giovedì 5 luglio 2007

Da rivista Aeronautica DIBATTITO STORICO E PREGIUDIZIALI IDEOLOGICHE

............... approfondimento


DIBATTITO STORICO E PREGIUDIZIALI IDEOLOGICHE.
La questione dei crimini di guerra italiani in Russia


di Basilio Di Martino

La bibliografia relativa al contingente italiano inviato a combattere sul fronte orientale nel corso della seconda guerra mondiale è estremamente vasta anche per il contributo di un'abbondante memorialistica, che in alcuni casi ha conosciuto un buon successo di pubblico e di critica. In larga parte però queste opere trattano delle vicende dell'Armata Italiana in Russia, o ARMIR, come fu conosciuta l'8^ Armata che nel luglio 1942 incorporò il preesistente Corpo di Spedizione Italiano in Russia, CSIR, portandone la consistenza da tre a dieci divisioni, e soprattutto in relazione agli avvenimenti invernali. Una tale focalizzazione è ben comprensibile se si considerano il costo in termini di vite umane e il conseguente impatto sull'immaginario collettivo dei combattimenti sul Don e della successiva tragica ritirata, ma non permette di valutare a fondo quale fu il ruolo delle truppe italiane impegnate nella campagna contro l'Unione Sovietica, per un periodo di tempo ben più lungo di quelle cruciali settimane tra il novembre 1942 e il gennaio 1943. li CSIR infatti, costituito nel luglio 1941, entrò in azione nell'agosto, inquadrato nel Gruppo Corazzato Kleist, poi la Armata Corazzata, battendosi senza sfigurare accanto all'alleato germanico tanto durante le operazioni estive, nonostante l'insufficiente dotazione di automezzi ne limitasse in misura significativa sia l'autonomia logistica che la mobilità tattica, quanto nel desolato e pauroso scenario di neve dell'inverno russo, con il bel successo ottenuto nella cosiddetta "Battaglia di Natale" malgrado un'indiscutibile inferiorità numerica. Nel corso di quest'ultimo ciclo operativo, che si inserisce nel quadro dei primo prepotente ritorno offensivo dell'Armata Rossa, l'equipaggiamento dei soldati italiani si dimostrò tutt'altro che inadeguato e addirittura superiore a quello dell'alleato che nulla aveva predisposto fidando in una rapida conclusione della campagna. Con il ritorno della buona stagione il fronte si rimise in moto, con una nuova e travolgente avanzata germanica verso obiettivi tanto importanti quanto ambiziosi quali Stalingrado e i pozzi petroliferi dei Caucaso. Il CSIR, diventato nel frattempo XXXV Corpo d'Armata e inglobato nell'ARMIR, ebbe


ancora modo di distinguersi nei duri combattimenti che nel corso dell'estate portarono le truppe italiane a raggiungere il corso dei Don, per costituirvi un fianco difensivo a protezione delle forze alleate impegnate in direzione di Stalingrado. Il seguito è ben noto: vincolata dalle direttive dell'alto comando tedesco ad assumere uno schieramento estremamente allungato e privo di profondità, con la quasi totalità delle forze proiettate in prima linea, e priva di riserve mobili con le quali sviluppare una reazione dinamica, l'armata italiana non fu in grado di fermare gli attacchi portati dall'avversario facendo gravitare lo sforzo lungo specifiche direttrici d'avanzata, sulle quali concentrare la massa dei carri armati e dell'artiglieria.

