si deve la costruzione dell’asilo e dei campi sportivi di Magnano.

La parte dei fatti d’arme di Mache è piena di coraggio e colpi di scena: è un uomo che vive la Prima Guerra Mondiale, che partecipa alla Campagna di Spagna e alla prima Campagna di Russia Csir, in quest’ultimo caso come volontario, e indossa la camicia nera.
 

Ne esce prostrato fisicamente, ma è già a Roma nell’estate del ’43, quando i tedeschi tengono la capitale contro gli Alleati. Sono proprio i comandanti tedeschi a offrirgli, in quei giorni, il comando della Divisione Corazzata Centauro. Una proposta che avrebbe allettato molti, ma che “Mache” rifiuta subito.

Risale lo Stivale e, prima della nascita della Repubblica Sociale Italiana, fonda in Friuli Venezia Giulia, a Udine, partendo dalla caserma Prampero (già sede della Julia), il “Reggimento Alpini Tagliamento”: in meno di tre mesi arruola 1000 uomini tra Friuli e Veneto, che poi diventeranno 1500. L’obiettivo è difendere i confini della sua Patria dall’avanzata dei fedelissimi di Tito e quindi i confini Orientali dell’Italia. È storia.
 

Col grado di colonnello, al comando del Reggimento che ha creato, si insedia nella Valle dell’Isonzo, tra Plezzo (Bovec - Slovenia) e Gorizia, e riesce a fermare l’avanzata del IX Corpus di Tito fino alla linea del Tagliamento proteggendo in particolare le zone di confine da Tarcento a Cividale del Friuli (Venzone, Gemona e Tarcento) unitamente alla X° Mas, ai tedeschi e ai cosacchi. È un tempo, quello, in cui il Friuli è territorio tedesco OZAK, ma “Mache” non esita a opporsi al potere dei comandanti tedeschi in loco quando si ipotizza, ad esempio, la creazione di una “zona chiusa” nel Cividalese, come possibile sito di riparo per Mussolini.
 

Il 25 aprile del 1945 termina convenzionalmente la Seconda Guerra Mondiale, ma gli scontri proseguono fino al primo e al 2 maggio (lo stop non è rispettato ovunque e gli scontri continuano in FriuliVg). In quei giorni Zuliani è nella Valle dell’Isonzo, con i suoi uomini, che cerca di proteggere e tutelare in ogni modo. Nella vicina Cividale del Friuli un gruppo di circa 150 tedeschi tiene la città. A cercare di liberarla ci sono osovani e garibaldini, ma sono pochi. Aldo Specogna della Osoppo si accorda con Mache. Zuliani lo raggiunge con armi, mezzi e con la cassa (300mila lire). Un incontro con il comandante tedesco porta a un accordo particolare: le due fazioni si fronteggeranno, per non perdere l’onore, e poi i tedeschi si arrenderanno. Così sarà, anche se la “scaramuccia” porterà comunque alla morte di un alpino del Reggimento Tagliamento, colpito alla testa.
 

Dopo poco l’arrivo degli Alleati. “Mache” viene arrestato, finisce in carcere, è processato e viene assolto. Finita la guerra è un uomo povero, senza lavoro. Ma pieno di dignità. Prima di morire, il 28 giugno 1958, per diversi anni farà il rappresentante di vini e bibite per la ditta “Fabbro” di Tricesimo.

 

L’eco dei miei passi a Kabul

Evento del 07/08/2012 
L´eco dei miei passi a Kabul





Media voti: L’eco dei miei passi a Kabul - Voti: 0 


Presentazione del testo di Giuseppe Amato
GROTTOLESarà presentato il 7 agosto p.v. a Grottole (MT) “L’eco dei miei passi a Kabul”, il testo firmato dal lucano Giuseppe Amato - giovane ufficiale dell’Esercito italiano - pubblicato nella collana  "Testimonianze fra cronaca e storia - Le nuove guerre" di Mursia  editore.
Il testo, che sta riscuotendo ampi consensi di critica e pubblico, si compone di flash di vita vissuta in Afghanistan dal capitano Amato quattro anni fa presso  il Comando NATO a Kabul nell'ambito della missione ISAF.
Con uno stile semplice e diretto, il capitano racconta la sua avventura umana professionale, riportando con obiettività il passaggio complesso che l'Afghanistan sta attraversando. Alternando la descrizione di momenti tragici - l'attentato in cui morirono sei militari della Folgore - ad  episodi leggeri in cui le distanze con la nostra realtà sono  notevolmente ridotte e stemperate da una sana ironia, l'ufficiale con  le sue parole offre al lettore una serie di istantanee coinvolgenti.
Una testimonianza "in presa diretta", un volume prezioso per comprendere il lavoro - spesso difficile ma sempre svolto con passione - dei militari italiani nei teatri di guerra.
L'autore Giuseppe Amato, nato a Matera nel 1975, ha frequentato l'Accademia Militare di Modena e la Scuola di Applicazione a Torino. Laureato in Scienze Strategiche e Informatica, ha partecipato a diverse missioni all'estero e attualmente  presta servizio presso lo Stato Maggiore della Difesa.





*LEGIONE TAGLIAMENTO CON GLI ESULI IN PATRIA MARIANO RENZETTI E FERNANDO CACIOLO
Autore: Arturo Conti

Nuovo lavoro della Fondazione della RSI a disposizione degli studiosi.


La Fondazione della RSI – Istituto Storico di Terranuova Bracciolini (AR) ha curato la pubblicazione di un prestigioso volume sulla Legione “Tagliamento”, una delle più importanti unità di combattimento della Repubblica Sociale Italiana.

Partendo dalle glorie della Legione durante il Ventennio fascista, l’Ing. Arturo Conti – Presidente della Fondazione della RSI e autore dello studio – analizza l’inserimento dei reduci delle Camicie Nere nella costituenda Divisione Corazzata M nell’Estate 1943, portando un contributo importante su episodi troppo spesso sottaciuti.

Si passa, poi, a sottolineare quello che avvenne prima, durante e dopo l’8 Settembre 1943, seguendo le vicissitudini della 1a Legione M, del LXIII Battaglione e del Battaglione “Camilluccia” che raccoglieva il fior fiore del volontarismo giovanile di guerra romano.

Lo studio è corredato da un’analisi dell’ordinamento e dell’armamento della Legione “Tagliamento”, con particolare riguardo all’esperienza al Fronte Sud, nel Pesarese e lungo l’alto Fiume Foglia, quando i Legionari poterono schierarsi in opposizione del “rullo compressore” anglo-americano.

Si seguono, infine, gli impieghi bellici di controguerriglia – certamente non secondari – delle Camicie Nere sul Monte Grappa, nel più grande rastrellamento antipartigiano effettuato in Italia, e sul Mortirolo, analizzando le atrocità commesse dai partigiani alla resa dei reparti.

Il volume si chiude con l’elenco dei Legionari GNR caduti e con importanti immagini dalle zone di operazione.

Con questo volume, la Fondazione della RSI – Istituto Storico intende porre all’attenzione degli studiosi le vicende di una delle più valorose formazioni militari della Repubblica Sociale Italiana, la cui storia è spesso dimenticata, ricostruendo con documenti inediti e con l’aiuto degli ultimi reduci viventi, fatti ed episodi sconosciuti anche agli “addetti ai lavori”.

Un libro che arricchisce la storia della RSI di un tassello fondamentale di cui gli studiosi non possono più non tener conto.


Il libro è composto da autori diversi.

Il primo scritto è un saggio che deriva da ricerche della Fondazione della RSI – Istituto Storico sulla Legione CC.NN. “Tagliamento”, origine ed eroismo in Russia compresi. Ne definisce il ruolo in RSI come formazione GNR e descrive le operazioni militari attuate quale Hilfsbatallion dipendente da SS-Polizei in Italia, con vari riferimenti a fatti del dopoguerra.

Il secondo scritto racconta il vissuto di due giovani Legionari superstiti che hanno mantenuto con fede e coraggio la posizione di estremi difensori della Patria. La fulgida avventura del miglior reparto di Camicie Nere non solo in RSI è arricchita anche da alcuni sfoghi, molto giustificati, sulla incomprensione tedesca del volontarismo repubblicano.

Molte pagine sono dedicate al massacro di Rovetta.

A. Conti, Legione Tagliamento con gli esuli in Patria Mariano Renzetti e Fernando Caciolo, FRSI, Bologna 2012 (pagg. 224, copertina cartonata).

