venerdì 11 gennaio 2008

"Folgore", Una nascita che pare una favola

I ricordi sempre vivi di un paracadutista che era a Tarquinia nel lontano 1940

"Folgore", una nascita che pare una favola


Nei primi mesi del 1940 cominciarono a circolare fra i militari dei vari Reggimenti, in Patria e fuori, delle voci, recate da « radio fante », che parlavano di una nuova formazione di volontari, che avrebbero dovuto combattere lanciandosi con paracadute dietro le linee nemiche, per determinarne la rottura e per sfruttare al massimo il successo. Ben poco si poteva sapere, anche perché molto spesso i Comandi delle Unità, nel timore di veder partire per questa specialità i propri elementi migliori, non diedero molta diffusione alle notizie che pervenivano; anzi, specialmente nei primi tempi, non fecero nemmeno conoscere ai soldati e talvolta nemmeno agli Ufficiali subalterni le circolari che i Comandi superiori facevano pervenire, allo scopo di promuovere il reclutamento dei volontari paracadutisti. Tuttavia si parlava di questa novità e, collegandola alle notizie dei rapidissimi successi conseguiti dalle truppe tedesche nella presa del forte di Eben‑Emael e di altre inspiegabili rapidissime decisioni di situazioni militari che, nelle previsioni dei più, avrebbero dovuto trascinarsi per lunghi periodi operativi, quasi trasformando la guerra di movimento in guerra di posizione, si venne creando la convinzione che queste truppe fossero state le protagoniste decisive di queste situazioni tattiche e che fossero ancora destinate a giuocare un ruolo essenziale in circostanze analoghe. Ufficiali giovani e anche meno giovani si interessarono presso i Comandi superiori o tramite amici addetti ad Uffici particolari ed ebbero conferma della prossima costituzione di una Grande Unità di truppe paracadutiste, di cui già si stava organizzando ed istruendo il primo contingente nella Scuola di Paracadutismo di Tarquinia.

Cominciarono così ad affluire ai Comandi di Reggimento le prime domande di trasferimento alla Scuola di Paracadutismo e i Comandanti non le poterono rifiutare, date le disposizioni che nel frattempo stavano arrivando dal Ministero della Guerra. Tuttavia tardarono a spedirle ai Comandi superiori e cercarono spesso di indurre i presentatori a ritirare la domanda, facendo presente che il Reggimento aveva biscgno dei suoi elementi migliori: che cosa sarebbe accaduto se tutti i soldati di ogni grado più dotati di qualità militari, di coraggio e di senso del dovere si fossero arruolati nei paracadutisti, che cosa sarebbe accaduto nei Reggimenti che avessero persi questi uomini? Non erano dunque affezionati ai propri Reggimenti? Non si trovavano dunque bene nei loro reparti? Non ritenevano forse di poter fare il loro dovere anche restando dov'erano?

Queste e altre simili argomentazioni furono, per esempio, usate, in perfetta buona fede e per amore dei propri reparti, dai Comandanti dei Reggimenti di una Divisione Celere, alla presenza del Comandante di Divisione, rivolgendosi agli ufficiali aspiranti paracadutisti, riuniti dopo un gran rapporto divisionale. Il Comandante della Divisione, amato e stimato da tutti i suoi dipendenti, proveniva dalla cavalleria e ben si sapeva che ne era giustamente orgoglioso; egli ascoltava le argomentazioni dei suoi ufficiali e sembrava quasi condividerne le opinioni. Sembrava quasi che i volontari volessero disertare i loro reparti per mancanza di spirito di corpo. Salvò la situazione un ufficiale dei bersaglieri, che disse al generale: « Poiché i paracadutisti vengono reclutati da tutti i reparti, e sembrano destinati ad avere un peso notevole nelle azioni di guerra, Le piacerebbe che si constatasse che nessuno di loro proviene dalla cavalleria? Certamente! e come Lei la pensano gli ufficiali dei Reggimenti di cavalleria della Sua Divisione, e così la pensiamo noi bersaglieri ». E si vide il viso di quel magnifico Comandante illuminarsi, sicuro ormai che quella scelta non era un ripudio ma un perfezionamento dello spirito di corpo, e la Sua parola fu di incoraggiamento e di elogio e di augurio. Forse proprio a quella necessità spirituale di superamento reciproco delle varie armi da cui i paracadutisti provenivano si deve il comportamento dei paracadutisti in guerra, forse è proprio da quello spirito di emulazione che nacque la forza morale insuperabile dei reparti paracadutisti. E fu proprio quel generale che, Comandante di Corpo d'Armata, avendo alle Sue dipendenze i paracadutisti della « Folgore », ne rilevò le doti e disse semplicemente che « non potevno essere diversi, date le premesse da cui erano partiti: riunirsi in un'unica forma.zicne, dove ogni arma fosse posta nell'occasione di dimostrarsi migliore delle altre ». Quel Generale, ben degno di comandare il Corpo d'Armata di cui la « Folgore » faceva parte, rimase ucciso in combattimento a pochi passi dalle posizioni tenute dai paracadutisti. E non è mai stato dimenticato, ma è considerato spiritualmente « uno dei nostri »: è il Gen. Ferrari Orsi!