La vicenda dell'ARMIR è relativamente conosciuta, almeno per quanto riguarda la sua tragica conclusione, ma molto meno lo è il periodo precedente, pur ricco di spunti, e in questo contesto rimangono inevitabilmente in ombra aspetti quali l'organizzazione logistica e il comportamento delle truppe italiane verso i civili e i prigionieri, aspetti entrambi ai quali la memorialistica dedica di solito pochi cenni, al limite della nota di colore, e che meriterebbero invece un serio approfondimento, possibile solo sulla base di un attento esame delle fonti d'archivio. Di questi due temi presi ad esempio, se quello della logistica ha indubbiamente una connotazione specialistica, tale da non permettergli di catturare l'attenzione dei grosso pubblico, ben diverso impatto ha l'altro, le cui implicazioni sono tali da configurarne l'esame come una vera e propria inchiesta su crimini di guerra veri o presunti. La sensibilità per queste problematiche, oggi più che mai viva anche per effetto di recenti avvenimenti internazionali e dei conseguenti sviluppi dei diritto umanitario, ha certo favorito gli studi di settore e non è quindi motivo di sorpresa la comparsa di opere che, nel quadro della contrapposizione senza esclusione di colpi tra i regimi più autoritari e sanguinari della storia d'Europa, sviluppano proprio il tema dei comportamento degli eserciti verso la popolazione civile e i prigionieri. Come nel caso dei recente e ben documentato saggio di Omer Bartov, teso a dimostrare come l'esercito tedesco abbia subito un processo d'imbarbarimento senza precedenti durante la guerra contro l'Unione Sovietica (1), finora tali ricerche hanno interessato i due principali antagonisti, lasciando sullo sfondo l'eventuale contributo degli alleati della Germania all'imbarbarimento della guerra, ma il caso italiano è senz'altro anomalo. Nell'immediato dopoguerra infatti, e certo in modo strumentale al confronto politico in atto, si sviluppò un'accesa polemica tra quanti chiedevano ragione all'Unione Sovietica dei mancato ritorno di decine di migliaia di prigionieri e quanti invece, nei ranghi della sinistra, sposavano a pieno le tesi sovietiche e contrattaccavano con l'accusa di crimini di guerra, appoggiandosi però più ai comunicati di Mosca, inevitabilmente di carattere propagandistico, che a prove documentate e testimonianze certe. Con il chiarirsi dei quadro politico interno e della stessa collocazione internazionale della Repubblica, il dibattito perse di interesse e gradatamente si spense senza ulteriori strascichi, per poi tornare improvvisamente d'attualità con il convegno "L'Asse in guerra", organizzato nell'aprile del 2005 dall'Istituto Storico Germanico di Roma. Alcuni relatori, e tra questi soprattutto lo storico tedesco Thomas Schlemmer, vi hanno infatti stigmatizzato l'operato delle truppe italiane in Russia, giudicato violento e oppressivo. Si è aperto così un nuovo campo d'indagine in relazione a un argomento, quello dei crimini di guerra italiani, che, con riferimento al teatro balcanico, negli ultimi tempi ha attirato molta attenzione, forse non a caso soprattutto dopo la caduta del muro di silenzio che aveva a lungo nascosto la tragedia nazionale delle foibe.

I due scenari, quello russo e quello balcanico, presentano ovviamente tali e tante differenze, nella durata e nell'entità della presenza italiana, nella situazione locale, nella natura del territorio, da far supporre la necessità e l'adozione di modelli comportamentali diversi, ma tanto nell'uno quanto nell'altro caso una seria analisi può fondarsi soltanto sui metodi dell'indagine storica e in primo luogo sullo studio delle fonti d'archivio. Nel rimandare a una tale sede il necessario approfondimento sul comportamento del soldato italiano sul fronte orientale, si ritiene tuttavia interessante applicare al CSIR e all'ARMIR la stessa metodologia di analisi adottata da Omer Bartov nel suo saggio sull'imbarbarimento della guerra, per proporre poi alcune considerazioni sullo sviluppo della guerra partigiana nelle regioni e nel periodo che videro operare le truppe italiane.