Per informazioni: ares753@teletu.it





IL LIBRO

Annese fa riemergere “I diavoli di Zonderwater" dall'oblio


Immagine articolo - Il sito d'Italia
“I diavoli di Zonderwater”: non c'è dubbio, un titolo di quelli che l'attenzione l'attira subito.
Diavoli… non dell’inferno, poiché il lavoro di Carlo Annese non è un'ulteriore rivisitazione in salsa americana dei misteri del Vaticano: in questi diavoli c'è qualcosa di più nostrano, di più schietto e genuino come il carattere di quegli italiani che, vinti sul campo di battaglia, si ritrovarono in oltre novantamila a due passi da Johannesburg, a Zonderwater.
Negli ultimi sessant’anni, di fronte alla mole bibliografica prodotta dagli studi sul secondo conflitto mondiale, pochi sono stati i testi dedicati all’esperienza militare, ma soprattutto umana dei detenuti nei Fascist’s camp anglo americani.
Eppure, nel solco di una tradizione tutta italiana, i nostri soldati finirono in ogni angolo del globo, dal Pacifico all’Africa, passando per i continenti americano ed europeo.
Zonderwater, cento chilometri a nord di Johannesburg, entrò in funzione nel 1941. Le disfatte nel Corno d’Africa e in Libia avevano permesso agli inglesi di mettere le mani su un grande quantitativo di risorse umane e materiali del Regio Esercito. Ad esempio, il fallimento delle operazioni di Rodolfo Graziani a Bedia, Tobruk e Beda Fomm (Winston Churchill commentò così gli eventi: “la nostra prima vittoria dallo scoppio della guerra”) , avevano lasciato alla mercé degli alleati centotrenta mila uomini e svariati automezzi.
Gli stessi inglesi si trovarono in difficoltà a gestire e smistare così tante persone e tutte in una volta: a quasi un anno e mezzo dall'invasione della Polonia e alla dichiarazione di guerra alla Germania, Londra risentiva ancora dei bombardamenti tedeschi e, in più, l'offensiva italiana in Egitto aveva messo a dura prova il self control britannico.
Tante le navi che, colme di italiani, navigarono verso la Gran Bretagna e le sue colonie. Diverse quelle che approdano nell'estremo lembo dell'Africa; i POW (prisoner of war) vengono poi destinati a Zonderwater, millecinquecento chilometri a nord est di Città del Capo.
Ed è qui che inizia l'avventura. Ovvio, avventura amara di chi, giorno per giorno, sente forte la nostalgia di casa e dei propri cari. Ma qualcosa aiuterà i nostri ad alleviare il proprio dolore.A partire dal '43, dopo un passaggio di consegne alla guida del campo, a Zonderwater nascono una biblioteca, un campo da calcio, la possibilità di praticare pugilato ed altre attività ricreative quali il teatro (celebre la rappresentazione de “Il conte di Lussemburgo”, operetta in tre atti di Franz Lehàr). Ingenuo sarebbe considerare questa una prigionia dorata: rigide regole e dure punizioni per i (giustificati) tentativi di fuga, lavoro nei campi e per la costruzione di infrastrutture pubbliche.
Carlo Annese, autore de “I diavoli di Zonderwater, 1941-1947, La storia dei prigionieri italiani in Sudafrica che sopravvissero alla guerra grazie allo sport” (Sperling&Kupfer, 2010) è una firma della Gazzetta dello Sport. Durante il viaggio di nozze in Sud Africa gli viene rivelata l'esistenza del campo e di vicende umane straordinarie: da Gregorio Fiasconaro, nel dopoguerra cantante lirico e padre dell'atleta da 'record' Marcello 'March' Fiasconaro, a Giovanni Vaglietti, bomber granata, tra gli animatori di un grande torneo di calcio a più squadre e rigorosamente giocato con passione e tattica. Storia e sport, un bel connubio non c'è che dire!
Vicende incredibili che si intrecciano nella grande tragedia della guerra. Storie vissute da persone, nella loro semplicità incredibili, come lo stesso comandante del campo Hendrik Prinsloo (poi decorato da Pio XII nel dopo guerra). Storia amara, infine, di una nazione che descriveva l'Asse nemico della democrazia, senza accorgersi di una contraddizione e cioé di quella moltitudine di africani che, seppur nati in Sud Africa, erano considerati cittadini di serie B.
(Marco Petrelli



Da Avv. Massimo Filippini
La verità sul massacro di Cefalonia resta avvolta in una fitta rete di falsità e ipocrisie
di Francesco Lamendola - 09/06/2010
Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]





L’eccidio di Cefalonia è una di quelle pagine storiche sulle quali si fonda il mito resistenziale e democratico della Repubblica Italiana. L’immagine dei capitani Pampaloni e Apollonio, “eroi” della Resistenza, emersi miracolosamente da un mucchio di cadaveri e riusciti, alla fine, a tornare alle proprie case, è troppo eloquente per poter essere messa in dubbio da chicchessia: una delle poche certezze in un paesaggio storiografico pieno di ombre e di ambiguità.
E invece no.
Loro sono tornati a casa, ma i loro soldati e i loro colleghi ufficiali hanno pagato con la vita il folle avventurismo e l’inqualificabile contegno da essi tenuto nei confronti del comandante della divisione «Acqui», generale Antonio Gandin. Il mito resistenziale di Cefalonia è una delle tante falsificazioni della storia operate, a partire dal 1945, da una ideologia ipocrita e sfrontata, capace di qualsiasi mistificazione pur di accreditare una versione di comodo, che divide il bene dal male con un taglio netto e, guarda caso, sempre in linea con la “verità” dei vincitori.
La Vulgata storiografica resistenziale ha sempre sostenuto che a Cefalonia, dopo l’8 settembre del 1943, la divisione «Acqui», agendo con altissimo senso di responsabilità e con spirito di sacrificio, scelse di combattere contro i Tedeschi anziché arrendersi, ragion per cui fu sottoposta a un massacro indiscriminato dopo la resa, dal quale uscì letteralmente distrutta. Ma le cose non andarono così, anche se questa versione, ripetuta per più di sei decenni, ha finito per imporsi e per entrare a far parte del bagaglio culturale e spirituale del popolo italiano.
Il massacro ci fu, beninteso; e, con esso, la violazione delle norme di guerra internazionali che proibiscono in modo tassativo ogni rappresaglia sui militari che si sono arresi. Ma, a parte il fatto che le cifre sono state enormemente gonfiate - si è parlato di oltre 9.000 fucilati, mentre furono molti di meno, forse non più di 1.700, compresi i caduti in combattimento -, due fatti decisivi sono stati passati sotto silenzio o sono stati soltanto sussurrati a mezza bocca, mescolati ad un fiume incontenibile di retorica, di sacra indignazione e di frasi altisonanti.
Primo: il maresciallo Badoglio, pur sapendo cosa ciò comportava e pur essendo di ciò messo in guardia dal generale Eisenhower, non volle dichiarare lo stato di guerra con la Germania fino alla data del 13 ottobre. Vale a dire che, PER OLTRE UN MESE, lo status giuridico dei soldati italiani, nei confronti dell’ex alleato germanico, rimase intollerabilmente ambiguo, non essendo essi, in teoria, nemici della Germania, e tuttavia trovandosi nella condizione di alleati dei nemici di quella. La conseguenza fu che essi rimasero esposti a subire un trattamento al di fuori della convenzioni internazionali, simile a quello riservato ai franchi tiratori.
Secondo: è vero che il generale Gandin, prima di decidere per la lotta aperta contro i Tedeschi, aveva fatto consultare gli ufficiali e i soldati della divisione, che avevano optato per la resistenza a oltranza; ma è altrettanto vero che quella specie di referendum, peraltro privo di valore giuridico, si svolse in un clima di gravissima intimidazione e che lo stesso generale Gandin era stato fatto oggetto ad atti di sedizione e perfino a delle minacce a mano armata. La disciplina e lo spirito militare, all’interno della divisione «Acqui», erano andati in frantumi; alcuni tenenti e capitani di artiglieria, in collegamento con i partigiani comunisti greci dell’isola, sobillavano apertamente i loro soldati e li incitavano a combattere contro i Tedeschi, quando ancora le trattative erano in corso; e ad opporsi in ogni modo, anche con l’ammutinamento, alle decisioni del loro comandante, se esse fossero state difformi dai loro desideri.
Altro che spirito eroico e altissimo senso del dovere. Fra i soldati della divisione serpeggiava molto più di una semplice insubordinazione: esisteva un clima diffuso di esaltazione, di rancore, di rabbia; si parlava apertamente di mettere a morte gli ufficiali “filotedeschi”, ossia quelli che vedevano nei Tedeschi gli alleati e i compagni di tre anni di lotte, oppure, semplicemente, che intendevano obbedire agli ordini del comando, quali che fossero.
Sì, perché il comandante della XI Armata italiana in Grecia, Carlo Vecchiarelli, il 9 settembre aveva ordinato a tutte le divisioni dipendenti di cedere l’armamento ai Tedeschi, come da essi richiesto; anche se poi, l’11 settembre, un cervellotico ordine di Badoglio era venuto a rendere la situazione insostenibile, prescrivendo che le truppe dovevano opporsi a ogni tentativo di disarmo da parte dei Tedeschi (tre giorni dopo l’ignominiosa fuga da Pescara e quando già l’Italia era di fatto occupata dall’esercito germanico!).
La scintilla che diede fuoco alle polveri, sull’isola di Cefalonia, fu comunque l’arbitraria iniziativa del capitano Amos Pampaloni e del tenente Renzo Apollonio, i quali, il mattino del 13 settembre 1943, fecero aprire il fuoco dalle loro batterie del 33° Reggimento artiglieria, di stanza ad Argostoli, contro due motozattere tedesche, che non tentavano alcuna azione ostile ma trasportavano viveri e altro materiale per il piccolo presidio tedesco di quella località; e ciò mentre erano ancora in corso le trattative fra il generale Gandin e il comandante tedesco, tenente colonnello Hans Barge. L’azione, avvenuta ignorando la disciplina militare e scavalcando l’autorità del generale Gandin, causò sei morti fra gli equipaggi tedeschi e invelenì l’animo dei loro commilitoni, già esasperato dall’annuncio dell’armistizio di Cassibile, da essi considerato alla stregua di un vero e proprio tradimento.
A guerra finita, oltre che nei confronti dei comandati tedeschi responsabili dell’eccidio, vi fu anche - nel 1957 - un inizio di procedimento giudiziario nei confronti di alcuni ufficiali superstiti, per aver aizzato la resistenza contro i Tedeschi e provocato così la loro ritorsione; ma esso venne immediatamente concluso con il proscioglimento dei militari. Se le ricerche di Massimo Filippini non avessero riaperto il caso, almeno sul piano storiografico, oggi ancora il pubblico ignorerebbe il vero contesto in cui si svolse l’eccidio di Cefalonia; senza dimenticare il fatto, di per sé rilevante, che ben 3.000 uomini della sfortunata divisione (secondo le cifre ufficiali) perirono dopo le tragiche vicende sull’isola, a causa dell’affondamento delle navi che li trasportavano in prigionia, ad opera delle forze navali alleate.
Poi, la retorica.
Uno scrittore inglese, Louis de Bernières, rievocò la vicenda di Cefalonia nel suo romanzo «Il mandolino del capitano Corelli» («Captain’s Corelli Mandolin»), accreditando l’eterno stereotipo degli Italiani “brava gente” e perenni suonatori di mandolino; romanzo dal quale, nel 2001, il regista John Madden ha ricavato un film piuttosto mediocre, reso - però - celebre dalla interpretazione della star hollywoodiana Nicholas Cage.
Nel 2001 il presidente della Repubblica Italiana, Carlo Azeglio Ciampi, vistando Cefalonia, ha affermato che «la loro scelta [dei soldati della «Acqui»] consapevole fu il primo atto della Resistenza, di un’Italia libera dal fascismo».
Nel 2005 la RAI ha mandato in onda la serie televisiva «L’eccidio di Cefalonia», per la regia di Riccardo Milani.
Nel 2007, infine, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha festeggiato il 62° anniversario della Liberazione, recandosi anche a Cefalonia; ed è stata la prima volta che ciò è avvenuto al di fuori dei confini nazionali, cosa che ha conferito alla cerimonia una particolare risonanza ed una speciale solennità.
Ora, la domanda che dovremmo onestamente rivolgere a noi stessi è se quella solennità, se quella interpretazione dei fatti, siano conformi al rispetto della verità, in primo luogo per un senso di giustizia verso i morti e, poi, per poterci rapportare serenamente al nostro passato, liberi dai fantasmi di mitologie e strumentalizzazioni che non ci aiutano a vivere il presente in maniera consapevole e pacificata.
In qualunque altro esercito del mondo - o, quanto meno, in qualunque esercito di un Paese serio - insultare il proprio comandante in zona di guerra (oltretutto, una pasta d’uomo che chiamava i suoi soldati, indiscriminatamente, «figli di mamma», e la cui massima preoccupazione, dopo l’armistizio dell’8 settembre, era quella di restituirli, sani e salvi alle loro famiglie); sobillare la truppa alla disobbedienza; intrattenere rapporti di amichevole collaborazione con le forze partigiane nemiche o che tali erano state fino a poche ore prima; aprire il fuoco contro truppe tecnicamente ancora alleate e, comunque, senza averne ricevuto espresso ordine; attentare, addirittura, alla vita dei propri ufficiali, ritenuti “traditori”: ebbene, tutto questo si configura come una serie di reati da corte marziale e da plotone d’esecuzione.
In Italia, invece, le cose vanno altrimenti; in Italia queste azioni diventano nobili impulsi ideali che aprono la strada alla Resistenza e, come tali, vengono circonfuse da una luce di gloria, additandone gli autori non alla pubblica riprovazione, ma all’ammirazione incondizionata.
Strano paese, l’Italia.
Ma perché questa ricostruzione dei fatti non appaia viziata da spirito di parte, ci limitiamo a riportare alcuni stralci da una pubblicazione apparsa in data non sospetta, l’ormai lontano 1970 - vale a dire, quarant’anni fa giusti -, significativamente intitolata «Il massacro di Cefalonia era proprio inevitabile?», apparsa per i tipi de Gli Amici della Storia all’interno della collana «I grandi enigmi degli anni terribili», diretta da Franco Massara (Ginevra, Editions de Crémille, vol. 1, pp. 178-183):


