domenica 7 settembre 2008

Le forze armate nel dopoguerra Amnistie, amnesie e ricostruzione


Le forze armate nel dopoguerra
Amnistie, amnesie e ricostruzione

Nel dopoguerra ci sono anche numerosi episodi di "resistenza" allo strapotere degi Alleati episodi obliati a causa dell'ostile clima ideologico che però indicano il radicamento del sentimento nazionale
di Dan& Lloyd Thomas

Il rinnovato ruolo delle forze armate,acquisito negli ultimi anni, suggeri­sce qualche riflessione sulla genesi dell'attuale assetto, che risale al periodo tra il 1943 e il 1947. Si tratta di una fase caratterizzata da un comples­so intreccio di vicende operative, politi che, organizzative ed anche giudiziarie; infatti, Giorgio Rochat, uno dei massimi studiosi di storia militare, ha posto l'ac­cento la natura interdisciplinare del pro­prio campo di ricerca.
In quegli anni l'istituzione militare subisce un vero e proprio fuoco incrociato sul versante politico e ideologico: da una parte, la sinistra (oltre agli angloamericani, seppure con accenti diversi) stigmatizza la «complicità con il fascismo», mentre, dall'altra, i sostenitori di Salò lanciano accuse, in qualche modo speculari, di «tradimento badogliano». A distanza di oltre mezzo secolo potrebbero sembrare paradossali tali condanne. Nessuna delle due riassume, infatti, la complessa realtà di quelle vicende che hanno coinvolto, nel bene e nel male, milioni di italiani. Occorre pertanto mettere da parte quelle forme di massimalismo per esaminare altri processi.
Nella fase di ricostituzione delle forze armate si scorgono propositi, tra mille difficoltà, di assicurare una certa continuità con la tradizione; ciò nonostante i tentativi (controversi ed approssimativi, ma pur sempre inevitabili) di affrontare le conseguenze della frattura civile, morale ed organizzativa dell'8 settembre 1943. Si avviano quindi due processi distinti ma paralleli: quello politico della "defascistizzazioné" e quello meno noto operato dalla "Commissione per l'accertamento del comportamento dei militari all'atto e dopo la proclamazione dell'armistizió". È in tali ambiti si che si cerca di ripristinare le regole della disciplina militare, nel contesto del nuovo assetto politico.
Il controllo angloamericano sulle forze armate italiane risale all'Atto di Resa (detto "armistizio lungo") del 29 settembre 1943, firmato a Malta dal generale statunitense Dwight D. Eisenhower e dal maresciallo d'Italia Pietro Badoglio. Le forze armate dovevano assicurare la massima disponibilità nei confronti delle Nazioni Unite; coalizione di cui fanno parte anche l'Urss, nonostante l'esclusione di fatto della presenza sovietica (almeno quella ufficiale). Nel protocollo di modifica al 1° articolo, sottoscritto da Badoglio e dal generale inglese Noel Macfarlane il 9 novembre 1943, la dicitura originale «resa incondizionata» venne mitigata, eliminando la parola «incondizionata».
Nonostante la sconfitta e l'occupazione, si manifestano nelle varie forze annate del Regno (dalle quali, appunto, nasce in sostanza l'odierno assetto militare) tentativi di mantenere una certa autonomia. Nell'Esercito si cambia persino il colore delle divise, passando al color kaki degli inglesi, adducendo come motivo la maggiore facilità di approvvigionamento.
Nell'immediato dopoguerra, ci sono anche numerosi episodi di "resistenza" allo strapotere dei nuovi alleati; episodi, oggi dimenticati a causa del già citato "fuoco incrociato" ideologico, che indicano tuttavia il radicamento del sentimento nazionale. A titolo di esempio, si potrebbe ricordare la querelle sorta in relazione alla pretesa di assicurare l'impunibilità dei militari italiani imputati di collaborazionismo a favore delle potenze alleate prima dell'8 settembre. Infatti, nell'articolo 16 del Trattato di Pace del 1947 si afferma: « L Italia non incriminerà né altrimenti perseguirà alcun cittadino italiano, specialmente gli appartenenti alle forze armate, per avere tra il 10 giugno 1940 e la data dell'entrata in vigore del presente trattato, espresso la loro simpatia per la causa delle Potenze Alleate o aver condotto un'azione a favore di detta causa».
Come si arriva ad un provvedimento a dir poco incredibile, atto a delegittimare l'assetto disciplinare dell'apparato militare? Peraltro, si parte dalla data del­la dichiarazione di guerra alla Gran Bre­tagna ed alla Francia, trascurando invece le "guerre fasciste" in Abissinia, Spagna e Albania... Mentre l'accettazione di tale pretesa, nonché di altre norme dello stes­so Trattato, nasce in parte dal pragmati­smo della nuova classe politica, intenzio­nata a chiudere in fretta i contenziosi con il passato, si evince allo stesso tempo un'arrendevolezza talmente forte da destare meraviglia anche tra gli stessi vincitori.