Ma credete che bastasse questo spirito per arri­vare alla Scuola di Paracadutismo di Tarquinia? Ci voleva ben altro! Gli aspiranti venivano sottopo­ sti ad una visita medica severissima da una Com­ missione inviata ai Corpi, che sembrava animata solo dal desiderio di impedire ai fanti, ai cavalieri, agli artiglieri, ai genieri di diventare paracadutisi. Di 26 ufficiali di un Reggimento di bersaglieri solo 6 fu­ rono ammessi alla visita presso l'Istituto psicotec­ nico dell'Aeronautica; e una falcidia simile fu fatta su tutti gli altri gruppi di ufficiali provenienti dagli altri reparti della Divisione celere, tutti uomini perfet­ tamente sani, ben allenati, che avevano già dato otti­ me prove nelle dure esercitazioni e spesso in prece­ denti campagne di guerra. E non meno severe furono le selezioni a cui furono sottoposti, poco dopo, i sottuf­ fuciali e gli uomini di truppa. Ma ancora bisognava superare due scogli: il controllo dell'Istituto Psicotec­ nico dell'Aeronautica, che allora faceva subire visite più severe di quelle a cui sottoponeva i piloti, tanto che la metà e spesso ancor più, venivano rimandati ai corpi con la qualifica « Non idoneo ai corsi para­ cadutisti »; poi i corsi stessi, che sottoponevano gli allievi a un'attività talmente intensa e senza tregua, da mettere in luce ogni piccola debolezza fisica o psi­ chica, ad uno sforzo così continuo e violento da co stituire un vero logorio del fisico e della volontà. E quando, dopo quattro ore continue di ginnastica e di esercitazioni sportive, svolte all'aria aperta sul campo di Tarquinia, la quinta ora si svolgeva in una sala semibuia, con temperatura piuttosto calda, e consisteva in una lezione teorica, svolta da istrut tori che tenevano basso il tono di voce, bastava che
uno degli istruttori che si frammischiavano agli allievi ne sorprendesse uno cui si chiudevano un at timo gli occhi, perché questi venisse segnalato al Comando della Scuola e proposto per il rinvio al Corpo di provenienza. A questo vanno aggiunte le prove attitudinali e di selezione, consistenti nei lanci dalla torre, sia con le funi che col paracadute fre­ nato, e più ancora il salto nel telo, sempre sotto lo sguardo severo degli istruttori, pronti a cogliere un attimo di esitazione o una incertezza nel movimento, per trarne elementi sfavorevoli di giudizio, suffi­ cienti per l'esclusione dai lanci. E le stesse esercita zioni ginnico‑sportive non erano prive di emozioni.
Ogni giorno si aveva notizia di qualche collega che non avrebbe potuto presentarsi al lancio perché si era infortunato durante qualche esercizio. Del resto, un corso di 126 ufficiali ne ha portati al lancio solo 98, perché gli altri 28 o si erano feriti o non avevano resistito al logorio. Non bastava infatti avere doti fisiche eccezionali, ma occorreva anche una volontà di ferro e una capacità di ricupero prontissima per poter arrivare al giorno del lancio in condizioni di esservi ammessi. Chi infatti non ha avuto qualche contusione, qualche distorsione, qualche altro infor­tunio durante il corso? Chi non si, è presentato sul campo con un ginocchio che faceva vedere le stelle, con una caviglia che sembrava spezzata, con un mu­scolo che non voleva contrarsi a dovere, con una spalla mezza slogata, e col sorriso sulle labbra, perché l'istruttore non si accorgesse di nulla? Illusione, per­ché l'istruttore ben si rendeva conto dei guai che ci erano accaduti, ma ci voleva vedere appunto così, capaci di imporci di non sentire il dolore, capaci di reagire alle avversità, capaci di agire come sempre anche quando il corpo sembrava rifiutarsi di ubbi­dire alla volontà. E infine si arrivava alla fine del ,:orso, ammessi a sostenere la prova finale del primo lancio: ed ecco il nostro Col. Baudoin, il Comandante della Scuola, che ci riuniva per darci la buona noti­zia che avevamo superato il corso, che ormai pote­vamo presentarci al lancio, che era una cosetta da nulla, perché i nostri paracadute « si aprivano quasi sempre ». E finalmente il lancio: dei 98, 2 infortu­nati dopo il primo lancio, 13 dopo il secondo, effet­tuato in una giornata di vento, 3 dopo il terzo. Dei 126, solo 80 più c meno interi dopo il terzo lancio, mentre dei 18 infortunati il primo poté essere ricu­perato dopo 40 giorni, altri dopo due mesi, alcuni dopo tre o quattro mesi, mentre quattro non hanno più potuto rimanere nella specialità! E questo perché i paracadute si aprivano, sì, quasi sempre, ma non sempre depositavano a terra delicatamente il loro fardello: spesso anzi lo buttavano là in modo tale che non sempre la tecnica appresa durante il corso bastava a neutralizzare.

