giovedì 18 ottobre 2007

Da El Alemaein di Paolo Caccia Dominioni

BATTAGLIA GRANDE A NORD


Fronte di Alamein, ottobre 1942 DA alcune settimane il capitano Giacomo Guiglia, capo del servizio intercettazioni, s'era accordato con l'amico Sillavengo per un incontro di calcio tra le squadre dei propri reparti, e l'incontro è avvenuto il 1 3, presso il caposaldo Gabriele Quinto, a soli otto chilometri dalla prima linea, trasformato per l'occasione in arena sportiva. Una folla di spettatori è accor­sa a vedersi l'inatteso spettacolo,. con la facile fiducia che in guerra si crea quando i soldati hanno deciso che la giornata è definitivamente calma. Ma Guiglia e Sillavengo erano inquieti, e impazienti che la partita finisse presto e che lo spiazzo centrale del caposaldo si vuotasse prima che un paio di Hurricane lo trasformassero in carnaio. Più di mille uomini concentrati sulla sabbia costituivano un bersaglio visibile, dall'alto, anche a venti chilometri, ma la RAF non si era fatta vedere. 1 guastatori del 31°, che giocavano « in casa », avevano vinto per cinque a uno. Intanto Sillavengo aveva ascoltato dalla parola più che autorevole dell'amico una critica al comandante superiore, Stumme, che non s'era affrettato a mutare lo schieramento offensivo ereditato da Rommel. S'era rimasti con l'infelice dispositivo iniziale per la corsa dei sei giorni, in agosto. Guiglia riteneva che i tedeschi si aspettassero uno sbarco nel Marocco, e che volessero impedirlo con una nuova offensiva proprio su questa fronte: e diceva che Stumme è un gran soldato da Russia e da ghiaccio, ma di Africa e di sabbia poco si intende. La confidenza tra i due amici permette una conversazione così delicata. E parlando di un'altra Africa, essi ricordavano la comune avventura della marcia su Gondar, nella primavera del 1936, quando si incontrarono. Sillavengo vi giunse con la primissima pattuglia dei suoi ascari e del 3° bersaglieri: ma non sarebbe toccato a lui, perché la colonna parallela, proprio la 111 brigata eritrea dove Guiglia stava con una batteria indigena, fu bloccata da un ordine di Starace al generale Cubeddu. Questi dovette fermarsi: l'ordine diceva che a Gondar bisognava entrarci assieme, per dare il gran colpo finale alla marea armata di ras Immirù. Ma la marea non c'era per nulla, era stata già allontanata: e Cubeddu aveva su Starace un vantaggio di almeno dodici ore, che bisognava annullare per il prestigio del partito e del suo segretario generale. Così i primi due uomini a raggiungere Gondar furono il bersagliere Angelo Quarello della decima compagnia e il capitano Sillavengo, che trovarono i sedici ascari dell'abbandonato consolato d'Italia in uniforme, marzialmente schierati per rendere gli onori ai nuovi arrivati. Non v'era proporzione tra la desiderata epopea, le medaglie da distribuirsi e la indeformabile banalità dei fatti. I quali, visti da Gabriele Quinto, nell'ora tragica del momento, sembravano davvero una finzione burlesca.
I due amici non s'erano lasciati senza accennare a una prossima « grande partita » di natura ben diversa: e Guiglia aveva riparlato di questa assenza della RAF, mostrando il cielo insolitamente vuoto e dicendo: « Gran brutto segno » .
E gran brutti segni hanno recato a Guiglia le giornate seguenti. Le intercettazioni rivelano una grande diminuzione di comunicazioni radio presso il nemico, senza giungere al completo « silenzio radio » che è il sintomo più immediato della vicina azione. Si ha una sensazione di intensa attività verso le alture dello schieramento meridionale, Oaret el Homar, Somaket Gaballa: i messaggi in quella direzione sembrano dei « riempitivi », tanto per far rumore: prevale il messaggio X 279 che significa, nel frasario convenzionale nemico, « sospendo e richiamerò ». Anche la ricognizione aerea è più intensa verso sud: forse ci si vuol far credere che quella sarà la zona principale d'attacco.
Ma il 21 scorso, nella cornice di giornate placide, avviene una serie di incursioni furiose sulle basi aeree più avanzate, specialmente a Fuka dove il IV stormo subisce una vera distruzione. Poi calma di nuovo. I sintomi rilevati da Guiglia aumentano, la sua sensibilità si esaspera. Il 23 all'alba decide di lasciare Uadi Nagarinish e di percorrere tutto lo schieramento in linea, accompagnato dal capitano Maderni. La sua vettura corre rapida sulla Pista Bianca, poi sulla Pista Rossa e sulla Pista dell'acqua, saettando nelle traverse per raggiungere i vari comandi; ed egli dice a tutti: « Non è questione di giorni, ma di ore » . Ma tutti, specialmente i tedeschi, che pure hanno per Guiglia la più ammirativa considerazione, sono scet­tici. « Non bisogna esagerare a, dicono. Guiglia e Ma­derni, a sera, rientrano, più ansiosi e preoccupati di quando erano partiti.

Quota 100 di Qaret el Abd, mezzanotte sul 24 ottobre 1942

E davvero la giornata è stata più tranquilla del solito: ha dato a tutti un senso riposante di pigrizia, una specie di pausa festiva necessaria ad ogni onesta guerra di posizione. Qualche privilegiato delle infor­mazioni segrete, viaggiando tra un grosso comando e l'altro, non ha scordato la sosta rituale presso la 34" sezione sanità Brescia (per chiedere al dottor Parvis l'enterovioformio dell'amicizia e il cognacchino conso­latore) e ha raccontato che stamane la ricognizione aerea aveva rilevato una piccola diminuzione nel mo­vimento degli automezzi nemici, che i giorni scorsi raggiungevano cifre superiori ai dodicimila tra veicoli da trasporto e blindati da combattimento. Inoltre la temperatura, definitivamente rinfrescata dagli ultimi acquazzoni, contribuisce a una piacevolezza climatica finora sconosciuta su questo fronte: e subito se n'è avvantaggiata la salute pubblica e militare.
Alla fine della mattina alcuni pezzi grossi sono inter­venuti a una cerimonia presso la Bologna: il generale Stumme comandante l'armata corazzata, il generale Gloria (che tuttora sostituisce Navarini al comando del XXI corpo) e il generale paracadutista Ramcke. Stumme, in presenza d'una guardia d'onore tedesca, ha solennemente decorato della croce di ferro alcuni italiani che si erano distinti durante la battaglia di fine agosto: fanti e artiglieri della Bologna, e due gua­statori del 31°. Il caso ha voluto che questi ultimi aves­sero perduto di piombo tedesco, nella prima guerra mondiale, l'uno il fratello l'altro il padre. Pertanto avevano fatto sapere ai propri superiori gerarchici che
non gradivano affatto la decorazione. Ma a nessun comando italiano reggeva il cuore di trasmettere all'Armeegefechtstand un desiderio tanto impregnato di disfattismo assiale, e i due sfacciati decorandi erano stati rudemente invitati a non creare situazioni imba­razzanti. Stumme ha pronunciato un breve sermone, elogiando la eroica Tapferkeit che aveva meritato la distinzione, ma ha soprattutto ricordato a tutti i pre­senti, decorati o no, il futuro dovere, lasciando inten­dere che quanto prima vi saranno serie occasioni di applicazioni pratiche. Il piccolo generale congestionato, rosso e scoppiante in una divisa diventata troppo stretta, il monocolo incastrato nell'orbita carnosa, dava alla parola Pflicht un tono sibilante e quasi minaccio­so. La riunione si è sciolta e ciascuno ha ripreso la via di casa, o meglio la pista verso la propria buca, un po' più lunga per i due guastatori che devono per­correre una ventina di chilometri. Anch'essi hanno fatto sosta presso Parvis, e qualcuno ha tenuto allegra la compagnia riproducendo le reazioni d'un altis­simo comandante tedesco che al momento di attacca­re la croce al secondo occhiello d'una sahariana ita­liana si sentisse dire: « Grazie infinite, eccellenza, ve­ramente troppo buono, ma preferirei rinunciare ».
