Da Avv. Massimo Filippini
La verità sul massacro di Cefalonia resta avvolta in una fitta rete di falsità e ipocrisie
L’eccidio di Cefalonia è una di quelle pagine storiche sulle quali si fonda il mito resistenziale e democratico della Repubblica Italiana. L’immagine dei capitani Pampaloni e Apollonio, “eroi” della Resistenza, emersi miracolosamente da un mucchio di cadaveri e riusciti, alla fine, a tornare alle proprie case, è troppo eloquente per poter essere messa in dubbio da chicchessia: una delle poche certezze in un paesaggio storiografico pieno di ombre e di ambiguità.
E invece no.
Loro sono tornati a casa, ma i loro soldati e i loro colleghi ufficiali hanno pagato con la vita il folle avventurismo e l’inqualificabile contegno da essi tenuto nei confronti del comandante della divisione «Acqui», generale Antonio Gandin. Il mito resistenziale di Cefalonia è una delle tante falsificazioni della storia operate, a partire dal 1945, da una ideologia ipocrita e sfrontata, capace di qualsiasi mistificazione pur di accreditare una versione di comodo, che divide il bene dal male con un taglio netto e, guarda caso, sempre in linea con la “verità” dei vincitori.
La Vulgata storiografica resistenziale ha sempre sostenuto che a Cefalonia, dopo l’8 settembre del 1943, la divisione «Acqui», agendo con altissimo senso di responsabilità e con spirito di sacrificio, scelse di combattere contro i Tedeschi anziché arrendersi, ragion per cui fu sottoposta a un massacro indiscriminato dopo la resa, dal quale uscì letteralmente distrutta. Ma le cose non andarono così, anche se questa versione, ripetuta per più di sei decenni, ha finito per imporsi e per entrare a far parte del bagaglio culturale e spirituale del popolo italiano.
Il massacro ci fu, beninteso; e, con esso, la violazione delle norme di guerra internazionali che proibiscono in modo tassativo ogni rappresaglia sui militari che si sono arresi. Ma, a parte il fatto che le cifre sono state enormemente gonfiate - si è parlato di oltre 9.000 fucilati, mentre furono molti di meno, forse non più di 1.700, compresi i caduti in combattimento -, due fatti decisivi sono stati passati sotto silenzio o sono stati soltanto sussurrati a mezza bocca, mescolati ad un fiume incontenibile di retorica, di sacra indignazione e di frasi altisonanti.
Primo: il maresciallo Badoglio, pur sapendo cosa ciò comportava e pur essendo di ciò messo in guardia dal generale Eisenhower, non volle dichiarare lo stato di guerra con la Germania fino alla data del 13 ottobre. Vale a dire che, PER OLTRE UN MESE, lo status giuridico dei soldati italiani, nei confronti dell’ex alleato germanico, rimase intollerabilmente ambiguo, non essendo essi, in teoria, nemici della Germania, e tuttavia trovandosi nella condizione di alleati dei nemici di quella. La conseguenza fu che essi rimasero esposti a subire un trattamento al di fuori della convenzioni internazionali, simile a quello riservato ai franchi tiratori.
Secondo: è vero che il generale Gandin, prima di decidere per la lotta aperta contro i Tedeschi, aveva fatto consultare gli ufficiali e i soldati della divisione, che avevano optato per la resistenza a oltranza; ma è altrettanto vero che quella specie di referendum, peraltro privo di valore giuridico, si svolse in un clima di gravissima intimidazione e che lo stesso generale Gandin era stato fatto oggetto ad atti di sedizione e perfino a delle minacce a mano armata. La disciplina e lo spirito militare, all’interno della divisione «Acqui», erano andati in frantumi; alcuni tenenti e capitani di artiglieria, in collegamento con i partigiani comunisti greci dell’isola, sobillavano apertamente i loro soldati e li incitavano a combattere contro i Tedeschi, quando ancora le trattative erano in corso; e ad opporsi in ogni modo, anche con l’ammutinamento, alle decisioni del loro comandante, se esse fossero state difformi dai loro desideri.
Altro che spirito eroico e altissimo senso del dovere. Fra i soldati della divisione serpeggiava molto più di una semplice insubordinazione: esisteva un clima diffuso di esaltazione, di rancore, di rabbia; si parlava apertamente di mettere a morte gli ufficiali “filotedeschi”, ossia quelli che vedevano nei Tedeschi gli alleati e i compagni di tre anni di lotte, oppure, semplicemente, che intendevano obbedire agli ordini del comando, quali che fossero.
Sì, perché il comandante della XI Armata italiana in Grecia, Carlo Vecchiarelli, il 9 settembre aveva ordinato a tutte le divisioni dipendenti di cedere l’armamento ai Tedeschi, come da essi richiesto; anche se poi, l’11 settembre, un cervellotico ordine di Badoglio era venuto a rendere la situazione insostenibile, prescrivendo che le truppe dovevano opporsi a ogni tentativo di disarmo da parte dei Tedeschi (tre giorni dopo l’ignominiosa fuga da Pescara e quando già l’Italia era di fatto occupata dall’esercito germanico!).
La scintilla che diede fuoco alle polveri, sull’isola di Cefalonia, fu comunque l’arbitraria iniziativa del capitano Amos Pampaloni e del tenente Renzo Apollonio, i quali, il mattino del 13 settembre 1943, fecero aprire il fuoco dalle loro batterie del 33° Reggimento artiglieria, di stanza ad Argostoli, contro due motozattere tedesche, che non tentavano alcuna azione ostile ma trasportavano viveri e altro materiale per il piccolo presidio tedesco di quella località; e ciò mentre erano ancora in corso le trattative fra il generale Gandin e il comandante tedesco, tenente colonnello Hans Barge. L’azione, avvenuta ignorando la disciplina militare e scavalcando l’autorità del generale Gandin, causò sei morti fra gli equipaggi tedeschi e invelenì l’animo dei loro commilitoni, già esasperato dall’annuncio dell’armistizio di Cassibile, da essi considerato alla stregua di un vero e proprio tradimento.
A guerra finita, oltre che nei confronti dei comandati tedeschi responsabili dell’eccidio, vi fu anche - nel 1957 - un inizio di procedimento giudiziario nei confronti di alcuni ufficiali superstiti, per aver aizzato la resistenza contro i Tedeschi e provocato così la loro ritorsione; ma esso venne immediatamente concluso con il proscioglimento dei militari. Se le ricerche di Massimo Filippini non avessero riaperto il caso, almeno sul piano storiografico, oggi ancora il pubblico ignorerebbe il vero contesto in cui si svolse l’eccidio di Cefalonia; senza dimenticare il fatto, di per sé rilevante, che ben 3.000 uomini della sfortunata divisione (secondo le cifre ufficiali) perirono dopo le tragiche vicende sull’isola, a causa dell’affondamento delle navi che li trasportavano in prigionia, ad opera delle forze navali alleate.
Poi, la retorica.
Uno scrittore inglese, Louis de Bernières, rievocò la vicenda di Cefalonia nel suo romanzo «Il mandolino del capitano Corelli» («Captain’s Corelli Mandolin»), accreditando l’eterno stereotipo degli Italiani “brava gente” e perenni suonatori di mandolino; romanzo dal quale, nel 2001, il regista John Madden ha ricavato un film piuttosto mediocre, reso - però - celebre dalla interpretazione della star hollywoodiana Nicholas Cage.
Nel 2001 il presidente della Repubblica Italiana, Carlo Azeglio Ciampi, vistando Cefalonia, ha affermato che «la loro scelta [dei soldati della «Acqui»] consapevole fu il primo atto della Resistenza, di un’Italia libera dal fascismo».
Nel 2005 la RAI ha mandato in onda la serie televisiva «L’eccidio di Cefalonia», per la regia di Riccardo Milani.
Nel 2007, infine, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha festeggiato il 62° anniversario della Liberazione, recandosi anche a Cefalonia; ed è stata la prima volta che ciò è avvenuto al di fuori dei confini nazionali, cosa che ha conferito alla cerimonia una particolare risonanza ed una speciale solennità.
Ora, la domanda che dovremmo onestamente rivolgere a noi stessi è se quella solennità, se quella interpretazione dei fatti, siano conformi al rispetto della verità, in primo luogo per un senso di giustizia verso i morti e, poi, per poterci rapportare serenamente al nostro passato, liberi dai fantasmi di mitologie e strumentalizzazioni che non ci aiutano a vivere il presente in maniera consapevole e pacificata.
In qualunque altro esercito del mondo - o, quanto meno, in qualunque esercito di un Paese serio - insultare il proprio comandante in zona di guerra (oltretutto, una pasta d’uomo che chiamava i suoi soldati, indiscriminatamente, «figli di mamma», e la cui massima preoccupazione, dopo l’armistizio dell’8 settembre, era quella di restituirli, sani e salvi alle loro famiglie); sobillare la truppa alla disobbedienza; intrattenere rapporti di amichevole collaborazione con le forze partigiane nemiche o che tali erano state fino a poche ore prima; aprire il fuoco contro truppe tecnicamente ancora alleate e, comunque, senza averne ricevuto espresso ordine; attentare, addirittura, alla vita dei propri ufficiali, ritenuti “traditori”: ebbene, tutto questo si configura come una serie di reati da corte marziale e da plotone d’esecuzione.
In Italia, invece, le cose vanno altrimenti; in Italia queste azioni diventano nobili impulsi ideali che aprono la strada alla Resistenza e, come tali, vengono circonfuse da una luce di gloria, additandone gli autori non alla pubblica riprovazione, ma all’ammirazione incondizionata.
Strano paese, l’Italia.
Ma perché questa ricostruzione dei fatti non appaia viziata da spirito di parte, ci limitiamo a riportare alcuni stralci da una pubblicazione apparsa in data non sospetta, l’ormai lontano 1970 - vale a dire, quarant’anni fa giusti -, significativamente intitolata «Il massacro di Cefalonia era proprio inevitabile?», apparsa per i tipi de Gli Amici della Storia all’interno della collana «I grandi enigmi degli anni terribili», diretta da Franco Massara (Ginevra, Editions de Crémille, vol. 1, pp. 178-183):
«Nel giro di poche ore [l’11 settembre 1943], “l’amatissima divisione” era ormai irriconoscibile. I reparti sono traumatizzati; le coscienze disorientate; i legami che annodavano nella disciplina i soldati agli ufficiali e gli ufficiali ai comandanti di Corpo, i comandanti di Corpo al generale di Divisione sembra che stiano per sciogliersi. Lo choc dell’8 settembre stato violento. L’anarchia dilaga. La ribellione serpeggia. La propaganda dei patrioti greci attizza il fuoco di tutti i risentimenti e rancori. I soldati sono agitati. Gridano. Urlano. Accusano. Recriminano. Una vera e propria insubordinazione sta covando sotto le ceneri. Si mormora che il generale voglia “vigliaccamente” disarmare l’intera divisione per consegnarla a “a uno sparuto gruppo di Tedeschi. Lo si taccia nientemeno che di tedescofilo. Verso le 18, appena dopo il rapporto ai cappellani [che Gandin, uomo assai religioso, aveva convocati per riceverne un parere], scoppi di bombe e colpi di moschetto si odono nell’abitato di Argostoli. Fuggi fuggi generale. Le strade diventano cupamente silenziose. Che cosa sta succedendo?
Colpo di testa tedesco verso le 17. Gli artiglieri germanici puntano un semovente contro un dragamine italiano munito di due mitragliere da 20 mm. Attraccato alla banchina. L’ufficiale che lo comanda, sfila gli otturatori che consegna al comando di artiglieria. Informato dell’accaduto, il capitano Apollonio, eccitatissimo, si reca immediatamente sul posto con due autocarri di artiglieri armati fino ai denti, sale a bordo del dragamine, smonta le due mitragliere, le fa caricare sugli autocarri; fermato da un sottufficiale tedesco ed invitato a seguirlo dal comandante germanico, scrolla le spalle, risponde che di comandanti ne conosce uno solo, ed è quello “italiano”. Punto e basta.
Intanto sta per scadere l’ultimatum. Il tenente colonnello Barge e il tenente Fauth si recano al Comando di Divisione. “Sta bene - risponde il generale - accordo di massima a cedere le armi collettive e i pezzi” [era stato questo anche il parere dei cappellani convocati dal generale.]
All’alba del 12 settembre la situazione precipita improvvisamente. Notizie allarmanti, diffuse durante la notte, esasperano gli animi. Un sergente maggiore, fuggito con un’imbarcazione da Santa Maura, riferisce che nell’isola il presidio italiano è stato proditoriamente assalito dai Tedeschi, disarmato; soldati e ufficiali incolonnati e avviati in campi di concentramento. Il trucco aveva funzionato: prima i Tedeschi avevano preteso solo le artiglierie e le armi collettive; una volta queste cedute, avevano preteso quelle individuali. Una volta queste consegnate, la truppa era stata brutalmente sospinta dietro i reticolati.
La notizia incendia gli animi. I Tedeschi si servono dell’inganno; le trattative in corso servono loro soltanto per guadagnare tempo. L’agitazione è grande. Prorompono grida: “Abbasso i Tedeschi! Morte ai tedescofili!”.
Chi sono i tedescofili? Tutti coloro che invitano alla calma. Si comincia a sospettare persino della buona fede del generale. “Il generale - si dice - è d’accordo coi Tedeschi”.
Che cosa resta da fare?Il generale Gandin ha ormai dato la sua parola ai Tedeschi. Come tornare indietro? Alle quattro del mattino era già partita per il comando tedesco la lettera di conferma degli accordi presi verbalmente la sera prima.