L'ipotesi di Bartov è che a determinare il carattere del tutto particolare della guerra sul territorio sovietico, con il pieno coinvolgimento dell'esercito in una politica di conquista e di sterminio sistematico finalizzata all'annientamento del "bolscevismo giudaico", siano stati tre fattori concomitanti, identificati nelle condizioni di vita al fronte, nella formazione e nel retroterra culturale degli ufficiali subalterni, nell'indottrinamento delle truppe. Di questi il primo creò le premesse che gli altri due portarono alle estreme conseguenze, con il risultato di fare di quella manifestazione del fenomeno bellico un fenomeno unico nella storia. Le privazioni fisiche e le conseguenti difficoltà psicologiche, accentuate da un tasso di perdite molto elevato e impossibile da ripianare, infatti, valsero certamente ad allentare i vincoli di ordine etico e morale, portando i singoli ad assumere atteggiamenti di crescente brutalità e ad accettare tali comportamenti come normali, ma se non fossero intervenuti gli altri due fattori il caso del fronte orientale non sarebbe stato diverso da altri scenari di guerra caratterizzati da condizioni ambientali particolarmente severe e da livelli di confronto di spietata durezza. Un ruolo quindi determinante ebbero da un lato gli ufficiali subalterni, i più vicini alla truppa di cui erano la guida naturale sul campo di battaglia e fuori, in larga misura convinti sostenitori del regime nazionalsocialista del quale nelle scuole e nelle università avevano assorbito i principi, dall'altro l'indottrinamento politico, che nelle difficili condizioni del fronte orientale venne a essere il
principale strumento con cui rafforzare la disciplina e il morale, utilizzando una molteplicità di mezzi, dalla radio ai giornali, dai libri alle conferenze, per ribadire in ogni momento che la lotta contro l'Unione Sovietica si configurava come un confronto ideologico e razziale in cui le leggi di guerra non potevano essere applicate. Questo messaggio ripetuto ossessivamente e rilanciato in modo quanto mai efficace e diretto dagli ufficiali, responsabili non solo di guidare i loro uomini in combattimento ma anche di educarli politicamente, riuscì a far presa dando ai soldati qualcosa in cui credere e ottenendo così il risultato di rafforzarne la capacità di resistenza oltre ogni limite immaginabile e, al tempo stesso, di legittimare la tendenza a comportamenti sempre più brutali e violenti. Questo processo d'imbarbarimento ebbe le sue manifestazioni nel trattamento dei prigionieri di guerra, nella repressione della guerra partigiana, nella politica della terra bruciata che accompagnò la ritirata dell'esercito tedesco, come del resto aveva accompagnato quella dell'Armata Rossa nella prima fase dell'operazione "Barbarossa". Ciò che va però sottolineato è che nel loro insieme tali azioni, pur inserendosi in un quadro di crescente degenerazione per l'effetto combinato dei tre fattori considerati, erano assolutamente in linea con un insieme di disposizioni emanate dai vertici politici e militari prima ancora dell'inizio della campagna. Queste norme, che davano libertà d'azione agli Einsatzgruppen delle SS e dell'SD, che estendevano i limiti della giurisdizione militare includendovi la possibilità di prendere misure collettive nei confronti della popolazione civile se sospetta di aiutare i partigiani, che prescrivevano di agire senza pietà contro agitatori bolscevichi, partigiani ed ebrei, e prevedevano esplicitamente l'esecuzione immediata dei commissari politici e dei funzionari del partito, vanno quindi inquadrate in una precisa volontà di asservimento e di annientamento, precisata dallo stesso Adolf Hitler nel corso di una riunione con i suoi comandanti nella primavera del 1941 (2):

«La guerra contro la Russia sarà tale da non poter essere condotta in modo cavalleresco. E' una lotta fra ideologie e razze diverse e dovrà essere combattuta con una durezza, una spietatezza e un'inesorabilità senza precedenti. Tutti gli ufficiali dovranno sbarazzarsi delle loro idee invecchiate. So che la necessità di una tale condotta di guerra esorbita dalla comprensione di voi generali, ma io... insisto assolutamente perché i miei ordini siano eseguiti senza discutere. I commissari sono esponenti di idee del tutto opposte al nazionalsocialismo. Per cui i commissari dovranno venir eliminati. Saranno scusati quei soldati che violeranno le leggi internazionali. La Russia non ha partecipato alla Convenzione dell'Aja, quindi non ha nessun diritto di appellarsi a tali leggi».

Non diverse le indicazioni in merito allo sfruttamento dei territori occupati, da attuare a esclusivo beneficio della Germania senza alcuna considerazione per le esigenze vitali delle popolazioni locali, come puntualizzato da Hermann Goering in una direttiva del 23 maggio 1941, anche in questo caso quindi durante i preparativi per l'attacco all'Unione Sovietica, sferrato come noto un mese dopo, il
22 giugno (3):

«Ogni tentativo di salvare la popolazione dalla morte per inedia importando viveri in eccedenza ... andrebbe a spese del rifornimento dell'Europa. Ridurrebbe la capacità della Germania di far fronte ai propri bisogni e pregiudicherebbe la possibilità della Germania e dell'Europa di resistere al blocco. Ciò deve essere inteso in modo chiaro e inequivocabile».