Nel calmo tramonto gli ultimi raggi solari, proiettati orizzontalmente in un concentramento luminoso raf­forzato da schermi di nuvole basse, infiammano di gemme dorate tutti i cocuzzoli rocciosi, mentre la sot­tostante piana è già sprofondata nell'indaco ombroso. Poi il buio è cresciuto, mentre le. quote più alte trat­tengono una lieve fosforescenza rosata: Haret el Hi­meimat, italiana, e le inglesi Somaket Gaballa, Qaret el Homar e Qor el Leban, spettacolo di . grandissima bellezza nel vivificante maestrale del vespero.
Ma alle 20 e 45, senza alcuna salva d'aggiustamento preliminare, tutta la linea nemica s'è accesa di guizzi fiammeggianti che in breve hanno formato una sola barriera incandescente.
Anche sopra le nostre posizioni brillano a migliaia le vampate rosse delle granate in arrivo, prima nitide, poi confuse nel fumo e nel polverone. Il cielo limpido e stellatissimo si è riempito di tuoni e di accecanti ben­gala: sui capisaldi di resistenza e di granguardia, sui nodi di pista, sui concentramenti di tende e baracche, anche chilometri all'indietro, è un solo fruscio sibilan­te di bombe che cadono e scoppiano con lo schianto lacerante ormai divenuto universale e noto anche ai più innocui suburbi al di qua del Pacifico e del­l'Atlantico.
Qui, a Quota 100, e nelle prime ore del bombarda­mento notturno, si è sopra un'isola rispettata dal fuo­co. Fino a quando? La quota dista qualche chilome­tro dalle posizioni, è nuda di batterie e opere, un gran roccione calcinato senza interesse per il nemico. Si trova a mezza via tra il mare e la Depressione di Qat­tara, e da quassù si ha l'impressione di dominare tut­to lo schieramento investito da una valanga di fuoco uniforme, forse un po' meno intensa al centro presi­diato dalla Bologna e dalla Brescia.
Ma dopo la mezzanotte la situazione va modifican­dosi, come se al fuoco distruttivo faccia seguito l'of­fensiva dei carri e delle fanterie. Si ha la sensazio­ne d'un doppio attacco concentrato verso il mare e verso la Depressione, nei settori della Trento e della Folgore.

Fronte della Trento, alba del 24 ottobre 1942

La catena delle autoambulanze e degli autocarri ca­richi di carne straziata, in arrivo dalle linee, è ormai ininterrotta, mentre il fuoco d'artiglieria si è fatto discontinuo. Invece l'offesa aerea è intensificata con le prime luci del giorno. Si è già diffuso, da qualche giorno, il nome di fortezze volanti, squadroni « bian­chi = a formazione fissa di diciotto apparecchi, talvol­ta riuniti a trentasei e anche a cinquantaquattro. Ri­passano a tappeto tutto il fronte, ormai, pure i cocuzzoli finora rispettati, come un gran bucato generale che per non sbagliare lava anche la biancheria pulita. I quadrimotori in formazioni geometriche perfette, argentate e splendenti, non fanno dapprima impressione particolare: poi, aguzzando la vista, vi si scorge attorno un turbinio di minuscoli cacciatori Hurricane, Curtiss, Spitfire, moscerini attorno alle grosse li­bellule, e ne deriva uno sgomentante paragone.
Nella notte è scomparso il comandante l'armata co­razzata, Stumme, che ieri mattina ancora, vivacissimo e dinamico, durante la cerimonia presso la Bologna, aveva ,pronunciato quel sibilante sermone incitatore. La notizia sarebbe segretissima se ciò fosse possibile nel deserto dove nulla può nascondersi. Secondo qual­che voce, sarebbe stato sorpreso da questo inferno mentre compiva una ispezione notturna tra i centri di resistenza. Altri affermano che dal suo posto tatti­co aveva cercato di raggiungere la linea, a imitazione di Rommel. Il suo veicolo è tornato senza lui e senza il suo, unico accompagnatore, colonnello Büchting. Ma il settore della scomparsa è sicuro, nei pressi del­la pista Allarme, tra Quota 28 e il punto AP 409 del­la rete topografica tedesca.
Nelle guerre antiche v'era molta ed eroica poesia attorno al cavallo che rientrava a sella vuota. Stavolta il veicolo, più o meno blindato, è tornato senza i due cavalieri, con un autista vivo e stordito, che non ha saputo dare spiegazioni. Ha balbettato: « Mi hanno ordinato di uscire a tutta velocità dalla zona battuta, e quando mi sono voltato indietro ho visto che non c'era nessuno dentro la macchina » . Come se la caverà con inquisitori implacabili come i generali e colon­nelli Bayerlein, von Thoma, Gause e Westphal? Può soltanto sperare che nessuno di questi abbia tempo di occuparsene.
Grava, sul settore delle divisioni Trento e 164° te­desca, una fosca aura di malora. Trecento carri pe­santi e venticinque battaglioni freschi, protetti da una fitta cortina di fuoco avanzante, hanno investito dieci chilometri di fronte e undici battaglioni logori, sei tedeschi e cinque italiani, già parzialmente annientati nelle buche crollate o sopra un suolo denudato dalle granate che avevano spazzato i ripari di pietra e sac­chetti come avviene delle carte sparse quando si apre improvvisamente la finestra in. una giornata ventosa. La sacca minata, J, il « cassone », come si dice qui, che misura tre chilometri per due, è già completamen­te occupata e il nemico si è affacciato al di qua, verso occidente, nel terreno senza mine, contenuto fra due scogliere di eroismo che non cedono: a nord i grana­tieri corazzati del capitano Wendel, 11/125° tedesco di linea, a sud i fanti del capitano Tullio Caimi, del so­lito 111/61° della Trento che già più volte è stato ri­cordato in queste cronache. In mezzo regna il caos. Sono stati travolti in parte i nostri 1/62° del maggiore Vavassori, 111/620 del maggiore Perotti, II/62° del ca­pitano Manassei, e i tedeschi 1/382" del capitano Pie­per e 111/382°: quest'ultimo sembra, secondo le noti­zie giunte al comando della Trento, aver ceduto per primo. Ma chi saprà mai la verità, in questa confusio­ne atroce, in una pianura nera di carri armati e sotto un cielo bianco di fortezze volanti? Le poche truppe in difesa hanno subìto la furia delle due divisioni co­razzate inglesi 1^ e 10^, della 9^ australiana, della 51^ Highlanders britannica, della 2^ neozelandese, del­la la sudafricana e della 4^ indiana. Non c'è propor­zione. Affiancati ai fanti e ai granatieri corazzati si battono accanitamente i granatieri di Sardegna del ca­pitano Viganò, gli artiglieri del colonnello Randi, con i suoi quattro gruppi Cena, Oggeri, Casini e Bortola­ni del 46°, gli altri gruppi autonomi d'artiglieria, i genieri del capitano Alberti. Si tenta di arginare il cu­neo pauroso che oltrepassando la sacca minata J ha intaccato anche la contigua L e persino la K che, è difesa .dal 61° Trento, dal 11382" con il capitano Kriipfganz e dai battaglioni del 433" tedesco.