«Nel giro di poche ore [l’11 settembre 1943], “l’amatissima divisione” era ormai irriconoscibile. I reparti sono traumatizzati; le coscienze disorientate; i legami che annodavano nella disciplina i soldati agli ufficiali e gli ufficiali ai comandanti di Corpo, i comandanti di Corpo al generale di Divisione sembra che stiano per sciogliersi. Lo choc dell’8 settembre stato violento. L’anarchia dilaga. La ribellione serpeggia. La propaganda dei patrioti greci attizza il fuoco di tutti i risentimenti e rancori. I soldati sono agitati. Gridano. Urlano. Accusano. Recriminano. Una vera e propria insubordinazione sta covando sotto le ceneri. Si mormora che il generale voglia “vigliaccamente” disarmare l’intera divisione per consegnarla a “a uno sparuto gruppo di Tedeschi. Lo si taccia nientemeno che di tedescofilo. Verso le 18, appena dopo il rapporto ai cappellani [che Gandin, uomo assai religioso, aveva convocati per riceverne un parere], scoppi di bombe e colpi di moschetto si odono nell’abitato di Argostoli. Fuggi fuggi generale. Le strade diventano cupamente silenziose. Che cosa sta succedendo?
Colpo di testa tedesco verso le 17. Gli artiglieri germanici puntano un semovente contro un dragamine italiano munito di due mitragliere da 20 mm. Attraccato alla banchina. L’ufficiale che lo comanda, sfila gli otturatori che consegna al comando di artiglieria. Informato dell’accaduto, il capitano Apollonio, eccitatissimo, si reca immediatamente sul posto con due autocarri di artiglieri armati fino ai denti, sale a bordo del dragamine, smonta le due mitragliere, le fa caricare sugli autocarri; fermato da un sottufficiale tedesco ed invitato a seguirlo dal comandante germanico, scrolla le spalle, risponde che di comandanti ne conosce uno solo, ed è quello “italiano”. Punto e basta.
Intanto sta per scadere l’ultimatum. Il tenente colonnello Barge e il tenente Fauth si recano al Comando di Divisione. “Sta bene - risponde il generale - accordo di massima a cedere le armi collettive e i pezzi” [era stato questo anche il parere dei cappellani convocati dal generale.]
All’alba del 12 settembre la situazione precipita improvvisamente. Notizie allarmanti, diffuse durante la notte, esasperano gli animi. Un sergente maggiore, fuggito con un’imbarcazione da Santa Maura, riferisce che nell’isola il presidio italiano è stato proditoriamente assalito dai Tedeschi, disarmato; soldati e ufficiali incolonnati e avviati in campi di concentramento. Il trucco aveva funzionato: prima i Tedeschi avevano preteso solo le artiglierie e le armi collettive; una volta queste cedute, avevano preteso quelle individuali. Una volta queste consegnate, la truppa era stata brutalmente sospinta dietro i reticolati.
La notizia incendia gli animi. I Tedeschi si servono dell’inganno; le trattative in corso servono loro soltanto per guadagnare tempo. L’agitazione è grande. Prorompono grida: “Abbasso i Tedeschi! Morte ai tedescofili!”.
Chi sono i tedescofili? Tutti coloro che invitano alla calma. Si comincia a sospettare persino della buona fede del generale. “Il generale - si dice - è d’accordo coi Tedeschi”.
Che cosa resta da fare?Il generale Gandin ha ormai dato la sua parola ai Tedeschi. Come tornare indietro? Alle quattro del mattino era già partita per il comando tedesco la lettera di conferma degli accordi presi verbalmente la sera prima.
Ci potevano essere ancora dei dubbi sulle intenzioni reali dei Tedeschi? Bastava d’altra parte guardarsi attorno: nella zona di Lixuri era tutto un andirivieni di colonne germaniche; rifornimenti venivano paracadutati ai presidi isolati. Sbarchi erano segnalati sulle coste. Intanto il capitano Pampaloni ha già stabilito contatti con i partigiani greci dell’isola. Entra in scena il tenente dell’esercito greco Agesilao Migliaressi. Avvicina il capitano Pampaloni e il capitano Apollonio, prende accordi direttamente con entrambi in vista di un’azione combinata contro i Tedeschi. Entrano in scena altre figure di resistenti greci: sono il tenente colonnello Kavadias, il capitano Lazarotos e il tenente Georgopulos. Riunione segreta di costoro sotto la tenda del capitano Apollonio: i resistenti greci provvederebbero alle informazioni, a controllare l’isolato presidio tedesco di Capo Munda, ad iniziare azioni di guerriglia lungo la rotabile Karadacata-Argostoli, ad attaccare le autocolonne tedesche in marcia, a colpire. Ad assicurare il collegamento tra Italiani e Greci è incaricato il tenente Dionisio Georgopulos. Sarà distaccata presso i “ribelli” una stazione radio. La dirigerà il radiotelegrafista Fedeli. Si distribuiscono armi. Un capitano dei carabinieri si incarica di rimettere in libertà i detenuti “politici” greci e di distruggere tutti i documenti compromettenti relativi ad azioni tentate o progettate dai componenti dell’E.L.A.S. nell’isola di Cefalonia.
Si arriva così al pomeriggio del 12. Verso le ore 16, altro incidente. Questa volta siamo arrivati al punto di rottura. Il generale comandante tiene un nuovo consiglio di guerra. Esamina la situazione drammatica che si è venuta a creare nelle ultime ore, sempre allo scopo di trovare un compromesso qualunque, pur di portar fuori i suoi undicimila “figli di mamma” da una tragedia di cui calcola già tutte le conseguenze, quando…
La notizia cade sul tavolo del generale col fragore di una bomba: i Tedeschi hanno ritto gli indugi, gettato la maschera, sono passati all’azione, e tanto per cominciare, hanno circondato le batterie di San Giorgio e di Kavriata: disarmate, intimato quindi ai soldati di consegnare le armi.
S.O.S,. disperato degli ufficiali. La risposta del comando è burocraticamente semplice: “Di fronte a forze preponderanti, cedere”.
E le batterie cedono. L’affronto è grave. Umiliante. Soprattutto sospetto. Si sospettano infatti complicità penose, impossibili, di cui non si vorrebbe nemmeno sentir parlare, ma di cui intanto si mormora. Comincia a serpeggiare per la prima volta la parola tradimento. La propaganda greca fa di tutto per eccitare gli animi, per mettere i soldati contro gli ufficiali, gli ufficiali inferiori contro gli ufficiali superiori, per “caricare” gli animi dei soldati di risentimento contro i Tedeschi, per creare malintesi, provocare incidenti. Chi non è contro i Tedeschi, è con i Tedeschi, e come tale tacciato di vigliaccheria.
Grave incidente nella piazza principale di Argostoli. Poiché la situazione sta diventando sempre più critica, e potrebbe precipitare da un momento all’altro, il Comando di Divisione aveva ordinato lo sgombero delle Suore Missionarie italiane. Se ne era incaricato il capitano Piero Gazzetti, addetto all’ufficio propaganda del comando divisionale: con un autocarro le sta trasferendo al 37° ospedale da campo. Nella piazza di Argostoli, l’autocarro è fermato da un maresciallo di Marina il quale intima all’ufficiale e alle suore di scendere: l’autocarro è requisito, sarà destinato al trasporto di armi e munizioni. Il capitano risponde che deve eseguire un ordine del generale. È un attimo. Il maresciallo urla: “Allora anche voi appartenete alla schiera dei traditori”. Estrae la pistola, spara a bruciapelo all’ufficiale, che cade riverso. Morirà il giorno appresso, dopo un’atroce agonia.
Ancora incidenti nel pomeriggio. Mentre si reca al comando di artiglieria dove ha convocato un consiglio di guerra, il generale Gandin è fatto segno a un attentato prima, ad insulti poi. Una bomba è lanciata contro la sua macchina, fortunatamente senza conseguenze. Oltre, un soldato si para decisamente davanti alla macchina costringendo l’autista a rallentare; un altro militare ne approfitta per strappare la bandierina tricolore dal cofano gridando al generale che on è più degno di portarla. Ammutinamento vero e proprio in un reggimento di fanteria: il colonnello, fatto segno a un colpo di moschetto, è costretto a rifugiarsi in una casetta. Sarà liberato da alcuni civili greci.
Che cosa aveva fatto il generale Gandin per meritare un simile trattamento dai suoi soldati? Che cosa aveva fatto per sentirsi chiamare “traditore”? Niente. Voleva soltanto portare a casa, indenne, la divisione che la Patria gli aveva affidato, assieme a tutti i “figli di mamma” che la componevano. Egli è forse il solo uomo degli undicimila della “Acqui” che vede chiaramente la situazione. “I Tedeschi ci schiacceranno con i loro Stukas” dice nel corso di un rapporto con alcuni ufficiali di artiglieria che avevano chiesto di essere ricevuti. Tra questi, il capitano Apollonio, il capitano Pampaloni e il tenente Ambrosini sono i più agitati. il movimento di rivolta era in realtà partito dalle batterie del 33° artiglieria e della Marina. Il comandante, il colonnello Romagnoli, pur parteggiando idealmente coi suoi subalterni, non pere mai il senso della misura. “Siamo soldati - dice - e dobbiamo obbedire”. Impossibile, gi rispondono.
I Tedeschi hanno catturato alcune nostre batterie: che cosa aspetta il generale Gandin ad attaccare? Di quale altra provocazione tedesca ha bisogno per iniziare le ostilità? La discussione assume toni insoliti. Gandin cerca di far capire la gravità della situazione. Quale? Essa è uin una sola parola, e dice: “isolamento”. “Siamo isolati”. Ma ormai le menti sono sconvolte, l’ubbidienza distrutta.
Gandin insiste nel voler far comprendere le ragioni delle sue decisioni, di trattare sino all’ultimo coi Tedeschi. Gli ribattono che tale atteggiamento è contrario all’onore militare. Si arriva all’assurdo: di protestare perché il generale aveva preso delle decisioni senza consultare prima i subalterni. Pare che un ufficiale, tra i più scalmanati, lo abbia accusato addirittura di essere un ribelle agli ordini del governo legittimo e servo di Farinacci.
“Generale - esclama il capitano Apollonio - non vi chiediamo che di lasciarci morire accanto ai nostri cannoni”.
Fuori è il tumulto, l’insubordinazione è ormai scatenata. I più irrequieti sono proprio i tutori dell’ordine, i carabinieri, Gli artiglieri, credendo che i loro ufficiali siano stati arrestati, puntano i pezzi delle batterie contro il Comando Divisione. Qualcuno parla di arrestare nientedimeno che il generale. Ufficiali e truppa, aizzati dai Greci, gridano che il generale è un traditore…»