Subito dopo, gli allievi, diventati paracadutisti, inquadravano i sottufficiali e la truppa, alla quale impartivano le istruzioni tattiche, mentre gli istrut­tori della Scuola li sottoponevano allo stesso tratta­mento al quale erano stati sottoposti gli ufficiali: così anche i sottufficiali e i soldati crescevano alla stessa scuola e venivano temprati nello stesso modo.
Quanto ha influito sul rendimento di ciascuno 1'orgeglio di mostrarsi degni, durante il corso, 'e più tardi, nei reparti e nelle buche d'Africa, delle virtù dell'Arma o della specialità a cui prima apparteneva?
Ogni alpino, ogni bersagliere, cgni granatiere, ogni fante sentiva su di sé la responsabilità di essere degno delle proprie tradizioni, . di essere migliore di ogni altro. E questo senso della propria dignità era diven­tato ormai una seconda natura, tanto che in ogni occasione ciascuno dava il meglio di sé. E così fu anche in guerra, dove si giunse senza il paracadute, come semplici fanti, artiglieri o genieri, e fin dal primo momento il problema che si presentò ai comandi non fu quello di spingere gli uomini all'azione, ma di trattenerli, di limitarne l'attività, di circoscri­verne rigidamente i compiti, perché ogni pattuglia voleva affrontare il nemico, senza contarne il numero, né la forza né l'armamento, sicura di batterlo, ardente dal desiderio di cimentarsi e di provare innanzi tutto a sé stessi che i paracadutisti erano invincibili. E i primi scontri confermarono queste presunzioni: chè in ogni scontro i paracadutisti furono inferiori di numero, di $rmamentc, di mezzi, eppure sempre vinsero, catturarono dei nemici, portarono con sé bottino ed armi tolte al nemico: cannoni, mezzi cin­golati, camionette, carri armati, che per qualche tempo rappresentarono le armi più potenti di cui erano dotati i reparti. E quando furono attaccati, sempre da forze soverchianti, non cedettero di una spanna, si sacrificarono, ma vinsero, respingendo il nemico con perdite più gravi di quelle a noi inflitte. Ed allora i fanti, gli artiglieri, i cavalieri e i genieri, e perfino quei magnifici ragazzi della « Compagnia servizi »
furono i paracadutisti, furono « i soldati della Fol­gore », si sentirono fusi in un nuovo organismo che li comprendeva tutti, che aveva assommato le virtù di ciascuno, ed ogni gesto eroico o modesto, ogni azione dura o facile, ogni sacrificio ed ogni gioia furono offerti insieme al ricordo indimenticabile del corpo da cui venivano e alla gloria della nuova Divisione di cui stavano scrivendo giorno per giorno la storia.

Perché la « Folgore » non fu solo prestigio e capa­cità di Capi, preparazione e abilità di quadri inter­medi, ma fu soprattutto entusiasmo e dedizione di uomini, volontà inflessibile di vittoria a costo della vita e orgoglio sovrumano di sentirsi i migliori figli d'Italia!

G. Peyrani

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