Fronte della Trento, 31 ottobre 1942
Invece il cuneo è andato estendendosi. È diventato un grosso trapezio. La battaglia tremenda dura da nove giorni. Anche il 61" si è consumato, come il 62" nelle prime ore: gli avanzi dei due reggimenti si ricostitui­scono in nuclei striminziti, attorno al 1/62" con il maggiore Giuseppe Beia di Alessandria (anche il mag­giore Perotti è stato ucciso, il giorno 28) e al 1/61" del capitano Ruggiero: tutti combattono come possono, estenuati, assieme ad altri residui che continuano la tradizione tedesca dei reggimenti 115°, 125°, 382° e 433°. I rettangolini che sulla carta dell'armata indica­no i battaglioni fanno pensare a formelle di ghiaccio sparse sopra il ripiano di ghisa calda d'una gran cu­cina: friggono, si dissolvono, scompaiono rapidamen­te una dopo l'altra.
Le forze corazzate della Littorio e della 15" Panzer, che stavano di rincalzo, sono intervenute quando davanti a loro non c'era più fanteria, e le batterie spa­ravano a zero contro la marea dei grossi carri Sher­man, vere testuggini senza corazze piatte, la grande novità di questa battaglia; le nostre cannonate scivo­lano via sopra quelle panciute rotondità d'acciaio al tungsteno.
È l'epopea dei bersaglieri, 12" reggimento con i battaglioni XXIII e XXXVI, degli artiglieri corazzati del 133°, e soprattutto dei battaglioni carristi IV, XII e L.I. È colpito, nel suo carro, il tenente colonnello Giuseppe Bonini comandante il reggimento: il IV bat­taglione perde il comandante, tenente colonnello Casa­massima, ferito, il vicecomandante capitano Piccinini, ucciso: tre ufficiali incomparabili. Il battaglione vie­ne assunto dal capitano Dino Campini della I" com­pagnia, che ha scritto: « Il capitano Piccinini della 3', un caro amico, è morto. Presso il suo carro, agonizzante, ormai senza un braccio e con una larga ferita dal collo alla spalla; a un suo soldato che gli faceva animo ha risposto che di coraggio ne aveva anche troppo.
« Non potevano certo aver buon gioco i nostri carri di quattordici tonnellate con un cannone da 47 contro quelli nemici di ventotto con un cannone da 75. Neppure a numero pari potevano aver buon gioco. Figuriamoci nella proporzione in cui erano, di uno a quattro! Eppure il nemico fu respinto, a formazioni aperte, in quarta velocità.
« Qualcuno dei carri colpiti continuava a correre, incendiato, con a bordo soltanto morti o moribondi, come un immenso rogo semovente: molti di quei morti, per abitudine, tenevano l'acceleratore abbassa­to. Giova pensare al significato di questa processione di mostri fiammeggianti, scossi dai bagliori variopinti delle granate contenute nel ventre, irreali come in una paurosa leggenda fantasma. L'anima dei carristi morti non lascia il motore! Come potrebbe altrimenti un carro incendiato e squarciato seguitare a dirigersi verso il nemico? »
Alla fine se ne va anche Campini, con una scheggia di perforante nella testa. Sono morti, del battaglione, il comandante la 2^, Mario Ronga, i sottotenenti Man­tovani, Gulisano, Ficaia e Cuzzoni. Rimangono, al battaglione, due carri su quarantuno, con il sottote­nente Marchegiani (« quello che si è comportato me­glio », scrive ancora Campini), due ufficiali su quat­tordici, otto sottufficiali su trentanove, e una quaran­tina d'uomini, servizi compresi, su centoquarantanove. L'ordine permanente n. 35 del 133° reggimento carri­sti Littorio dice che « i sottonotati militari devono es­sere considerati perduti di forza alla data per ciascu­no indicata » : seguono oltre trecento nomi di morti, feriti, dispersi, perché i battaglioni XII e LI non sono stati da meno del IV. I dispersi sono da considerarsi quasi tutti bruciati nei loro carri. Tra i morti leggia­mo i nomi del capitano Caraccio, dei sottotenenti Or­nano e Ferrari, del tenente del genio Mosconi che combatteva con i carristi: ma quanti dei nominati come feriti o dispersi sono sopravvissuti? Anche il ca­pitano Puddu del LI, dato per ferito, è morto.
I superstiti si riordinano; per ricominciare.

La battaglia è andata polarizzandosi tra Quota 33 sud e Quota 28, che in arabo ha quel nome lungo di Tell Alam Abu el Mabruka. Ai pochi carri superstiti della Littorio, ai trentacinque della 15" Panzer è giun­ta in rinforzo la 21^ Panzer. Contro le basse alture martoriatissime si sono accaniti gli avanzi della Tren­to, i battaglioni del 12° bersaglieri Littorio, la intera 90^ divisione leggera tedesca. Di questa ultima Campi­ni scrive: « Camminavano in fila sotto il fuoco come se andassero al cambio della guardia. Non uno che cor­resse. Solo qualcuno ogni tanto cadeva. Meritavano, anche loro, più fortuna ».
Il 7" bersaglieri ha concorso all'azione con l'XI bat­taglione del capitano Pasqualini, fatto affluire in gran furia dal settore costiero. Con il battaglione è giunto lo stesso comandante del reggimento, Nicola Straziota, un colonnello all'antica, di quelli che non starebbero indietro neppure quando deve impegnare uno solo dei suoi trenta plotoni. Parte l'assalto con la classica foga dei bersaglieri, guidato da capi di alta coscienza, ma la difesa è dura. Finalmente uno dei rigonfiamenti della quota è conquistato, il giorno 26, e conservato sotto fuoco incessante, senza ripari: ma il contrattacco australiano del 28 ha annientato il battaglione.
Della 7^ compagnia, al comando di un bersagliere triestino di trentaquattro anni, il capitano Ezio For­tunato Malis, non vi sono superstiti all'infuori dei po­chi feriti ancora in vita che il nemico vittorioso ha catturato tra le dozzine di cadaveri, attorno alla salma del loro capo. Tre giorni dopo muore anche il capi­tano dell'altra compagnia, Roberto Gorla, che teneva la sua posizione con un pugno di superstiti.
Il IV battaglione granatieri del capitano Viganò ha perduto per intero la 1^ compagnia, che ha subito la sorte del III/62°. Uccisi il tenente Palladino, coman­dante, e il sottotenente Feliciangeli, ferito gravemente il vicecomandante sottotenente Tosoni. Si è salvata soltanto la squadra del sergente Bianchi che ha potu­to raggiungere il battaglione.
Anche il famosissimo 111/61° fanteria è scomparso, con il bravo capitano Caimi di Trento che parlava tanto poco e combatteva così bene. Il capitano Golin è morto, e molti altri. Il sottotenente Eithel Torelli è prigioniero.

Dal diario di Torelli
24 ottobre 1942
« Alle 3 è stata la nostra volta. Quando il sole si è levato, cessato il bombardamento, la brezza spazza la pesante atmosfera di fumo e di polvere. Col binocolo noto tre pezzi da 88 a poca distanza: le fanterie nemi­che sono a poche centinaia di metri. Per tutta la mat­tina spariamo con le armi automatiche facendo la cac­cia all'uomo, ma quando cominciano l'aggiustamento con i mortai non respiriamo più. Nella spianata a nord ci sono circa cento carri, e ne incendiamo quattro con i nostri mortai. A sera prendiamo collegamento tra noi per scambiarci opinioni e informazioni: faccio il solito rapporto al capitano, e gli dico alcune vecchie spiritosaggini, ma è evidente che siamo entrambi preoc­cupati.