Tracciamo qualche antefatto di que­sta norma. L’ art. 32B dell'accordo del 29 settembre 1943 richiede la scarcerazione, nonché la rimozione di ogni pregiudizio giuridico (legal disabilities), nei confronti dei militari accusati di contatti con gli angloamericani. Questa norma, piutto­sto vaga, è seguita, nel accordo segreto Badoglio‑Macfarlane del 1944, con l'im­pegno di «non perseguire i reati di diser­zione verificatisi nel periodo 10 luglio‑8 settembre 1943» (ossia a partire dalla data di invasione della Sicilia).
Passiamo al mese di maggio 1945: la guerra si è ormai conclusa, e il governo di Ivanoe Bonomi vara un decreto legge di «amnistia ai disertori». La Commis­sione alleata aveva auspicato un provvedimento ampio e immediato, soprattutto con il proposito di "condonare" i colla­boratori filoalleati. Tuttavia, tra i vertici militari l'opposizione è forte: si rischie­rebbe di vanificare ogni tentativo di ristabilire la disciplina militare. Sono in corso migliaia di procedimenti ‑ gran parte dei quali a carico di ufficiali e sot­tufficiali ‑ per diserzione ed altri reati. Per complicare la situazione, i tribunali alleati si sono riservati di perseguire gli imputati di sabotaggio e di spionaggio. Si discute, peraltro, del problema della validità o meno del giuramento prestato al Re o alla Repubblica sociale (per molti, da ambedue le parti, il giuramento non rappresenta un mero atto formale ma qualcosa che scaturisce dal concetto di onore.. . ).
Riguardo alle proposte di amnistia, la reazione del capo di Stato maggiore generale, il generale Trezzani, è assai dura. In una lettera dell'8 ottobre 1945, indirizzata al nuovo primo ministro, Ferruccio Parri (in "Acs, pres. Cons. ministri"), egli fa alcune considerazioni, anche di tipo storico e geopolitico, che vale la pena di citare:
«L'amnistia concessa ai disertori dopo l'altra guerra fu, dal punto di vista morale e militare, errore gravissimo, in quanto diede a tutti la convinzione del­l'impunità a chi si sottraeva al dovere fondamentale di ogni cittadino: combat­ter per la propria Patria. Le conseguenze di questa convinzione si sono rese mani­feste in questa guerra, quando l'esercito alla notizia dell'armistizio si sentì auto­rizzato a sbandarsi in massa, e con i suc­cessivi 200.000 disertori, di fronte ai qua­li il Governo si sente impotente.
Al termine di ogni guerra si diffonde sempre la convinzione che essa sia l'ulti­ma, mentre con ogni trattato di pace si sono sempre create le basi e le ragioni della guerra futura. Sono profondamen­te convinto che, pur cambiando modi e forme, le guerre continueranno finché durerà l'umanità, e che l'Italia, non fosse altro che per la sua posizione geografica, sarà coinvolta in ogni guerra europea. La concessione dell'amnistia ai disertori anche al termine di questa guerra finirà per convincere ogni italiano che combat­tere non è un obbligo ma una facoltà... Dovrebbe perciò essere costituita una Commissione nella quale siano presenti tutti gli organi interessati ...al fine di non sancire ancora una volta di più la norma per cui i responsabili delle cattive soluzioni dei problemi militari sono sempre i militari, e solo questi».
In un'altra missiva, lo stesso Trezza­ni propone una soluzione: «Disertori e collaborazionisti cogli alleati pel periodo 10 luglio‑8 settembre: applicare gli accor­di Badoglio‑Macfarlane dicendo esplici­tamente che ciò avviene non per libera volontà nostra ma per imposizione degli alleati».
Alla fine, è stata effettivamente la politica ad offrire una "cattiva soluzio­ne, nel fattispecie del Trattato del 1947. Il "condono" ai collaborazionisti alleati si estende addirittura al 1940; ciò probabilmente per motivi più prettamente politici (ossia il disconoscimento retroat­tivo della sovranità del governo nazio­nale) che non per il numero, a quanto pare assai contenuto, degli accusati.
In seguito le polemiche si sono asso­pite: un po' perché gli atti sono rimasti a lungo sepolti negli archivi e un po' per l'amnistia, voluta da Palmiro Togliatti, a favore degli accusati di "reati fascisti" (concessa, a quanto pare, in cambio del voto referendario per la Repubblica, garantito dall'accordo con Pino Romualdi, quale "vendetta" contro i Savoia). E intanto, nei lunghi anni della Guerra fredda, ogni critica al Trattato del 1947 è relegata rigorosamente alle "estre­me", di destra e di sinistra. Oggi, final­mente, si può ragionare serenamente su queste vicende. Che il proposito del ritorno, nell'Esercito, alla divisa grigio­verde, sia il simbolo di una ritrovata dignità storica (e quindi anche morale)?

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