Fatte queste premesse, e restando inteso che il comportamento dei sovietici, sebbene non scientemente e preventivamente pianificato, non era comunque diverso nelle sue manifestazioni, è subito evidente che risulta pressoché impossibile applicare lo stesso modello al contingente italiano operante al fianco della Wehrmacht. Non solo ne mancano i presupposti, dal momento che non furono emanate dal governo, né tanto meno dal Comando Supremo, istruzioni speciali di alcun genere, ma non sussistono neppure almeno gli ultimi due dei tre fattori che portarono all'imbarbarimento dell'esercito tedesco, e anche per il primo è opportuno operare qualche distinguo.

II CSIR non prese parte alla cosiddetta battaglia delle frontiere e fu impiegato in azione soltanto a partire dal mese di agosto, nel corso delle operazioni che portarono al superamento del Dnieper, e successivamente nella conquista del bacino minerario del Donetz e della regione industriale di Stalino. Attestatosi a difesa sulle posizioni raggiunte, a copertura del fianco del Gruppo Corazzato Kleist alla sua destra e in labile collegamento sulla sinistra con la 17a Armata, il CSIR affrontò con successo un duro ciclo operativo invernale, nel quale, oltre al già sperimentato valore dell'avversario, i suoi uomini si trovarono a dover fronteggiare situazioni climatiche terribili. Con tutto questo, grazie ai preparativi attuati dal comando del corpo di spedizione e ad un'accorta condotta tattica che privilegiava il controllo degli abitati alla difesa di elementi topografici che comunque difficilmente avrebbero potuto essere tenuti, le divisioni italiane, pur provate, soffrirono relativamente meno di molte divisioni germaniche parimenti investite dalla controffensiva sovietica. II ritorno della buona stagione le trovò quindi in discrete condizioni, come ebbero modo di dimostrare durante l'avanzata verso il Don e nel corso dei combattimenti finalizzati ad acquisire il controllo della sua riva occidentale. Non mancarono i momenti di crisi ma il CSIR, ormai inserito nell'ARMIR, si comportò bene, come del resto fecero, nel complesso, anche i reparti in afflusso dall'Italia che ebbero il modo di entrare in azione. La "Prima Battaglia del Don", oltre a essere un nuovo banco di prova per i veterani del fronte russo delle divisioni Pasubio, Torino e 3a Celere, fu infatti anche il battesimo del fuoco dell'ARMIR, anche se non tutte le sue unità furono impegnate in combattimento. Tenuto conto di questa successione di eventi, è evidente che le divisioni arrivate dall'Italia nell'estate 1942 non potevano dirsi logore quando andarono a schierarsi sul Don all'inizio dell'autunno, mentre, per quanto riguarda le unità già appartenenti al CSIR, la relativa stasi operativa seguita alla "Battaglia di Natale" aveva permesso di recuperare energie spirituali e materiali, senza dimenticare che la consapevolezza di aver superato brillantemente una serie di dure prove aveva rafforzato un morale già in partenza piuttosto elevato. Nel complesso non sembra quindi che le condizioni di vita e di lotta fossero state tali da favorire un imbarbarimento dello scontro e neppure da richiedere strumenti diversi da quelli abituali per mantenere il controllo e la compattezza dei reparti, ad esempio sviluppando forme d'indottrinamento ideologico o inasprendo il regime disciplinare, soluzioni entrambe adottate dall'esercito tedesco. AI contrario anche le relazioni dei tribunali militari dipingono un quadro soddisfacente sottolineando semmai una migliore tenuta disciplinare del CSIR rispetto all'ARMIR: evidentemente come spesso accade la quantità era andata a scapito della qualità e i 200.000 dell'ARMIR non riproponevano lo stesso quadro di eccellenza dei 60.000 del CSIR (4).