Ci potevano essere ancora dei dubbi sulle intenzioni reali dei Tedeschi? Bastava d’altra parte guardarsi attorno: nella zona di Lixuri era tutto un andirivieni di colonne germaniche; rifornimenti venivano paracadutati ai presidi isolati. Sbarchi erano segnalati sulle coste. Intanto il capitano Pampaloni ha già stabilito contatti con i partigiani greci dell’isola. Entra in scena il tenente dell’esercito greco Agesilao Migliaressi. Avvicina il capitano Pampaloni e il capitano Apollonio, prende accordi direttamente con entrambi in vista di un’azione combinata contro i Tedeschi. Entrano in scena altre figure di resistenti greci: sono il tenente colonnello Kavadias, il capitano Lazarotos e il tenente Georgopulos. Riunione segreta di costoro sotto la tenda del capitano Apollonio: i resistenti greci provvederebbero alle informazioni, a controllare l’isolato presidio tedesco di Capo Munda, ad iniziare azioni di guerriglia lungo la rotabile Karadacata-Argostoli, ad attaccare le autocolonne tedesche in marcia, a colpire. Ad assicurare il collegamento tra Italiani e Greci è incaricato il tenente Dionisio Georgopulos. Sarà distaccata presso i “ribelli” una stazione radio. La dirigerà il radiotelegrafista Fedeli. Si distribuiscono armi. Un capitano dei carabinieri si incarica di rimettere in libertà i detenuti “politici” greci e di distruggere tutti i documenti compromettenti relativi ad azioni tentate o progettate dai componenti dell’E.L.A.S. nell’isola di Cefalonia.
Si arriva così al pomeriggio del 12. Verso le ore 16, altro incidente. Questa volta siamo arrivati al punto di rottura. Il generale comandante tiene un nuovo consiglio di guerra. Esamina la situazione drammatica che si è venuta a creare nelle ultime ore, sempre allo scopo di trovare un compromesso qualunque, pur di portar fuori i suoi undicimila “figli di mamma” da una tragedia di cui calcola già tutte le conseguenze, quando…
La notizia cade sul tavolo del generale col fragore di una bomba: i Tedeschi hanno ritto gli indugi, gettato la maschera, sono passati all’azione, e tanto per cominciare, hanno circondato le batterie di San Giorgio e di Kavriata: disarmate, intimato quindi ai soldati di consegnare le armi.
S.O.S,. disperato degli ufficiali. La risposta del comando è burocraticamente semplice: “Di fronte a forze preponderanti, cedere”.
E le batterie cedono. L’affronto è grave. Umiliante. Soprattutto sospetto. Si sospettano infatti complicità penose, impossibili, di cui non si vorrebbe nemmeno sentir parlare, ma di cui intanto si mormora. Comincia a serpeggiare per la prima volta la parola tradimento. La propaganda greca fa di tutto per eccitare gli animi, per mettere i soldati contro gli ufficiali, gli ufficiali inferiori contro gli ufficiali superiori, per “caricare” gli animi dei soldati di risentimento contro i Tedeschi, per creare malintesi, provocare incidenti. Chi non è contro i Tedeschi, è con i Tedeschi, e come tale tacciato di vigliaccheria.
Grave incidente nella piazza principale di Argostoli. Poiché la situazione sta diventando sempre più critica, e potrebbe precipitare da un momento all’altro, il Comando di Divisione aveva ordinato lo sgombero delle Suore Missionarie italiane. Se ne era incaricato il capitano Piero Gazzetti, addetto all’ufficio propaganda del comando divisionale: con un autocarro le sta trasferendo al 37° ospedale da campo. Nella piazza di Argostoli, l’autocarro è fermato da un maresciallo di Marina il quale intima all’ufficiale e alle suore di scendere: l’autocarro è requisito, sarà destinato al trasporto di armi e munizioni. Il capitano risponde che deve eseguire un ordine del generale. È un attimo. Il maresciallo urla: “Allora anche voi appartenete alla schiera dei traditori”. Estrae la pistola, spara a bruciapelo all’ufficiale, che cade riverso. Morirà il giorno appresso, dopo un’atroce agonia.
Ancora incidenti nel pomeriggio. Mentre si reca al comando di artiglieria dove ha convocato un consiglio di guerra, il generale Gandin è fatto segno a un attentato prima, ad insulti poi. Una bomba è lanciata contro la sua macchina, fortunatamente senza conseguenze. Oltre, un soldato si para decisamente davanti alla macchina costringendo l’autista a rallentare; un altro militare ne approfitta per strappare la bandierina tricolore dal cofano gridando al generale che on è più degno di portarla. Ammutinamento vero e proprio in un reggimento di fanteria: il colonnello, fatto segno a un colpo di moschetto, è costretto a rifugiarsi in una casetta. Sarà liberato da alcuni civili greci.
Che cosa aveva fatto il generale Gandin per meritare un simile trattamento dai suoi soldati? Che cosa aveva fatto per sentirsi chiamare “traditore”? Niente. Voleva soltanto portare a casa, indenne, la divisione che la Patria gli aveva affidato, assieme a tutti i “figli di mamma” che la componevano. Egli è forse il solo uomo degli undicimila della “Acqui” che vede chiaramente la situazione. “I Tedeschi ci schiacceranno con i loro Stukas” dice nel corso di un rapporto con alcuni ufficiali di artiglieria che avevano chiesto di essere ricevuti. Tra questi, il capitano Apollonio, il capitano Pampaloni e il tenente Ambrosini sono i più agitati. il movimento di rivolta era in realtà partito dalle batterie del 33° artiglieria e della Marina. Il comandante, il colonnello Romagnoli, pur parteggiando idealmente coi suoi subalterni, non pere mai il senso della misura. “Siamo soldati - dice - e dobbiamo obbedire”. Impossibile, gi rispondono.
I Tedeschi hanno catturato alcune nostre batterie: che cosa aspetta il generale Gandin ad attaccare? Di quale altra provocazione tedesca ha bisogno per iniziare le ostilità? La discussione assume toni insoliti. Gandin cerca di far capire la gravità della situazione. Quale? Essa è uin una sola parola, e dice: “isolamento”. “Siamo isolati”. Ma ormai le menti sono sconvolte, l’ubbidienza distrutta.
Gandin insiste nel voler far comprendere le ragioni delle sue decisioni, di trattare sino all’ultimo coi Tedeschi. Gli ribattono che tale atteggiamento è contrario all’onore militare. Si arriva all’assurdo: di protestare perché il generale aveva preso delle decisioni senza consultare prima i subalterni. Pare che un ufficiale, tra i più scalmanati, lo abbia accusato addirittura di essere un ribelle agli ordini del governo legittimo e servo di Farinacci.
“Generale - esclama il capitano Apollonio - non vi chiediamo che di lasciarci morire accanto ai nostri cannoni”.
Fuori è il tumulto, l’insubordinazione è ormai scatenata. I più irrequieti sono proprio i tutori dell’ordine, i carabinieri, Gli artiglieri, credendo che i loro ufficiali siano stati arrestati, puntano i pezzi delle batterie contro il Comando Divisione. Qualcuno parla di arrestare nientedimeno che il generale. Ufficiali e truppa, aizzati dai Greci, gridano che il generale è un traditore…»
Da questa ricostruzione dei fatti, che era di pubblico dominio in Italia prima che la retorica resistenziale avvolgesse il dramma della «Acqui» in un alone sacrale che ne rende difficilissima, ora, una spassionata valutazione storica, risulta, fra le altre cose, che un semplice capitano, agendo di propria iniziativa e alle spalle dei propri superiori diretti, nonché del generale di divisione che stava prendendo tutt’altre decisioni, stabiliva rapporti di collaborazione operativa con i partigiani greci, ossia con il nemico del giorno innanzi, fin dal 13 settembre, vale a dire appena cinque giorni dopo l’armistizio dell’Italia con gli Alleati.
Già lascia pensosi il fatto che, su di una piccola isola come Cefalonia (781,5 kmq.: cioè, pressappoco, tre volte e mezzo l’isola d’Elba), una forza italiana di 11.000 soldati, più duemila Tedeschi, convivesse con forti nuclei della resistenza greca, come se fra le due parti si fosse giunti, e da tempo, a una sorta di tacito armistizio. A questo punto, forse, l’intero episodio di Cefalonia andrebbe inserito nel più ampio contesto del disfacimento morale di una parte degli eserciti italiani disseminati nei Balcani e particolarmente demoralizzati dopo che, con la caduta della Tunisia e con la conquista angloamericana della Sicilia, essi cominciavano a sentirsi tagliati fuori dalla Patria in pericolo e privi di ogni prospettiva di vittoria.
Solo in un simile contesto si possono collocare azioni come quelle di alcuni ufficiali della «Acqui», i quali, infrangendo la disciplina e screditando pubblicamente l’azione di comando dei propri superiori, instaurano rapporti con i partigiani locali, aprono il fuoco di propria iniziativa sulle truppe germaniche, istigano i propri soldati - con toni esaltati e con profonda irresponsabilità - a una azione che costerà innumerevoli vittime innocenti.
Ed ora, proviamo a metterci onestamente, per una volta, da parte dell’ex alleato tedesco, già ferito dalla notizia dell’armistizio di Cassibile e dalle sue prevedibili conseguenze per la sicurezza della Germania medesima. Che cosa doveva pensare di quei soldati, di quegli ufficiali; quanto poteva fidarsi delle loro assicurazioni, della loro parola; che cosa doveva aspettarsi da loro, e come avrebbe dovuto regolarsi nei loro confronti, con una guerra tuttora in corso contro le maggiori potenze mondiali e con la flotta britannica sempre pronta a sferrare un colpo di mano contro Cefalonia, così come contro le altre isole greche?
Ancora.
Prima che abbia inizio la battaglia fra Italiani e Tedeschi sull’isola, il generale Gandin è minacciato e insultato dalle sue stesse truppe, che strappano la bandiera italiana dal cofano della sua automobile e gli gridano che non è degno di essa. Un colonnello della «Aqui» viene preso a fucilate dai suoi stessi soldati ed è tratto in salvo dai civili greci. E chi aveva autorizzato l’immediata scarcerazione dei partigiani greci detenuti dai carabinieri?
Si tratta di scene normali presso una divisione combattente, in un teatro di guerra? Qualcuno si immagina che situazioni del genere avrebbero potuto verificarsi presso gli eserciti alleati, non che presso il disciplinatissimo esercito tedesco, che pure si sentiva, ed era, circondato da nemici da ogni parte, ivi compresi i partigiani che colpiscono stando nell’ombra? Oppure qualcuno si immagina che, se si fossero verificate, la disciplina non sarebbe stata drasticamente ripristinata; o, ancora, che un tribunale militare non avrebbe sanzionato i gravissimi reati commessi, e sia pure in condizioni di normalità, vale a dire a guerra finita?
Per vedere scene simili a quelle di Cefalonia nei primi di settembre del 1943, bisogna risalire indietro agli ammutinamenti dell’esercito francese nel 1917 o all’insurrezione della flotta tedesca negli ultimi giorni della prima guerra mondiale. Meglio ancora: bisogna risalire alla Rivoluzione d’Ottobre e alla dissoluzione dell’esercito russo, fra il 1917 e il 1918, fomentata dagli agitatori bolscevichi e dagli agenti provocatori austro-tedeschi; non si dimentichi mai che Lenin tornò in Russia con l’aiuto di Parvus, agente dei servizi segreti tedeschi, che disponeva dei fondi segreti stanziati dallo Stato Maggiore germanico.
Vi è infatti, riconoscibilissima, una particolare tecnica di matrice comunista, nei gravissimi fatti verificatisi presso la divisione «Acqui» di Cefalonia, prima che divampasse la battaglia fra Italiani e Tedeschi, dal 14 al 22 settembre (giorno della resa del generale Gandin), ispirata alla nota filosofia leninista del «tanto peggio, tanto meglio»; e di cui è traccia, fra parentesi, anche nell’attentato di Via Rasella, a Roma, l’anno dopo. I partigiani comunisti greci, addestrati presso quella scuola, ne sapevano ben qualcosa: essi non ebbero scrupoli, non solo a fomentare l’odio fra Italiani e Tedeschi, ma anche a istigare la ribellione dei soldati italiani contro i loro ufficiali e contro il loro comandante.
Bisogna avere il coraggio di dirlo: la divisione «Acqui» era in stato di dissoluzione, anzi, in stato di rivolta: non rispondeva più al proprio Comando e si comportava come una mina vagante, che avrebbe potuto esplodere nelle mani di chiunque le si fosse avvicinato. Quegli artiglieri che puntano i propri cannoni contro il comando della divisione, contro l’edificio ove risiede il generale Gandin, sembrano appartenere ad una scena surreale o a un cattivo film di ammutinamento e ribellione. Una scena del genere non è concepibile in nessun esercito degno di questo nome.
I partigiani greci, astuti e calcolatori, se ne resero conto benissimo e riuscirono a “lavorarsi” alcuni ufficiali inferiori, istigandoli non solo contro i Tedeschi, ma anche contro i loro superiori e contro il loro stesso comandante. A loro non importava nulla della sorte di quegli sprovveduti; gli bastava seminare zizzania tra Italiani e Tedeschi, per metterli gli uni contro gli altri. Certo, era nel loro diritto di resistenti di un Paese occupato: ma per carità, non facciamone degli eroi e non continuiamo a dipingere una storia che non esiste, dove tutti i “buoni” sono da una parte sola e tutti i “cattivi” sono dall’altra, senza sfumature.