25 ottobre
« Verso mattina riprende il combattimento e c'è già il sole quando assistiamo a un terribile corpo a corpo proprio sulla nostra sinistra: la 5^/382° tedesca viene annientata e vediamo cadere tra gli ultimi il tenente comandante. Lo abbiamo riconosciuto facilmente per­ché altissimo: stava in piedi, prima imbracciando il fucile, poi sparando con la pistola. Il nemico è arriva­to a duecento metri da noi, ma ha dovuto ritirarsi perché non poteva sostenere il fuoco dei nostri mortai. « Alle 9 giunge uno Stuka isolato, volteggia su noi, si getta in picchiata e scarica. Sono curioso e non at­territo: abbiamo letto molte paurose descrizioni de­gli Stukas. Udiamo la sirena urlare, l'apparecchio si alza e pochi istanti dopo la bombe scoppiano. La soli­ta cosa senza nulla di terrificante. Poco dopo i carri inglesi slittano dietro le nostre posizioni, fanno pri­gionieri i resti della 10°, il plotone assaltatori e il co­mando di battaglione. Così il battaglione resta forma­to dalla 12^ e dagli avanzi della 9^. Un carro viene verso di noi con la torretta aperta da cui spunta un uomo col mitra, poi fa dietro front. I soldati girano di 180 gradi il pezzo da 47/32 ma lasciano che il carro se ne vada: anche questa è vigliaccheria, ma i carri tutt'attorno sono un centinaio. Tre miei fanti da una buca pericolante chiedono asilo e si trasferiscono nel­la mia, più solida: così siamo in quattro. Distribuisco a tutti le mie sigarette Serraglio e Macedonia extra. È inevitabile parlare della situazione. I fanti soffrono per la enorme superiorità di quei carri.
Nel diario di Torelli non è citato lo splendido con­trattacco che ha rioccupato il comando di battaglio­ne, a opera di elementi sparsi e superstiti del comando stesso. Il capitano Caimi non è ancora caduto prigio­niero ed ha ripreso in mano le compagnie superstiti. A mezzanotte giungono con il rancio, portato a brac­cia infiltrandosi tra le avanguardie nemiche, tre com­pagnie del II/61°, ridotte al quaranta per cento dopo un sanguinoso tentativo di rioccupare le posizioni per­dute a sud di Quota 28: sono uomini armati soltanto con armi leggere, scossi, e per giunta destinati a rioccupare il caposaldo della 58/382° tedesca.
« I nostri comandi sono ambiziosi! Poiché conosco bene le posizioni prendo una compagnia e conduco l'operazione sopra un terreno dove sta un groviglio di cadaveri tedeschi e sudafricani mescolati. Si può im­maginare come tale spettacolo aiuti il morale dei nuovi venuti.
26 ottobre
« Sorge l'alba del terzo giorno di calvario e siamo innervositi. Vedo uno che dal tetto della cabina d'un camion guarda verso le nostre linee. Prendo un fuci­le, aggiusto l'alzo e faccio fuoco. II capitano, che lo se­gue col binocolo, lo vede saltar giù: non l'ho colpito ma deve essere spaventato. Per un'ora ci sparano con i mortai e la spianata è di nuovo invasa dai carri. Si ha la sensazione di essere alla fine. Distruggo la carta topografica e i documenti, strappando tutto in minu­tissimi pezzettini, che seppellisco. Faccio un esame di coscienza: non mi rincresce di nulla, accetto il desti­no come viene, morto ferito o prigioniero per me è lo stesso.
« A sera ricomincia il bombardamento. Mi infilo il cappotto sopra il maglione e faccio un giro del capo­saldo, per vedere se hanno bisogno di qualche cosa. Mi arrabbio con un centro di fuoco che non ha ricu­perato le munizioni nelle riservette che avevo loro in­dicato. Mi fermo con due subalterni, quando il fuo­co si concentra su di noi. Dopo venti minuti si sente un gran clamore, razzi in cielo, e vociare 'come on ' nel settore del comando di battaglione. Ordino il fuo­co e sparo su tutti indistintamente, italiani e inglesi questi ultimi abbandonano i prigionieri e si dirigono verso noi sparando raffiche di mitra. Anche noi spa­riamo con la mitragliatrice e con il fucilone anticarro Solothurn. La mitragliatrice si inceppa. Continuiamo col Solothurn, poi s'inceppa anche questo. Noi tre uf­ficiali ci buttiamo avanti a colpi di bombe a mano, ma è una prodezza inutile perché le loro bombe a mano sono ben più micidiali. Si odono urla di moribondi e di feriti, e penso al toro di Siracusa. Lanciamo raz­zi contro un gruppo che si precipita contro noi a baio­netta bassa: qualcuno si arrende, ma i primi due ven­gono freddati. Due nemici se la prendono con me, salto loro addosso e li abbraccio stretti: rotoliamo tut­ti a terra. Ridono a crepapelle: sono ubriachi. In­tanto veniamo investiti alle spalle da altri gruppi che hanno occupato due centri di fuoco rimasti senza uffi­ciali: infatti tra i prigionieri c'è quel caporale romano di cui non mi fidavo. Altri inglesi hanno circondato un fante e dicono che è un fascista perché porta al braccio una fascia nera. Intervengo spiegando in inglese che quello è un segno di lutto, e il fante ha salva la vita. Ho ancora in mano la pistola: mi saltano addosso, rie­scono ad aver ragione di me e mi tengono sotto le armi puntate: non mi hanno ucciso perché parlo la loro lingua.
« Intorno a me si vede il solito spettacolo di tutti i combattimenti e gli uomini che si contorcono nel do­lore delle ferite. C'è chi urla come un'anatra spenna­ta per un semplice graffio, c'è chi soffre in silenzio per ferite gravi, c'è chi vomita e chi se la fa nelle braghe: è uno spettacolo ormai ben noto.
« Un inglese con la radio portatile parla al micro­fono: sono bene attrezzati. Noto che le divise sono dis­simili: è evidentemente un reparto organico di volon­tari carristi, neozelandesi, sudafricani e scozzesi. Tut­ti i graduati portano il ' tommy gun '.
Sul gruppo prigionieri di Torelli, una trentina in tutto, e sugli inglesi, comincia il fuoco di rappresa­glia delle artiglierie e dei mortai italiani. Numerosi sono i feriti: un soldato imbrattato di sangue ha il braccio sinistro che gira in tutte le direzioni, un altro ha la gamba spezzata e viene preso in spalla da due tedeschi, prigionieri anch'essi. Torelli nota che anche il cannone anticarro della sua compagnia, certamente ignaro, spara sui prigionieri, ma deve aver esaurito il munizionamento perché fa uso delle granate perfo­ranti. « Ho pensato di sopraffare la scorta inglese, ma mi sono guardato attorno e abbandono questo pro­getto, il primo, credo, che venga in mente a chiunque è catturato in combattimento. Ho udito a due riprese forti strattoni in fondo al cappotto, e immaginato schegge o pallottole: infatti dopo, con la calma, ne ho trovato i buchi.
L'interrogatorio dei prigionieri è affidato al solito ufficiale levantino che offre bicchierini e biscotti, rifiutati da Torelli, e assicura di non voler fare domande militari: ma finisce con insistenti e precise indagini sulle posizioni del 382° tedesco. Torelli risponde che un sottotenente sa soltanto ciò che vede, e che non sa. Ha saputo che Rommel è tornato in Africa? Torelli ignora che ne fosse partito, non ha la radio: « Noi non siamo ricchi come voi. » Intanto sente il lieve ronzio del registratore che raccoglie le sue risposte e vede sulla tavola una grande carta con il rilievo particola­reggiato dello schieramento italo‑tedesco.