Da questa ricostruzione dei fatti, che era di pubblico dominio in Italia prima che la retorica resistenziale avvolgesse il dramma della «Acqui» in un alone sacrale che ne rende difficilissima, ora, una spassionata valutazione storica, risulta, fra le altre cose, che un semplice capitano, agendo di propria iniziativa e alle spalle dei propri superiori diretti, nonché del generale di divisione che stava prendendo tutt’altre decisioni, stabiliva rapporti di collaborazione operativa con i partigiani greci, ossia con il nemico del giorno innanzi, fin dal 13 settembre, vale a dire appena cinque giorni dopo l’armistizio dell’Italia con gli Alleati.
Già lascia pensosi il fatto che, su di una piccola isola come Cefalonia (781,5 kmq.: cioè, pressappoco, tre volte e mezzo l’isola d’Elba), una forza italiana di 11.000 soldati, più duemila Tedeschi, convivesse con forti nuclei della resistenza greca, come se fra le due parti si fosse giunti, e da tempo, a una sorta di tacito armistizio. A questo punto, forse, l’intero episodio di Cefalonia andrebbe inserito nel più ampio contesto del disfacimento morale di una parte degli eserciti italiani disseminati nei Balcani e particolarmente demoralizzati dopo che, con la caduta della Tunisia e con la conquista angloamericana della Sicilia, essi cominciavano a sentirsi tagliati fuori dalla Patria in pericolo e privi di ogni prospettiva di vittoria.
Solo in un simile contesto si possono collocare azioni come quelle di alcuni ufficiali della «Acqui», i quali, infrangendo la disciplina e screditando pubblicamente l’azione di comando dei propri superiori, instaurano rapporti con i partigiani locali, aprono il fuoco di propria iniziativa sulle truppe germaniche, istigano i propri soldati - con toni esaltati e con profonda irresponsabilità - a una azione che costerà innumerevoli vittime innocenti.
Ed ora, proviamo a metterci onestamente, per una volta, da parte dell’ex alleato tedesco, già ferito dalla notizia dell’armistizio di Cassibile e dalle sue prevedibili conseguenze per la sicurezza della Germania medesima. Che cosa doveva pensare di quei soldati, di quegli ufficiali; quanto poteva fidarsi delle loro assicurazioni, della loro parola; che cosa doveva aspettarsi da loro, e come avrebbe dovuto regolarsi nei loro confronti, con una guerra tuttora in corso contro le maggiori potenze mondiali e con la flotta britannica sempre pronta a sferrare un colpo di mano contro Cefalonia, così come contro le altre isole greche?
Ancora.
Prima che abbia inizio la battaglia fra Italiani e Tedeschi sull’isola, il generale Gandin è minacciato e insultato dalle sue stesse truppe, che strappano la bandiera italiana dal cofano della sua automobile e gli gridano che non è degno di essa. Un colonnello della «Aqui» viene preso a fucilate dai suoi stessi soldati ed è tratto in salvo dai civili greci. E chi aveva autorizzato l’immediata scarcerazione dei partigiani greci detenuti dai carabinieri?
Si tratta di scene normali presso una divisione combattente, in un teatro di guerra? Qualcuno si immagina che situazioni del genere avrebbero potuto verificarsi presso gli eserciti alleati, non che presso il disciplinatissimo esercito tedesco, che pure si sentiva, ed era, circondato da nemici da ogni parte, ivi compresi i partigiani che colpiscono stando nell’ombra? Oppure qualcuno si immagina che, se si fossero verificate, la disciplina non sarebbe stata drasticamente ripristinata; o, ancora, che un tribunale militare non avrebbe sanzionato i gravissimi reati commessi, e sia pure in condizioni di normalità, vale a dire a guerra finita?
Per vedere scene simili a quelle di Cefalonia nei primi di settembre del 1943, bisogna risalire indietro agli ammutinamenti dell’esercito francese nel 1917 o all’insurrezione della flotta tedesca negli ultimi giorni della prima guerra mondiale. Meglio ancora: bisogna risalire alla Rivoluzione d’Ottobre e alla dissoluzione dell’esercito russo, fra il 1917 e il 1918, fomentata dagli agitatori bolscevichi e dagli agenti provocatori austro-tedeschi; non si dimentichi mai che Lenin tornò in Russia con l’aiuto di Parvus, agente dei servizi segreti tedeschi, che disponeva dei fondi segreti stanziati dallo Stato Maggiore germanico.
Vi è infatti, riconoscibilissima, una particolare tecnica di matrice comunista, nei gravissimi fatti verificatisi presso la divisione «Acqui» di Cefalonia, prima che divampasse la battaglia fra Italiani e Tedeschi, dal 14 al 22 settembre (giorno della resa del generale Gandin), ispirata alla nota filosofia leninista del «tanto peggio, tanto meglio»; e di cui è traccia, fra parentesi, anche nell’attentato di Via Rasella, a Roma, l’anno dopo. I partigiani comunisti greci, addestrati presso quella scuola, ne sapevano ben qualcosa: essi non ebbero scrupoli, non solo a fomentare l’odio fra Italiani e Tedeschi, ma anche a istigare la ribellione dei soldati italiani contro i loro ufficiali e contro il loro comandante.
Bisogna avere il coraggio di dirlo: la divisione «Acqui» era in stato di dissoluzione, anzi, in stato di rivolta: non rispondeva più al proprio Comando e si comportava come una mina vagante, che avrebbe potuto esplodere nelle mani di chiunque le si fosse avvicinato. Quegli artiglieri che puntano i propri cannoni contro il comando della divisione, contro l’edificio ove risiede il generale Gandin, sembrano appartenere ad una scena surreale o a un cattivo film di ammutinamento e ribellione. Una scena del genere non è concepibile in nessun esercito degno di questo nome.
I partigiani greci, astuti e calcolatori, se ne resero conto benissimo e riuscirono a “lavorarsi” alcuni ufficiali inferiori, istigandoli non solo contro i Tedeschi, ma anche contro i loro superiori e contro il loro stesso comandante. A loro non importava nulla della sorte di quegli sprovveduti; gli bastava seminare zizzania tra Italiani e Tedeschi, per metterli gli uni contro gli altri. Certo, era nel loro diritto di resistenti di un Paese occupato: ma per carità, non facciamone degli eroi e non continuiamo a dipingere una storia che non esiste, dove tutti i “buoni” sono da una parte sola e tutti i “cattivi” sono dall’altra, senza sfumature.
Comunque, sul ruolo svolto dalla Resistenza greca in questa e in altre vicende dell’esercito italiano dopo l’8 settembre del 1943, ci riserviamo di ritornare altra volta, in maniera più specifica. Per ora ci basta aver evidenziato come la decisione della «Acqui» di resistere ai Tedeschi non nasce, come vorrebbe la Vulgata storiografia oggi imperante, da una serena discussione e da una cameratesca assunzione di responsabilità reciproca fra tutti gli uomini: ma dal sospetto, dall’odio, dall’esaltazione, dall’incompetenza, dalla faciloneria; mescolati - come avviene nel mistero dell’animo umano - al senso dell’onore ferito, al coraggio personale, a un innegabile spirito di sacrificio; il tutto manipolato da alcuni mestatori, in buona parte stranieri ed ex nemici - i partigiani greci - i quali hanno tutto l’interesse a far scoppiare l’irreparabile fra i due eserciti di occupazione presenti nell’isola.
Così, anche in questo caso - come in molti altri, a cominciare dall’attentato di Via Rasella che provocò la strage delle Fosse Ardeatine - ciò che ci viene raccontato dalla Vulgata oggi dominante non è precisamente la verità e nemmeno un onesto tentativo di avvicinarvisi, ma una deliberata manipolazione di essa, il cui scopo è fondare un mito intangibile, all’ombra del quale le stesse forze finanziarie, industriali, militari, che avallarono il fascismo e la guerra e ne ricavarono grossi vantaggi, potessero riciclarsi per continuare a spadroneggiare, stavolta in versione democratica.

Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it


Luigi Caroppo,
Uno dei sopravvissuti racconta e denuncia
Pagine 90 - Formato 12x17
Prezzo € 8,50
Cefalonia, settembre ’43. La Divisione Acqui abbandonata dallo Stato italiano latitante, dopo l’armistizio dell’8 settembre, difende la propria dignità. Migliaia di soldati e ufficiali, animati dall’orgoglio e...


FRANCO PAGLIANO

Franco Pagliano nacque nel 1914 a Genova, con l'aviazione nel sangue. Suo padre, il capitano pilota Maurizio Pagliano, fu uno degli assi del bombardamento durante la prima guerra mondiale e morì durante un'azione di mitragliamento sulle trincee del Piave nell'inverno 1917. La passione per il volo si concretizzò in Lui nel 1936 quando, brevettatosi pilota militare, fu assegnato ai reparti da bombardamento con il grado di sottonente di complemento. Partecipò alla guerra di Spagna a fianco dei nazionalisti e nel corso delle operazioni militari fu ferito e più volte decorato. Rientrato in Italia, passò in servizio permanente effettivo. Fu poi inviato in Africa Settentrionale dove accanto all'attività di volo iniziò quella giornalistica per alcune pubblicazioni militari. Quando nel 1941 venne rimpatriato per motivi di salute, entrò a far parte dell'ufficio stampa del gabinetto del ministro dell'aereonautica, segnalandosi per la sua preparazione professionale in campo tecnico e militare e pubblicando, oltre a numerosi articoli, il volume Bombardieri in quota. Promosso capitano, dopo 1'8 settembre 1943, liberamente e con coerenza ai suoi ideali, decise di raggiungere il nord, dove divenne capo dell'ufficio stampa dell'aviazione della RSI, contribuendo alla fondazione del giornale Ali. Nei difficili e avvilenti anni del dopoguerra, si dedicò quasi interamente all'attività (li giornalista pubblicista, dando contemporaneamente alle stampe Storia di 10.000 aereoplani (1 ed. 1947). Preciso, attento, spontaneo, si affermò ben presto nel settore del giornalismo aereonautico, divenendo collaboratore di numerose pubblicazioni nazionali. Fu per dieci anni vicepresidente dell'Unione Giornalisti Italiani e nel 1961 vinse il premio « Mario Massai », alla sua prima edizione nel dopoguerra. Estese in seguito la sua attività nel campo editoriale divenendo consulente aereonautico per varie opere di carattere enciclopedico e nel 1964 pubblicò Aviatori Italiani, concretizzando in modo definitivo uno dei compiti che si era prefisso fin dal 1945: descrivere con verità storica, obiettività e vivacità gli uomini, i mezzi e le imprese della nostra aviazione in pace e in guerra. Un male inesorabile purtroppo lo stroncava nel febbraio 1969, poco prima che uscisse stampata la sua ultima opera, In cielo e in Terra.





Copertina: Verde Alfieri
Avvertenza
Le esatte generalità dei testimoni che appaiono nel libro cor le sole iniziali, saranno reperibili, ove necessario, presso lo stu­dio legale dell'avvocato Lorenzo Borrè in Roma, via Germani­co 107.
Il nostro indirizzo Internet è: http://www.mursia.com/



Copyright 2009 Ugo Mursia Editore S.p.A. Tutti i diritti riservati - Printed in Italy
5817/AC - Ugo Mursia Editore S.p.A. - Milano Stampato da Atena - Grisignano (Vicenza)



A Barbara, Annamaria,
Lorenzo, Edoardo
Ad Annina e Nini
A mamma e papà




Il tempo logora l'errore e leviga la verità.