Comunque, sul ruolo svolto dalla Resistenza greca in questa e in altre vicende dell’esercito italiano dopo l’8 settembre del 1943, ci riserviamo di ritornare altra volta, in maniera più specifica. Per ora ci basta aver evidenziato come la decisione della «Acqui» di resistere ai Tedeschi non nasce, come vorrebbe la Vulgata storiografia oggi imperante, da una serena discussione e da una cameratesca assunzione di responsabilità reciproca fra tutti gli uomini: ma dal sospetto, dall’odio, dall’esaltazione, dall’incompetenza, dalla faciloneria; mescolati - come avviene nel mistero dell’animo umano - al senso dell’onore ferito, al coraggio personale, a un innegabile spirito di sacrificio; il tutto manipolato da alcuni mestatori, in buona parte stranieri ed ex nemici - i partigiani greci - i quali hanno tutto l’interesse a far scoppiare l’irreparabile fra i due eserciti di occupazione presenti nell’isola.
Così, anche in questo caso - come in molti altri, a cominciare dall’attentato di Via Rasella che provocò la strage delle Fosse Ardeatine - ciò che ci viene raccontato dalla Vulgata oggi dominante non è precisamente la verità e nemmeno un onesto tentativo di avvicinarvisi, ma una deliberata manipolazione di essa, il cui scopo è fondare un mito intangibile, all’ombra del quale le stesse forze finanziarie, industriali, militari, che avallarono il fascismo e la guerra e ne ricavarono grossi vantaggi, potessero riciclarsi per continuare a spadroneggiare, stavolta in versione democratica.
E invece no.
Loro sono tornati a casa, ma i loro soldati e i loro colleghi ufficiali hanno pagato con la vita il folle avventurismo e l’inqualificabile contegno da essi tenuto nei confronti del comandante della divisione «Acqui», generale Antonio Gandin. Il mito resistenziale di Cefalonia è una delle tante falsificazioni della storia operate, a partire dal 1945, da una ideologia ipocrita e sfrontata, capace di qualsiasi mistificazione pur di accreditare una versione di comodo, che divide il bene dal male con un taglio netto e, guarda caso, sempre in linea con la “verità” dei vincitori.
La Vulgata storiografica resistenziale ha sempre sostenuto che a Cefalonia, dopo l’8 settembre del 1943, la divisione «Acqui», agendo con altissimo senso di responsabilità e con spirito di sacrificio, scelse di combattere contro i Tedeschi anziché arrendersi, ragion per cui fu sottoposta a un massacro indiscriminato dopo la resa, dal quale uscì letteralmente distrutta. Ma le cose non andarono così, anche se questa versione, ripetuta per più di sei decenni, ha finito per imporsi e per entrare a far parte del bagaglio culturale e spirituale del popolo italiano.
Il massacro ci fu, beninteso; e, con esso, la violazione delle norme di guerra internazionali che proibiscono in modo tassativo ogni rappresaglia sui militari che si sono arresi. Ma, a parte il fatto che le cifre sono state enormemente gonfiate - si è parlato di oltre 9.000 fucilati, mentre furono molti di meno, forse non più di 1.700, compresi i caduti in combattimento -, due fatti decisivi sono stati passati sotto silenzio o sono stati soltanto sussurrati a mezza bocca, mescolati ad un fiume incontenibile di retorica, di sacra indignazione e di frasi altisonanti.
Primo: il maresciallo Badoglio, pur sapendo cosa ciò comportava e pur essendo di ciò messo in guardia dal generale Eisenhower, non volle dichiarare lo stato di guerra con la Germania fino alla data del 13 ottobre. Vale a dire che, PER OLTRE UN MESE, lo status giuridico dei soldati italiani, nei confronti dell’ex alleato germanico, rimase intollerabilmente ambiguo, non essendo essi, in teoria, nemici della Germania, e tuttavia trovandosi nella condizione di alleati dei nemici di quella. La conseguenza fu che essi rimasero esposti a subire un trattamento al di fuori della convenzioni internazionali, simile a quello riservato ai franchi tiratori.
Secondo: è vero che il generale Gandin, prima di decidere per la lotta aperta contro i Tedeschi, aveva fatto consultare gli ufficiali e i soldati della divisione, che avevano optato per la resistenza a oltranza; ma è altrettanto vero che quella specie di referendum, peraltro privo di valore giuridico, si svolse in un clima di gravissima intimidazione e che lo stesso generale Gandin era stato fatto oggetto ad atti di sedizione e perfino a delle minacce a mano armata. La disciplina e lo spirito militare, all’interno della divisione «Acqui», erano andati in frantumi; alcuni tenenti e capitani di artiglieria, in collegamento con i partigiani comunisti greci dell’isola, sobillavano apertamente i loro soldati e li incitavano a combattere contro i Tedeschi, quando ancora le trattative erano in corso; e ad opporsi in ogni modo, anche con l’ammutinamento, alle decisioni del loro comandante, se esse fossero state difformi dai loro desideri.
Altro che spirito eroico e altissimo senso del dovere. Fra i soldati della divisione serpeggiava molto più di una semplice insubordinazione: esisteva un clima diffuso di esaltazione, di rancore, di rabbia; si parlava apertamente di mettere a morte gli ufficiali “filotedeschi”, ossia quelli che vedevano nei Tedeschi gli alleati e i compagni di tre anni di lotte, oppure, semplicemente, che intendevano obbedire agli ordini del comando, quali che fossero.
Sì, perché il comandante della XI Armata italiana in Grecia, Carlo Vecchiarelli, il 9 settembre aveva ordinato a tutte le divisioni dipendenti di cedere l’armamento ai Tedeschi, come da essi richiesto; anche se poi, l’11 settembre, un cervellotico ordine di Badoglio era venuto a rendere la situazione insostenibile, prescrivendo che le truppe dovevano opporsi a ogni tentativo di disarmo da parte dei Tedeschi (tre giorni dopo l’ignominiosa fuga da Pescara e quando già l’Italia era di fatto occupata dall’esercito germanico!).
La scintilla che diede fuoco alle polveri, sull’isola di Cefalonia, fu comunque l’arbitraria iniziativa del capitano Amos Pampaloni e del tenente Renzo Apollonio, i quali, il mattino del 13 settembre 1943, fecero aprire il fuoco dalle loro batterie del 33° Reggimento artiglieria, di stanza ad Argostoli, contro due motozattere tedesche, che non tentavano alcuna azione ostile ma trasportavano viveri e altro materiale per il piccolo presidio tedesco di quella località; e ciò mentre erano ancora in corso le trattative fra il generale Gandin e il comandante tedesco, tenente colonnello Hans Barge. L’azione, avvenuta ignorando la disciplina militare e scavalcando l’autorità del generale Gandin, causò sei morti fra gli equipaggi tedeschi e invelenì l’animo dei loro commilitoni, già esasperato dall’annuncio dell’armistizio di Cassibile, da essi considerato alla stregua di un vero e proprio tradimento.
A guerra finita, oltre che nei confronti dei comandati tedeschi responsabili dell’eccidio, vi fu anche - nel 1957 - un inizio di procedimento giudiziario nei confronti di alcuni ufficiali superstiti, per aver aizzato la resistenza contro i Tedeschi e provocato così la loro ritorsione; ma esso venne immediatamente concluso con il proscioglimento dei militari. Se le ricerche di Massimo Filippini non avessero riaperto il caso, almeno sul piano storiografico, oggi ancora il pubblico ignorerebbe il vero contesto in cui si svolse l’eccidio di Cefalonia; senza dimenticare il fatto, di per sé rilevante, che ben 3.000 uomini della sfortunata divisione (secondo le cifre ufficiali) perirono dopo le tragiche vicende sull’isola, a causa dell’affondamento delle navi che li trasportavano in prigionia, ad opera delle forze navali alleate.
Poi, la retorica.
Uno scrittore inglese, Louis de Bernières, rievocò la vicenda di Cefalonia nel suo romanzo «Il mandolino del capitano Corelli» («Captain’s Corelli Mandolin»), accreditando l’eterno stereotipo degli Italiani “brava gente” e perenni suonatori di mandolino; romanzo dal quale, nel 2001, il regista John Madden ha ricavato un film piuttosto mediocre, reso - però - celebre dalla interpretazione della star hollywoodiana Nicholas Cage.
Nel 2001 il presidente della Repubblica Italiana, Carlo Azeglio Ciampi, vistando Cefalonia, ha affermato che «la loro scelta [dei soldati della «Acqui»] consapevole fu il primo atto della Resistenza, di un’Italia libera dal fascismo».
Nel 2005 la RAI ha mandato in onda la serie televisiva «L’eccidio di Cefalonia», per la regia di Riccardo Milani.
Nel 2007, infine, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha festeggiato il 62° anniversario della Liberazione, recandosi anche a Cefalonia; ed è stata la prima volta che ciò è avvenuto al di fuori dei confini nazionali, cosa che ha conferito alla cerimonia una particolare risonanza ed una speciale solennità.
Ora, la domanda che dovremmo onestamente rivolgere a noi stessi è se quella solennità, se quella interpretazione dei fatti, siano conformi al rispetto della verità, in primo luogo per un senso di giustizia verso i morti e, poi, per poterci rapportare serenamente al nostro passato, liberi dai fantasmi di mitologie e strumentalizzazioni che non ci aiutano a vivere il presente in maniera consapevole e pacificata.
In qualunque altro esercito del mondo - o, quanto meno, in qualunque esercito di un Paese serio - insultare il proprio comandante in zona di guerra (oltretutto, una pasta d’uomo che chiamava i suoi soldati, indiscriminatamente, «figli di mamma», e la cui massima preoccupazione, dopo l’armistizio dell’8 settembre, era quella di restituirli, sani e salvi alle loro famiglie); sobillare la truppa alla disobbedienza; intrattenere rapporti di amichevole collaborazione con le forze partigiane nemiche o che tali erano state fino a poche ore prima; aprire il fuoco contro truppe tecnicamente ancora alleate e, comunque, senza averne ricevuto espresso ordine; attentare, addirittura, alla vita dei propri ufficiali, ritenuti “traditori”: ebbene, tutto questo si configura come una serie di reati da corte marziale e da plotone d’esecuzione.
In Italia, invece, le cose vanno altrimenti; in Italia queste azioni diventano nobili impulsi ideali che aprono la strada alla Resistenza e, come tali, vengono circonfuse da una luce di gloria, additandone gli autori non alla pubblica riprovazione, ma all’ammirazione incondizionata.
Strano paese, l’Italia.
Ma perché questa ricostruzione dei fatti non appaia viziata da spirito di parte, ci limitiamo a riportare alcuni stralci da una pubblicazione apparsa in data non sospetta, l’ormai lontano 1970 - vale a dire, quarant’anni fa giusti -, significativamente intitolata «Il massacro di Cefalonia era proprio inevitabile?», apparsa per i tipi de Gli Amici della Storia all’interno della collana «I grandi enigmi degli anni terribili», diretta da Franco Massara (Ginevra, Editions de Crémille, vol. 1, pp. 178-183):
«Nel giro di poche ore [l’11 settembre 1943], “l’amatissima divisione” era ormai irriconoscibile. I reparti sono traumatizzati; le coscienze disorientate; i legami che annodavano nella disciplina i soldati agli ufficiali e gli ufficiali ai comandanti di Corpo, i comandanti di Corpo al generale di Divisione sembra che stiano per sciogliersi. Lo choc dell’8 settembre stato violento. L’anarchia dilaga. La ribellione serpeggia. La propaganda dei patrioti greci attizza il fuoco di tutti i risentimenti e rancori. I soldati sono agitati. Gridano. Urlano. Accusano. Recriminano. Una vera e propria insubordinazione sta covando sotto le ceneri. Si mormora che il generale voglia “vigliaccamente” disarmare l’intera divisione per consegnarla a “a uno sparuto gruppo di Tedeschi. Lo si taccia nientemeno che di tedescofilo. Verso le 18, appena dopo il rapporto ai cappellani [che Gandin, uomo assai religioso, aveva convocati per riceverne un parere], scoppi di bombe e colpi di moschetto si odono nell’abitato di Argostoli. Fuggi fuggi generale. Le strade diventano cupamente silenziose. Che cosa sta succedendo?
Colpo di testa tedesco verso le 17. Gli artiglieri germanici puntano un semovente contro un dragamine italiano munito di due mitragliere da 20 mm. Attraccato alla banchina. L’ufficiale che lo comanda, sfila gli otturatori che consegna al comando di artiglieria. Informato dell’accaduto, il capitano Apollonio, eccitatissimo, si reca immediatamente sul posto con due autocarri di artiglieri armati fino ai denti, sale a bordo del dragamine, smonta le due mitragliere, le fa caricare sugli autocarri; fermato da un sottufficiale tedesco ed invitato a seguirlo dal comandante germanico, scrolla le spalle, risponde che di comandanti ne conosce uno solo, ed è quello “italiano”. Punto e basta.
Intanto sta per scadere l’ultimatum. Il tenente colonnello Barge e il tenente Fauth si recano al Comando di Divisione. “Sta bene - risponde il generale - accordo di massima a cedere le armi collettive e i pezzi” [era stato questo anche il parere dei cappellani convocati dal generale.]
All’alba del 12 settembre la situazione precipita improvvisamente. Notizie allarmanti, diffuse durante la notte, esasperano gli animi. Un sergente maggiore, fuggito con un’imbarcazione da Santa Maura, riferisce che nell’isola il presidio italiano è stato proditoriamente assalito dai Tedeschi, disarmato; soldati e ufficiali incolonnati e avviati in campi di concentramento. Il trucco aveva funzionato: prima i Tedeschi avevano preteso solo le artiglierie e le armi collettive; una volta queste cedute, avevano preteso quelle individuali. Una volta queste consegnate, la truppa era stata brutalmente sospinta dietro i reticolati.