« Dopo di che ci hanno immatricolati e trasferiti ad. altri campi. Il combattente che perde la libertà di­venta un numero. Egli va verso una forma di vita in cui tutti i giorni sono uguali. Tale vita non è degna di essere raccontata. »

Se il battaglione Argyll and Sutherland Highlanders della 51^ divisione britannica, nel suo compito d'assal­to, fosse stato lievemente spostato verso sinistra, cioè a sud, soltanto alcune centinaia di metri, esso avrebbe trovato non il II/62° Trento e il II/382° tedesco, ma il III/61° Trento. Per una trascurabile, distanza topo­grafica il capitano Samwell, che è già due volte appar­so in questa cronaca, non si è trovato faccia a faccia con il sottotenente Torelli: ma le vicende sono comu­ni, e costituiscono frazioni Del medesimo episodio. Nel diario di Samwell e in quello di Torelli le « 3 del mattino, 24 ottobre » sono le medesime, come il pol­verone del bombardamento e l'aria rigata di traietto­rie. Anche l'umanità scanzonata un po' allegra e un po' triste dei due autori è la medesima. Samwell ha appena ricevuto da casa un libro che descrive l'ultima resistenza delle « Guardie » nella battaglia di Fran­cia: They lied with their boots on, è il titolo: sono morti 'senza togliersi le scarpe. « Non è letteratura adatta per l'occasione », scrive il capitano scozzese.
Nella notte, dopo aver partecipato a un finto concen­tramento a sud, il battaglione si è fulmineamente tra­sferito a nord dove ha trovato la « tremendous acti­vity » che precedé l'assalto. Alle 21 del 23 ottobre è già sulla linea di partenza, un quarto d'ora dopo che il silenzio è stato spezzato dal « poderoso muggito, nel­l'aria e dal sussultare del suolo ». Alle 3 Samwell nota una differenza, il tiro si allunga, mancano tre minuti, si sente freddo come il ghiaccio, « ice cool ». Comin­cia l'assalto, ed egli si accorge di essere armato del solo bastoncino, mentre traversano le strisce traccianti in diagonale, luminose nel buio, delle mitragliatrici Breda e Spandau. Non importa: raccoglierà il fucile di qualche morto. Arrivano bombe di mortaio: la Trento si difende, il maggiore comandante urla, Samwell salta un filo spinato, il suo `sergente invece lo calpesta, e subito una esplosione lacerante: il filo era collegato a una mina, il sergente è scomparso. Da un buco esce una testa, seguita dalle spalle: Samwell ha trovato una pistola e vi spara contro tre colpi, poi riprende la cor­sa avanti. Ecco i primi prigionieri italiani: Samwell nota il cattivo taglio delle uniformi e il sudiciume: si meraviglia di pensare a simili inezie. Ma qualcuno non si arrende e una bomba uccide un altro sergente pres­so a Samwell, che ne raccoglie il fucile, dopo aver get­tato la pistola scarica, e inchioda al suolo, a baionetta­te, quattro italiani. Un italiano viene abbattuto da un soldato scozzese proprio mentre stava per sparare su Samwell. Poi il combattimento rallenta. Bombarda­mento d'artiglieria, cannonate inglesi e italiane sugli scozzesi, barelle, la cornamusa di un'altra compagnia,
« Che cosa è successo al nostro piper? » si chiede Sam­well. Gli scozzesi suonano la cornamusa in battaglia nell'anno 1942, ma per loro è una tradizione indistrut­tibile. Perché un trombettiere italiano suonasse la ca­rica occorreva la fantasia raffinata del povero maggiore Aurelio Rossi, comandante il IX/187° Folgore, co­me ha narrato questa cronaca dello scorso agosto.
La battaglia notturna si svolge regolarmente: confu­sione, ricerca di collegamenti, posizioni che cedono o fingono di cedere per attaccare poi gli scozzesi alle spalle, grave ferita del comandante di Samwell, e final­mente, verso l'alba. un po' di riposo.
Dal diario di Samwell

« 24 ottobre. Mi svegliano alle 8,30 e l'attendente mi porta il ' breakfast': finezza scatoletta di carne, due biscotti e una tazza d'acqua. Faccio il rapporto delle perdite e lo porto al comando; al ritorno nella mia buca i marconisti, contro ogni regola, ascoltano la BBC ed è una strana esperienza l'udir raccontare alla gente di casa nostra che l'ottava armata ha attaccato e che la battaglia progredisce secondo i piani prestabiliti.
« 25 ottobre. Rapporto ufficiali: la posizione è pre­caria finché la sinistra è minacciata. Bisogna attacca­re subito. Poi contrordine, si attaccherà alle 22 con tre compagnie. Le perdite di ufficiali sono gravi: ne sono rimasti uno per ciascuna delle nostre due compagnie avanzate. Anche le perdite di sottufficiali e truppa sono serie, e la forza totale delle nostre compagnie non su­pera i centocinquanta. »
La minacciosa « sinistra » è costituita appunto dagli uomini di Caimi e di Torelli, dal III/61° Trento che non ha ceduto. Fortunati gli inglesi, che considerano seriamente impoverite le compagnie di centocinquan­ta fucili: quanti comandanti di battaglione italiani o tedeschi si accontenterebbero di una forza simile.
L'attacco degli Argyll and Sulherlnnd è condotto senza accompagnamento d'artiglieria, di sorpresa. Il capitano Sarnwell è di prima ondata con un sergente maggiore, due caporali e trentadue uomini, fiancheggiati da due compagnie. Vengono investiti da fiumi di traccianti, nella luce brillante della luna.
« Vediamo elmetti tedeschi. Strisce di traccianti si dirigono verso me e sento un violento colpo alla co­scia destra: giro su me stesso, ritrovo l'equilibrio, ri­prendo la corsa ma dopo una dozzina di passi la gam­ba cede e io cado, mentre vedo la testa e le spalle di tre uomini alla mitragliatrice. I miei, credendo mi sia buttato a terra intenzionalmente, mi imitano, non rie­sco ad alzarmi e grido di andare avanti, alla baionet­ta: non c'è più nessun sottufficiale o graduato, e quel­li esitano finché un caporale della riserva ci raggiun­ge e mi chiede che cosa succede. Furioso per il ritardo che diminuisce ogni istante le nostre probabilità di successo, insulto i miei uomini, e non mi ricordo d'averlo fatto mai. Il nemico grida verso noi, e vedia­mo che i tedeschi hanno le mani in alto. Mentre cer­co di trascinarmi avanti, vedo fuggire i tre tedeschi della mitragliatrice, sparo quattro colpi di pistola, e ne vedo uno cadere sul viso.
« Mi portano in un rifugio tedesco: le coperte sono ancora calde dei corpi di coloro che vi stavano dor­mendo. Ma ero infelice in quel buco e mi sono fatto portare fuori, in modo di vedere che cosa succede. Mi danno un fucile Bren, e sparo alcuni colpi per assi­curarmi del suo funzionamento. C'è molto movimento sulla destra. Un sottufficiale mi dice che due anticarro nemici, a trecento yarde, stanno per entrare in azione lo mando con la notizia alla compagnia di sinistra per­ché avverta il comandante, ma dopo un po' ritorna dicendo: ' Ouello non vuole far niente'. Mi sono me­ravigliato, perché lo sapevo ottimo ufficiale: ci deve essere qualche altra ragione.
« Portano un ferito tedesco. Lo interrogo e mi risponde distrattamente. Dice di essere austriaco, troppo vecchio per lo ' active fighting ' : non andavano d'accordo, lui e i compagni anch'essi .austriaci, con gli ufficiali, tutti germanici. È desideroso di un medico: ' Wann kommt dei Arzt? ' chiede di continuo. Gli dico che prima di sera saremo ambedue al sicuro, in un ospedale.