Nonostante il più lungo radicamento del regime fascista rispetto a quello nazista, gli ufficiali subalterni italiani erano nel loro insieme meno condizionati ideologicamente dei loro colleghi tedeschi, ed è inoltre doveroso riconoscere che non c'erano in Italia le stesse condizioni che operavano in Germania, a partire dall'aperta e storica contrapposizione con il mondo slavo per arrivare all'antisemitismo da tempo latente in quella società e alla diffusa convinzione di una superiorità culturale e razziale nei confronti dell'avversario, superiorità che la propaganda non si stancava di ribadire. Nonostante la retorica di regime l'Italia, e per essa le Forze Armate, non si vedeva impegnata in una lotta di carattere ideologico, assimilabile per certi versi alle guerre di religione di un tempo, in cui non si dava né si aveva quartiere. Le relazioni dei comandi riflettono anzi la sorpresa suscitata dall'atteggiamento dell'alleato, sorpresa che in più occasioni si trasformava in aperta critica per l'insensatezza di una politica considerata controproducente ai fini dell'economia del conflitto, impedendo qualsiasi intesa con una popolazione che pure, in molti casi, aveva buone ragione per dolersi del regime imperante in Unione Sovietica. Le direttive impartite in merito ai rapporti con gli abitanti dei territori occupati e al trattamento dei prigionieri avevano quindi ben poco in comune con le disposizioni dei comandi tedeschi, e il loro contenuto non cambiò neppure quando, con i combattimenti del dicembre 1941, i componenti del CSIR si accorsero che ben altro era il modo di agire dei sovietici. Di tutto questo i documenti conservati nell'archivio dell'Ufficio Storico dello Stato Mag­giore Esercito danno ampia evidenza, mentre riconfermano che, come del resto suggerito dalla memorialistica, non vi fu alcun programma d'indottrinamento delle truppe mirato a incoraggiare brutalità e violenze gratuite, nonostante fosse ben chiaro il tipo di confronto a cui í soldati italiani si trovavano a prender parte. L'indagine può e certo deve essere ulteriormente approfondita, ma quanto ripor­tato nel successivo articolo di Filippo Cappellano è sufficiente a permettere di rigettare la rispondenza al modello Bartov del comportamento degli uomini del CSIR e dell'ARMIR, e a respingere, o quanto meno a ridimensionare di molto, le accuse di crimini di guerra, riconducendole, nel caso, a fatti isolati ed episodici, quali purtroppo si possono incontrare in tutti i tempi e sotto tutte le bandiere. Questa fu del resto la conclusione della "Commissione d'inchiesta per i crimina­li di guerra italiani secondo alcuni Stati esteri" istituita nel dopoguerra, dalla quale i pochi militari incriminati per atti di barbarie furono scagionati per l'in­consistenza delle accuse e l'assenza di prove.
Un'ultima annotazione riguarda la guerra partigiana e il suo impatto sulla vita dei soldati italiani sul fronte orientale ed è opportuno sottolineare subito che questo impatto, quando ci fu, fu minimo, a causa delle particolari condi­zioni di tempo e di luogo e delle modalità stesse con le quali si sviluppò il movimento partigiano in Unione Sovietica. Per quanto possa sembrare sor­prendente, nonostante la guerriglia avesse avuto un ruolo importante nella storia russa, almeno a partire dall'invasione napoleonica, l'estate del 1941 la trovò completamente impreparata. II regime, e per esso Stalin in prima perso­na, riteneva infatti che l'Armata Rossa fosse abbastanza forte da respingere un eventuale attacco senza cedere terreno e inoltre guardava con giustificata diffi­denza all'idea di organizzare preventivamente la guerra partigiana, nel timore che questo potesse incoraggiare la ribellione interna. A dispetto dell'apparente compattezza dello Stato e delle sue strutture, solo una parte della popolazione poteva essere considerata assolutamente fedele, comprendendo in questa mino­ranza il personale delle fattorie collettive, gli operai specializzati, i membri del partito e gli iscritti alla lega giovanile comunista, vale a dire tutti coloro che da un eventuale cambiamento potevano solo aspettarsi di perdere i vantaggi della posizione acquisita. AI di fuori di questa cerchia vi era una diffusa insoddisfazio­ne per la situazione esistente, il che si traduceva in indifferenza per le sorti del regime se non in latente opposizione non disgiunta dalla speranza di un radica­le mutamento. La prima direttiva in merito alla necessità di organizzare attività di guerriglia e di sabotaggio nei territori occupati dai tedeschi fu emanata dal Comitato Centrale del Partito Comunista il 29 giugno 1941 e diffusa da Stalin in un discorso alla radio del 3 luglio che ordinava esplicitamente la costituzione di
unità partigiane e indicava gli obiettivi da perseguire (5):