La notizia incendia gli animi. I Tedeschi si servono dell’inganno; le trattative in corso servono loro soltanto per guadagnare tempo. L’agitazione è grande. Prorompono grida: “Abbasso i Tedeschi! Morte ai tedescofili!”.
Chi sono i tedescofili? Tutti coloro che invitano alla calma. Si comincia a sospettare persino della buona fede del generale. “Il generale - si dice - è d’accordo coi Tedeschi”.
Che cosa resta da fare?Il generale Gandin ha ormai dato la sua parola ai Tedeschi. Come tornare indietro? Alle quattro del mattino era già partita per il comando tedesco la lettera di conferma degli accordi presi verbalmente la sera prima.
Ci potevano essere ancora dei dubbi sulle intenzioni reali dei Tedeschi? Bastava d’altra parte guardarsi attorno: nella zona di Lixuri era tutto un andirivieni di colonne germaniche; rifornimenti venivano paracadutati ai presidi isolati. Sbarchi erano segnalati sulle coste. Intanto il capitano Pampaloni ha già stabilito contatti con i partigiani greci dell’isola. Entra in scena il tenente dell’esercito greco Agesilao Migliaressi. Avvicina il capitano Pampaloni e il capitano Apollonio, prende accordi direttamente con entrambi in vista di un’azione combinata contro i Tedeschi. Entrano in scena altre figure di resistenti greci: sono il tenente colonnello Kavadias, il capitano Lazarotos e il tenente Georgopulos. Riunione segreta di costoro sotto la tenda del capitano Apollonio: i resistenti greci provvederebbero alle informazioni, a controllare l’isolato presidio tedesco di Capo Munda, ad iniziare azioni di guerriglia lungo la rotabile Karadacata-Argostoli, ad attaccare le autocolonne tedesche in marcia, a colpire. Ad assicurare il collegamento tra Italiani e Greci è incaricato il tenente Dionisio Georgopulos. Sarà distaccata presso i “ribelli” una stazione radio. La dirigerà il radiotelegrafista Fedeli. Si distribuiscono armi. Un capitano dei carabinieri si incarica di rimettere in libertà i detenuti “politici” greci e di distruggere tutti i documenti compromettenti relativi ad azioni tentate o progettate dai componenti dell’E.L.A.S. nell’isola di Cefalonia.
Si arriva così al pomeriggio del 12. Verso le ore 16, altro incidente. Questa volta siamo arrivati al punto di rottura. Il generale comandante tiene un nuovo consiglio di guerra. Esamina la situazione drammatica che si è venuta a creare nelle ultime ore, sempre allo scopo di trovare un compromesso qualunque, pur di portar fuori i suoi undicimila “figli di mamma” da una tragedia di cui calcola già tutte le conseguenze, quando…
La notizia cade sul tavolo del generale col fragore di una bomba: i Tedeschi hanno ritto gli indugi, gettato la maschera, sono passati all’azione, e tanto per cominciare, hanno circondato le batterie di San Giorgio e di Kavriata: disarmate, intimato quindi ai soldati di consegnare le armi.
S.O.S,. disperato degli ufficiali. La risposta del comando è burocraticamente semplice: “Di fronte a forze preponderanti, cedere”.
E le batterie cedono. L’affronto è grave. Umiliante. Soprattutto sospetto. Si sospettano infatti complicità penose, impossibili, di cui non si vorrebbe nemmeno sentir parlare, ma di cui intanto si mormora. Comincia a serpeggiare per la prima volta la parola tradimento. La propaganda greca fa di tutto per eccitare gli animi, per mettere i soldati contro gli ufficiali, gli ufficiali inferiori contro gli ufficiali superiori, per “caricare” gli animi dei soldati di risentimento contro i Tedeschi, per creare malintesi, provocare incidenti. Chi non è contro i Tedeschi, è con i Tedeschi, e come tale tacciato di vigliaccheria.
Grave incidente nella piazza principale di Argostoli. Poiché la situazione sta diventando sempre più critica, e potrebbe precipitare da un momento all’altro, il Comando di Divisione aveva ordinato lo sgombero delle Suore Missionarie italiane. Se ne era incaricato il capitano Piero Gazzetti, addetto all’ufficio propaganda del comando divisionale: con un autocarro le sta trasferendo al 37° ospedale da campo. Nella piazza di Argostoli, l’autocarro è fermato da un maresciallo di Marina il quale intima all’ufficiale e alle suore di scendere: l’autocarro è requisito, sarà destinato al trasporto di armi e munizioni. Il capitano risponde che deve eseguire un ordine del generale. È un attimo. Il maresciallo urla: “Allora anche voi appartenete alla schiera dei traditori”. Estrae la pistola, spara a bruciapelo all’ufficiale, che cade riverso. Morirà il giorno appresso, dopo un’atroce agonia.
Ancora incidenti nel pomeriggio. Mentre si reca al comando di artiglieria dove ha convocato un consiglio di guerra, il generale Gandin è fatto segno a un attentato prima, ad insulti poi. Una bomba è lanciata contro la sua macchina, fortunatamente senza conseguenze. Oltre, un soldato si para decisamente davanti alla macchina costringendo l’autista a rallentare; un altro militare ne approfitta per strappare la bandierina tricolore dal cofano gridando al generale che on è più degno di portarla. Ammutinamento vero e proprio in un reggimento di fanteria: il colonnello, fatto segno a un colpo di moschetto, è costretto a rifugiarsi in una casetta. Sarà liberato da alcuni civili greci.
Che cosa aveva fatto il generale Gandin per meritare un simile trattamento dai suoi soldati? Che cosa aveva fatto per sentirsi chiamare “traditore”? Niente. Voleva soltanto portare a casa, indenne, la divisione che la Patria gli aveva affidato, assieme a tutti i “figli di mamma” che la componevano. Egli è forse il solo uomo degli undicimila della “Acqui” che vede chiaramente la situazione. “I Tedeschi ci schiacceranno con i loro Stukas” dice nel corso di un rapporto con alcuni ufficiali di artiglieria che avevano chiesto di essere ricevuti. Tra questi, il capitano Apollonio, il capitano Pampaloni e il tenente Ambrosini sono i più agitati. il movimento di rivolta era in realtà partito dalle batterie del 33° artiglieria e della Marina. Il comandante, il colonnello Romagnoli, pur parteggiando idealmente coi suoi subalterni, non pere mai il senso della misura. “Siamo soldati - dice - e dobbiamo obbedire”. Impossibile, gi rispondono.
I Tedeschi hanno catturato alcune nostre batterie: che cosa aspetta il generale Gandin ad attaccare? Di quale altra provocazione tedesca ha bisogno per iniziare le ostilità? La discussione assume toni insoliti. Gandin cerca di far capire la gravità della situazione. Quale? Essa è uin una sola parola, e dice: “isolamento”. “Siamo isolati”. Ma ormai le menti sono sconvolte, l’ubbidienza distrutta.
Gandin insiste nel voler far comprendere le ragioni delle sue decisioni, di trattare sino all’ultimo coi Tedeschi. Gli ribattono che tale atteggiamento è contrario all’onore militare. Si arriva all’assurdo: di protestare perché il generale aveva preso delle decisioni senza consultare prima i subalterni. Pare che un ufficiale, tra i più scalmanati, lo abbia accusato addirittura di essere un ribelle agli ordini del governo legittimo e servo di Farinacci.
“Generale - esclama il capitano Apollonio - non vi chiediamo che di lasciarci morire accanto ai nostri cannoni”.
Fuori è il tumulto, l’insubordinazione è ormai scatenata. I più irrequieti sono proprio i tutori dell’ordine, i carabinieri, Gli artiglieri, credendo che i loro ufficiali siano stati arrestati, puntano i pezzi delle batterie contro il Comando Divisione. Qualcuno parla di arrestare nientedimeno che il generale. Ufficiali e truppa, aizzati dai Greci, gridano che il generale è un traditore…»
Da questa ricostruzione dei fatti, che era di pubblico dominio in Italia prima che la retorica resistenziale avvolgesse il dramma della «Acqui» in un alone sacrale che ne rende difficilissima, ora, una spassionata valutazione storica, risulta, fra le altre cose, che un semplice capitano, agendo di propria iniziativa e alle spalle dei propri superiori diretti, nonché del generale di divisione che stava prendendo tutt’altre decisioni, stabiliva rapporti di collaborazione operativa con i partigiani greci, ossia con il nemico del giorno innanzi, fin dal 13 settembre, vale a dire appena cinque giorni dopo l’armistizio dell’Italia con gli Alleati.
Già lascia pensosi il fatto che, su di una piccola isola come Cefalonia (781,5 kmq.: cioè, pressappoco, tre volte e mezzo l’isola d’Elba), una forza italiana di 11.000 soldati, più duemila Tedeschi, convivesse con forti nuclei della resistenza greca, come se fra le due parti si fosse giunti, e da tempo, a una sorta di tacito armistizio. A questo punto, forse, l’intero episodio di Cefalonia andrebbe inserito nel più ampio contesto del disfacimento morale di una parte degli eserciti italiani disseminati nei Balcani e particolarmente demoralizzati dopo che, con la caduta della Tunisia e con la conquista angloamericana della Sicilia, essi cominciavano a sentirsi tagliati fuori dalla Patria in pericolo e privi di ogni prospettiva di vittoria.
Solo in un simile contesto si possono collocare azioni come quelle di alcuni ufficiali della «Acqui», i quali, infrangendo la disciplina e screditando pubblicamente l’azione di comando dei propri superiori, instaurano rapporti con i partigiani locali, aprono il fuoco di propria iniziativa sulle truppe germaniche, istigano i propri soldati - con toni esaltati e con profonda irresponsabilità - a una azione che costerà innumerevoli vittime innocenti.
Ed ora, proviamo a metterci onestamente, per una volta, da parte dell’ex alleato tedesco, già ferito dalla notizia dell’armistizio di Cassibile e dalle sue prevedibili conseguenze per la sicurezza della Germania medesima. Che cosa doveva pensare di quei soldati, di quegli ufficiali; quanto poteva fidarsi delle loro assicurazioni, della loro parola; che cosa doveva aspettarsi da loro, e come avrebbe dovuto regolarsi nei loro confronti, con una guerra tuttora in corso contro le maggiori potenze mondiali e con la flotta britannica sempre pronta a sferrare un colpo di mano contro Cefalonia, così come contro le altre isole greche?
Ancora.
Prima che abbia inizio la battaglia fra Italiani e Tedeschi sull’isola, il generale Gandin è minacciato e insultato dalle sue stesse truppe, che strappano la bandiera italiana dal cofano della sua automobile e gli gridano che non è degno di essa. Un colonnello della «Aqui» viene preso a fucilate dai suoi stessi soldati ed è tratto in salvo dai civili greci. E chi aveva autorizzato l’immediata scarcerazione dei partigiani greci detenuti dai carabinieri?
Si tratta di scene normali presso una divisione combattente, in un teatro di guerra? Qualcuno si immagina che situazioni del genere avrebbero potuto verificarsi presso gli eserciti alleati, non che presso il disciplinatissimo esercito tedesco, che pure si sentiva, ed era, circondato da nemici da ogni parte, ivi compresi i partigiani che colpiscono stando nell’ombra? Oppure qualcuno si immagina che, se si fossero verificate, la disciplina non sarebbe stata drasticamente ripristinata; o, ancora, che un tribunale militare non avrebbe sanzionato i gravissimi reati commessi, e sia pure in condizioni di normalità, vale a dire a guerra finita?
Per vedere scene simili a quelle di Cefalonia nei primi di settembre del 1943, bisogna risalire indietro agli ammutinamenti dell’esercito francese nel 1917 o all’insurrezione della flotta tedesca negli ultimi giorni della prima guerra mondiale. Meglio ancora: bisogna risalire alla Rivoluzione d’Ottobre e alla dissoluzione dell’esercito russo, fra il 1917 e il 1918, fomentata dagli agitatori bolscevichi e dagli agenti provocatori austro-tedeschi; non si dimentichi mai che Lenin tornò in Russia con l’aiuto di Parvus, agente dei servizi segreti tedeschi, che disponeva dei fondi segreti stanziati dallo Stato Maggiore germanico.
Vi è infatti, riconoscibilissima, una particolare tecnica di matrice comunista, nei gravissimi fatti verificatisi presso la divisione «Acqui» di Cefalonia, prima che divampasse la battaglia fra Italiani e Tedeschi, dal 14 al 22 settembre (giorno della resa del generale Gandin), ispirata alla nota filosofia leninista del «tanto peggio, tanto meglio»; e di cui è traccia, fra parentesi, anche nell’attentato di Via Rasella, a Roma, l’anno dopo. I partigiani comunisti greci, addestrati presso quella scuola, ne sapevano ben qualcosa: essi non ebbero scrupoli, non solo a fomentare l’odio fra Italiani e Tedeschi, ma anche a istigare la ribellione dei soldati italiani contro i loro ufficiali e contro il loro comandante.
Bisogna avere il coraggio di dirlo: la divisione «Acqui» era in stato di dissoluzione, anzi, in stato di rivolta: non rispondeva più al proprio Comando e si comportava come una mina vagante, che avrebbe potuto esplodere nelle mani di chiunque le si fosse avvicinato. Quegli artiglieri che puntano i propri cannoni contro il comando della divisione, contro l’edificio ove risiede il generale Gandin, sembrano appartenere ad una scena surreale o a un cattivo film di ammutinamento e ribellione. Una scena del genere non è concepibile in nessun esercito degno di questo nome.