Qui Samwell scopre che è lo stesso tedesco abbattu­to da lui, con una ,pallottola nella schiena, mentre fuggiva; si erano colpiti reciprocamente. Il tedesco, o meglio l'austriaco, si accorge che i pantaloni di Sam­well sono inzuppati di sangue, e insiste, malgrado la propria sofferenza, per medicarlo con il suo stesso pac­chetto. Poi è la volta di Samwell, che fa del suo me­glio per pulire e fasciare la ferita dell'austriaco, tra le scapole: la pallottola è dentro. Segue l'inevitabile estrazione delle fotografie di casa, della moglie e dei bambini. L'austriaco ha trentasette anni, è di Linz, è stato spedito a Bengasi un mese fa con alcuni giovanis­simi austriaci e crede ci sia stato un errore, ma nessu­no lo ascoltava. Nel pomeriggio è stato assegnato al­l'armamento della mitragliatrice e non ha mai spara­to un colpo prima di stanotte. Samwell parla della pro­pria sosta a Linz durante il viaggio di nozze, e classi­fica il posto come assai squallido. Egli sta lottando per ricordare il suo tedesco: finalmente si addormentano entrambi.
« Albeggia, devo aver dormito tre ore, e mi dico: oggi niente sveglia obbligata. Ho avuto sogni spaven­tosi. Ero a casa, qualcuno mi dava tremendi calci nel­la coscia, ed ero troppo debole per impedirlo. E poi avevo le mani legate dietro la schiena. Tornavo nel deserto, in marcia, uscivo dai ranghi per soddisfare la natura, cercavo di correre per raggiungere la compa­gnia che dispariva rapidamente, ma le gambe pesava­no orrendamente e,temevo di restar solo. Un gigante­sco scorpione mi punzecchiava la coscia con il dardo avvelenato, attaccato alla gamba. Avevo una sete disperata e la mia borraccia era vuota. Ed eccomi di ri­torno a casa, nel bagno, e mia moglie che riempiva la vasca di acqua fresca e chiara: vi tuffavo le mani, a coppa, ma l'acqua ne sfuggiva. Pregavo mia moglie di portarmi un bicchiere, ma essa rideva dicendo che i bicchieri erano riservati ai bambini. Così mi sono sve­gliato, sudatissimo, sotto un sole in piena intensità.
« Ho la bocca orribilmente secca, cerco la borraccia: ricordo d'aver dato da bere all'austriaco e a un altro ferito, forse l'ho messa nel tascapane che serve da cu­scino all'austriaco e non voglio svegliarlo. Gli tocco il polso: è molto debole. Si muove e chiede: ' Wann kommt dei Arzt? ' ' Bald ', gli rispondo: presto. Cerco la borraccia: non c'è. »
La trincea dove giacciono i due feriti è fatta segno a un preciso tiro oli mortai. L'austriaco, per sollevarsi, mette le mani sull'orlo dello scavo: arriva una bom­ba, tutto scompare in una esplosione assordante: ri­mane un profondo cratere a cinque passi dall'austria­co, che sta appoggiato alla parete, semisdraiato, e guar­da curiosamente quanto gli rimane della mano sinistra, quasi completamente asportata. Sarnwell sta per sen­tirsi male, ma si straccia furiosamente un pezzo di ca­micia e lo lega stretto al moncherino: l'austriaco rin­grazia fiocamente, a occhi chiusi, respirando faticosa­mente. « Il povero diavolo sta morendo. Penso alla moglie, ai figli, ai nostri discorsi sull'Austria. Come è maledettamente stupirlo tutto questo. Prima egli mi spara, poi gli sparo io, parliamo da amici e ci dividia­mo un buco dove egli è nuovamente ferito dai suoi. Era necessario tutto questo. Penso ai massacri di Po­lonia, Francia e Belgio. Sì, era necessario. ' Wann kommt dei Arzt? ' chiede. ' Bald ', rispondo. ' Bald, bald, immer bald. ' Ma come spiegargli che il dottore non verrà mai, che siamo tagliati fuori? »
Più tardi il dottore viene, senza berretto e senza elmetto, con un'enorme bustina da fatica, e gira tra i feriti con fredda indifferenza al tiro. Fa un'iniezione di morfina a Samwell e una all'austriaco, che mor­mora: « Der Arzt ist gekommen. » Più tardi, in un po­sto di medicazione, Samwell vede l'austriaco in barel­la ricevere una trasfusione.
« Mi chiedo se vive. Ho ancora con me le sue carte.

Il cadavere del generale Stumme, ucciso da un col­po d'apoplessia mentre stava aggrappato all'esterno della sua vettura che si allontanava dalla zona morta­le, pilotata dall'autista ignaro, è stato trovato da una pattuglia presso Quota 28. Il colonnello Buchting era già stato ucciso da una pallottola in testa. Rommel, dalla sua convalescenza bruscamente strappato, ha la­sciato l'aeroporto di Wiener Neustadt alle 7 del gior­no 25, atterrando nel pomeriggio a El Dabah. Riparte subito per il fronte con il suo Cicogna, riceve in con­segna dal generale von Thoma, nella notte sul 26, l'ar­mata corazzata e la situazione disperata. L'indomani richiama da sud la 21^Panzerdivision per sostenere la 15^ e la Littorio, ridotte a poche decine di carri. Ma la sacca aperta sui cassoni J ed L è andata, come s'è detto, allargandosi sempre più, ha toccato il settore ferroviario a nord e quello della Bologna a sud, dove il 27 un poderoso attacco è respinto dalla brava 5^ com­pagnia del II/40° fanteria sostenuta dai cannoni anti­carro della 2^/IV granatieri e dalle batterie del 205° artiglieria.
Un nostro contrattacco ai margini della sacca L, il giorno 29, ha catturato alcuni artiglieri inglesi che s'erano spinti assai avanti con i loro pezzi. Nell'inter­rogatorio è stata loro posta una domanda che balza spontanea: « Da sette giorni, senza la minima tregua, tutte le vostre batterie hanno continuato il fuoco. E’ possibile che non abbiate mai bisogno di riposo, né di sonno? » La risposta è venuta pronta, non senza un certo sussiego orgoglioso. « Ogni nostra batteria ha diverse squadre di puntatori, tiratori e serventi, che si danno il cambio. Facciamo dieci ore ai pezzi, e ven­ti a riposo: ma a riposo vero, ad Alessandria, non dentro le buche del deserto. La nostra muta ne aveva per un'ora sola quando siamo stati catturati. Disgra­zie della guerra.
I pezzi nemici che da nove giorni concentrano il loro fuoco su questi poveri dieci chilometri di fronte sono almeno novecentocinquanta, e forse superano il migliaio. Come in una battuta ai margini della fore­sta: un cacciatore ogni dieci metri. E senza limitazioni al munizionamento. Le batterie avanzanti, a ogni sbal­zo, abbandonano presso le piazzole piramidi di grana­te. Giusto. Perché consumare tempo e fatica a rimor­chiarsele dietro quando il rifornimento per le nuove postazioni è già assicurato da autocolonne in celere e indisturbata processione? Rommel non ha più aerei in cielo, e le sue artiglierie riservano ai carri Sherman i pochi colpi ancora disponibili.
Questa miseria di munizioni aveva indotto l'armata corazzata a imporre severe restrizioni, e nelle prime ore della battaglia gran parte delle batterie tacevano. Talvolta l'iniziativa è stata imposta da una evidenza drammatica: non c'era più fanteria fra il nemico e i cannoni. I carri di Montgomery, superati i cassoni mi­nati, già puntavano sulle postazioni del 46° artiglieria Trento, dell'8° raggruppamento pesante del colonnel­lo Falconi e dei gruppi autonomi: II /220° tedesco del capitano Kaiser, 357° guardia alla frontiera del capi­tano Macrì, 335° da posizione del capitano Santonocito, 1/220" tedesco e alcuni pochi ancora. Computando le disponibili artiglierie della Littorio e della 154' Panzer si potevano forse numerare in tutto centonovanta pezzi di medio e piccolo calibro da contrapporre ai novecentocinquanta nemici.