Duca di Lévis, Massime, precetti e riflessioni



PRESENTAZIONE



Tra le più insopportabili sciocchezze che oggi hanno libero corso e ampio credito presso i mass media e in quella che si usa chiamare l'opinione pubblica, due sono davvero dure a tollerarsi: la balla sul Tribunale della Storia e la polemica contro il cosiddetto revi­sionismo.
La storia non va mai scritta con la maiuscola e non c'è tribunale che tenga; suo compito non è quello di decretare chi ha ragione e chi ha torto, essa non con­danna e non assolve. Funzione dello storico non è il giudicare, bensì il comprendere: non nel senso di giustificare, bensì in quello — etimologicamente pre­ciso — di capire e spiegare dall'interno la genesi di eventi, istituzioni, strutture sociali, categorie morali e culturali. I «responsi» del «tribunale della storia» non sono mai né eterni, né irreversibili: la storia è, per sua natura, opera aperta. E non perché il passa­to, una volta divenuto tale, possa cambiare: bensì perché cambiamo noi, il nostro modo dí accedere ai documenti e d'interpretarli, la massa di fonti che ab­biamo a disposizione ín rapporto con quanto purtroppo viene perduto e distrutto e quanto viene re­cuperato e scoperto, le prospettive alla luce delle quali conduciamo le nostre indagini.
Il revisionismo è un atroce e fangoso equivoco. La storia altro non è se non revisione continua: verifica di dati e di fatti che ritenevamo assodati, rettifica di giudizi precedentemente espressi, progressivo avvi­cinamento verso un punto ideale d'arrivo che non può non essere, moralmente parlando, il traguardo d'ogni studioso di storia, ma dell'inconseguibilità del quale, dell'impossibilità di giungervi, qualunque studioso degno di questo nome è perfettamente con­scio. Il lavoro dello storico è una fatica di Sisifo, un supplizio di Tantalo; e il più decoroso titolo di gloria di uno storico che abbia buoni allievi è la consape­volezza di lavorare per metterli nelle condizioni di far meglio di lui, di superarlo. Quanto alla «verità storica», essa muta col mutare delle generazioni e degli strumenti esegetici e gnoseologici di ricerca; e non va mai confusa comunque con la «verità» asso­luta, ch'è per sua natura umanamente inconoscibile.
Ma negli ultimi anni, con il crescere della polemi­ca contro il cosiddetto «revisionismo», si è voluto semplicemente negare il rischio d'una anche soltan­to parziale modificazione di dati e di valori giudicati moralmente intangibili e irreversibili e come tali sot­tratti — almeno nelle intenzioni — alla corrosione della revisione storica che avrebbe potuto ridimen­sionarli, articolarli, insomma weberianamente «di­sincantarli»: e, in alcuni casi, svelare le menzogne o le manipolazioni sulle quali essi poggiano. Ciò per­ché di alcuni eventi e momenti della storia passata, specie di quella recente, si è fatto un uso improprio e indebito, servendosene come da fondamento e da giustificazione per assetti pubblici nazionali o inter­nazionali e per consolidate fortune politiche o mas­smediali. Si è così cercato di sottrarre alla critica sto­rica e alla verifica documentaria alcune parti del no­stro passato, a costo di ostacolare o addirittura di proibire per legge, al riguardo, qualunque supple­mento di prova e qualunque estensione e approfon­dimento della ricerca. E, all'inesistente figura retori­ca del Tribunale della Storia, si è sovente sostituita la concreta realtà di trascinare gli storici in tribunale.
Non che, d'altra parte, preoccupazioni, riserve e verifiche non fossero necessarie. Prendiamo la galas­sia dei «revisionisti» in servizio permanente effettivo e di coloro che sono comunque stimati tali: basta un'oc­chiata alla sterminata produzione revisionistica (e, del resto, anche a quella controrevisionistica) per render­si conto che si trova di tutto: studiosi probi e severi, ingiustamente perseguiti e colpiti per aver dimostrato, facendo il loro mestiere che alcuni idola tribus sui quali poggia l'edificio delle idées données e il generale consenso tributato loro dalla nostra società civile sono falsi, o manipolati, o discutibili; onesti ricercatori che, fiduciosi nel buon senso e nella buona fede generali, si sono imbattuti in un fatto o in un documento che mette in discussione una certa verità ritenuta inoppu­gnabile e ingenuamente l'hanno fatta conoscere; di­lettanti allo sbaraglio poco a loro agio con gli stru­menti della corretta ricostruzione del passato e inca­paci di selezionare le prove e di gerarchizzare le fonti; narcisisti ed esibizionisti in cerca dello scoop e inge­nuamente attardati nell'illusione che lo «scandalo» paghi ancora, vale a dire illusi che perseverano nel non essersi accorti dell'abisso di viltà, d'ignoranza e di conformismo nel quale sta affondando sempre di più il cosiddetto nostro libero Occidente; monomaniaci depressivi o schizofrenici incuranti del male che le loro tesi procurano soprattutto a loro stessi.
D'altronde, col mutare dei tempi si è andato pro­filando altresì il bisogno di realizzare una «memoria condivisa» in grado di contribuire alla ricostruzione di quell'autocoscienza identitaria che la Modernità occidentale ha fatto per cinque secoli di tutto per cancellare — progressivamente sostituendola con l'u­nico tipo d'identità che interessasse sul serio l'homo occidentalis, quella individuale al servizio della sua «volontà di potenza» — e di cui sembra si sia tornati adesso ad avvertire viceversa l'indispensabilità. Ed ecco allora che, dinanzi a molti aspetti della nostra storia recente e recentissima — dal «risorgimento» alla «questione meridionale» alle due guerre mon­diali a quella che Ernst Nolte ha definito la «guerra dei Trent'Anni» del XX secolo fino alle paci ingiuste di Versailles e al brigantaggio dí Yalta, per tacere degli errori e degli orrori commessi dall'Asia all'A­frica all'America Latina e dell'attività criminosa delle lobby internazionali e dei (troppi) governi che si pre­stano a far loro da comitato d'affari — nasce la neces­sità di chiarire, di smascherare molte bugie, di affer­mare altrettante verità troppo a lungo conculcate o negate, calpestate comunque.
C'è voluto mezzo secolo prima che si potesse, in Italia, parlare apertamente delle foibe. Quanti altri decenni saranno necessari prima che si possa affer­mare, apertamente e liberamente, la verità su inter­venti in appoggio a guerre combattute sotto l'ipocri­ ta copertura di etichette come l'«intervento umani­tario» e la «forza d'interposizione»?
La «memoria condivisa» richiede uno sforzo da parte di tutti coloro che intendano appunto condivi­derla: questo vuol dire che chi ha finora goduto di rendite di posizione politiche e morali determinate dall'aver ereditato la parte dei vincitori dovrà per forza fare un passo indietro, e ammettere come buoni alcuni degli argomenti dei vinti, rivisitare le loro ragioni, accedere a forme di giudizio più sereno e moderato, rinunziare alla politica dello struzzo nei confronti di verità evidenti, documentate e sempre istericamente negate, accedere a una comune analisi dei molti aspetti della realtà passata che ancora re­stano oscuri o incerti. Ma, obiettano alcuni, «non si possono mettere sullo stesso piano i carnefici con le vittime»: ineccepibile obiezione, a patto dí non uti­lizzarla come alibi per un'astratta e manichea visione della realtà; e a patto di mantenere senza dubbio a proposito di tanti eventi prossimi e remoti il proprio punto di vista, senza tuttavia cedere alla tentazione di ritenere perciò legittimo tutto quel ch'è accaduto dalla parte che si è scelta come propria. In molte di­scussioni recenti, mi sembra che perfino politici av­veduti e intellettuali attenti abbiano manifestato la tendenza un po' troppo disinvolta a confondere, ad esempio, lo ius in bello con lo ius ad bellum, e a giu­dicare quindi pregiudizialmente buoni tutti gli atti compiuti dalla parte che a torto o a ragione si ritiene quella giusta. In altri termini, i campi di sterminio nazisti non sono stati orribili solo perché l'ideologia razzista che in qualche modo li sosteneva e li aveva determinati fosse aberrante: sarebbero stati tali anche se sostenuti dalle ragioni politicamente e filoso­ficamente migliori del mondo. Allo stesso modo, la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki è stato un tremendo crimine contro l'umanità: e non serve a giustificarla il replicare che gli statunitensi avevano comunque «ragione» nella guerra contro i giappone­si, e che magari l'esperimento serviva (come sí conti­nua ipocritamente a dire) «per abbreviare il conflit­to». Se un soldato va in guerra per una giusta causa —nel senso, attenzione, non assoluto, bensì in quello giuridicamente e teologicamente circoscritto dalla dottrina agostiniana dello iustum bellum — può aver tutte le ragioni per quanto concerne il suo ruolo ad bellum, il che non lo esime dal comportarsi corretta­mente in bello: se ruba una gallina, o violenta una ra­gazza, o infierisce su un nemico che si sia arreso o sia ferito, o uccide un bambino, non c'è iustum bellum che tenga.
Il fatto è che i vincitori tendono naturalmente a coprire la magagne proprie, a esaltare e assolutízza­re le loro ragioni cercando di farle coincidere con la «ragione» tout court e quindi a fare in modo di far trionfare l'antico escamotage, ch'è stato del resto a lungo proprio del determinismo storicistico, secon­do il quale chi vince avrebbe ragione perché ha vinto, e la prova di ciò starebbe nel fatto che ha vinto perché aveva ragione.