I partigiani greci, astuti e calcolatori, se ne resero conto benissimo e riuscirono a “lavorarsi” alcuni ufficiali inferiori, istigandoli non solo contro i Tedeschi, ma anche contro i loro superiori e contro il loro stesso comandante. A loro non importava nulla della sorte di quegli sprovveduti; gli bastava seminare zizzania tra Italiani e Tedeschi, per metterli gli uni contro gli altri. Certo, era nel loro diritto di resistenti di un Paese occupato: ma per carità, non facciamone degli eroi e non continuiamo a dipingere una storia che non esiste, dove tutti i “buoni” sono da una parte sola e tutti i “cattivi” sono dall’altra, senza sfumature.
Comunque, sul ruolo svolto dalla Resistenza greca in questa e in altre vicende dell’esercito italiano dopo l’8 settembre del 1943, ci riserviamo di ritornare altra volta, in maniera più specifica. Per ora ci basta aver evidenziato come la decisione della «Acqui» di resistere ai Tedeschi non nasce, come vorrebbe la Vulgata storiografia oggi imperante, da una serena discussione e da una cameratesca assunzione di responsabilità reciproca fra tutti gli uomini: ma dal sospetto, dall’odio, dall’esaltazione, dall’incompetenza, dalla faciloneria; mescolati - come avviene nel mistero dell’animo umano - al senso dell’onore ferito, al coraggio personale, a un innegabile spirito di sacrificio; il tutto manipolato da alcuni mestatori, in buona parte stranieri ed ex nemici - i partigiani greci - i quali hanno tutto l’interesse a far scoppiare l’irreparabile fra i due eserciti di occupazione presenti nell’isola.
Così, anche in questo caso - come in molti altri, a cominciare dall’attentato di Via Rasella che provocò la strage delle Fosse Ardeatine - ciò che ci viene raccontato dalla Vulgata oggi dominante non è precisamente la verità e nemmeno un onesto tentativo di avvicinarvisi, ma una deliberata manipolazione di essa, il cui scopo è fondare un mito intangibile, all’ombra del quale le stesse forze finanziarie, industriali, militari, che avallarono il fascismo e la guerra e ne ricavarono grossi vantaggi, potessero riciclarsi per continuare a spadroneggiare, stavolta in versione democratica.
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FRANCO PAGLIANO
Franco Pagliano nacque nel 1914 a Genova, con l'aviazione nel sangue. Suo padre, il capitano pilota Maurizio Pagliano, fu uno degli assi del bombardamento durante la prima guerra mondiale e morì durante un'azione di mitragliamento sulle trincee del Piave nell'inverno 1917. La passione per il volo si concretizzò in Lui nel 1936 quando, brevettatosi pilota militare, fu assegnato ai reparti da bombardamento con il grado di sottonente di complemento. Partecipò alla guerra di Spagna a fianco dei nazionalisti e nel corso delle operazioni militari fu ferito e più volte decorato. Rientrato in Italia, passò in servizio permanente effettivo. Fu poi inviato in Africa Settentrionale dove accanto all'attività di volo iniziò quella giornalistica per alcune pubblicazioni militari. Quando nel 1941 venne rimpatriato per motivi di salute, entrò a far parte dell'ufficio stampa del gabinetto del ministro dell'aereonautica, segnalandosi per la sua preparazione professionale in campo tecnico e militare e pubblicando, oltre a numerosi articoli, il volume Bombardieri in quota. Promosso capitano, dopo 1'8 settembre 1943, liberamente e con coerenza ai suoi ideali, decise di raggiungere il nord, dove divenne capo dell'ufficio stampa dell'aviazione della RSI, contribuendo alla fondazione del giornale Ali. Nei difficili e avvilenti anni del dopoguerra, si dedicò quasi interamente all'attività (li giornalista pubblicista, dando contemporaneamente alle stampe Storia di 10.000 aereoplani (1 ed. 1947). Preciso, attento, spontaneo, si affermò ben presto nel settore del giornalismo aereonautico, divenendo collaboratore di numerose pubblicazioni nazionali. Fu per dieci anni vicepresidente dell'Unione Giornalisti Italiani e nel 1961 vinse il premio « Mario Massai », alla sua prima edizione nel dopoguerra. Estese in seguito la sua attività nel campo editoriale divenendo consulente aereonautico per varie opere di carattere enciclopedico e nel 1964 pubblicò Aviatori Italiani, concretizzando in modo definitivo uno dei compiti che si era prefisso fin dal 1945: descrivere con verità storica, obiettività e vivacità gli uomini, i mezzi e le imprese della nostra aviazione in pace e in guerra. Un male inesorabile purtroppo lo stroncava nel febbraio 1969, poco prima che uscisse stampata la sua ultima opera, In cielo e in Terra.
Copertina: Verde Alfieri
Avvertenza
Le esatte generalità dei testimoni che appaiono nel libro cor le sole iniziali, saranno reperibili, ove necessario, presso lo studio legale dell'avvocato Lorenzo Borrè in Roma, via Germanico 107.
Il nostro indirizzo Internet è: http://www.mursia.com/
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Copyright 2009 Ugo Mursia Editore S.p.A. Tutti i diritti riservati - Printed in Italy
5817/AC - Ugo Mursia Editore S.p.A. - Milano Stampato da Atena - Grisignano (Vicenza)
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A Barbara, Annamaria,
Lorenzo, Edoardo
Ad Annina e Nini
A mamma e papà
Lorenzo, Edoardo
Ad Annina e Nini
A mamma e papà
Il tempo logora l'errore e leviga la verità.
Duca di Lévis, Massime, precetti e riflessioni
PRESENTAZIONE
Tra le più insopportabili sciocchezze che oggi hanno libero corso e ampio credito presso i mass media e in quella che si usa chiamare l'opinione pubblica, due sono davvero dure a tollerarsi: la balla sul Tribunale della Storia e la polemica contro il cosiddetto revisionismo.
La storia non va mai scritta con la maiuscola e non c'è tribunale che tenga; suo compito non è quello di decretare chi ha ragione e chi ha torto, essa non condanna e non assolve. Funzione dello storico non è il giudicare, bensì il comprendere: non nel senso di giustificare, bensì in quello — etimologicamente preciso — di capire e spiegare dall'interno la genesi di eventi, istituzioni, strutture sociali, categorie morali e culturali. I «responsi» del «tribunale della storia» non sono mai né eterni, né irreversibili: la storia è, per sua natura, opera aperta. E non perché il passato, una volta divenuto tale, possa cambiare: bensì perché cambiamo noi, il nostro modo dí accedere ai documenti e d'interpretarli, la massa di fonti che abbiamo a disposizione ín rapporto con quanto purtroppo viene perduto e distrutto e quanto viene recuperato e scoperto, le prospettive alla luce delle quali conduciamo le nostre indagini.
Il revisionismo è un atroce e fangoso equivoco. La storia altro non è se non revisione continua: verifica di dati e di fatti che ritenevamo assodati, rettifica di giudizi precedentemente espressi, progressivo avvicinamento verso un punto ideale d'arrivo che non può non essere, moralmente parlando, il traguardo d'ogni studioso di storia, ma dell'inconseguibilità del quale, dell'impossibilità di giungervi, qualunque studioso degno di questo nome è perfettamente conscio. Il lavoro dello storico è una fatica di Sisifo, un supplizio di Tantalo; e il più decoroso titolo di gloria di uno storico che abbia buoni allievi è la consapevolezza di lavorare per metterli nelle condizioni di far meglio di lui, di superarlo. Quanto alla «verità storica», essa muta col mutare delle generazioni e degli strumenti esegetici e gnoseologici di ricerca; e non va mai confusa comunque con la «verità» assoluta, ch'è per sua natura umanamente inconoscibile.
Ma negli ultimi anni, con il crescere della polemica contro il cosiddetto «revisionismo», si è voluto semplicemente negare il rischio d'una anche soltanto parziale modificazione di dati e di valori giudicati moralmente intangibili e irreversibili e come tali sottratti — almeno nelle intenzioni — alla corrosione della revisione storica che avrebbe potuto ridimensionarli, articolarli, insomma weberianamente «disincantarli»: e, in alcuni casi, svelare le menzogne o le manipolazioni sulle quali essi poggiano. Ciò perché di alcuni eventi e momenti della storia passata, specie di quella recente, si è fatto un uso improprio e indebito, servendosene come da fondamento e da giustificazione per assetti pubblici nazionali o internazionali e per consolidate fortune politiche o massmediali. Si è così cercato di sottrarre alla critica storica e alla verifica documentaria alcune parti del nostro passato, a costo di ostacolare o addirittura di proibire per legge, al riguardo, qualunque supplemento di prova e qualunque estensione e approfondimento della ricerca. E, all'inesistente figura retorica del Tribunale della Storia, si è sovente sostituita la concreta realtà di trascinare gli storici in tribunale.
Non che, d'altra parte, preoccupazioni, riserve e verifiche non fossero necessarie. Prendiamo la galassia dei «revisionisti» in servizio permanente effettivo e di coloro che sono comunque stimati tali: basta un'occhiata alla sterminata produzione revisionistica (e, del resto, anche a quella controrevisionistica) per rendersi conto che si trova di tutto: studiosi probi e severi, ingiustamente perseguiti e colpiti per aver dimostrato, facendo il loro mestiere che alcuni idola tribus sui quali poggia l'edificio delle idées données e il generale consenso tributato loro dalla nostra società civile sono falsi, o manipolati, o discutibili; onesti ricercatori che, fiduciosi nel buon senso e nella buona fede generali, si sono imbattuti in un fatto o in un documento che mette in discussione una certa verità ritenuta inoppugnabile e ingenuamente l'hanno fatta conoscere; dilettanti allo sbaraglio poco a loro agio con gli strumenti della corretta ricostruzione del passato e incapaci di selezionare le prove e di gerarchizzare le fonti; narcisisti ed esibizionisti in cerca dello scoop e ingenuamente attardati nell'illusione che lo «scandalo» paghi ancora, vale a dire illusi che perseverano nel non essersi accorti dell'abisso di viltà, d'ignoranza e di conformismo nel quale sta affondando sempre di più il cosiddetto nostro libero Occidente; monomaniaci depressivi o schizofrenici incuranti del male che le loro tesi procurano soprattutto a loro stessi.
D'altronde, col mutare dei tempi si è andato profilando altresì il bisogno di realizzare una «memoria condivisa» in grado di contribuire alla ricostruzione di quell'autocoscienza identitaria che la Modernità occidentale ha fatto per cinque secoli di tutto per cancellare — progressivamente sostituendola con l'unico tipo d'identità che interessasse sul serio l'homo occidentalis, quella individuale al servizio della sua «volontà di potenza» — e di cui sembra si sia tornati adesso ad avvertire viceversa l'indispensabilità. Ed ecco allora che, dinanzi a molti aspetti della nostra storia recente e recentissima — dal «risorgimento» alla «questione meridionale» alle due guerre mondiali a quella che Ernst Nolte ha definito la «guerra dei Trent'Anni» del XX secolo fino alle paci ingiuste di Versailles e al brigantaggio dí Yalta, per tacere degli errori e degli orrori commessi dall'Asia all'Africa all'America Latina e dell'attività criminosa delle lobby internazionali e dei (troppi) governi che si prestano a far loro da comitato d'affari — nasce la necessità di chiarire, di smascherare molte bugie, di affermare altrettante verità troppo a lungo conculcate o negate, calpestate comunque.
C'è voluto mezzo secolo prima che si potesse, in Italia, parlare apertamente delle foibe. Quanti altri decenni saranno necessari prima che si possa affermare, apertamente e liberamente, la verità su interventi in appoggio a guerre combattute sotto l'ipocri ta copertura di etichette come l'«intervento umanitario» e la «forza d'interposizione»?
La «memoria condivisa» richiede uno sforzo da parte di tutti coloro che intendano appunto condividerla: questo vuol dire che chi ha finora goduto di rendite di posizione politiche e morali determinate dall'aver ereditato la parte dei vincitori dovrà per forza fare un passo indietro, e ammettere come buoni alcuni degli argomenti dei vinti, rivisitare le loro ragioni, accedere a forme di giudizio più sereno e moderato, rinunziare alla politica dello struzzo nei confronti di verità evidenti, documentate e sempre istericamente negate, accedere a una comune analisi dei molti aspetti della realtà passata che ancora restano oscuri o incerti. Ma, obiettano alcuni, «non si possono mettere sullo stesso piano i carnefici con le vittime»: ineccepibile obiezione, a patto dí non utilizzarla come alibi per un'astratta e manichea visione della realtà; e a patto di mantenere senza dubbio a proposito di tanti eventi prossimi e remoti il proprio punto di vista, senza tuttavia cedere alla tentazione di ritenere perciò legittimo tutto quel ch'è accaduto dalla parte che si è scelta come propria. In molte discussioni recenti, mi sembra che perfino politici avveduti e intellettuali attenti abbiano manifestato la tendenza un po' troppo disinvolta a confondere, ad esempio, lo ius in bello con lo ius ad bellum, e a giudicare quindi pregiudizialmente buoni tutti gli atti compiuti dalla parte che a torto o a ragione si ritiene quella giusta. In altri termini, i campi di sterminio nazisti non sono stati orribili solo perché l'ideologia razzista che in qualche modo li sosteneva e li aveva determinati fosse aberrante: sarebbero stati tali anche se sostenuti dalle ragioni politicamente e filosoficamente migliori del mondo. Allo stesso modo, la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki è stato un tremendo crimine contro l'umanità: e non serve a giustificarla il replicare che gli statunitensi avevano comunque «ragione» nella guerra contro i giapponesi, e che magari l'esperimento serviva (come sí continua ipocritamente a dire) «per abbreviare il conflitto». Se un soldato va in guerra per una giusta causa —nel senso, attenzione, non assoluto, bensì in quello giuridicamente e teologicamente circoscritto dalla dottrina agostiniana dello iustum bellum — può aver tutte le ragioni per quanto concerne il suo ruolo ad bellum, il che non lo esime dal comportarsi correttamente in bello: se ruba una gallina, o violenta una ragazza, o infierisce su un nemico che si sia arreso o sia ferito, o uccide un bambino, non c'è iustum bellum che tenga.