II 46" artiglieria ha avuto immediato contatto con i carri, a distanze ravvicinate, senza mutare schieramento per diversi giorni. Il II gruppo del capitano Oggeri ha mantenuto la posizione fino al giorno 28: il I del capitano Bortolani e il II del capitano Casini, dal 25 al 27, stroncano quattro successivi e accaniti attacchi sparando a zero. Il I, tra i molti caduti, annovera l'aiutante maggiore, tenente Onorio Venier, friulano, il sottotenente Arturo Simoncini comandante di batteria e il valorosissimo sergente Alessio Meneghini, un vecchio richiamato comasco vicino alla quarantina, già due volte decorato.
II IV gruppo del capitano Cena (il titolare, tenente colonnello Vincenzo Rossi di Albenga, comanda l'artiglieria del settore) era schierato più a nord, attorno a Quota 28, epicentro della battaglia dopo il 26. Gli artiglieri delle tre batterie (10^ di Sartorello, Il^ di Alvino e 12^ di Ravalli, tutti subalterni) non si lamentano dei loro cannoni. Dicono che sono stati collaudati, se non altro, da una nobile, fedele e prolungata esperienza: sono gli stessi che ventisette anni or sono, al passaggio dell'Isonzo, erano affidati alle cure dei loro padri e magari di qualche loro nonno. Tuttavia, nonostante il ritmo di fuoco assai lento e la gettata irrisoria, fanno buona prova sulle corazze britanniche, purché arrivino a tiro. L'aiutante maggiore del gruppo, capitano Luigi Bolner, è un calmo, impavido e appassionato avvocato trentino che ha tenuto il giornale di queste giornate da incubo.
Il nemico ha occupato Quota 28 verso la mezzanotte sul 26, invano contrattaccato dai fanti della Trento e dai bersaglieri dell'XI/7". Le batterie sono ormai circondate e investite. Due ufficiali distaccati agli osservatori avanzati, il tenente Angelini presso il solido 11/125" tedesco e il sottotenente Mancini sulla fluttuante Quota 28, entrambi romani, sono uccisi. Tutti i collegamenti vengono distrutti dal fuoco e le perdite crescono ogni ora. Gli attacchi dal cielo non lasciano tregua. Scrive Bolner
« Le nostre batterie 10' e 12' sono immobilizzate. Per arrivare alla portata massima di settemila metri le code hanno dovuto essere interrate per circa due metri: per sparare a zero bisognerebbe tirar fuori i pezzi dalle piazzole, il che, con le mitragliatrici inglesi .sovrastanti a soli quattrocento metri in linea d'aria, non è possibile. »
Durante la notte sul 27 si è riaccesa più feroce la lotta nel settore del 11 / 125" tedesco: cade il comandante maggiore Wendel, e poco dopo anche il maggiore Nobel, comandante del, reggimento. ,che tentava accorrere sul posto. Ancora Bolner
« Il tenente Guelfo Ravallt ha fatto tirar fuori il quarto pezzo della 12' e spara a zero contro Quota 28,sotto continue raffiche di mitraglia. Più tardi, per salvare il pezzo, dà l'ordine di riportarlo in postazione, ma durante la manovra rimane colpito alla testa da una pallottola. Gli uomini, sotto il fuoco incessante, fanno a gara per portare il loro comandante all'infermeria di gruppo, sistemata in un pozzo arabo. Ravalli muore durante il trasporto.
« 28 ottobre. Nella serata giunge l'ordine di arretrare le batterie 10^ e 12^`: quest'ultima, restata senza ufficiali dopo la morte di Ravalli, Mancini e La Galla, è comandata dall'unico subalterno che ancora restava alla 10^, sottotenente Borello. II portaordini ha miracolosamente raggiunto il gruppo, sfuggendo alle pattuglie nemiche, e il ripiegamento viene effettuato nella notte. Gli uomini, abbandonando persino le coperte e gli effetti personali, sono riusciti a portar via i pezzi a forza di braccia sotto il naso degli inglesi che li circondavano da tre lati. Ci schieriamo circa due chi­lometri a ovest, ma siamo senza munizioni e senza collegamenti.
« Ora diventa critica la situazione della 11^, che può essere tagliata fuori. Il sottotenente Alvino, che la co­manda, dà prova di freddo coraggio e di esperienza. Ha sparato tutta la giornata a zero.
Le giornate seguenti, 29, 30 e 31, vedono il progres­sivi annientamento dei reparti e la metodica sicura avanzata degli australiani che non badano alle perdi­te. Scompaiono i gruppi italiani 355° e 357°, gli avan­zi dell'XI/7° bersaglieri e del II/ 125" tedesco. I1 IV/46° artiglieria è ancora saldo, spara quando trova munizio­ni, si abbarbica alla sabbia e alle pietre.
« Notte sul 31 ottobre. Sopra di noi; improvvisa, si accende una lama di luce fortissima. Proviene dal set­tore inglese e sovrasta la litoranea. Gli osservatori la­terali ne battono l'intersezione e stabiliscono che la fonte di luce è a circa ventiquattro chilometri dalla linea, fuori tiro di tutte le nostre artiglierie. L'inclina­zione della luce è di circa venti gradi: passa sulle no­stre teste e spacca il cielo fino all'estremo orizzonte ovest.
« Si combatte a corpo a .corpo. Gli australiani,. ubria­chi di whisky, sembrano impazziti. La battaglia si svolge al di là della ferrovia, a poche centinaia di me­tri: i feriti, italiani e tedeschi, raccontano particola­ì i raccapriccianti. Incontriamo uno Spa carico di mu­nizioni per il gruppo Macrì che è stato distrutto e lo rimandiamo indietro. Un nostro deposito a ovest del minareto di Sidi Abdel Rahman è stato colpito e de­flagra con un fracasso infernale. Sullé nostre teste è sempre tesa la bianca spada di luce. Ora ne comprendiamo il motivo. Essa (là l'orientamento per gli. attac­chi nemici: per quello frontale su Quota 2'‑1 ma so­prattutto per quello aggirante che sta investendoci da sud e che, scavalcata la ferrovia, punterà a nord per tagliare fuori le ultime fanterie tedesche e il battaglio­ne Amadei del 7" bersaglieri. Dal deposito colpito si sviluppa un colossale incendio che illumina il cielo di una luce di sangue. »
Così, dopo le fanterie della Trento, si avvia alla fine lo splendido reggimento d'artiglieria divisionale.
I1 battaglione Amadei, X del 7" bersaglieri, unico rimasto del reggimento, ha ormai le ore contate. Si ritrova qui una vecchia conoscenza, il bersagliere Ma­rio Guainazzi (l'antico centro mediano dell'lnter che aveva ricuperato sotto Tobruk il tenente Riva mo­rente, e alzava pochi giorni dopo il primo tricolore su Marsa Matruh). Un ricovero in linea è colpito in pieno, e crolla sopra gli occupanti. Guainazzi non esita, attraversa di corsa il terreno scoperto e falciato dal tiro, rimuove i rottami e libera i compagni sepolti. Se stavolta, finalmente, gli daranno la medaglia, non l'avrà certo avuta in dono.
Un bilancio, un censimento delle perdite di questa battaglia che ogni giorno s'inasprisce mai potrà essere fatto, perché reggimenti intieri si sono volatilizzati. Della Trento risultano caduti, oltre i già citati: sotto­tenenti De Vena e Pilato del 61`', tenenti I3usini e I,eri­zi, sottotenente Palmieri e sottotenente medico Oliva del 62". Della Littorio sono già stati nominati alcuni ufficiali carristi. Vi si aggiungono, tra i bersaglieri del 12", il tenente Marella, il sottotenente Martinelli, il sottotenente nnedico Mezzatesta; tra gli artiglieri (133" artiglieria corazzato e 3" celere Duca d'Aosta), il capi­tano Boglione, il tenente liellora, i sottotenenti Fctrnii‑
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cola, Zoccola, Breda e lticcardi. 1,: ancora, il capitano De Santis del 12" bersaglieri e il sottotenente Pillon del 357" gruppo artiglieria.