«Costituire distaccamenti partigiani di cavalleria e di fanteria, nonché gruppi di sabotaggio, nelle zone occupate dal nemico per combattere contro unità dell'e­sercito nemico, alimentare la guerra partigiana ovunque e in ogni momento, far saltare ponti e strade, interrompere le linee di comunicazione telefoniche, incen­diare foreste, magazzini e vagoni ferroviari, creare nelle zone occupate condi­zioni intollerabili per i nemici e tutti coloro che li aiutano, inseguirli e distruggerli a ogni passo, gettare all'aria tutto quanto essi fanno».




Questi ordini trovarono una tiepida accoglienza nella popolazione, che in larga misura scelse di mantenere un atteggiamento attendista e non diede vita ad alcuna iniziativa spontanea di rilievo. L'organizzazione del movimento partigiano avvenne così attraverso le strutture del partito e della polizia segreta e i distac­camenti via via costituiti vennero a essere formati soprattutto da membri del Partito Comunista e della sua organizzazione giovanile, spesso appositamente infiltrati, e da ufficiali e soldati rimasti tagliati fuori dalla rapida avanzata tede­sca, mentre pochi erano i contadini e gli operai. Nel 1941 il loro problema prin­cipale fu quello di sopravvivere e di trovare un qualche radicamento nel territo­rio, tutt'altro che facilitati in questo tentativo dall'alta dinamica delle operazioni e dagli ordini che prescrivevano una distribuzione uniforme del movimento su tutte le regioni occupate, con almeno un distaccamento partigiano e un gruppo di sabotaggio attivi in ogni circoscrizione amministrativa. Questa disposizione, contenuta in una direttiva del 18 luglio era chiaramente inattuabile, non tenen­do conto delle specifiche realtà locali. Nelle regioni baltiche, dove erano molto vivi i sentimenti antisovietici, il movimento non riuscì ad attecchire e lo stesso avvenne in Ucraina dove, accanto a un diffuso malcontento nei confronti del regime, le caratteristiche del territorio, aperto e senza ripari, non favorivano certo le attività di guerriglia e di sabotaggio. Diversa la situazione nella Russia Bianca, nella regione di Leningrado e nella Russia Centrale, aree nelle quali la popolazione era meglio disposta e un ambiente naturale caratterizzato da fitte foreste ed estese paludi offriva maggiori opportunità. Con tutto ciò, e nonostan­te un poderoso sforzo organizzativo, per tutto l'anno i partigiani non rappresen­tarono un serio problema per la Wehrmacht. Nel dicembre 1941 molti distacca­menti erano stati annientati o si erano dispersi e nei territori occupati, a fronte di circa 70.000.000 di abitanti, non vi erano più di 30.000 membri attivi della resistenza, oltretutto mal guidati e poveramente equipaggiati. II quadro comin­ciò a cambiare nel corso dell'inverno in conseguenza sia della controffensiva lan­ciate dalle truppe sovietiche, che indusse molti ad abbandonare il precedente atteggiamento di attendismo e indecisione, sia della politica perseguita dalla Germania, che ben presto disilluse quanti speravano in una sorta di liberazione dal regime sovietico. A questi fattori di ordine morale si aggiunse la crescente efficacia delle misure organizzative volute da Mosca che nel maggio 1942 culmi­narono nella costituzione di uno Stato Maggiore Centrale del movimento partigiano, dipendente dal Comando Supremo sotto la stretta supervisione del parti­to, a cui facevano capo gli Stati Maggiori Territoriali istituiti a livello di "fronte", o gruppo di armate, che indirizzavano l'attività dei distaccamenti e delle brigate operanti nei territori occupati. La consistenza del movimento crebbe rapidamen­te e alla data del 1° luglio 1942 si contavano oltre 80.000 partigiani ripartiti in 661 distaccamenti, ma il livello di attività rimaneva insoddisfacente, dato anche l'andamento delle operazioni, con l'Armata Rossa in ritirata verso il Caucaso e Stalingrado. Le zone più attive rimanevano quelle della Russia Centrale e della Russia Bianca, con una presenza poco più che simbolica nell'area baltica e in Ucraina, dove per rilanciare l'azione partigiana fu deciso di infiltrare alcune delle brigate della regione di Brjansk, rifornendole per via aerea del necessario per vivere e combattere.