Il fatto è che i vincitori tendono naturalmente a coprire la magagne proprie, a esaltare e assolutízzare le loro ragioni cercando di farle coincidere con la «ragione» tout court e quindi a fare in modo di far trionfare l'antico escamotage, ch'è stato del resto a lungo proprio del determinismo storicistico, secondo il quale chi vince avrebbe ragione perché ha vinto, e la prova di ciò starebbe nel fatto che ha vinto perché aveva ragione.
In realtà, quel che di certo si può dire dei vincitori — dalla guerra di Troia in poi — è che hanno vinto; e compito dello storico è semmai il ricercare le cause tattiche, strategiche, logistiche, politiche, diplomatiche e magari spirituali e culturali della loro vittoria. La legittimazione morale della vittoria appartiene appunto all'uso demagogico della storia: come si potrebbe agevolmente comprovare se, accanto ai molti «Libri Neri» che sono già stati pubblicati (del comunismo, del capitalismo, del colonialismo eccetera), ci si desse la pena di mettere insieme un Libro Nero dei Vincitori. Di tutti i vincitori: da Agamennone a Bush, ammesso (e direi non concesso) che Bush abbia davvero vinto anche una sola delle due guerre che ha scatenato, rispettivamente in Afghanistan nel 2001 e in Iraq nel 2003.
Antonio Serena ha alle spalle una prestigiosa carriera politica, ma anzitutto è un docente con una chiara predisposizione per la ricerca storica: una dote che ha affinato attraverso anni di attività giornalistica e dí severo studio. Che cosa c'impedisce di definirlo uno storico? Forse, solo il pregiudizio formalista che ci obbliga invece a definire «storici» un nugolo dí buoni a nulla o quasi che in vita loro, per essersi imbattuti nelle amicizie e nelle circostanze giuste, si sono imbucati nell'Università; e qualcuno di loro è riuscito ad arrampicarsi fino a una cattedra. Badate, non sto giudicando in blocco, genericamente e con leggerezza, tutta una categoria alla quale appartengo anch'io: me ne guardo bene. Anzi, tra i docenti e i ricercatori di storia, in Italia, vi sono studiosi illustri il cui valore è apprezzato e riconosciuto da noi e all'estero, insieme con una quantità ragguardevole di ottimi professionisti, quasi sempre sconosciuti o sottostimati. Ma abbondano purtroppo anche gli altri, i furbastri, i pigri cronici, gli incompetenti, i miracolati senza merito, i portaborse per professione, i titolari di rendite di posizione, quelli con la tessera giusta in tasca. Se quelli possono contínuare — e continueranno — a restare imboscati o parcheggiati nelle Università, Serena dovrebbe aver diritto di aspirare a una cattedra oxoniense.
Comunque, la sua ricerca presenta irreprensibili caratteri euristici e prosopograficí: documenti, testimonianze, nomi, luoghi, date. Nessuna traccia di ardori o di manie di tipo «revisionistico», in nessun senso; nessuna sbavatura, nessuna discussione su chi ad bellum avesse «ragione» o «torto», nessun dirottamento dal rigoroso binario del comportamento in bello. Ch'era per giunta una guerra civile, con tutte le aggravanti del caso. Anzi, ch'era una guerra già finita, dal momento che qui si esaminano fatti, e purtroppo delitti, largamente posteriori al fatale 25 aprile 1945.
Letture come quelle di questo libro obbligano anche a rimettere in discussione — se non fosse già stato fatto — la vera natura di quell'amnistia voluta da Palmiro Togliatti, allora ministro della Giustizia, ch'è stata giudicata (e, intendiamoci, per molti versi tale giudizio resta valido) un gesto lungimirante e pacificatorio, un primo passo verso la ricomposizione del quadro morale della nazione e perfino, se si vuole, verso l'edificazione dí una «memoria condivisa». Ma un politico esperto e intelligente come Togliatti sapeva bene che, dietro alle accuse — che attirò su di sé — di aver voluto in tal modo, troppo precipitosamente, «perdonare i fascisti», vi era il rischio per lui e per la sua parte politica di vedere scoperti, nella breve o nella lunga durata, i molti, troppi crimini delle bande comuniste.
Come giudicare tali crimini? Anche qui, l'equanimità di Serena è esemplare. Questo libro ricostruisce le squallide e sanguinarie gesta della banda del parti giano «Falco», Gino Simionato, che infierì nella primavera del '45 in una zona tutto sommato abbastanza ampia del Trevigiano — quella che nel Medioevo era stata detta «la Marca zoiosa», ma che pure, in pieno Duecento, aveva conosciuto la ferocia di Ezzelino da Romano e quella, non minore, dei suoi avversari —, con epicentro drammatico se non geografico nella cartiera Burgo di Mignagola, un vero e proprio campo di sterminio. E dicendo questo, sia chiaro, nessuno intende diminuire nemmeno di un millimetro, né di un milligrammo, le responsabilità di altri titolari di campi di sterminio, comunque schierati. Il gulag non ha mai giustificato il lager, né viceversa; gli orrori di Sabra e di Chatilah non scagionano certo i suicidi-omicidi terroristici di Hamas; e per giustificare Falluja non c'è 11 settembre che tenga. Allo stesso modo, tra le vittime di «Falco» e della sua banda di assassini c'erano forse alcuni ch'erano stati a loro volta carnefici e che come tali erano colpevoli e meritevoli di mille morti: ma, questo è il punto, non di quella che i partigiani comunisti inflissero loro.
S'è detto partigiani comunisti. E il comunismo, qui, c'entra senza dubbio e sul serio. Lasciamo perdere i motivi meno onorevoli di alcuni di quei massacri: la rapina, la violenza fine a se stessa, la vendetta. Che Simionato non fosse mai stato uno stinco di santo, che anzi fosse un criminale comune prima che politico, può darsi; così come capita che i delinquenti politici possano essere, per altri aspetti, irreprensibilmente virtuosi. Capita. Dí Saint Just e di Robespierre si può dir tutto, ma non che fossero dei debosciati e dei disonesti; e forse in fondo proprio per questo il vizioso Danton finisce col restarci più
simpatico. Si resta sempre disorientati, dinanzi alla virtù sanguinaria: corruptio optimi pessima.
Dev'essere comunque chiaro che questo non è nemmeno un libro di militanza politica anticomunista. Che sarebbe se non altro fuori tempo. E la scia di lacrime e di sangue che il comunismo ha tracciato nella storia del «secolo breve», il Novecento, non deve far dimenticare ch'esso restava (resta) comunque una nobile utopia, ben più rispettabile di quella caricatura del conservatorismo e del liberal-liberismo che oggi sembra essere divenuta il brodo di coltura della destra di governo. D'altro canto, qualcuno ha affermato che «il peggior crimine del comunismo sta nell'essere scomparso proprio quando si cominciava a sentirne un pochino il bisogno»: il che, se non è vero, è comunque almeno ben trovato.
«Falco» poteva essere un delinquente comune che aveva trovato nella politica, in quella politica, un facile alibi per sfogare le sue propensioni. Ma, in questo come in molti, troppi altri casi, la computisteria funebre è uno sport un tantino infame che non serve per giunta a nulla. Serena si guarda bene dal dedurre dalle squallide gesta di «Falco» che la sua fosse in quanto tale una causa sbagliata; e non si sogna nemmeno di ricorrere al sillogismo difettivo secondo il quale «Falco era un criminale, Falco era un comunista, quindi tutti i comunisti sono criminali». In questa cronaca puntuale e puntigliosa ma non arida, anzi sempre sostenuta da un senso di umanità profondo e moralmente partecipato, non c'è ombra di partito preso; e tanto meno di «vilipendio alla Resistenza».
No. Questa non è una requisitoria di parte, non è un libello di scandalismo sadomaso. È e resta un libro di storia, non una galleria degli orrori. Serena non ricostruisce quel tragico momento né con l'obiettività fredda del notaio, né con l'ambiguità del voyeur. Siamo nel Veneto del 1945, non lontano da un confine oltre il quale si sta attuando spietatamente una rivoluzione comunista: come quella che alcune componenti del mondo repubblicano tra il 1936 e il 1939 avevano cercato di attuare in Spagna. Piaccia o no, il lavoro dí «Falco» è quello di un politische Soldat che sta procedendo alla decapitazione di un numero quanto possibile più alto di oppositori della costruzione del Domani socialista e, nel contempo, a una rigorosa educazione delle masse: colpirne uno per educarne cento, colpirne mille per educarne centomila. Il truce Gino Simionato è, al pari dell'intelligente e sottile Palmiro Togliatti per quanto a un livello politicamente e culturalmente molto più rozzo di lui, uno stratega stalinista: è stato Josif VissarionoviC ad aver insegnato a entrambi che cosa sia un delitto politico, come lo si perpetri, quali siano i fini che attraverso esso ci si propone di conseguire. Nessuna concessione a sentimenti e coscienza: solo politica. Che poi Falco sia ben altro che un rivoluzionario irreprensibile, come invece è Togliatti, è un altro discorso.
Eppure questo non basta ancora. Non siamo giunti alla fine della spirale. Dietro all'attività di macellaio del partigiano veneto c'è di più e di peggio, e non dipende né da lui, né dall'ideologia comunista. C'è il Male Oscuro che monta, c'è la struttura di sopraffazione che si sta creando le sue istituzioni, c'è l'ipocrisia politicamente ben temperata del legalitarismo e del formalismo: c'è il perbenismo pavido e feroce, criminoso comunque, che non era stato estra‑
neo nemmeno al fascismo e che difatti era sangue e carne di tanti opportunisti; ecco perché, da un certo punto di vista, le Corti d'Assise Straordinarie sono una pagina ancora più nera di quella degli efferati assassinii, così come la degradazione — e pertanto la condanna all'infamia — d'un militare che aveva aderito alla RSI è solo in apparenza meno indecorosa del furto di un orologio a un morto ammazzato.
E altre pagine imbarazzanti in senso opposto, ad esempio la lettera di ringraziamenti di monsignor Mantiero al temibile e famigerato Mario Carità? Carta canta, anche in questo caso: la realtà storica è sempre dannatamente complessa, l'inatteso nella ricerca è sempre dietro l'angolo e balza spesso fuori — magari ospite non gradito — dalle carte d'archivio. Chí non vuole correre rischi, deve fare a meno di frugare tra quelle carte e accontentarsi delle verità consolidate e ripetute fino alla noia dai fautori della Verità Storica Costituita, da quelli che amano distribuire patenti di ragione e di torto. Antonio Serena non è uno di loro. Questo libro non è fatto per nessuno tra quanti (e sono tanti) sono convinti dí avere la verità in tasca.
FRANCO CARDINI
FRANCO CARDINI, nato a Firenze nel 1940, ha insegnato in diverse università, tra le quali
La storia non va mai scritta con la maiuscola e non c'è tribunale che tenga; suo compito non è quello di decretare chi ha ragione e chi ha torto, essa non condanna e non assolve. Funzione dello storico non è il giudicare, bensì il comprendere: non nel senso di giustificare, bensì in quello — etimologicamente preciso — di capire e spiegare dall'interno la genesi di eventi, istituzioni, strutture sociali, categorie morali e culturali. I «responsi» del «tribunale della storia» non sono mai né eterni, né irreversibili: la storia è, per sua natura, opera aperta. E non perché il passato, una volta divenuto tale, possa cambiare: bensì perché cambiamo noi, il nostro modo dí accedere ai documenti e d'interpretarli, la massa di fonti che abbiamo a disposizione ín rapporto con quanto purtroppo viene perduto e distrutto e quanto viene recuperato e scoperto, le prospettive alla luce delle quali conduciamo le nostre indagini.
Il revisionismo è un atroce e fangoso equivoco. La storia altro non è se non revisione continua: verifica di dati e di fatti che ritenevamo assodati, rettifica di giudizi precedentemente espressi, progressivo avvicinamento verso un punto ideale d'arrivo che non può non essere, moralmente parlando, il traguardo d'ogni studioso di storia, ma dell'inconseguibilità del quale, dell'impossibilità di giungervi, qualunque studioso degno di questo nome è perfettamente conscio. Il lavoro dello storico è una fatica di Sisifo, un supplizio di Tantalo; e il più decoroso titolo di gloria di uno storico che abbia buoni allievi è la consapevolezza di lavorare per metterli nelle condizioni di far meglio di lui, di superarlo. Quanto alla «verità storica», essa muta col mutare delle generazioni e degli strumenti esegetici e gnoseologici di ricerca; e non va mai confusa comunque con la «verità» assoluta, ch'è per sua natura umanamente inconoscibile.