In realtà, quel che di certo si può dire dei vincito­ri — dalla guerra di Troia in poi — è che hanno vinto; e compito dello storico è semmai il ricercare le cause tattiche, strategiche, logistiche, politiche, diplomati­che e magari spirituali e culturali della loro vittoria. La legittimazione morale della vittoria appartiene appunto all'uso demagogico della storia: come si po­trebbe agevolmente comprovare se, accanto ai molti «Libri Neri» che sono già stati pubblicati (del co­munismo, del capitalismo, del colonialismo eccete­ra), ci si desse la pena di mettere insieme un Libro Nero dei Vincitori. Di tutti i vincitori: da Agamenno­ne a Bush, ammesso (e direi non concesso) che Bush abbia davvero vinto anche una sola delle due guerre che ha scatenato, rispettivamente in Afghanistan nel 2001 e in Iraq nel 2003.
Antonio Serena ha alle spalle una prestigiosa car­riera politica, ma anzitutto è un docente con una chiara predisposizione per la ricerca storica: una dote che ha affinato attraverso anni di attività gior­nalistica e dí severo studio. Che cosa c'impedisce di definirlo uno storico? Forse, solo il pregiudizio for­malista che ci obbliga invece a definire «storici» un nugolo dí buoni a nulla o quasi che in vita loro, per essersi imbattuti nelle amicizie e nelle circostanze giuste, si sono imbucati nell'Università; e qualcuno di loro è riuscito ad arrampicarsi fino a una cattedra. Badate, non sto giudicando in blocco, genericamen­te e con leggerezza, tutta una categoria alla quale ap­partengo anch'io: me ne guardo bene. Anzi, tra i do­centi e i ricercatori di storia, in Italia, vi sono studio­si illustri il cui valore è apprezzato e riconosciuto da noi e all'estero, insieme con una quantità ragguarde­vole di ottimi professionisti, quasi sempre scono­sciuti o sottostimati. Ma abbondano purtroppo anche gli altri, i furbastri, i pigri cronici, gli incom­petenti, i miracolati senza merito, i portaborse per professione, i titolari di rendite di posizione, quelli con la tessera giusta in tasca. Se quelli possono contínuare — e continueranno — a restare imboscati o parcheggiati nelle Università, Serena dovrebbe aver diritto di aspirare a una cattedra oxoniense.
Comunque, la sua ricerca presenta irreprensibili caratteri euristici e prosopograficí: documenti, testi­monianze, nomi, luoghi, date. Nessuna traccia di ar­dori o di manie di tipo «revisionistico», in nessun senso; nessuna sbavatura, nessuna discussione su chi ad bellum avesse «ragione» o «torto», nessun dirotta­mento dal rigoroso binario del comportamento in bello. Ch'era per giunta una guerra civile, con tutte le aggravanti del caso. Anzi, ch'era una guerra già finita, dal momento che qui si esaminano fatti, e purtroppo delitti, largamente posteriori al fatale 25 aprile 1945.
Letture come quelle di questo libro obbligano anche a rimettere in discussione — se non fosse già stato fatto — la vera natura di quell'amnistia voluta da Palmiro Togliatti, allora ministro della Giustizia, ch'è stata giudicata (e, intendiamoci, per molti versi tale giudizio resta valido) un gesto lungimirante e pacificatorio, un primo passo verso la ricomposizio­ne del quadro morale della nazione e perfino, se si vuole, verso l'edificazione dí una «memoria condivi­sa». Ma un politico esperto e intelligente come To­gliatti sapeva bene che, dietro alle accuse — che attirò su di sé — di aver voluto in tal modo, troppo precipi­tosamente, «perdonare i fascisti», vi era il rischio per lui e per la sua parte politica di vedere scoperti, nella breve o nella lunga durata, i molti, troppi crimini delle bande comuniste.
Come giudicare tali crimini? Anche qui, l'equani­mità di Serena è esemplare. Questo libro ricostruisce le squallide e sanguinarie gesta della banda del parti­ giano «Falco», Gino Simionato, che infierì nella pri­mavera del '45 in una zona tutto sommato abbastan­za ampia del Trevigiano — quella che nel Medioevo era stata detta «la Marca zoiosa», ma che pure, in pieno Duecento, aveva conosciuto la ferocia di Ezzelino da Romano e quella, non minore, dei suoi avversari —, con epicentro drammatico se non geografico nella cartiera Burgo di Mignagola, un vero e proprio campo di sterminio. E dicendo questo, sia chiaro, nes­suno intende diminuire nemmeno di un millimetro, né di un milligrammo, le responsabilità di altri titola­ri di campi di sterminio, comunque schierati. Il gulag non ha mai giustificato il lager, né viceversa; gli orrori di Sabra e di Chatilah non scagionano certo i suicidi-omicidi terroristici di Hamas; e per giustificare Falluja non c'è 11 settembre che tenga. Allo stesso modo, tra le vittime di «Falco» e della sua banda di assassini c'e­rano forse alcuni ch'erano stati a loro volta carnefici e che come tali erano colpevoli e meritevoli di mille morti: ma, questo è il punto, non di quella che i par­tigiani comunisti inflissero loro.
S'è detto partigiani comunisti. E il comunismo, qui, c'entra senza dubbio e sul serio. Lasciamo per­dere i motivi meno onorevoli di alcuni di quei mas­sacri: la rapina, la violenza fine a se stessa, la vendet­ta. Che Simionato non fosse mai stato uno stinco di santo, che anzi fosse un criminale comune prima che politico, può darsi; così come capita che i delin­quenti politici possano essere, per altri aspetti, irre­prensibilmente virtuosi. Capita. Dí Saint Just e di Robespierre si può dir tutto, ma non che fossero dei debosciati e dei disonesti; e forse in fondo proprio per questo il vizioso Danton finisce col restarci più
simpatico. Si resta sempre disorientati, dinanzi alla virtù sanguinaria: corruptio optimi pessima.
Dev'essere comunque chiaro che questo non è nemmeno un libro di militanza politica anticomuni­sta. Che sarebbe se non altro fuori tempo. E la scia di lacrime e di sangue che il comunismo ha tracciato nella storia del «secolo breve», il Novecento, non deve far dimenticare ch'esso restava (resta) comun­que una nobile utopia, ben più rispettabile di quella caricatura del conservatorismo e del liberal-liberi­smo che oggi sembra essere divenuta il brodo di col­tura della destra di governo. D'altro canto, qualcuno ha affermato che «il peggior crimine del comunismo sta nell'essere scomparso proprio quando si comin­ciava a sentirne un pochino il bisogno»: il che, se non è vero, è comunque almeno ben trovato.
«Falco» poteva essere un delinquente comune che aveva trovato nella politica, in quella politica, un fa­cile alibi per sfogare le sue propensioni. Ma, in que­sto come in molti, troppi altri casi, la computisteria funebre è uno sport un tantino infame che non serve per giunta a nulla. Serena si guarda bene dal dedurre dalle squallide gesta di «Falco» che la sua fosse in quanto tale una causa sbagliata; e non si sogna nem­meno di ricorrere al sillogismo difettivo secondo il quale «Falco era un criminale, Falco era un comuni­sta, quindi tutti i comunisti sono criminali». In que­sta cronaca puntuale e puntigliosa ma non arida, anzi sempre sostenuta da un senso di umanità profondo e moralmente partecipato, non c'è ombra di partito preso; e tanto meno di «vilipendio alla Resistenza».
No. Questa non è una requisitoria di parte, non è un libello di scandalismo sadomaso. È e resta un libro di storia, non una galleria degli orrori. Serena non ri­costruisce quel tragico momento né con l'obiettività fredda del notaio, né con l'ambiguità del voyeur. Siamo nel Veneto del 1945, non lontano da un confi­ne oltre il quale si sta attuando spietatamente una ri­voluzione comunista: come quella che alcune compo­nenti del mondo repubblicano tra il 1936 e il 1939 avevano cercato di attuare in Spagna. Piaccia o no, il lavoro dí «Falco» è quello di un politische Soldat che sta procedendo alla decapitazione di un numero quanto possibile più alto di oppositori della costru­zione del Domani socialista e, nel contempo, a una ri­gorosa educazione delle masse: colpirne uno per edu­carne cento, colpirne mille per educarne centomila. Il truce Gino Simionato è, al pari dell'intelligente e sot­tile Palmiro Togliatti per quanto a un livello politica­mente e culturalmente molto più rozzo di lui, uno stratega stalinista: è stato Josif VissarionoviC ad aver insegnato a entrambi che cosa sia un delitto politico, come lo si perpetri, quali siano i fini che attraverso esso ci si propone di conseguire. Nessuna concessio­ne a sentimenti e coscienza: solo politica. Che poi Falco sia ben altro che un rivoluzionario irreprensibi­le, come invece è Togliatti, è un altro discorso.
Eppure questo non basta ancora. Non siamo giunti alla fine della spirale. Dietro all'attività di macellaio del partigiano veneto c'è di più e di peggio, e non dipende né da lui, né dall'ideologia comunista. C'è il Male Oscuro che monta, c'è la struttura di so­praffazione che si sta creando le sue istituzioni, c'è l'ipocrisia politicamente ben temperata del legalitari­smo e del formalismo: c'è il perbenismo pavido e fe­roce, criminoso comunque, che non era stato estra‑
neo nemmeno al fascismo e che difatti era sangue e carne di tanti opportunisti; ecco perché, da un certo punto di vista, le Corti d'Assise Straordinarie sono una pagina ancora più nera di quella degli efferati as­sassinii, così come la degradazione — e pertanto la condanna all'infamia — d'un militare che aveva ade­rito alla RSI è solo in apparenza meno indecorosa del furto di un orologio a un morto ammazzato.
E altre pagine imbarazzanti in senso opposto, ad esempio la lettera di ringraziamenti di monsignor Mantiero al temibile e famigerato Mario Carità? Carta canta, anche in questo caso: la realtà storica è sempre dannatamente complessa, l'inatteso nella ricerca è sempre dietro l'angolo e balza spesso fuori — magari ospite non gradito — dalle carte d'archivio. Chí non vuole correre rischi, deve fare a meno di frugare tra quelle carte e accontentarsi delle verità consolidate e ripetute fino alla noia dai fautori della Verità Storica Costituita, da quelli che amano distribuire patenti di ragione e di torto. Antonio Serena non è uno di loro. Questo libro non è fatto per nessuno tra quanti (e sono tanti) sono convinti dí avere la verità in tasca.
FRANCO CARDINI
FRANCO CARDINI, nato a Firenze nel 1940, ha insegnato in di­verse università, tra le quali