II maggiore Serafino Perotti, comandante il 111/62" fanteria Trento, caduto, come s'è visto, il giorno 28, è stato sepolto a Ghazàla, presso la litoranea, nel ci­miterino del 165" ospedale da campo. La giubba del vecchio soldato cinquantenne reca i tre distintivi del­le ferite che aveva successivamente riportato (la giova­ne, sul Carso e sul San Marco. Venticinque anni dopo è venuto a morire quaggiù, umilmente, sperduto nel­l'ecatombe (Iella sacca L. La prima offerta non ba­stava. Sia gloria al suo nome.
NOTE
Attorno alla sepoltura ciel capitano Malis, cornatidante la 71/X1/7" bersaglieri distrutta senza superstiti, furono schierate dal nemico quasi quaranta croci della stessa compagnia, in gran parte cent i nomi: è un caso quasi unico nei cirniteri di guerra. e dimostra il fatto certo del sacrificio sul posto, senza cedere ter­reno. La croce di Malis potava l'indicazione: capitano ignoto, rna anni dopo fu facilmente identificata. Tuttavia sul terreno del contbattirrrento, a Quota `I8, rirnasero centinaia e centinaia di salme d'ogni razza e d'ogni reparto, che vennero ricuperate più tardi, .e ancor oggi, scavando, si continua a trovare ossa e teschi.
I brani di ßolner e di Torelli, riportati dai loro diari inediti,
•ono documenti di chiarezza. Il secondo, dopo sessanta ore di martirio e di carneficina, scrive semplicemente: a Siamo inner­vositi =. T. quando un apparecchio tedesco sgancia per errore sopra le buche della compagnia italiana, si limita a considerare l'avvenimento corne un semplice osservatore, affatto indifferen­te alla nazionalità del velivolo.
Invece gli scritti di Sarnwell e Carnpiní sono stati pubblicati, e costituiscono una lettura di «fortissimo interesse umano e sto­rico, e anche letterario. Il volumetto del maggiore Sarnwell (Arr lnfnrrto, Ufcer with the Ei,ght Arrnv, Londra, ßlackwood, 1945) non è sempre gradevole al lettore italiano, il quale tuttavia do­n rebbe ormai essere incallito contro ogni insulto di amici e nemici. Samwell guarì della sua ferita tanto trascurata per venti­quattr'ore, tornò a combattere in Tunisia dove fu nuovamente ferito, e gravemente: ma aveva la convalescenza rapida al pun­to da partecipare anche alle operazioni in Sicilia. Il volume è dedicato a Sir Philip Gibbs, che ne scrive la prefazione. Alla fine di questa, come fosse notizia accessoria e senza interesse, si legge che l'autore « è stato ucciso in combattimento il 12 gen­naio 1945 nel saliente delle Ardenne, mentre stava con i suoi vecchi Argyll and Sutherland Highlanders •. Chissà che cosa di­vennero le carte dell'austriaco morente.
Il libro di Dino Campini è intitolato Eroismo e Miserie a El Alamein (Milano, Studio Editoriale PG, 1952). Vivacissimo, ar­dente, aspro, sincero, non sempre sereno. Ma senza paura di esprimere il proprio ,parere: parlando di un reggimento distrut­to dopo che i comandanti di battaglione e di compagnia ab­bandonati a loro stessi avevano fatto cose degne dell'Iliade, scrive che . errore fu affidare un tanto bel reggimento carri a un brutto colonnello ». Non tutti i colonnelli carristi furono pari a Giuseppe Bonini del 133°. Risulta dal suo cartellino sa­nitario: • ferita trasfossa da pallottola attraverso la coscia sini­stra alle 4 del 2.XI.42 » ; praticati « drenaggio, medicazione e ìniezione antitetanica ». Ma alla voce « annotazioni speciali » si legge: « L'ufficiale rifiuta il ricovero ospedaliero ». Rimase altri quattro giorni con gli avanzi del 133" e fu finalmente imbarcato in gravissime condizioni sopra una nave ospedale.
In piena battaglia giunse a Fuka l'ordine di rimpatrio per cinque vecchietti (qualcuno portava lunga barba bianca), volon­tari della legione antiaerea con quaranta mesi d'Africa, addetti alla difesa del campo 4° stormo caccia. Erano già sulla litoranea con lo squallido bagaglio, in attesa di un mezzo, quando appar­vero i bombardieri della RAF. I cinque, abbandonato il ‑baga­glio, corsero spontaneamente verso gli antichi posti di combat­timento, ma il gruppetto fu centrato e distrutto, senza un su­perstite, da una bomba. Forse erano il vicecaposquadra Balzác­chi, le camicie nere Dal Ben, Barbieri, Torre e Vacca, tutti ca­duti il 27 ottobre e mai ritrovati nelle ricerche successive.
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Conviene fare una considerazione postuma in merito allo sfon­damento vittorioso operato tra Quota 28 e Bir el Atash. Secon­do la bibliografia tedesca del .periodo che chiamano « dopoguer­ra » , quel settore viene detto « dei reggimenti 125°, 382°, 433",
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della divisione 164° agli ordini del generale Lungershausen » : vi vengono create le sacche minate H nord e H sud, J, L e K, a opera esclusiva dei pionieri tedeschi, battaglioni 33°, 200', 220" e 900", che operano nell'estate e prima dell'ultima battaglia. Nessuna parola delle unità italiane di fanteria e del genio.
Ma giunta l'ora di sventura, la bibliografia tedesca elimina le precedenti qualifiche e le responsabilità della sempre presente 1641: e scrive: settore della Trento, battaglioni del 62". La ge­stione di tutela è finita.
A tergo della sacca J, senza rincalzi, la 15/I/62° Trento aveva schierato i suoi 83 uomini su 1200 metri, uno ogni 15 metri. Ma tre ciottoli sul greto non potevano fermare il torrente in piena: i pochi superstiti furono travolti e catturati.
Era stata una buona compagnia, ben comandata da un richia­mato triestino, tenente degli alpini e valente alpinista, Paolo Goitan. Un altro triestino, pure alpino e rocciatore (quasi si fossero dati convegno sul più piatto dei fronti), il tenente Giorgio Trevisani, aveva lasciato la compagnia il 27 maggio 1942, con un piede stroncato da un proiettile, nell'attacco da Sidi Breghisch in direzione di Tobruk: e la sua prima reazione era stata soltanto sportiva. = Cio', Paolo : , aveva gridato all'amico, go finìo de rampegar ! » .
Al dottor Goitan gli inglesi riservarono dapprima un tratta­mento di favore: ne conoscevano l'elevata posizione civile e speravano c un interrogatorio interessante ». Ne fu incaricato, anziché uno dei soliti cialtroni levantini, un capitano inglese purosangue, compitissimo e insinuante. Ma il prigioniero aveva congenita e inderogabile la disciplina dei nordici, retaggio di antiche severe educazioni ancor valide mezzo secolo dopo il crollo degli Absburgo. Non conosceva nessuno, non sapeva nulla; un vero mattone. Il capitano, impazientito, estrasse un foglio e lesse molti nomi di ufficiali del fit°. « Non conosce neppure questo Goitan, comandante la prima? » Niente. « Neppure il tenente Ruffo, aiutante maggiore in prima? » E Goitan, sfot­tente: • Dovrebbe aggiornare il suo elenco: Ruffo è stato pro­mosso capitano da quindici giorni •.

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