Ma negli ultimi anni, con il crescere della polemica contro il cosiddetto «revisionismo», si è voluto semplicemente negare il rischio d'una anche soltanto parziale modificazione di dati e di valori giudicati moralmente intangibili e irreversibili e come tali sottratti — almeno nelle intenzioni — alla corrosione della revisione storica che avrebbe potuto ridimensionarli, articolarli, insomma weberianamente «disincantarli»: e, in alcuni casi, svelare le menzogne o le manipolazioni sulle quali essi poggiano. Ciò perché di alcuni eventi e momenti della storia passata, specie di quella recente, si è fatto un uso improprio e indebito, servendosene come da fondamento e da giustificazione per assetti pubblici nazionali o internazionali e per consolidate fortune politiche o massmediali. Si è così cercato di sottrarre alla critica storica e alla verifica documentaria alcune parti del nostro passato, a costo di ostacolare o addirittura di proibire per legge, al riguardo, qualunque supplemento di prova e qualunque estensione e approfondimento della ricerca. E, all'inesistente figura retorica del Tribunale della Storia, si è sovente sostituita la concreta realtà di trascinare gli storici in tribunale.
Non che, d'altra parte, preoccupazioni, riserve e verifiche non fossero necessarie. Prendiamo la galassia dei «revisionisti» in servizio permanente effettivo e di coloro che sono comunque stimati tali: basta un'occhiata alla sterminata produzione revisionistica (e, del resto, anche a quella controrevisionistica) per rendersi conto che si trova di tutto: studiosi probi e severi, ingiustamente perseguiti e colpiti per aver dimostrato, facendo il loro mestiere che alcuni idola tribus sui quali poggia l'edificio delle idées données e il generale consenso tributato loro dalla nostra società civile sono falsi, o manipolati, o discutibili; onesti ricercatori che, fiduciosi nel buon senso e nella buona fede generali, si sono imbattuti in un fatto o in un documento che mette in discussione una certa verità ritenuta inoppugnabile e ingenuamente l'hanno fatta conoscere; dilettanti allo sbaraglio poco a loro agio con gli strumenti della corretta ricostruzione del passato e incapaci di selezionare le prove e di gerarchizzare le fonti; narcisisti ed esibizionisti in cerca dello scoop e ingenuamente attardati nell'illusione che lo «scandalo» paghi ancora, vale a dire illusi che perseverano nel non essersi accorti dell'abisso di viltà, d'ignoranza e di conformismo nel quale sta affondando sempre di più il cosiddetto nostro libero Occidente; monomaniaci depressivi o schizofrenici incuranti del male che le loro tesi procurano soprattutto a loro stessi.
D'altronde, col mutare dei tempi si è andato profilando altresì il bisogno di realizzare una «memoria condivisa» in grado di contribuire alla ricostruzione di quell'autocoscienza identitaria che la Modernità occidentale ha fatto per cinque secoli di tutto per cancellare — progressivamente sostituendola con l'unico tipo d'identità che interessasse sul serio l'homo occidentalis, quella individuale al servizio della sua «volontà di potenza» — e di cui sembra si sia tornati adesso ad avvertire viceversa l'indispensabilità. Ed ecco allora che, dinanzi a molti aspetti della nostra storia recente e recentissima — dal «risorgimento» alla «questione meridionale» alle due guerre mondiali a quella che Ernst Nolte ha definito la «guerra dei Trent'Anni» del XX secolo fino alle paci ingiuste di Versailles e al brigantaggio dí Yalta, per tacere degli errori e degli orrori commessi dall'Asia all'Africa all'America Latina e dell'attività criminosa delle lobby internazionali e dei (troppi) governi che si prestano a far loro da comitato d'affari — nasce la necessità di chiarire, di smascherare molte bugie, di affermare altrettante verità troppo a lungo conculcate o negate, calpestate comunque.
C'è voluto mezzo secolo prima che si potesse, in Italia, parlare apertamente delle foibe. Quanti altri decenni saranno necessari prima che si possa affermare, apertamente e liberamente, la verità su interventi in appoggio a guerre combattute sotto l'ipocri ta copertura di etichette come l'«intervento umanitario» e la «forza d'interposizione»?
La «memoria condivisa» richiede uno sforzo da parte di tutti coloro che intendano appunto condividerla: questo vuol dire che chi ha finora goduto di rendite di posizione politiche e morali determinate dall'aver ereditato la parte dei vincitori dovrà per forza fare un passo indietro, e ammettere come buoni alcuni degli argomenti dei vinti, rivisitare le loro ragioni, accedere a forme di giudizio più sereno e moderato, rinunziare alla politica dello struzzo nei confronti di verità evidenti, documentate e sempre istericamente negate, accedere a una comune analisi dei molti aspetti della realtà passata che ancora restano oscuri o incerti. Ma, obiettano alcuni, «non si possono mettere sullo stesso piano i carnefici con le vittime»: ineccepibile obiezione, a patto dí non utilizzarla come alibi per un'astratta e manichea visione della realtà; e a patto di mantenere senza dubbio a proposito di tanti eventi prossimi e remoti il proprio punto di vista, senza tuttavia cedere alla tentazione di ritenere perciò legittimo tutto quel ch'è accaduto dalla parte che si è scelta come propria. In molte discussioni recenti, mi sembra che perfino politici avveduti e intellettuali attenti abbiano manifestato la tendenza un po' troppo disinvolta a confondere, ad esempio, lo ius in bello con lo ius ad bellum, e a giudicare quindi pregiudizialmente buoni tutti gli atti compiuti dalla parte che a torto o a ragione si ritiene quella giusta. In altri termini, i campi di sterminio nazisti non sono stati orribili solo perché l'ideologia razzista che in qualche modo li sosteneva e li aveva determinati fosse aberrante: sarebbero stati tali anche se sostenuti dalle ragioni politicamente e filosoficamente migliori del mondo. Allo stesso modo, la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki è stato un tremendo crimine contro l'umanità: e non serve a giustificarla il replicare che gli statunitensi avevano comunque «ragione» nella guerra contro i giapponesi, e che magari l'esperimento serviva (come sí continua ipocritamente a dire) «per abbreviare il conflitto». Se un soldato va in guerra per una giusta causa —nel senso, attenzione, non assoluto, bensì in quello giuridicamente e teologicamente circoscritto dalla dottrina agostiniana dello iustum bellum — può aver tutte le ragioni per quanto concerne il suo ruolo ad bellum, il che non lo esime dal comportarsi correttamente in bello: se ruba una gallina, o violenta una ragazza, o infierisce su un nemico che si sia arreso o sia ferito, o uccide un bambino, non c'è iustum bellum che tenga.
Il fatto è che i vincitori tendono naturalmente a coprire la magagne proprie, a esaltare e assolutízzare le loro ragioni cercando di farle coincidere con la «ragione» tout court e quindi a fare in modo di far trionfare l'antico escamotage, ch'è stato del resto a lungo proprio del determinismo storicistico, secondo il quale chi vince avrebbe ragione perché ha vinto, e la prova di ciò starebbe nel fatto che ha vinto perché aveva ragione.
In realtà, quel che di certo si può dire dei vincitori — dalla guerra di Troia in poi — è che hanno vinto; e compito dello storico è semmai il ricercare le cause tattiche, strategiche, logistiche, politiche, diplomatiche e magari spirituali e culturali della loro vittoria. La legittimazione morale della vittoria appartiene appunto all'uso demagogico della storia: come si potrebbe agevolmente comprovare se, accanto ai molti «Libri Neri» che sono già stati pubblicati (del comunismo, del capitalismo, del colonialismo eccetera), ci si desse la pena di mettere insieme un Libro Nero dei Vincitori. Di tutti i vincitori: da Agamennone a Bush, ammesso (e direi non concesso) che Bush abbia davvero vinto anche una sola delle due guerre che ha scatenato, rispettivamente in Afghanistan nel 2001 e in Iraq nel 2003.
Antonio Serena ha alle spalle una prestigiosa carriera politica, ma anzitutto è un docente con una chiara predisposizione per la ricerca storica: una dote che ha affinato attraverso anni di attività giornalistica e dí severo studio. Che cosa c'impedisce di definirlo uno storico? Forse, solo il pregiudizio formalista che ci obbliga invece a definire «storici» un nugolo dí buoni a nulla o quasi che in vita loro, per essersi imbattuti nelle amicizie e nelle circostanze giuste, si sono imbucati nell'Università; e qualcuno di loro è riuscito ad arrampicarsi fino a una cattedra. Badate, non sto giudicando in blocco, genericamente e con leggerezza, tutta una categoria alla quale appartengo anch'io: me ne guardo bene. Anzi, tra i docenti e i ricercatori di storia, in Italia, vi sono studiosi illustri il cui valore è apprezzato e riconosciuto da noi e all'estero, insieme con una quantità ragguardevole di ottimi professionisti, quasi sempre sconosciuti o sottostimati. Ma abbondano purtroppo anche gli altri, i furbastri, i pigri cronici, gli incompetenti, i miracolati senza merito, i portaborse per professione, i titolari di rendite di posizione, quelli con la tessera giusta in tasca. Se quelli possono contínuare — e continueranno — a restare imboscati o parcheggiati nelle Università, Serena dovrebbe aver diritto di aspirare a una cattedra oxoniense.
Comunque, la sua ricerca presenta irreprensibili caratteri euristici e prosopograficí: documenti, testimonianze, nomi, luoghi, date. Nessuna traccia di ardori o di manie di tipo «revisionistico», in nessun senso; nessuna sbavatura, nessuna discussione su chi ad bellum avesse «ragione» o «torto», nessun dirottamento dal rigoroso binario del comportamento in bello. Ch'era per giunta una guerra civile, con tutte le aggravanti del caso. Anzi, ch'era una guerra già finita, dal momento che qui si esaminano fatti, e purtroppo delitti, largamente posteriori al fatale 25 aprile 1945.
Letture come quelle di questo libro obbligano anche a rimettere in discussione — se non fosse già stato fatto — la vera natura di quell'amnistia voluta da Palmiro Togliatti, allora ministro della Giustizia, ch'è stata giudicata (e, intendiamoci, per molti versi tale giudizio resta valido) un gesto lungimirante e pacificatorio, un primo passo verso la ricomposizione del quadro morale della nazione e perfino, se si vuole, verso l'edificazione dí una «memoria condivisa». Ma un politico esperto e intelligente come Togliatti sapeva bene che, dietro alle accuse — che attirò su di sé — di aver voluto in tal modo, troppo precipitosamente, «perdonare i fascisti», vi era il rischio per lui e per la sua parte politica di vedere scoperti, nella breve o nella lunga durata, i molti, troppi crimini delle bande comuniste.
Come giudicare tali crimini? Anche qui, l'equanimità di Serena è esemplare. Questo libro ricostruisce le squallide e sanguinarie gesta della banda del parti giano «Falco», Gino Simionato, che infierì nella primavera del '45 in una zona tutto sommato abbastanza ampia del Trevigiano — quella che nel Medioevo era stata detta «la Marca zoiosa», ma che pure, in pieno Duecento, aveva conosciuto la ferocia di Ezzelino da Romano e quella, non minore, dei suoi avversari —, con epicentro drammatico se non geografico nella cartiera Burgo di Mignagola, un vero e proprio campo di sterminio. E dicendo questo, sia chiaro, nessuno intende diminuire nemmeno di un millimetro, né di un milligrammo, le responsabilità di altri titolari di campi di sterminio, comunque schierati. Il gulag non ha mai giustificato il lager, né viceversa; gli orrori di Sabra e di Chatilah non scagionano certo i suicidi-omicidi terroristici di Hamas; e per giustificare Falluja non c'è 11 settembre che tenga. Allo stesso modo, tra le vittime di «Falco» e della sua banda di assassini c'erano forse alcuni ch'erano stati a loro volta carnefici e che come tali erano colpevoli e meritevoli di mille morti: ma, questo è il punto, non di quella che i partigiani comunisti inflissero loro.
S'è detto partigiani comunisti. E il comunismo, qui, c'entra senza dubbio e sul serio. Lasciamo perdere i motivi meno onorevoli di alcuni di quei massacri: la rapina, la violenza fine a se stessa, la vendetta. Che Simionato non fosse mai stato uno stinco di santo, che anzi fosse un criminale comune prima che politico, può darsi; così come capita che i delinquenti politici possano essere, per altri aspetti, irreprensibilmente virtuosi. Capita. Dí Saint Just e di Robespierre si può dir tutto, ma non che fossero dei debosciati e dei disonesti; e forse in fondo proprio per questo il vizioso Danton finisce col restarci più
simpatico. Si resta sempre disorientati, dinanzi alla virtù sanguinaria: corruptio optimi pessima.
Dev'essere comunque chiaro che questo non è nemmeno un libro di militanza politica anticomunista. Che sarebbe se non altro fuori tempo. E la scia di lacrime e di sangue che il comunismo ha tracciato nella storia del «secolo breve», il Novecento, non deve far dimenticare ch'esso restava (resta) comunque una nobile utopia, ben più rispettabile di quella caricatura del conservatorismo e del liberal-liberismo che oggi sembra essere divenuta il brodo di coltura della destra di governo. D'altro canto, qualcuno ha affermato che «il peggior crimine del comunismo sta nell'essere scomparso proprio quando si cominciava a sentirne un pochino il bisogno»: il che, se non è vero, è comunque almeno ben trovato.
«Falco» poteva essere un delinquente comune che aveva trovato nella politica, in quella politica, un facile alibi per sfogare le sue propensioni. Ma, in questo come in molti, troppi altri casi, la computisteria funebre è uno sport un tantino infame che non serve per giunta a nulla. Serena si guarda bene dal dedurre dalle squallide gesta di «Falco» che la sua fosse in quanto tale una causa sbagliata; e non si sogna nemmeno di ricorrere al sillogismo difettivo secondo il quale «Falco era un criminale, Falco era un comunista, quindi tutti i comunisti sono criminali». In questa cronaca puntuale e puntigliosa ma non arida, anzi sempre sostenuta da un senso di umanità profondo e moralmente partecipato, non c'è ombra di partito preso; e tanto meno di «vilipendio alla Resistenza».