«Si uccideva senza nemmeno prender nota del nome delle vittime.» (Rapporto dei carabinieri della tenenza di Treviso, 2 agosto 1949)




Tra aprile e maggio del 1945, la zona della provincia di Treviso con epicentro la cartiera Burgo di Mignagola di Carbonera fu teatro di uno dei più feroci massacri attuati da elementi partigiani nel corso della guerra civile. Delle vittime — fascisti rastrellati nella zona e civi­li uccisi per motivi di vendetta e rapina — solo un centi­naio furono riconosciute perché quasi tutti i corpi, come dichiareranno diversi testimoni a guerra finita, furono gettati nelle acque del fiume Sile, bruciati nei forni della cartiera o sciolti nell'acido. Le maggiori effe­ratezze avvennero all'interno della cartiera, dove impe­rava Gino Simionato, detto «Falco».
Il processo ai responsabili, celebrato a Treviso nell'esta­. te del 1954, dopo aver appurato i fatti criminosi e gli autori degli stessi, si concluse col «non doversi proce­dere a carico degli imputati in ordine ai reati rubricati, perché estinti per effetto di amnistia».
Antonio Serena è nato a Padova nel 1948 e risiede in provincia di Treviso. Giornalista pubblicista, già docente di Civiltà francese nei licei e parlamentare di quarta legislatura, coordina attualmente la ras­segna stampa on line «
liberaopinione.net». Laureato in Lingue e let­terature straniere e in Lettere moderne, si è specializzato ín Storia contemporanea all'Università dí Urbino. Ha pubblicato L'epurazione in Francia nel secondo dopoguerra (1982), Oderzo 1945, storia di una strage (1984) e I giorni di Caino (1990).
1i~
A cura di Maurizio PaglianoBarcellona, Bari e Berlino. Attual­mente è professore ordinario di Storia Medievale presso l'U­niversità di Firenze. Da oltre quarant'anni si occupa in parti­colare di crociate e rapporti tra Cristianità e Islam. Membro di prestigiose organizzazioni storico-culturali, collabora con la RAI e con vari quotidiani e periodici. Autore di decine di saggi, tra i suoi lavori editoriali più recenti, L'invenzione del nemico (2006) e Il Signore della Paura (2007).













Eugenio Wolk "Lupo" Comandante dei Gamma della Xa MAS





Bruna Pompei



Prezzo: €42,00 (incluso 4 % I.V.A.) Il volume ripercorre la vicenda umana e professionale di Eugenio Wolk, di nobile stirpe russa, sradicato dalla terra natale causa la Rivoluzione d’Ottobre, divenuto quindi italiano d’adozione. Dal 1936 Tenente di Vascello della Marina Militare Italiana, presta servizio su incrociatori, posamine e sommergibili, partecipa alla guerra di Spagna e, nel 1940 passa alla Ia Flottiglia MAS, poi Xa, dove crea, nel 1941, la specialità degli incursori subacquei, il Gruppo “Gamma”. Sotto la sua guida, questi incursori subacquei portano a termine operazioni di guerra che, ancor oggi, restano negli Annali della Marina Italiana. Con l'armistizio dell'8 settembre aderisce alla R.S.I dove, ovviamente milita nella "Decima" del Comandante Borghese. Finita la guerra, il Comandante Wolk resta in clandestinità per un certo periodo. Poco tempo dopo, prende contatto con il Comandante Lionel Phillip Kenneth Crabb, suo "opposite number" durante la guerra, e ottiene per i “Gamma” la condizione di “prigionieri di guerra sulla parola”. Per 18 mesi lavora allo sminamento del porto di Venezia e porta a termine pericolose e complesse operazioni di recupero di naviglio e materiale bellico, per conto della "Allied Navies Experimental Station". Poi deve emigrare in Argentina. In questo paese lavorerà fino al 1961 in qualità di consulente tecnico per la Marina Argentina, per la quale creerà il reparto dei mezzi subacquei d’assalto. Solo nel 1961 rientrerà in Europa, nei ranghi della Micoperi, dove ritroverà l’amico Nino Buttazzoni (già Comandante dei Nuotatori Paracadutisti). Nel 1965 si stabilisce nel Canton Ticino dove passa sereni, ma pieni di attività, gli ultimi anni della sua vita finché, nel 1995, l’eterno profondo cielo di mare accoglie il suo spirito a conclusione della non comune vita terrena.
Brossura 24 x 21 cm. pag. 368 con circa 365 tra foto e illustrazioni b/n + 40 disegni tecnici
Stampato nel 2008 da Edizioni Ritter in collaborazione con il Centro Studi Carlo Alfredo Panzarasa
( Edizioni Ritter )
DisponibilitàDi solito viene spedito in: 24 h.






Eugenio Wolk sabato 31 Gennaio 2009 alle ore 17,00



locali della Sala Dante a La Spezia
"No alla X MAS alla Spezia"



Con questo slogan è stata condotta dalle forze della sinistra radicale guidate dalla segretaria proviciale di Rifondazione Comunista Chiara Bramanti e dai soliti difensori del "diritto democratico", un'infamante campagna mediatica per impedire lo svolgimento della presentazione del libro sul comandante Wolk. Il clima di forte tensione creatosi ha portato gli organizzatori a prendere la comune decisione di annullare, per il momento, la manifestazione.

Al contrario, con grande sorpresa, sulle pagine del "Corriere della Sera" del 31 Gennaio, a pagine 41, troviamo il seguente pezzo di Antonio Carioti, noto ai nostri utenti per il bellissimo saggio "Gli orfani di Salò" edito da Mursia:
"Amareggia constatare che in Italia c'è ancora chi insiste a decretare l'ostracismo controlibri sgraditi, spesso senza considerarne il contenuto. L'ultimo caso riguarda La Spezia, dove oggi si sarebbe dovuta tenere la presentazione del saggio di Bruna Pompei "Eugenio Wolk, comandante dei Gamma della X MAS", edito da Ritter. Ma è bastato il titolo del volume a scatenare le reazioni veementi di Rifondazione comunista e dei suoi giovani, che hanno visto nell'iniziativa un'offesa alla "cultura antifascista" della città ligure e hanno chiarito che non sarebbe stata subita " in maniera passiva". Per evitare di inasprire le tensioni, l'Associazione degli Incursori di MArina (Anaim) e il circolo La Sprugola, promotori del dibattito, hanno preferito annullarlo. In realtà Wolk, protagonista del libro, fu soprattutto unmilitare di grandi capacità, votato all'attività subacquea. E solo 30 pagine, sulle 368 del volume, sono dedicate alla sua militanza sotto le insegne di Salò al fianco di J.V.Borghese, mentrealtre 60, per esempio, riguardano la sua collaborazione con gli angloamericani per sminare il porto di Venezia dopo la guerra. Certamente l'editore appartiene a un'area di destra, ma quando si arriva ad accusarlo di aver rirpoposto il saggio sulla guerra civile americana di un noto liberale come Alberto Pasolini Zanelli, è chiaro che siamo di fronte a una polemica pretestuosa. Alla quale si può rispondere in un solo modo: i libri innanzitutto si leggono. Poi magari si criticano e si stroncano duramente, se occorre. Ma impedire di presentarli è soltanto intolleranza, anche se viene mascherata da antifascismo".

Edizioni Ritter
Libreria specializzata in Storia Militare, Fascismo e Nazionalsocialismo, Armi e Forze Speciali, Neofascismo, Ultras, MusicaAlternativa ed Etnonazionalismo

1 commento:

  1. Ottima inserzione CARTIERA DELLA MORTE e ottima testata!
    In alto i cuori!
    Anna, Lorenzo
    ant_ser@libero.it

    RispondiElimina