Nel complesso tanto per il CSIR quanto per l'ARMIR il problema della guerra partigiana non si pose o quasi: il CSIR non ne fu toccato e nel caso dell'ARMIR, che entrò in linea quando il movimento cominciava a riorganizzarsi, si trattò di un aspetto del tutto marginale delle operazioni. La presenza di una divisione da occupazione quale la Vicenza (6) lascia intendere che l'eventualità di un consi­stente sviluppo del fenomeno era stata presa in considerazione, ma nella realtà questo non assunse mai proporzioni davvero preoccupanti se non in alcuni momenti della ritirata dal Don. II basso livello di attività partigiana ha come diretta conseguenza il venir meno di una delle cause dell'imbarbarimento della lotta sul fronte orientale e ne esclude anche una delle più tipiche manifestazio­ni, costituita dalle rappresaglie nei confronti della popolazione. Dopo aver esclu­so nel caso delle truppe italiane l'esistenza di due dei tre fattori individuati da Bartov nel suo studio, è così possibile ridurre di molto anche l'incidenza del terzo, dimostrando sulla base dello stesso modello comportamentale la mancan­za dei presupposti per un atteggiamento generalizzato non conforme alle leggi di guerra e al diritto umanitario. All'esame dei documenti e delle testimonianze spetta ora fornire la conferma definitiva, ma sulla base delle considerazioni fin qui sviluppate si ritiene di poter escludere con ragionevole certezza che atti ascrivibili alla fattispecie dei crimini di guerra siano stati commessi nel quadro di una politica preordinata di sopraffazione nei confronti della popolazione e dei pri­gionieri. Possono forse essersi verificati singoli episodi, ma anche quando singo­li casi siano effettivamente individuati non ne sarebbe inficiato il giudizio com­plessivo sul comportamento del soldato italiano nello scenario barbaro e crude­le del fronte orientale.

(6) La divisione di fanteria Vicenza, priva di artiglieria in considerazione del compito che avrebbe dovuto svolgere, comprendeva due reggimenti di fanteria, 277‑ e 278°, un battaglione carabinieri e un battaglione mitraglieri, oltre al battaglione misto del genio e ai servizi divisionali di sanità, commissariato e trasporti.

(1) Cfr. Bartov 0., Fronte orientale, Le truppe tedesche e l'imbarbarimento della guerra 1941‑1945), Il Mulino, Bologna, 2003.

(2) Cfr. Di Nolfo E., Storia delle relazioni internazionali 1918‑1999, Ed. Laterza, Bari, 2003, p. 397.

(3) Cfr. Di Nolfo E., op. cit, p. 397‑398.

(4) II tribunale militare di guerra del CSIR fu attivo per un anno, dal luglio 1941 al luglio 1942, prendendo in esame 671 denunce con 431 sentenze di condanna, due delle quali, non eseguite, alla pena di morte, una per l'omicidio di un cittadino russo, l'altra per sbandamento. I reati più comuni furono quelli per assenza dal servizio, con pochi casi di reati contro la disciplina. II tribunale militare di guerra dell'8^ Armata, istituito nel luglio 1942 contestualmente alla soppressione del tribunale militare di guerra del CSIR, fu attivo fino all'aprile 1943 trattando 1.889 denunce con 743 sentenze di condanna, tre delle quali, anche queste non eseguite, alla pena di morte, tutte per il reato di diserzione in presenza del nemico, un tipo di reato che nel periodo precedente non era mai stato verificato, e crebbe il numero dei reati contro la disciplina, dovendosi infine registrare anche manifestazioni delittuose assenti in passato, come procurata infermità, abbandono di posto, violata consegna, vilipendio alle Forze Armate. (Ufficio Storico Stato Maggiore Esercito, Le operazioni delle unità italiane al fronte russo (1941‑1943), 2a Edizione, Roma, 1993, p. 477‑480)

(5) Cfr. Baritz 3.1, La guerra fantasma. Storia della seconda guerra mondiale, Voi. IV, P. 122‑128, Rizzoli‑Purnell, Milano, 1967.

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