No. Questa non è una requisitoria di parte, non è un libello di scandalismo sadomaso. È e resta un libro di storia, non una galleria degli orrori. Serena non ricostruisce quel tragico momento né con l'obiettività fredda del notaio, né con l'ambiguità del voyeur. Siamo nel Veneto del 1945, non lontano da un confine oltre il quale si sta attuando spietatamente una rivoluzione comunista: come quella che alcune componenti del mondo repubblicano tra il 1936 e il 1939 avevano cercato di attuare in Spagna. Piaccia o no, il lavoro dí «Falco» è quello di un politische Soldat che sta procedendo alla decapitazione di un numero quanto possibile più alto di oppositori della costruzione del Domani socialista e, nel contempo, a una rigorosa educazione delle masse: colpirne uno per educarne cento, colpirne mille per educarne centomila. Il truce Gino Simionato è, al pari dell'intelligente e sottile Palmiro Togliatti per quanto a un livello politicamente e culturalmente molto più rozzo di lui, uno stratega stalinista: è stato Josif VissarionoviC ad aver insegnato a entrambi che cosa sia un delitto politico, come lo si perpetri, quali siano i fini che attraverso esso ci si propone di conseguire. Nessuna concessione a sentimenti e coscienza: solo politica. Che poi Falco sia ben altro che un rivoluzionario irreprensibile, come invece è Togliatti, è un altro discorso.
Eppure questo non basta ancora. Non siamo giunti alla fine della spirale. Dietro all'attività di macellaio del partigiano veneto c'è di più e di peggio, e non dipende né da lui, né dall'ideologia comunista. C'è il Male Oscuro che monta, c'è la struttura di sopraffazione che si sta creando le sue istituzioni, c'è l'ipocrisia politicamente ben temperata del legalitarismo e del formalismo: c'è il perbenismo pavido e feroce, criminoso comunque, che non era stato estra‑
neo nemmeno al fascismo e che difatti era sangue e carne di tanti opportunisti; ecco perché, da un certo punto di vista, le Corti d'Assise Straordinarie sono una pagina ancora più nera di quella degli efferati assassinii, così come la degradazione — e pertanto la condanna all'infamia — d'un militare che aveva aderito alla RSI è solo in apparenza meno indecorosa del furto di un orologio a un morto ammazzato.
E altre pagine imbarazzanti in senso opposto, ad esempio la lettera di ringraziamenti di monsignor Mantiero al temibile e famigerato Mario Carità? Carta canta, anche in questo caso: la realtà storica è sempre dannatamente complessa, l'inatteso nella ricerca è sempre dietro l'angolo e balza spesso fuori — magari ospite non gradito — dalle carte d'archivio. Chí non vuole correre rischi, deve fare a meno di frugare tra quelle carte e accontentarsi delle verità consolidate e ripetute fino alla noia dai fautori della Verità Storica Costituita, da quelli che amano distribuire patenti di ragione e di torto. Antonio Serena non è uno di loro. Questo libro non è fatto per nessuno tra quanti (e sono tanti) sono convinti dí avere la verità in tasca.
FRANCO CARDINI
FRANCO CARDINI, nato a Firenze nel 1940, ha insegnato in diverse università, tra le quali
«Si uccideva senza nemmeno prender nota del nome delle vittime.»
(Rapporto dei carabinieri della tenenza di Treviso, 2 agosto 1949)
Tra aprile e maggio del 1945, la zona della provincia di Treviso con epicentro la cartiera Burgo di Mignagola di Carbonera fu teatro di uno dei più feroci massacri attuati da elementi partigiani nel corso della guerra civile. Delle vittime — fascisti rastrellati nella zona e civili uccisi per motivi di vendetta e rapina — solo un centinaio furono riconosciute perché quasi tutti i corpi, come dichiareranno diversi testimoni a guerra finita, furono gettati nelle acque del fiume Sile, bruciati nei forni della cartiera o sciolti nell'acido. Le maggiori efferatezze avvennero all'interno della cartiera, dove imperava Gino Simionato, detto «Falco».
Il processo ai responsabili, celebrato a Treviso nell'esta. te del 1954, dopo aver appurato i fatti criminosi e gli autori degli stessi, si concluse col «non doversi procedere a carico degli imputati in ordine ai reati rubricati, perché estinti per effetto di amnistia».
Antonio Serena è nato a Padova nel 1948 e risiede in provincia di Treviso. Giornalista pubblicista, già docente di Civiltà francese nei licei e parlamentare di quarta legislatura, coordina attualmente la rassegna stampa on line «liberaopinione.net». Laureato in Lingue e letterature straniere e in Lettere moderne, si è specializzato ín Storia contemporanea all'Università dí Urbino. Ha pubblicato L'epurazione in Francia nel secondo dopoguerra (1982), Oderzo 1945, storia di una strage (1984) e I giorni di Caino (1990).
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A cura di Maurizio PaglianoBarcellona, Bari e Berlino. Attualmente è professore ordinario di Storia Medievale presso l'Università di Firenze. Da oltre quarant'anni si occupa in particolare di crociate e rapporti tra Cristianità e Islam. Membro di prestigiose organizzazioni storico-culturali, collabora con la RAI e con vari quotidiani e periodici. Autore di decine di saggi, tra i suoi lavori editoriali più recenti, L'invenzione del nemico (2006) e Il Signore della Paura (2007).
Eugenio Wolk "Lupo" Comandante dei Gamma della Xa MAS
Bruna Pompei
Prezzo: €42,00 (incluso 4 % I.V.A.)
Il volume ripercorre la vicenda umana e professionale di Eugenio Wolk, di nobile stirpe russa, sradicato dalla terra natale causa la Rivoluzione d’Ottobre, divenuto quindi italiano d’adozione. Dal 1936 Tenente di Vascello della Marina Militare Italiana, presta servizio su incrociatori, posamine e sommergibili, partecipa alla guerra di Spagna e, nel 1940 passa alla Ia Flottiglia MAS, poi Xa, dove crea, nel 1941, la specialità degli incursori subacquei, il Gruppo “Gamma”. Sotto la sua guida, questi incursori subacquei portano a termine operazioni di guerra che, ancor oggi, restano negli Annali della Marina Italiana. Con l'armistizio dell'8 settembre aderisce alla R.S.I dove, ovviamente milita nella "Decima" del Comandante Borghese. Finita la guerra, il Comandante Wolk resta in clandestinità per un certo periodo. Poco tempo dopo, prende contatto con il Comandante Lionel Phillip Kenneth Crabb, suo "opposite number" durante la guerra, e ottiene per i “Gamma” la condizione di “prigionieri di guerra sulla parola”. Per 18 mesi lavora allo sminamento del porto di Venezia e porta a termine pericolose e complesse operazioni di recupero di naviglio e materiale bellico, per conto della "Allied Navies Experimental Station". Poi deve emigrare in Argentina. In questo paese lavorerà fino al 1961 in qualità di consulente tecnico per la Marina Argentina, per la quale creerà il reparto dei mezzi subacquei d’assalto. Solo nel 1961 rientrerà in Europa, nei ranghi della Micoperi, dove ritroverà l’amico Nino Buttazzoni (già Comandante dei Nuotatori Paracadutisti). Nel 1965 si stabilisce nel Canton Ticino dove passa sereni, ma pieni di attività, gli ultimi anni della sua vita finché, nel 1995, l’eterno profondo cielo di mare accoglie il suo spirito a conclusione della non comune vita terrena.
Brossura 24 x 21 cm. pag. 368 con circa 365 tra foto e illustrazioni b/n + 40 disegni tecnici
Stampato nel 2008 da Edizioni Ritter in collaborazione con il Centro Studi Carlo Alfredo Panzarasa
( Edizioni Ritter )
DisponibilitàDi solito viene spedito in: 24 h.
Brossura 24 x 21 cm. pag. 368 con circa 365 tra foto e illustrazioni b/n + 40 disegni tecnici
Stampato nel 2008 da Edizioni Ritter in collaborazione con il Centro Studi Carlo Alfredo Panzarasa
( Edizioni Ritter )
DisponibilitàDi solito viene spedito in: 24 h.
Eugenio Wolk sabato 31 Gennaio 2009 alle ore 17,00
locali della Sala Dante a La Spezia
"No alla X MAS alla Spezia"
"No alla X MAS alla Spezia"
Con questo slogan è stata condotta dalle forze della sinistra radicale guidate dalla segretaria proviciale di Rifondazione Comunista Chiara Bramanti e dai soliti difensori del "diritto democratico", un'infamante campagna mediatica per impedire lo svolgimento della presentazione del libro sul comandante Wolk. Il clima di forte tensione creatosi ha portato gli organizzatori a prendere la comune decisione di annullare, per il momento, la manifestazione.
Al contrario, con grande sorpresa, sulle pagine del "Corriere della Sera" del 31 Gennaio, a pagine 41, troviamo il seguente pezzo di Antonio Carioti, noto ai nostri utenti per il bellissimo saggio "Gli orfani di Salò" edito da Mursia:
"Amareggia constatare che in Italia c'è ancora chi insiste a decretare l'ostracismo controlibri sgraditi, spesso senza considerarne il contenuto. L'ultimo caso riguarda La Spezia, dove oggi si sarebbe dovuta tenere la presentazione del saggio di Bruna Pompei "Eugenio Wolk, comandante dei Gamma della X MAS", edito da Ritter. Ma è bastato il titolo del volume a scatenare le reazioni veementi di Rifondazione comunista e dei suoi giovani, che hanno visto nell'iniziativa un'offesa alla "cultura antifascista" della città ligure e hanno chiarito che non sarebbe stata subita " in maniera passiva". Per evitare di inasprire le tensioni, l'Associazione degli Incursori di MArina (Anaim) e il circolo La Sprugola, promotori del dibattito, hanno preferito annullarlo. In realtà Wolk, protagonista del libro, fu soprattutto unmilitare di grandi capacità, votato all'attività subacquea. E solo 30 pagine, sulle 368 del volume, sono dedicate alla sua militanza sotto le insegne di Salò al fianco di J.V.Borghese, mentrealtre 60, per esempio, riguardano la sua collaborazione con gli angloamericani per sminare il porto di Venezia dopo la guerra. Certamente l'editore appartiene a un'area di destra, ma quando si arriva ad accusarlo di aver rirpoposto il saggio sulla guerra civile americana di un noto liberale come Alberto Pasolini Zanelli, è chiaro che siamo di fronte a una polemica pretestuosa. Alla quale si può rispondere in un solo modo: i libri innanzitutto si leggono. Poi magari si criticano e si stroncano duramente, se occorre. Ma impedire di presentarli è soltanto intolleranza, anche se viene mascherata da antifascismo".
Edizioni Ritter
Libreria specializzata in Storia Militare, Fascismo e Nazionalsocialismo, Armi e Forze Speciali, Neofascismo, Ultras, MusicaAlternativa ed Etnonazionalismo
Al contrario, con grande sorpresa, sulle pagine del "Corriere della Sera" del 31 Gennaio, a pagine 41, troviamo il seguente pezzo di Antonio Carioti, noto ai nostri utenti per il bellissimo saggio "Gli orfani di Salò" edito da Mursia:
"Amareggia constatare che in Italia c'è ancora chi insiste a decretare l'ostracismo controlibri sgraditi, spesso senza considerarne il contenuto. L'ultimo caso riguarda La Spezia, dove oggi si sarebbe dovuta tenere la presentazione del saggio di Bruna Pompei "Eugenio Wolk, comandante dei Gamma della X MAS", edito da Ritter. Ma è bastato il titolo del volume a scatenare le reazioni veementi di Rifondazione comunista e dei suoi giovani, che hanno visto nell'iniziativa un'offesa alla "cultura antifascista" della città ligure e hanno chiarito che non sarebbe stata subita " in maniera passiva". Per evitare di inasprire le tensioni, l'Associazione degli Incursori di MArina (Anaim) e il circolo La Sprugola, promotori del dibattito, hanno preferito annullarlo. In realtà Wolk, protagonista del libro, fu soprattutto unmilitare di grandi capacità, votato all'attività subacquea. E solo 30 pagine, sulle 368 del volume, sono dedicate alla sua militanza sotto le insegne di Salò al fianco di J.V.Borghese, mentrealtre 60, per esempio, riguardano la sua collaborazione con gli angloamericani per sminare il porto di Venezia dopo la guerra. Certamente l'editore appartiene a un'area di destra, ma quando si arriva ad accusarlo di aver rirpoposto il saggio sulla guerra civile americana di un noto liberale come Alberto Pasolini Zanelli, è chiaro che siamo di fronte a una polemica pretestuosa. Alla quale si può rispondere in un solo modo: i libri innanzitutto si leggono. Poi magari si criticano e si stroncano duramente, se occorre. Ma impedire di presentarli è soltanto intolleranza, anche se viene mascherata da antifascismo".
Edizioni Ritter
Libreria specializzata in Storia Militare, Fascismo e Nazionalsocialismo, Armi e Forze Speciali, Neofascismo, Ultras, MusicaAlternativa ed Etnonazionalismo
Ottima inserzione CARTIERA DELLA MORTE e ottima testata!
RispondiEliminaIn alto i cuori!
Anna, Lorenzo
ant_ser@libero.it